di Alessandra Sarchi
Uno degli aspetti che mi ha sempre colpito, e in parte infastidito, delle filosofie e delle antropologie comportamentali che ruotano intorno all’handicap fisico, e con questa espressione intendo anche la malattia in tutte le sue forme invalidanti, è che chi si trova in tale condizione spesso introietta una cieca volontà di superamento degli ostacoli, ingaggiando una guerra contro le difficoltà e contro il male che lo nobilita davanti a se stesso, oltre a fornirgli un non trascurabile sostegno psicologico. Che ciò possa risultare utile ai fini della sopravvivenza è innegabile, ma c’è di più. Chi lotta e non si lamenta, non si abbandona e non invidia chi sta bene, si nobilita anche davanti agli altri, i quali ne riconoscono l’eroismo degno di farne un membro ispiratore della comunità. Il discorso sotteso è: nonostante tu sia una persona deficitaria, fai o cerchi di fare quello che fanno gli altri, quindi sei di esempio.
Il filosofo tedesco Peter Sloterdijk ha analizzato in due capitoli del libro Devi cambiare la tua vita (ed. or. 2009, trad. it. Raffaello Cortina editore 2010) le radici storiche e filosofiche dell’antropologia della disabilità, alla base di quello che egli chiama anche esistenzialismo dell’ostinazione, scorgendone in Nietzsche la prima scaturigine e nell’esistenzialismo franco-tedesco a cavallo fra le due guerre l’elaborazione più compiuta: tutta l’umanità è storpia, lo è perfino su base biologica poiché apparteniamo a una specie che nasce prematura e per il resto della vita abbiamo bisogno di accudimento e compensazione, tanto che le civiltà altro non sarebbero che ‘stampelle’ o protesi per quest’essere perennemente deficitario che è l’uomo. Tuttavia attraverso la volontà e lo strenuo esercizio i limiti possono essere superati. La disabilità è un’enorme palestra della volontà. E il disabile che realizza le cose che fanno gli altri, anzi talvolta anche cose superiori alla norma, è il paradigma dell’umanità che riesce proprio perché ostacolata. Questa riuscita è così vittoriosa da regalare il sorriso perenne a chi la compie, un surplus di vitalità che fa dire agli altri, i normodotati: caspita che fenomeno, quanto amore per la vita!
Ma è davvero così? O meglio, è questo tutto?
Sloterdijk prende in considerazione un celebre disabile tedesco, Carl Hermann Unthan (1848-1929), nato senza braccia e diventato giovanissimo, praticamente bambino, un violinista virtuoso. Suonava coi piedi e lo faceva al livello dei più noti musicisti dell’epoca. Unthan scrisse un libro, Il pedescritto. Appunti dalla vita di una persona senza braccia, con trenta illustrazioni, pubblicato dalla casa editrice Lutz a Stoccarda nel 1925.
Le tappe della sua biografia sono concepite secondo lo schema del superamento delle difficoltà e del ribaltamento dell’handicap in una risorsa e nel successo. Fra i suoi ricordi troviamo l’incontro con Franz Liszt, che era stato a sua volta un bambino prodigio. Il musicista ungherese non lesinò gli elogi a Unthan, che però a distanza di anni si domandava per quale ragione l’entusiasmo di Listz gli sembrasse oscurato da una vena di inautenticità, da un tocco troppo paternalistico.
Forse questo è l’unico punto, di un libro per il resto improntato al più trionfante positivismo della volontà, dove Unthan si sente non un eroe ma un fenomeno da baraccone. Il sospetto è peraltro presto fugato da mille altri aneddoti di una vita, sotto tutti gli aspetti, eccezionale.
Lasciando Unthan all’epoca ancora disposta a collezionare mirabilia, di cui l’ultimo e consapevole epigono è Un Digiunatore di Kafka, penso a quanto abbia occupato la discussione e l’opinione pubblica, in anni recenti, il caso dello sportivo sudafricano Oscar Pistorius. Nato con una grave malformazione che richiede, a undici mesi, l’amputazione dal perone in giù di entrambi gli arti inferiori, Pistorius corre con due protesi in fibra di carbonio, dette cheetah, e ottiene il titolo di campione paraolimpico nel 2004 sui 200 metri piani.
Considerati gli ottimi tempi, il campione chiede di gareggiare con i normodotati. La richiesta solleva diffidenza e conflitti nel mondo sportivo, molti sostengono che le protesi gli consentano di ottenere prestazioni superiori a quelle di chi non le ha (trascurando il fatto che Pistorius parte da uno svantaggio iniziale ben superiore) altri vorrebbero abolire la distinzione, che pure c’è, in nome di una correctness e parità di diritti che però forse cozzano con la tradizionale etica del competere sportivo. Parlare di protesi, avanzando una forma di riserva morale e di legittimità, è comunque sempre più difficile, dal momento che non si contano gli innesti e le manipolazioni corporee praticate dalla medicina a scopo curativo o semplicemente cosmetico.
Pistorius in ogni caso la spunta, gareggia ai mondiali di Roma del 2007 entrando in semifinale e ai mondiali di Daegu del 2013 ottiene la medaglia d’argento nella staffetta 4×400.
Fin qui siamo ancora nell’ordine della volontà che vince tutto, e con il sorriso sulle labbra: Pistorius è il perfetto cittadino di quello che Sloterdjik chiama “il paese del sorriso, abitato da acrobati e storpi”. In più è anche un avvenente giovane uomo.
Il 14 febbraio 2013 Pistorius uccide a colpi di arma da fuoco la propria fidanzata, la modella Reeva Steenkamp. La linea di difesa dell’atleta sosterrà che ciò sia avvenuto per sbaglio, nella convinzione che qualcuno di estraneo si fosse introdotto in casa. Pistorius verrà poi condannato per omicidio colposo. Con quest’atto si chiude la sua gloriosa carriera di super atleta nonostante: con un’odiosa macchia morale. A cadere è l’idea stessa di vita come performance, di cui l’atleta sudafricano è stata una splendida incarnazione.
Pero è proprio qui che Pistorius, in maniera assai più tragica del violinista Unthan, rivela un profilo molto lontano dal sorriso di chi ce la fa contro la vita e le avversità, perché a essere accuratamente espulsi da quel tipo di retorica vincente sono il dolore, la solitudine, mettiamoci anche l’invidia per i sani, quindi la rabbia e il bisogno schiacciante di rivalsa provati, prima o poi, da chi si trova in una condizione di minorità, fisica e non solo. Saranno stati quei sentimenti a prevalere nel momento in cui Pistorius ha tolto la vita alla fidanzata o non si è reso conto che lo stava facendo. La difesa fece ricostruire a Pistorius la dinamica dell’accaduto in un video diffuso dalla tivù australiana: lì Pistorius appariva un uomo che con fatica si muoveva sui moncherini delle gambe, rivelando quanto fragile fosse l’argine costruito alla propria vulnerabilità dal successo e dalla super-abilità atletica.
Per tornare a Sloterdjik si può concordare sul fatto che l’umanità da sempre attinge a una filosofia del superamento degli ostacoli e delle mancanze, di cui la persona disabile diventa l’emblema. Il titolo stesso del libro non è un motto ispirato alla letteratura del self-help, bensì l’ultimo verso del sonetto al torso arcaico di Apollo che inaugura il ciclo delle Nuove poesie del 1908 di Rainer Maria Rilke. Un torso, un frammento, un corpo mutilo fanno esclamare con tutta la forza dell’essere: devi cambiare la tua vita. Il comando metanoico verso una übendes Leben che per Sloterdjik è anche l’unica risposta possibile ai nostri tempi: inutile aspettarsi il cambiamento del mondo se non ci alleniamo a cambiare in senso verticale, con tutti i mezzi dell’antropotecnica, noi stessi. Ciò che non viene sviluppato dal discorso di Sloterdjik è il fatto che se si prende la figura del disabile come emblematica, si dovrà anche considerare il fatto che lo sforzo di chi si trova in tale condizione non è verso qualcosa di diverso, di più alto e migliore, ma un tentativo di colmare una disparità e una disuguaglianza rispetto al mondo dei normodotati. E che tale sforzo si compie principalmente sul corpo del disabile, che diventa così ancora più alienato e luogo di contesa politica, di affermazione del potere. Quello che accade infatti nella nostra società è che, pur avendo sviluppato alla fine del Novecento una sensibilità alle minoranze e ai diversi, codificata anche linguisticamente nel politically correct, dotato negli Stati Uniti di un correlativo oggettivo reale, in Italia poco più che un frainteso flatus vocis, ciò che si continua a chiedere alla persona disabile è di essere comunque un super-uomo o una super-donna, in grado di commuoverci, di esaltarci, di farci sperare che anche noi, nelle sue condizioni, ce la faremmo, che in fondo anche nel male peggiore qualcosa di buono c’è sempre, che in fondo si può vivere anche così, che in fondo si può essere grandi anche così, superando ostacoli e impedimenti, perché se ce la fanno loro nonostante, allora ce la possiamo fare tutti.
A parte che non tutti ce la fanno, e molti soccombono a se stessi se non alle mille barriere esterne – la vicenda di Pistorius ne è la prova – è pur vero che si possono citare, oltre agli atleti, decine di artisti che sulla propria menomazione fisica hanno lavorato sublimandola; Giacometti che era zoppo, Beethoveen che diventò sordo, Monet cieco e così via, continuando a produrre opere notevoli, capolavori, e vite resistenti all’offesa.
Ma non è questo il punto. Fintanto che una società non ammette l’esistenza di per sé del corpo difettoso o malato, e non ammette quindi di doversi prendere cura della vulnerabilità nel quotidiano, accettandola, rendendo il mondo più accogliente verso di essa, al di là dei proclami delle campagne elettorali in cui sa che pensionati, malati e disabili sono un bacino ambito, fintanto che la vita viene intesa più o meno consapevolmente come performance esaltante, come ortopedia continua, la disabilità per essere accolta nel cerchio della normalità dovrà essere per forza eccezionale, virtuosa o mostruosa, essere cioè sempre un fenomeno da baraccone, come Unthan ebbe il sospetto di essere stato agli occhi di Listz e come il digiunatore di Kafka voleva essere per scelta.
[Immagine: Gloria Rodrigues, Milano 2014].
Ci sono delle cose che appaiono vere, ok.
Ma anche molta supponenza, la supponenza dell’intellettuale “infastidito” dalle “filosofie” e dalle “antropologie” correnti che non trova di meglio che elargire, col ditino alzato, in particolare nelle ultime righe del suo scritto, la soluzione definitiva al problema esaminato (sfiorato?).
Anche questa è una performance.
Signor o Signora Mauri,
intellettuale è il mio lavoro, nel senso che scrivo, leggo, studio. Per il resto il mio fastidio e le mie domande sono tutto fuorché intellettuali, se a questo aggettivo Lei dà un’accezione dispregiativa, visto che su una sedia a rotelle ci vivo da quattordici anni. Altro che sfiorata e ditino alzato.
Non sapevo e non ho capito, e me ne dispiace. Ma continuo a pensare che in materia di handicap le sfumature siano tante.
Per Mauri: allora la pensiamo nello stesso modo e non mi pare che quanto ho scritto imponga o proponga alcuna soluzione definitiva, se mai esistesse. Solo alcune riflessioni originate dalla lettura di un filosofo autorevole e dall’esperienza vissuta.
A me ha sempre colpito la fecondità di questo paradigma per gli studi letterari, quante prospettive possa aprire lo studio interdisciplinare di disabilità e cultura – e questo contributo ne è un ottimo esempio.
Quando comincio a fantasticare quanto bel materiale ubertoso darebbero in questo senso, che so, Melville, Dickens, Flaubert, Shakespeare, da portare in classe e far discutere (criticamente, giacché i modelli che costoro delineano sono tutti in chiaroscuro, lungi dall’eccezionalità edificante), penso pure che nelle scuole in cui queste discussioni sarebbero più importanti la letteratura straniera non si fa, e pace, chiuso, amen (per quel che riguarda me e la mia disciplina, intendo). Che non dico fare Melville al tecnico o al professionale, ma almeno, per dire, uno Sherman Alexie (ma anche, per scendere ancora più di registro, Percy Jackson? è dislessico – mi dicono – e ha l’ADHD). Ci andavo ragionando in questi giorni: cercare del materiale letterario linguisticamente abbordabile con protagonisti che abbiano in comune con i miei alunni almeno qualcuno dei loro disturbi, difficoltà, disabilità. E’ giusto? Ha senso? Me lo chiedo perché quello che vedo io, da qui, non è un gran numero di adolescenti con cieca forza di volontà, in guerra contro tutto e tutti per superare se stessi. Vedo, piuttosto, un gran numero di ragazzi che non ce la fa, e ha bisogno di strumenti, non solo (o non tanto) di modelli. Peraltro, il contorto codice definitorio delle certificazioni di disturbi dell’apprendimento e bisogni speciali contribuisce (o a volte così mi sembra) a creare delle classificazioni così ossificate che persino i ragazzi le introiettano, vi si adagiano per combaciarvi e aderirvi appieno.
Sto pensando (scrivendo) a voce alta, Sarchi mi perdonerà. Questo mio commento voleva essere, innanzitutto, di stima per il contributo.
La casistica che prendi come spunto per un discorso sulla disabilità è molto azzeccata e per questo devo farti i miei complimenti. Non capisco, però, in che modo la forma di presentazione del problema della disabilità non calzi il tuo gusto o le tue aspettative. In qualche modo, ho capito che la spettacolarizzazione del fenomeno ti infastidisce: su questo mi trovi d’accordissimo. Non sempre gli esseri umani ce la fanno (da soli); molti disabili devono fronteggiare ben altri problemi della fama e delle pressioni sociali, come ad esempio prendere l’autobus o trovare uno scivolo per salire sul marciapiede; ma la società è l’habitat per l’uomo ed è creata per il suo benessere fisico e morale.
É vero che esistono altre motivazioni per cui CONVIENE che i disabili si facciano forza da soli, che siano da esempio per i “sani”, ed é bene cercarle e svelarle, perché sono intrise di denaro, ambizioni e falsi miti, ma non vedo nulla di male nel regalare speranza ad un essere che, se lasciato in balia di madre natura, dovrebbe soccombere.
Ringrazio Renata Morresi per le sue osservazioni che vengono dall’ambito della scuola, dove il confronto con studenti disabili, dal punto di vista fisico o cognitivo, si gioca anche con le rispettive famiglie, le loro attese e frustrazioni, i contesti sociali e ambientali. Giustamente parla di modelli e strumenti, che sono cose diverse e in ugual misura necessarie, in letteratura ci sono entrambe le categorie, mi pare. Qualche anno fa lessi questo libro piuttosto interessante: Alice Hall, “Disability and Modern fiction. Faulkner, Morrison, Coetzee”, Palgrave Mcmillan, 2011. Affronta alcune delle questioni sollevate nel suo commento.
A Gianluca Bs rispondo che non vedo niente di male nemmeno io nella speranza, anzi. Dare speranza significa però proporre un orizzonte, una possibilità autentica, mentre nei fatti e nei discorsi la disabilità è strumentalizzata in senso vittimizzante o in senso più positivista e acritico, insomma raramente diventa un momento di reale confronto fra chi la vive e ne è coinvolto e chi è estraneo.
Intervengo su una questione marginale.
Non sopporto più questa tesi senza alcuna evidenza sperimentale, che la specie umana sia indifesa a livello naturale.
Tutto l’opposto, l’uomo è una specie forte di per sè.
Che significa che l’uomo nasce immaturo? L’uomo è così forte che si può permettere di non essere autosufficiente alla nascita, ha genitori in grado di curarsi di lui.
Nello sviluppare un essere più perfezionato, la natura si è trovata nella situazione di doverlo fare nascere più indifeso, ma questo è proprio il segno dell’evoluzione, e altri animali prossimi all’uomo, a partire dai primati, richiede nell’infanzia una cura maggiore, ma l’errore sta nel considerare ciò che è una modalità dello svuiluppo dei piccoli in un handicap.
Un bella analisi, del tutto condivisibile. Grazie.
Ringrazio Alessandra Sarchi per questo post. Quello che scrive mi ha fatto venire in mente il lavoro del femminismo americano sul soggetto vulnerabile come concetto giuridico e politico per ripensare l’uguaglianza e al giustizia sociale – penso al “vulnerabilità approach” di Martha Albertson Fineman.
Dopo avere letto Fineman e Sarchi ho pensato molto ai limiti della letteratura sul soggetto autonomo e del “capability approach” – Fineman ha parole molto dure per Nussbaum – , che pure trovo molto utile per pensare la disuguaglianza.
Ringrazio Alessio Baldini per la segnalazione del lavoro di Fineman che non conoscevo e che mi interessa. La critica a Nussbaum è in riferimento al testo noto in Italia come “Giustizia sociale e dignità umana”, vero?
Per Vincenzo Cucinotta: da Adolf Portman e Louis Bolk, celebri anatomisti e zoologi, esiste una vasta letteratura scientifica sul nascita prematura della specie umana, ne esiste una altrettanto estesa sulle conseguenze comportamentali e culturali che questa ingenera.
Non capisco cosa intende per ‘forte’ ed ‘evoluto’ in natura, anche la specie dei topi e delle formiche lo è, a livelli che noi manco ci immaginiamo. E non capisco neanche perché la infastidisce cosa tanto la parola handicap.
Gentile Alessandra, a premessa, non ho niente contro il termine “handicap”, che anzi come si può constatare, uso regolarmente. Anzi, vorrei capire da cosa lei deduce che mi dia fastidio.
Per il resto, prendo atto che ci sono fior di scienziati che la pensano diversamente da me, ma mi rimane un dubbio di fondo.
Se l’uomo davvero fosse a livello naturale così fragile, come si può spiegare il suo successo biologico? Perchè, che la la specie umana ha avuto successo, non credo che si possa negare.
L’argomentazione che richiama l’organizzazione civile, non funziona, perchè la civiltà segue, per chissà quale lunghissimo tempo, l’uomo si è dovuto affidare al suo essere naturale.
Se davvero eravamo messi così male, non potevano resistere a quell’accumulazione di sapere da cui la civiltà è sorta.
Questo è l’argomento che metto a supporto della mia tesi, ma mi pare che sia un argomento pienamente valido, difficile da smentire in base a considerazioni magari dettagliate e basate su dotte considerazioni di fisiologia, ma che non diano un’adeguata risposta al fatto in sè del successo biologico della specie umana.
Fineman attacca Nussbaum per le posizioni espresse in un libro tradotto in italiano come “Le nuove frontiere della giustizia. Disabilità, nazionalità, appartenenza di specie” (Bologna: Il Mulino, 2007).
Ma è vero anche che Fineman cerca di scardinare l’impianto del “capability approach”, basato sulla combinazione fra l’idea aristotelica di vita felice e quella liberale dell’individuo autonomo.
L’articolo di Fineman è “The Vulnerable Subject: Anchoring Equality in the Human Condition”, Yale Journal of Law & Feminism, Vol. 20, No. 1, 2008, pp. 8-40. Con lo stesso titolo, Fineman ha pubblicato una monografia (Princeton University Press, 2013).
Devo dire che le osservazioni sulla dipendenza e la vulnerabilità dei soggetti mi sembrano obiezioni serie al liberalismo politico – quello che mette al centro autonomia, pluralismo e giustizia sociale. Ma non sono sicuro che le due tradizioni siano incompatibili. Dovrei rifletterci. E sarebbe bello discuterne.
Cara Alessandra, il tuo articolo mi ha molto colpita, non solo perché l’hai scritto tu e so, ma anche per esperienze personali e quotidiane, che mi portano a considerare esattamente le questioni enormi che tu, con la tua eleganza, getti sul tavolo . Non da ultimo, per l’approccio oggettivo e analitico a una questione di fondo che non può essere affrontata semplicemente dai soggetti coinvolti.
Sono questioni enormi proprio perché vanno dritte al cuore del nostro essere uomini, di cosa davvero significhi. Perché, su tutto quello che qui hai scritto, giganteggia un grande interrogativo di fondo: l’handicap, la disabilità, sia fisica che mentale, ci costringono a chiederci chi siamo davvero. Come singoli individui, ma anche come società. Qual è la nostra reazione di fronte a una sorella o a un fratello che sono lo specchio vivente della nostra stessa fragilità e della precarietà di quella che vorremmo ritenere invece – e speriamo che sempre sia – una condizione di normalità? Da quella reazione possiamo imparare molto su noi stessi. Una persona disabile ci ricorda sempre fastidiosamente quello che vorremmo eliminare dalla nostra psiche e dalla nostra vita: siamo fragili, imperfetti e inoltre non eterni. Ecco, non vorremmo ricordarcene. Da qui le due reazioni socialmente accettate e da te delineate: o l’accoglienza compassionevole e paternalistica, o l’ammirazione meravigliata per chi supera ogni limite concepibile e diventa un fenomeno che riempie giornali e servizi televisivi e perfino un modello di ispirazione. Due modalità comunque che in qualche modo estromettono dalla cerchia dei normodotati (che poi qui c’è molto da discutere su cosa significhi) la scomodità fatta persona.
Proprio ieri sera guardavo una trasmissione televisiva in cui c’era un servizio su una ragazza gravemente disabile al punto dall’essere totalmente dipendente, che però fa immersioni in apnea e perfino ha fatto, seppur in sedia a rotelle, il cammino fino a Compostela. Una forza straordinaria, una ragazza meravigliosa, ma appunto, trattata come un fenomeno che commuove e ispira ammirazione.
Sto leggendo un libro molto interessante, che anche se parrebbe parlare d’altro, invece è pertinente all’argomento di cui parli. “The Worm at the Core”, di Solomon, Greenberg e Pyszczynski – Random House 2015. Tratta del ruolo della paura della morte non solo nella nostra vita, ma nello sviluppo di quella che noi chiamiamo civiltà. Di come tutte le culture umane e le azioni umane siano solo e unicamente una reazione al terrore della morte, di cui la nostra specie è consapevole.
Ecco, io credo che integrare alla coscienza la disabilità come parte “normale” della nostra esperienza umana, significhi eliminare la paura generata da quello che essa significa o può ricordarci e dalle sue implicazioni.
A Renata Morresi voglio dire che i problemi che lei solleva li ho constatati in tanti anni di insegnamento e contatto con molti ragazzi con disabilità, dato il tipo di scuola in cui insegnavo e concordo totalmente con lei e che la lettura in classe del romanzo di Haddon, “Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte” è stata per me e i miei ragazzi un’esperienza meravigliosa e che ha generato molte discussioni utilissime.
Non so, sono solo alcune considerazioni delle moltissime che mi stanno affiorando
Grazie Alessandra
la filosofia del superamento degli ostacoli non ha nulla di sbagliato di per sè