cropped-15454_philippe_jaccottet1987florenceponcet.jpgdi Fabio Pusterla

[E’ appena uscito per d’If Il nido dell’anemone. Riflessioni sulla poesia di Philippe Jaccottet, di Fabio Pusterla. Ne pubblichiamo un estratto]

«Per inserirsi fruttuosamente in un altro contesto linguistico la voce di un poeta ha bisogno di essere ripronunciata – ha bisogno della mediazione corporea  di altri poeti»: queste parole sono state pronunciate quasi trent’anni or sono da Giovanni Raboni, un poeta italiano ben noto a Philippe Jaccottet, che ne ha recentemente tradotto in francese alcuni testi, inserendoli persino nella sua antologia di poeti europei D’autres astres, plus loin, épars.

   Raboni si riferiva, in quell’occasione, a Baudelaire, e lo faceva introducendo una nuova versione italiana delle Fleurs du mal, firmata da Attilio Bertolucci (un altro autore italiano che Jaccottet conosce molto bene, se può citarlo e tradurlo, con eccezionale precocità, sin dal 1949); ma l’osservazione di Raboni ha un valore generale, e può subito servire a riflettere sulla fortuna e sull’importanza dell’opera di Jaccottet in Italia. In effetti, bisogna subito osservare che la conoscenza di Jaccottet da parte della cultura italiana è antica e radicata nel secondo Novecento; non per nulla Jaccottet è stato il principale traduttore francese di Giuseppe Ungaretti, e nel corso degli anni ha voltato e presentato in francese moltissimi altri autori italiani: Saba, Quasimodo, Montale, Raffaele Carriera, Sandro Penna, Giorgio Caproni, Vittorio Sereni, Piero Bigongiari, Mario Luzi, Luciano Erba (e, più indietro nei secoli, Petrarca, Tasso, Leopardi), oltre a una nutrita schiera dei migliori narratori del dopoguerra. E allora è evidente che il nome di Jaccottet fosse conosciuto e pronunciato con affetto e stima dai protagonisti di una stagione letteraria italiana, quella racchiusa tra il 1945 e il 1990 dello scorso secolo, di eccezionale intensità espressiva.

Mancavano, tuttavia, delle traduzioni in senso inverso; senza alcun dubbio l’opera poetica di Jaccottet era già conosciuta e apprezzata, ma a parte qualche rara eccezione essa avrebbe cominciato ad entrare realmente in circolo, attraverso appunto le sue riformulazioni in lingua italiana, soltanto in anni più recenti, cioè a partire dall’ultimo decennio del secolo, quando appaiono improvvisamente, e con notevole rapidità, un numero piuttosto significativo di traduzioni italiane, ad opera di alcuni giovani o giovanissimi autori: una fioritura improvvisa, e persino stupefacente rispetto al lungo silenzio che l’aveva preceduta. Il primo segnale risale al 1989, quando Jean Robaey, francesista di valore e buon poeta in proprio, pubblica a Modena, sulla rivista «Gli immediati dintorni», alcune pagine tratte da Autres journées. L’anno successivo, su un’altra rivista, «Idra», questa volta realizzata nella Svizzera italiana e pubblicata a Genova, appare un ampio dossier dedicato a Jaccottet: il celebre saggio di Jean Starobinski, che apriva l’antologia poetica di Gallimard, un ampio articolo critico di Loredana Bolzan, tre racconti tratti da La promenade sous les arbres, e le otto poesie della suite Parler; due anni più tardi, un’altra rivista italiana, «Testo a Fronte», diretta dal poeta Franco Buffoni, ospita le riflessioni di Jaccottet su Giuseppe Ungaretti, voltate in italiano. Sempre all’inizio degli anni ’90 appaiono finalmente delle traduzioni in volume: nel ’92, per i tipi di Einaudi, Il Barbagianni.

L’Ignorante, da me tradotto; due anni più tardi l’ampia antologia Appunti per una semina (Poesie e prose 1954-1994), curata da Antonella Anedda (che aveva da poco esordito con la notevole raccolta poetica Residenze invernali, Crocetti, Milano, 1992) per la romana Fondazione Piazzolla, e le prose meditative Elementi di un sogno, nella versione del giovane autore Gianluca Manzi (Hestia, Cernusco, 1994), che qualche tempo dopo avrebbe ancora tradotto l’unico romanzo di Jaccottet, L’oscurità (Fazi, Roma, 1998). Né è da credere che una simile attenzione si sia esaurita velocemente: negli anni e nei decenni successivi, lasciando da parte per brevità le numerose apparizioni in rivista, i libri di Jaccottet hanno continuato ad essere tradotti con regolarità, e a essere richiesti da non pochi importanti editori: Scheiwiller, che ha ospitato le prose italiane di Libretto (Milano, 1995); Marcos y Marcos, nel cui catalogo appaiono il volume Alla luce d’inverno. Pensieri sotto le nuvole (Milano, 1997), la raccolta Arie (tradotta dal poeta ligure Albino Provetto e apparsa nel 2000), fino al recente E tuttavia. Seguito da Note dal botro; Bollati e Boringhieri ha invece pubblicato il curioso atlas de voyage intitolato Austria, mentre i due principali editori della Svizzera italiana si sono occupati dei Paesaggi con figure assenti (Dadò, Locarno, 1996, poi 2009) e delle splendide riflessioni su Morandi raccolte da Jaccottet ne La ciotola del pellegrino (Casagrande, Bellinzona, 2007).  Lasciando da parte le molte pubblicazioni minori, in edizioni artistiche, in cataloghi, in antologie, si dovranno ancora ricordare, per suggerire almeno i contorni di una ammirazione crescente e di una importanza sempre più viva nella cultura italiana contemporanea, alcuni avvenimenti: il convegno dedicato all’opera di Philippe Jaccottet dall’Università di Milano, e sfociato poi nella pubblicazione del volumetto La parola di fronte. Creazione e traduzione in Philippe Jaccottet, a c. di Francesca Melzi d’Eril Kaucisvili (Alinea, Milano 1998); l’attribuzione al nostro autore del palermitano Premio Mondello, per il volume già menzionato Alla luce d’inverno. Pensieri sotto le nuvole; e tre letture pubbliche di eccezionale intensità tenute da Philippe in Italia: ad Ancona, a Modena e, ultima in ordine di tempo, a Milano. Vorrei ancora ricordare, per chiudere questo elenco con due piccoli aneddoti che forse dicono più di tanti titoli e di tante onorificenze, un paio di fatti apparentemente marginali. Quando Philippe accettò di venire ad Ancona, nel 1995, in un mese estivo particolarmente caldo, per una lettura pubblica, eravamo tutti un po’ preoccupati che il viaggio andasse bene, che la serata non fosse rovinata dalla pioggia, che il nostro ospite si trovasse a suo agio, e infine che il piccolo libro in corso di stampa presso l’editore Scheiwiller fosse pronto in tempo utile. Il lungo viaggio, in effetti, si era svolto abbastanza bene; non pioveva, e anzi era una splendida serata estiva; Philippe sembrava contento di essere in Italia. Mancava solo Libretto, che evidentemente l’editore milanese non aveva potuto terminare per l’occasione: pazienza. Invece, un attimo prima che si cominciasse la lettura, ecco apparire Vanni Scheiwiller in persona, sorridente come sempre, elegante come sempre, e come sempre accompagnato da una gigantesca e pesantissima borsa di cuoio, dalla quale estrasse come un folletto le copie dell’opera di Philippe, che aveva portato lui stesso, in treno, da Milano ad Ancona per giungere in tempo e per festeggiare l’ospite illustre.

Qualche tempo dopo, doveva essere il 1996, ricevetti la telefonata di un amico carissimo, che aveva appunto conosciuto Philippe ad Ancona e ne era rimasto profondamente colpito. Questo mio amico, Claudio Piersanti, è uno dei narratori italiani più notevoli degli ultimi decenni, e stava per pubblicare da Feltrinelli un romanzo molto bello, certo uno dei suoi libri migliori, intitolato Luisa e il silenzio. Mi disse, un po’ misteriosamente, che dovevo dirgli soltanto sì o no, e che in base alla mia risposta lui avrebbe o non avrebbe fatto una certa cosa. Divertito e incuriosito dissi di sì. E Claudio mi spiegò che se lo aspettava, e che allora avrebbe messo, come epigrafe al suo romanzo, i due versi che aprono L’Effraie, cioè la prima grande raccolta di Jaccottet, del 1953: La nuit est une grande cité endormie / où le vent souffle…

   La sintesi bibliografica che ho cercato di proporre, alla quale ovviamente si potrebbero ancora aggiungere le recensioni, gli articoli critici, gli interventi di vario tipo che negli ultimi vent’anni hanno accompagnato la lettura italiana dell’opera poetica di Jaccottet, dovrebbe suggerire due cose. La prima, più importante, è che la cultura italiana più recente ha guardato all’esempio di Philippe Jaccottet con rinnovata attenzione, ritenendo evidentemente che in quella scrittura a prima vista così mite, così sussurrata, così aliena da ogni tentazione enfatica e così lontana dagli eccessi di teorizzazione che hanno a volte caratterizzato le esperienze espressive del secondo Novecento europeo, si potesse individuare un modello di riferimento, la possibilità di riconsiderare il significato della poesia da un’angolatura diversa e sorprendente. Il secondo aspetto che vorrei sottolineare è che la riscoperta di Jaccottet, quel tentativo di pronunciare nuovamente, in lingua italiana, la sua voce che secondo Raboni è condizione essenziale per farla agire davvero, si deve in sostanza a poeti-traduttori italiani che oggi sono sulla cinquantina, e che hanno iniziato a lavorare su Jaccottet, leggendolo con passione prima e traducendolo poi, poco dopo i loro vent’anni, cioè tra il 1980 e il 1990, anno più, anno meno. Non dico questo per rivendicare un merito generazionale che suonerebbe curioso e ridicolo, ma per segnalare un fenomeno che chiede di essere interrogato. Può darsi, si capisce, che la cronologia sin qui tratteggiata sia semplicemente da attribuire al caso, e segnali un intervallo tutto sommato comprensibile tra l’apparire e il consolidarsi di un’opera e le sue successive traduzioni in altre lingue.  Ma si direbbe che in questo caso particolare abbia giocato anche qualche fattore più interessante; si direbbe che una serie non piccola di giovani lettori, che inizialmente non si conoscevano affatto tra di loro, abbia creduto che la poesia di Philippe Jaccottet, ormai riconosciuta e affermata in Francia e in via di affermazione in Europa, non fosse soltanto una tra le più autorevoli e importanti esperienze poetiche contemporanee, ma fosse così particolare e così importante da dover essere con urgenza recuperata, messa al lavoro dentro la lingua poetica italiana, nella quale sarebbe forse stata in grado di manifestare qualcosa di nuovo, di schiudere una via percorribile anche da altri, e di farlo, va ancora osservato, sommessamente, nel paziente, umile lavoro sulla parola; in un territorio, insomma, talvolta disertato da teorici e ideologi della letteratura, ma caro ai lettori e agli scrittori.

   E allora, cosa colpiva così intensamente nella poesia di Jaccottet? Quale assenza faceva balenare la lettura di quei versi? Quale necessità? Non è facile, né forse possibile, rispondere compiutamente a simili domande. Ma volendo correre il rischio di dare una risposta semplice e secca, io forse direi: la confusa sensazione che fosse necessario, e urgente, e forse persino possibile, nonostante tutto, ricostruire qualcosa, ritrovare nella pratica della poesia un po’ di fiducia, qualche capacità di avvicinare le cose del mondo, le esperienze profonde, ristabilendo un dialogo bruciante tra il testo e i suoi lettori, pur nella coscienza di un’avvenuta catastrofe.

   Per capire meglio queste affermazioni, bisogna ripensare a quale fosse il panorama che stava alle spalle di chi, in quel periodo, si affacciava sul palcoscenico sconvolto della poesia. Qualcosa era mutato, o stava mutando, sia sulla superficie agitata del mare editoriale, che si stava trasformando in industria del tempo libero rispetto alla quale la poesia non aveva quasi più alcun valore effettivo, sia nelle regioni di profondità del linguaggio. Laggiù, una barriera quasi invalicabile pareva ormai separare l’ammutolito presente dalla grande tradizione poetica moderna; quel linguaggio, quel linguaggio meraviglioso e inarrivabile sembrava essersi esaurito, o risultare impraticabile e quasi desueto; bisognava semmai distruggerlo, sabotarlo, rivoltarlo come un guanto, umiliarlo, o ancora ricombinarne gli elementi secondo una logica casuale, volutamente priva di senso, trasgressiva ed violenta come un vicolo cieco o come la smorfia di un clown; oppure, scegliendo di unirsi alla squadra avversaria, bisognava difenderne il valore estetico e il privilegio espressivo, come se nulla fosse cambiato, come se il mondo non stesse diventando un grande supermercato della banalità, come se  si potessero ancora, impunemente, utilizzare le grandi parole, i ritmi solenni, i misteri orfici, mentre nei dintorni del tempio risuonavano la musichetta penosa di qualche spot pubblicitario e il ronzio delle fotocopiatrici. Attorno a questo scontro feroce, un odore di zolfo e di napalm: il vago senso di colpa di chi aveva continuato a coltivare una passione, quella per la poesia, in un’epoca cupa che riteneva la poesia una pratica quasi vergognosa; e insieme il peso di una tradizione nerastra, apocalittica, di cui non era difficile ravvisare la pista che attraversava il XX secolo come una cicatrice, finendo per sprofondare nei gorghi del maledettismo simbolista.

   Era un paesaggio di rovine, quello che si temeva di dover contemplare in quegli anni: rovine là dove c’era il passato, e rovine dove sarebbe andato a risiedere il futuro, ammesso che di futuro si potesse parlare. E appunto in un simile paesaggio, poco importa adesso stabilire quanto reale o quanto invece prodotto da un’educazione, da una costrizione o da uno sbaglio persino tragico, la voce di Jaccottet sembrava prima di tutto parlare un linguaggio assolutamente diverso: non ignaro della catastrofe, no, ma neppure succube, neppure rassegnato a subirne soltanto le inevitabili conseguenze. C’era qualcosa, in quella voce, che poteva ridare un po’ di fiducia, un po’ di speranza e un po’ di energia; e che, così facendo, imponeva delle responsabilità: la responsabilità di ridimensionare le proprie delusioni e i propri eventuali dolori; la responsabilità di mettere tutto nuovamente in discussione, rileggendo daccapo quella tradizione moderna che forse poteva avere altre declinazioni, altri significati, altri orizzonti; la responsabilità, infine, di considerare alcune piccole virtù che avevamo quasi dimenticato: la pazienza, l’umiltà, la capacità di ascoltare.

    Per una coincidenza che è davvero soltanto una coincidenza, una delle pagine più antiche dedicate da Jaccottet all’Italia si apre proprio con la raffigurazione delle rovine: quelle delle guerra, incontrate dal giovanissimo viaggiatore nel 1946, durante il suo primo percorso italiano, e viste, nonostante tutto, con una forma di allegria, di fiducia e di entusiasmo.

Nous avons mis à peu près trente-six heures, de Lausanne, pour atteindre Rome. La plupart des ponts, détruits, avaient été remplacés par ce  qui nous apparaissait comme des simples passerelles vertigineuses, à une seule voie; de sorte qu’il fallait aux trains, pour croiser, stationner des heures durant, soit en pleine campagne, soit dans une des gares elles-mêmes encore en ruines. Naturellement, ces rares trains étaient surchargés, et je ne crois pas que, de tout le trajet, nous ayons jamais été assis ailleurs que sur nos méchantes valises, dans des couloirs où se frayer un passage relevait de l’exploit acrobatique. Les voyageurs étaient dans leur grande majorité du pays: des soldats, des femmes, des gens du peuple, de petits fonctionnaires, autant que nous pouvions en juger, c’est-à-dire assez vaguement, puisque nous n’avions ni l’un ni l’autre la moindre notion d’italien. Eh bien! tout ce monde bousculé, entassé, recru de fatigue, restait gai, patient et disert. On se moquait gentiment de nous: de ce que l’on devinait de notre aventure, de notre enthousiasme, de notre naïvete. On nous offrait du raisin.

Ebbene, leggere Jaccottet negli ultimi decenni del ‘900 forse dava, ai giovani lettori di allora, una sensazione analoga; come se in quelle poesie, in quel modo di intendere la poesia, fosse dato di scorgere i contorni ancora incerti di una passerella, forse fragile, ancora, forse vertiginosa; ma forse in grado di varcare quel baratro che il crollo dei ponti aveva aperto attorno a noi. Da qui, credo, nasceva l’urgenza di tradurlo, e di provare ad inoltrarci lungo quelle piste poco battute che, speravamo, avrebbero potuto condurci oltre la stretta del secolo.

   Ogni traduttore, probabilmente, sa bene che ci sono dei testi più difficili di altri da tradurre; testi che provocano attrito, che rifiutano di lasciarsi trasportare in un’altra lingua, che fanno disperare. E poi ce ne sono alcuni, rari e quasi miracolosi, dove invece tutto sembra funzionare bene, e dove si può avere l’illusione di compiere, traducendoli, un’operazione non troppo maldestra. Ebbene,  se dovessi indicare, tra le molte pagine di Philippe che mi è capitato di tradurre durante questi vent’anni, una poesia di quest’ultimo tipo, una poesia la cui traduzione italiana mi sia sembrata quasi subito abbastanza riuscita, forse penserei istintivamente a un testo tratto da L’Effraie, cioè a Portovenere.

Portovenere

La mer est de nouveau obscure. Tu comprends,
c’est la dernière nuit. Mais qui vais-je appelant?
Hors l’écho, je ne parle à personne, à personne.
Où s’écroulent les rocs, la mer est noire, et tonne
dans sa cloche de pluie. Une chauve-souris
cogne aux barreaux de l’air d’un vol comme surpris,
tous ces jours sono perdus, déchirés par ses ailes
noires, la majesté de ces eaux trop fidèles
me lasse froid, puisque je ne parle toujours
ni à toi, ni à rien. Qu’il sombrent, ces «beaux jours»!
Je pars, je continue à vieillir, peu m’importe,
sur qui s’en va la mer saura claquer la porte.

Portovenere

Di nuovo cupo il mare. Tu capisci,
è l’ultima notte. Ma chi chiamo? A nessuno
parlo, all’infuori dell’eco, a nessuno.
Dove strapiomba la roccia il mare è nero, e rimbomba
in una campana di pioggia. Un pipistrello
urta come stupito sbarre d’aria,
e tutti questi giorni sono persi, lacerati
dalle sue ali nere, a questa gloria
d’acque fedeli resto indifferente,
se ancora non parlo né a te né a niente. Svaniscano
questi «bei giorni»! Parto, invecchio, che importa,
il mare dietro a chi va sbatte la porta.

Per scrupolo, sono andato a controllare nei miei vecchi quaderni; e, a giudicare dagli appunti, devo riconoscere, contrariamente a quello che pensavo di ricordare,  di aver lavorato per molto tempo, e con grande fatica, a questa versione, della quale possiedo numerosi rifacimenti; in ogni modo, ancora oggi sono piuttosto soddisfatto del risultato, e stupito ogni volta che rileggo questa poesia, a me particolarmente cara e, forse per questo, così affascinante e misteriosa. Non so quando ho cominciato a chiedermi da dove venisse il pipistrello che attraversa cupamente questi versi; non so se fossi cosciente dell’ampiezza del suo volo sin dall’inizio. Ma oggi credo di aver riconosciuto la sua lontana origine, che appunto materializza ciò a cui accennavo inizialmente, ossia il fatto che Philippe Jaccottet riesce spesso, nei suoi modi dissimulati e dimessi, a riproporre un percorso attraverso i secoli, attraverso le genealogia della modernità, che grazie a lui siamo invogliati a rileggere, a riconsiderare e a calibrare diversamente. Il pipistrello di Portovenere, in effetti, viene da molto lontano; le sue ali nere si agitavano già nell’ultimo e più celebre Spleen baudelairiano, dal quale giungono sino a noi, attraverso i versi di Philippe, molti altri echi:

Spleen

Quand le ciel bas et lourd pèse comme un couvercle
Sur l’esprit gémissant en proie aux longs ennuis,
Et que l’horizon embrassant tout le cercle
Il nous verse un jour noir plus triste que les nuits;


Quand la terre est changée en un cachot humide,
Où l’Espérance, comme une chauve-souris,
S’en va battant les murs de son aile timide
Et se cognant la tête à des plafonds pourris;


Quand la pluie étalant ses immenses traînées
D’une vaste prison imite les barreaux,
Et qu’un peuple muet d’infâmes araignées
Vient tendre ses filets au fond de nos cerveaux,


Des cloches tout à coup sautent avec furie
Et lancent vers le ciel un affreux hurlement,
Ainsi que des esprits errants et sans patrie
Qui se mettent à geindre opiniâtrement.


– Et de longs corbillards, sans tambour ni musique,
Défilent lentement dans mon âme; l’Espoir,
Vaincu, pleure, et l’Angoisse atroce, despotique,
Sur mon crâne incliné plante son drapeau noir.

L’ambientazione notturna intanto, entro la quale persino la grotta di Byron, dove ribollono le onde e s’écroulent les rocs, può raffigurare inaspettatamente il cachot humide di Baudelaire; e poi delle vere e proprie citazioni, come il verbo cogner, l’immagine delle barreaux e della cloche, e ancora l’insistenza sulle rime squillanti, ma di uno squillo inquieto, che in Jaccottet unisce nuit – chauve-souris – pluie – surpris (riemergendo poco più in là nel rintoccare dei due ni e nello stridulo cigolio del conclusivo vieillir), mentre in Baudelaire si snodava nell’impressionante catena esprit – ennuis – triste – nuits – humide – chauve-souris – timide – pourris – pluie – imite – furie – patrie – ni musique – défilent – despotique. Il sonetto di Baudelaire si staglia insomma come un lontano riferimento dietro i versi di Portovenere, che ne propongono una rilettura, una metamorfosi; ma lo spleen, adesso, con il suo corredo di disperazione e malinconia, non è più una condizione assoluta, bensì la tappa di un percorso, la sosta in un divenire che ancora non può essere immaginato, ma che già si presente negli ultimi versi di Portovenere. Lo spleen non è né vinto né abolito; ma viene per così dire relativizzato, messo in secondo piano come un lusso soggettivo al quale non è più possibile subordinare l’esistenza propria e quella altrui. Siamo prossimi alla formulazione di quell’effacement che, tra poco, definirà davvero un nuovo orizzonte di ricerca, un nuovo modo di essere e di abbandonarsi alla vita, all’ascolto e all’osservazione della vita, rinunciando fin dove è possibile all’esibizione di sé e del proprio male di vivere, che diviene a questo punto secondario e inessenziale. 

   E l’idea della cancellazione di sé, della messa in secondo piano dell’io lirico e delle sue pulsioni, sarà gravida di conseguenze; consentirà, e anzi imporrà, tanto al suo autore quanto ai lettori, di riconsiderare con occhio diverso la propria storia individuale e la propria formazione culturale; di recuperare, certo, la più alta tradizione che sembrava perduta per sempre, e persino la sua capacità di pronunciare a testa alta il mondo; ma chiedendo ora di fare tutto questo con voce più tenue, più dolce e più umile, e con la coscienza del tempo trascorso e degli sconvolgimenti avvenuti, partendo piuttosto dalla propria inadeguatezza, dalla propria miseria, e da quel tanto di speranza, di esile speranza, che è ancora possibile preservare. Forse era da qui, da questo semplicissimo e pure così complesso atteggiamento di fronte a sé, alla scrittura e a ciò che circonda la scrittura, che il fascino di quei versi, e la loro sorridente promessa, ci chiamava facendoci un po’ di coraggio.

   Ma vorrei concludere questo breve discorso, che richiederebbe, si capisce, ben altro approfondimento, con un ricordo personale, che limiterò ai suoi contorni essenziali. La prima volta che, assolutamente intimidito, arrivai a Grignan, portando con me le prime traduzioni che avrei sottoposto all’autore, Philippe mi propose di fare una passeggiata, e mi condusse su una collina dove amava girovagare. Gli ulivi, che di quella collina costituivano la principale vegetazione, erano stati poco prima semidistrutti da un incendio; e, camminando in mezzo ai tronchi anneriti, lui mi precedeva in silenzio; poi a volte si arrestava accanto a quel che rimaneva di un albero, e mi diceva: questo forse ce la farà a rinascere. Io, imbarazzato e impressionato,  non sapevo cosa dire, e non so neppure se sono stato capace di dire qualcosa. Ma quell’immagine, di un uomo fragile che mi guida un po’ incerto in mezzo ai resti di un incendio cercando quasi disperatamente ciò che potrà sopravvivere a quell’incendio, cercando di non lasciarsi attirare soltanto dal fascino terribile della distruzione e della desolazione, cercando di cogliere un frammento di speranza e di luce persino in mezzo al deserto: quell’immagine mi sembra riassumere molte delle cose che avrei dovuto dire meglio, e soprattutto molte di quelle altre cose, persino più importanti,  che è impossibile dire a parole, e che Philippe conosce del resto molto bene o intuisce o indovina, perché fanno parte di quelle eccezionali disposizioni dell’animo umano che vanno sotto le voci amicizia e riconoscenza.

[Immagine: Philippe Jaccottet]

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *