di Lorenzo Marchese
1.
Se uno scrittore di oggi decide di servirsi della forma del romanzo storico, ciò può avere tanti significati. Elencarli sarebbe lungo, ne cito solo alcuni fra i più lampanti. Si può seguire la tentazione di proporre una quinta illusionistica dove dispiegare i propri interessi eruditi o antiquari (come tanti romanzi di divulgazione insegnano, Valerio Massimo Manfredi in primis), optare per la discesa mimetica in un contesto storico-linguistico radicalmente diverso (penso a Camilleri e non solo), oppure essere mossi da un’ambizione morale più stringente, quella di ricostruire uno squarcio di passati individuali per proporre una visione critica al lettore del presente, come il caso canonico di Manzoni coi Promessi sposi insegna. Difatti Manzoni raffigurava il XVII secolo parlando in maschera del primo Ottocento italiano, e tramite l’artificio del finto documento seicentesco presentava uno scenario dietro cui si poteva, con pochi sforzi, decifrare l’oppressione italiana da parte degli austriaci, i soprusi legalizzati della sua epoca, le impotenze e le complessità psicologiche degli ultimi non meno che di altri, più alti ceti sociali. Ma al di là delle classificazioni possibili, un romanzo storico può anche significare, soprattutto, una riproposizione drammatica e particolare di piccole storie possibili in un contesto del passato, in modo da avere una conoscenza di certi eventi storici che si muove sul terreno di una testimonianza “impossibile”. Personaggi di fantasia (Renzo e Lucia, il principe Andrej e Pierre in Guerra e pace …), quanto più siano verosimili, superano le potenzialità del documento e degli archivi, per proporre una conoscenza di grado generale invece che particolare: senza contare che con il romanzo storico uno scrittore può ricostruire un luogo e un tempo concedendosi disinvolture narrative, discorsive e fantastiche che uno storico moderno dell’Età contemporanea (almeno da Gibbon con The History of the Decline and Fall of the Roman Empire, 1776-1789 in poi) non potrebbe mai permettersi nelle sue descrizioni, a meno di non perdere credibilità presso i suoi lettori. Può mettere in bocca a Napoleone frasi mai verificate, forzare le date, ipotizzare rapporti di causa-effetto che non hanno mai davvero avuto luogo, e così via.
Al fondo di questa divisione dei compiti e delle possibilità che regge l’impalcatura concettuale del genere, torna in gioco l’antica distinzione fatta da Aristotele nella Poetica circa le differenze tra poesia e storia:
Lo storico e il poeta (…) differiscono in quanto uno dice le cose accadute e l’altro quelle che potrebbero accadere. Per questo motivo la poesia si occupa piuttosto dell’universale, mentre la storia racconta i particolari[1].
Il romanzo storico, nella sua forma “critica” più sintetica, si serve dei particolari della cronaca per creare una visione generale dell’essere umano confitto in uno specifico contesto spaziotemporale. Inoltre, di riflesso, fa un uso strumentale del passato per dirci qualcosa sul presente, nell’inconscia convinzione (troppo lunga da discutere qui) che la Storia umana, nei suoi tratti essenziali, non faccia che riproporsi ciclicamente pur con qualche variazione evenemenziale, e che quindi dalla rilettura del passato si possano trarre diritture utili per le linee di sviluppo dei processi storici; o, addirittura, indicazioni politiche per affrontare l’oggi, inchieste su un «guazzabuglio del cuore umano» che guardano a una prospettiva universale.
Come cambia allora il discorso quando il romanzo storico viene a incentrarsi sul passato prossimo o quando, addirittura, viene utilizzato per parlare della cronaca? È la domanda che può venire alla lettura di Scritture di resistenza (2014)[2], che sulle potenzialità del romanzo per un discorso trasversalmente storico-politico impernia una riflessione tripartita: si può fare storia del presente attraverso la cosiddetta “finzione metastorica” (Finzioni metastoriche e sguardi politici dalla narrativa contemporanea, scritto da Claudia Boscolo e Stefano Jossa), sulla scia di analisi sul medesimo tema da parte di Linda Hutcheon (che parla di historiographic metafiction)[3] e di Amy J. Elias (che usa invece il concetto di metahistorical romance)[4]; si può utilizzare la forma, in senso lato temporanea e “volatile”, della tranche autobiografica o del pezzo d’inchiesta sul campo per aderire mimeticamente alla narrazione del precariato in Italia (Narrazioni della precarietà: il coraggio dell’immaginazione di Monica Jansen), tentando di escludere tentazioni onniscienti e massimalistiche quanto lo scivolamento in un autocompiacimento depressivo; infine, si può utilizzare la scrittura del giallo e del noir in modo che la narrazione della catena delitto-indagine-(incerto) castigo restituisca «la rappresentazione di un mondo in preda al disordine e all’impazzimento in cui la possibilità del crimine è entrata a far parte del quotidiano» (nel saggio La narrativa a tema criminale: poliziesco e noir per una critica politica di Marco Amici, p. 176), e possa esplicitare l’inconscio politico di alcuni dei nostri scrittori di fronte all’ultimo cinquantennio di storia della Repubblica. Queste tre forme di scrittura, eterogenee anche al loro interno, cercano nella descrizione degli autori di Scritture di resistenza di rinnovare dall’interno l’etichetta di “scrittura dell’impegno”, guardando chi più chi meno a certi problemi metodologici che già appartenevano al romanzo storico: come decifrare il passato in modo da renderlo utile per la comprensione dell’esistente – ammesso che sia possibile? Lo sforzo si vede bene in Amici, poiché il noir italiano più significativo nel nostro panorama ha cercato sin dall’inizio di riflettere su crimini privati che, più ad ampio raggio, rimandavano a una visione dell’Italia dagli anni ’60 a oggi come un groviglio indecifrabile di intrighi politici e cospirazioni (è il caso di De Cataldo con Romanzo criminale, 2002, che ha avuto una fortissima ricaduta su narrazioni anche televisive e cinematografiche). La scrittura del crimine ha anche guardato a fatti recenti come a una serie di “misteri” che lo storico-detective è incaricato di decifrare, senza troppe speranze di soluzione ma almeno arrivando a cogliere alcune storture che abbiamo ereditato (buona parte della scrittura di Carlo Lucarelli, fino a quella televisiva degli anni Zero, si muove su questo binario). Tuttavia, è nella finzione metastorica che le opere si assumono con più chiarezza il compito di confrontarsi criticamente col romanzo storico, riprendendone vincoli e trasgressioni. C’è però una differenza sostanziale con i risultati del romanzo storico. Vorrei provare a mostrarla in breve, servendomi di alcuni degli stessi esempi di Scritture di resistenza.
2.
La base di partenza di Finzioni metastoriche e sguardi politici è una sottolineatura della finzione metastorica come di uno strumento espressivo che utilizza la cronaca come mezzo e non come fine. Ciò è dato soprattutto dall’introduzione di chi racconta all’interno delle vicende. Da un narratore da romanzo storico “esterno” ai fatti raccontati, sebbene lontano da qualunque desiderata imparzialità dello storico di professione, passiamo in questi nuovo romanzi storici sui generis a un narratore che acquista non di rado il ruolo di personaggio principale, a volte strabordante e narcisistico, e si serve di questo Io come di una nuova lente con cui interpretare un mondo in cui ideologie politiche o religiose “forti”, e insieme le comunità che le presupponevano, hanno irrimediabilmente perso d’importanza. È il caso, studiato in dettaglio da Boscolo e Jossa, di Giuseppe Genna per Dies Irae, 2006, ma da questo punto di vista tanti altri libri rientrerebbero nel gruppo, ad esempio Troppi paradisi di Walter Siti, componimento misto di menzogna e reality e insieme manifesto di una delusione prima politica e poi intellettuale (riguardante ciò che si è soliti definire cultura “alta”).
Anche se non mi spingerei fino a conclusioni perentorie come quelle di Boscolo e Jossa («La differenza tra romanzo storico e finzione metastorica sta nel fatto che nella seconda l’autore prende posizione e costringe il lettore a fare altrettanto», p. 18), è innegabile che la peculiarità della finzione metastorica stia proprio nel coinvolgimento autobiografico del dettato, e nei cortocircuiti che il narratore-protagonista opera fra la sua microstoria privata e i grandi avvenimenti. Storia individuale e collettiva sono due fiumi che scorrono paralleli e vicini, visto che, secondo una marcata diffidenza dei romanzieri metastorici verso i documenti della storiografia ufficiale, il criterio autoptico (“ciò che vi racconto è vero, perché l’ho vissuto in prima persona”) è preferenziale per scrivere questo romanzo storico del presente. È così che, trasformando i nudi avvenimenti (detti «eventi») in «fatti» («complesso groviglio di situazioni, emozioni, memorie, tra passato e presente, che non sono riducibili alla pura restituzione dell’evento in sé e per sé», p. 19), si vuole anzitutto ridiscutere il ruolo, sentito come troppo invasivo e mistificatorio, di una storiografia avvertita come autoritaria nella sua pretesa obiettività («Riflessione sulla storia e riflessione sulla letteratura s’inseguono e s’intrecciano perché non è più possibile fare storia senza letteraturizzarla, se non si vuole aderire alla storia egemone delle verità ufficiali, ma non è neppure più possibile fare letteratura senza assumere un punto di vista rispetto a ciò che si sta facendo», p. 31).
Come si vede, la diffidenza originaria dei romanzieri storici verso il lavoro d’archivio, senza la quale non si oltrepasserebbe il confine dell’immaginazione scrivendo un’opera che getta un’ombra di fiction sul resoconto del passato, ricade pure sulla finzione metastorica. Anzi, essa è riattualizzata con un’esasperazione. Non solo le finzioni dicono verità decisive e più ampie dei documenti, non solo il romanziere ha un primato sullo storico di professione, costretto dall’aderenza documentaria e dall’impossibilità di imprimere al suo racconto una visione morale che alteri gli eventi: a tutto ciò si aggiunge un’ulteriore ritrosia verso qualunque racconto che non sia soggettivo, testimoniale, autoptico, in qualche modo antagonista a ricostruzioni dall’alto sentite come imposte dal potere – non troppo distante era il passo compiuto, in modi diversi, già dal New Journalism americano degli anni ’70, che metteva al centro delle proprie inchieste l’io più intimo e provocatorio del giornalista, e in seguito da molta di quella produzione eterogenea che chiamiamo non-fiction. Per il grado di sospetto, il riferimento più che Aristotele sembra Hayden White (d’altronde menzionato nel corso del volume) con la sua idea di storiografia ritenuta una forma di narrazione non qualitativamente dissimile da architetture d’invenzione, e mai interamente attendibile.
Ad argine delle censure di una storiografia egemone sta il soggetto narrante, che spesso e volentieri imita inconsapevolmente lo storico antico e i suoi criteri autoptici e drammatici (il padre nobile di questa tendenza è Erodoto, che dichiara di parlare soltanto di quel che ha visto o al massimo sentito dire da voci fidate; ma l’attitudine riguarda, più o meno, tutta la storiografia premoderna)[5], e complica poi le cose cercando di «far stridere il passato dell’oggetto narrato col presente di chi lo narra, specchiare il punto di vista dell’io storico in quello dell’io scrivente, istituire un doppio piano fra evento nella sua solitudine e fatto nella sua rete di relazioni» (p. 19). Egli si rende spettatore-attore privilegiato e si confronta con le altre testimonianze individuali, cosicché, parlando di Dies Irae e del suo sguardo alla storia della Repubblica, Boscolo e Jossa possono trarre un’osservazione efficace per l’intero genere:
La storia è riconoscibile solo se è filtrata dallo sguardo di chi l’ha vissuta, cosa che la rende potenzialmente più vera, perché si fonda sulla testimonianza, ma anche inevitabilmente più soggettiva, perché non è riconducibile a una narrazione univoca e collettiva. (p. 25)
L’assunto è controverso (in che senso la narrazione dello storico è «univoca e collettiva», ci potremmo chiedere?) ma centrato nel suo individuare una peculiarità che esiste nelle finzioni metastoriche. In esse la Storia, se non esiste attraverso un soggetto che testimonia la sua esperienza, o che assume su di sé la Storia arrivando a prese di posizione forti, talvolta martoriali[6], si consegna al servizio del potere costituito («conta di più la verità della percezione di chi racconta anziché l’adesione alla verità della storia», p. 60; si parla di Balestrini, ma vale nel complesso). Con l’apparente rinuncia alle retoriche dell’onniscienza che una narrazione storica “tradizionale” reca con sé, la finzione metastorica rivendica sotterraneamente una conoscenza che raccolga i diversi destini individuali, le testimonianze plurali, alle tesi e all’esperienza di un soggetto autoriale ipertrofico e inventivo (sebbene, restando a Manzoni oppure Verga, anche l’onniscienza abbia le sue regole, le sue soglie, prospettiche o anche solo linguistiche, sulle quali l’autore mostra di arrestarsi). Questa onniscienza individualistica può andare da un massimo di narcisistico autocompiacimento autofinzionale (come in Genna) a una capacità di camuffare la propria voce dietro coralità dissonanti (come, con i dovuti distinguo, in Balestrini o Janeczek), fino all’intreccio di trame e maschere che rivendichino le ragioni degli oppressi (penso ai Wu Ming, che Boscolo e Jossa tengono in grande considerazione soprattutto come saggisti). Perciò anche le finzioni metastoriche tratteggiate da Boscolo e Jossa incorrono in una costrizione di natura contraria a quella dell’obiettività da storico moderno: sono costrette all’adesione empirica alle storie raccontate e ciò, implicitamente, può bastare a convalidare il discorso con un vincolo testimoniale (“devi ascoltarmi perché io l’ho vissuto sulla mia pelle”, per dire; anche quando, come spesso nelle finzioni metastoriche, si raccontano cose che sono chiaramente inventate o deformate con gli artifici del novel). Si finisce così, molto spesso, per ricattare emotivamente il lettore più che persuaderlo con una dialettica. A ben pensarci, del resto, la limitazione prospettica dello sguardo individuale rimane un problema evidente per la comprensione del passato: non sempre ciò che una persona ha vissuto combacia con la verità dei fatti, ma può essere provato o corretto da indagini ulteriori e più “da lontano”. Rinunciando a tendere verso uno sguardo onnisciente e totale da narratore esterno e non implicato, queste forme metastoriche dichiarano di non voler superare la contraddizione, ma di volerla ingigantire.
3.
È probabilmente legata a questa contraddizione insuperabile una caratteristica comune a parecchi di questi romanzi storici riattualizzati: l’indagine del passato recente e dei suoi nodi insoluti non porta quasi mai a una comprensione razionale del presente, a una ricostruzione lucida. Lo scavo storico, dato che viene condotto come una discesa nel cuore di tenebra del singolo autore, a volte curiosamente non ci restituisce altro che un buio di emotività. Può insomma capitare che al fondo dei romanzi caleidoscopici e impossibili di Finzioni metastoriche e sguardi politici giaccia una conoscenza arresa che assomiglia troppo a un’alzata di spalle. Dopo lunghe indagini, verifiche, peregrinazioni nei decenni di stragi e intrighi insoluti d’Italia, che guardano da vicino alla letteratura di spionaggio e al thriller, in Dies Irae non c’è alcun complotto, non c’è alcuna sentenza risolutiva. Il finale del libro è anche un’accettazione della propria impotenza a comprendere, e per conseguenza al centro di esso sta una posizione “corsara” di Pasolini (“Io so, ma non ho le prove”) rovesciata di segno: «non c’è la pretesa di aver scoperto la verità, ma la certezza di non sapere, di non avere le prove e di essere solo» (p. 30). Il giro lungo del romanzo ci ricollega ai suoi punti di partenza: non c’è niente da capire. Lo spazio per le argomentazioni razionali si riduce, la luce si fa accecante, e infine «una dimensione di realismo gnostico si schiude alla letteratura, che può solo puntare al cuore dell’essere, senza afferrarlo, ma lambendolo e perciò scoprendolo: lì si apre lo spazio della pietà, che è l’unica vera scoperta che la letteratura possa fare, l’unico vero lascito che la letteratura possa dare». Se davvero ai romanzi compete solo lo spazio della pietà, cosa li distingue dalla religione, dalla pubblicità-progresso e da altri discorsi pre-politici? Un certo valore epidittico e denotativo la letteratura l’ha sempre avuto: toglierglielo è una sottrazione che aggiunge intensità, ma cancella troppe sfumature. Il problema sembra toccare non pochi dei testi studiati e minare alla base l’idea stessa di militanza, che presupporrebbe uno sguardo programmatico, un qualche gramsciano ottimismo della volontà («politica vuol dire insufficienza nel presente per guardare al futuro, scandalo e utopia», p. 32). Nel riconoscimento pieno di un fallimento ermeneutico c’è invece un ripiegamento letterale su se stessi: «Da lì, da quel pozzo, lo scrittore può solo riconoscere il mistero e proclamare la propria sconfitta» (p. 35). L’alter ego autofinzionale di Genna può così identificarsi, sintomaticamente, nei panni di Alfredino Rampi, un bambino sepolto vivo, e renderlo il portavoce di una conoscenza sapienziale che riflette il vuoto di un’intera comunità. Sulla vicenda di Vermicino toni non distanti, fra adesione e abbandono irrazionale, ha Mancassola («Il fatto di Mancassola fuoriesce radicalmente dall’evento della cronaca, della storia e della memoria: si apre quello squarcio, allucinato e visionario, che è il solo possibile superamento dell’evento nel fatto», p. 38). Più indietro, se si torna a un altro evento trattato a lungo dai romanzieri, cineasti e drammaturghi di oggi, cioè al sequestro e all’uccisione di Aldo Moro, anche Parazzoli con Altare della Patria (2011) sembra contraddistinto da una programmatica rinuncia a vedere, che esaspera gli impasse conoscitivi di Leonardo Sciascia sullo stesso argomento (L’affaire Moro, 1978, fra scavo archivistico e supposizioni inverificabili, si muoveva già in questa direzione). Visto che il sequestro dello statista democristiano è imputabile a un intervento diabolico, allora:
l’operazione narrativa di Parazzoli scardina ogni tentativo di disamina storica e di attribuzione di responsabilità precise, spalancando al lettore l’idea che ogni accadimento di natura terroristica, seppure attribuibile a una regia occulta, rimane l’espressione del male che alberga nell’uomo, qualunque sia la finalità politica di quell’azione. (p. 48)
Da una simile lettura esce un’assoluzione di massa, che fa da contrappeso a una delega dei poteri a una dimensione oltreumana: «la presenza di Satana, quindi di un elemento fantastico, ha la funzione di trasportare la vicenda su un piano metastorico, dove agiscono forze che non sono controllabili dall’uomo» (p. 49). Non siamo più nei pressi nemmeno della storiografia erodotea, favolistica e appassionante ma capace di eliminare gli dèi dal suo orizzonte: la finzione metastorica finisce per corteggiare direttamente l’epica, scavalca il romanzo e riecheggia l’Iliade di Omero. Eventualmente, un più preciso contributo storico è possibile per ricostruire traumi mediatici ad hoc e smontare retoriche di comodo. In Sandokan (2004) di Balestrini, avverrebbe questo:
Nello stesso momento in cui denuncia l’impossibilità di attingere la verità attraverso la cronaca Balestrini suggerisce la possibilità di una verità diversa, che toccherà non alla cronaca ma alla letteratura inseguire: se il sistema dei media, secondo l’analisi bejaminiana, produce continui choc, la letteratura potrà svelarli, quegli choc, senza ricomporli, ma ricostruendone i meccanismi di funzionamento. (p. 58)
La finzione metastorica per come è delineata, insomma, se da un lato ribadisce e potenzia fino allo stremo una superiorità delle forme dell’arte sui documenti, dall’altro proprio per questo finisce per non restituire altro che una sconfitta di fronte alla Storia, di cui ci si dichiara, implicitamente, vittime senza proposte con in mano solo «verità letterarie» (p. 64). Il romanzo, lasciato solo dopo aver deciso di evadere del tutto il confronto con la storiografia, finisce al massimo per smontare i discorsi del potere ed entrare in concorrenza sleale con il miglior giornalismo d’inchiesta. Non è necessariamente un difetto: molta della letteratura non-finzionale odierna si muove su questo binario, talvolta con risultati di fortissimo impatto: Gomorra di Roberto Saviano, il più celebre. Ciò nonostante, sono proprio le dinamiche fra passato e presente, che nel romanzo storico finiscono per illuminarsi reciprocamente, ad assottigliarsi fino a sparire nella finzione metastorica.
4.
Concludiamo sul parallelismo introduttivo con le scritture della Resistenza italiana nella Seconda guerra mondiale. Boscolo e Jossa accomunano quel periodo letterario e questi romanzi degli anni Zero, nel segno dell’immaginazione di un’Italia migliore in un momento di grave crisi politica. Fra le affinità proposte, ce n’è una che fa riflettere: «La Resistenza guardava al futuro anziché al passato, al contrario di quanto l’etimologia e usi recenti del verbo resistere potrebbero far pensare» (p. 11). Nella letteratura resistenziale è tematicamente assodata l’idea di un domani nazionale da costruire sulle macerie del fascismo e del conflitto in corso. È anche indubbio, aggiungo a margine dell’argomentazione di Boscolo e Jossa, che la letteratura più bella e duratura della Resistenza si è trovata a fare i conti con un passato senza conciliazioni possibili, dove le verità da proteggere erano quelle degli sconfitti, dei preteriti («l’hanno stretta i pugni dei morti / La giustizia che si farà», Fortini, a ridosso della guerra)[7]. In quella letteratura, l’ideologia non bastava a giustificare atrocità viste, inflitte e subite, a squalificare porzioni dell’umano (anche per questo Pavese con La casa in collina, l’intera opera di Fenoglio, ci parlano più da vicino di Uomini e no di Vittorini), ma imponeva comunque una presa di posizione ragionata, utile a capire i perché di una militanza. Ma, da quanto si è detto finora, siamo sicuri che le finzioni metastoriche resistano davvero, visto che ciò che sanno raccontare meglio è un ripiegamento ombelicale e tanto ricco da inglobare in sé il mondo? E comunque, se la Storia (nella continua interpretazione dei rapporti tra un dato passato e il nostro presente), quando viene illuminata dal romanziere, non ha più contorni distorti ma cancellati, a che serve la luce?
[1] Aristotele (1998), Poetica (traduzione e introduzione di Guido Paduano), Laterza, Roma-Bari 1998, 1451b 1-7.
[2] Claudia Boscolo, Stefano Jossa (a cura di), Scritture di resistenza. Sguardi politici dalla narrativa italiana contemporanea, Carocci, Roma 2014. D’ora in avanti, per non appesantire di note l’intervento, le citazioni da questo volume saranno indicate in testo seguite dal numero di pagina
[3] V. Linda Hutcheon, A Poetics of Postmodernism: History, Theory, Fiction, Routledge, Londra 1988.
[4] V. Amy J. Elias, Sublime Desire. History and Post-1960s Fiction, The Johns Hopkins University Press, Baltimora 2001, p. 52.
[5] V. sull’argomento Arnaldo Momigliano, Storia antica e antiquaria e Il contributo di Gibbon al metodo storico in Sui fondamenti della storia antica, Einaudi, Torino 1984, pp. 3-45, pp. 294-311; Carlo Ginzburg, Ancora su Aristotele e la storia in Rapporti di forza. Storia, retorica, prova, Feltrinelli, Milano 2001, pp. 51-67.
[6] «Noi scrittori (gli scrittori d’eccezione di cui mi considero compagno di strada) siamo gli evangelisti dell’apocalisse: l’apocalisse dello Spettacolo (…) Poiché l’unica cosa che desidero al mondo è superare il mio desiderio, cioè l’ascesi della mia mente individuale, la dissoluzione dei nomi e delle forme è un’opera implicita che prima o poi dovrò personalmente affrontare. Per me la morte della letteratura prelude alla felicità – meglio: all’assenza totale della felicità», Giuseppe Genna, Scrivere sul fronte occidentale: scrivere sulla fronte occidentale in Antonio Moresco, Dario Voltolini (a cura di), Scrivere sul fronte occidentale, Feltrinelli, Milano 2002, pp. 156, 162.
[7] Franco Fortini, Canto degli ultimi partigiani in Foglio di via e altri versi, Einaudi, Torino 1946, vv. 15-16.
[Immagine: Gerhard Richter, Ulrike Meinhof (gm)].
“La storia è riconoscibile solo se è filtrata dallo sguardo di chi l’ha vissuta, cosa che la rende potenzialmente più vera, perché si fonda sulla testimonianza, ma anche inevitabilmente più soggettiva, perché non è riconducibile a una narrazione univoca e collettiva. ”
Credo che questo passaggio evidenzi il vizio di fondo che sta poi alla base di queste riflessioni e che si ricollega alle domande tue, nel titolo (a cosa serve resistere?), e nel finale (a cosa serve la luce?). Intanto c’è un errore lessicale, penso ci starebbe meglio “conoscere”, invece di “riconoscere”; poi l’assunto che solo il filtro soggettivo possa condurre alla conoscenza della storia è sbagliato nel merito (le persone mentono e si sbagliano, ricordano male, eccetera) e sbagliato come approccio, poiché parlare di storia in astratto non ha senso. Ma come d’altronde parlare di verità in astratto non ha senso. Finché si continuerà a indagare la verità con questi termini la verità non sarà mai conoscibile, e ancor meno ha senso che sia la letteratura, con chissà quali poteri magici, a seconda delle forme usate (romanzo storico, finzione metafisica, autofiction, eccetera), a svelarla. Quello che ha senso invece dire è che forme diverse, ovvero punti di vista differenti, cioè il racconto esterno o il racconto partecipato, offrono informazioni differenti. Non più o meno vere a seconda del punto di vista, ma diverse nel coinvolgimento e nella particolarità, per ciò che ci interessa. A tal proposito metto un’intervista ad Ascanio Celestini
https://www.youtube.com/watch?v=QlBYbC_Pq0o
ps
mi ha fatto piacere sapere del tuo incontro con Giulio Mozzi
Daje!
@FF vs PPP
grazie del commento. Sono argomenti su cui sto lavorando e non ho qui trattato in dettaglio, ma provo a risponderti.
” l’assunto che solo il filtro soggettivo possa condurre alla conoscenza della storia è sbagliato nel merito (le persone mentono e si sbagliano, ricordano male, eccetera) e sbagliato come approccio”
Sono d’accordo. La mia opinione è che un approccio estremamente filtrato dalle soggettività dei testimoni ha dei punti di forza (coinvolgimento, vicinanza all’evento, prospettiva inedita sull’evento, ecc.) e delle debolezze (che possono essere quelle che descrivi tu, per esempio).
“Intanto c’è un errore lessicale, penso ci starebbe meglio “conoscere”, invece di “riconoscere” ”
In effetti è una forzatura, e “conoscere” avrebbe altrettanto senso. Ho preferito “riconoscere” per dare una sfumatura metaforica (come “riconoscere una persona”) e per significare una storia che, tramite questo coinvolgimento soggettivo, da estranea ci ridiventa familiare, prossima, una comunicazione orale oltre la freddezza degli archivi.
“Quello che ha senso invece dire è che forme diverse, ovvero punti di vista differenti, cioè il racconto esterno o il racconto partecipato, offrono informazioni differenti. Non più o meno vere a seconda del punto di vista, ma diverse nel coinvolgimento e nella particolarità, per ciò che ci interessa.”
Pienamente d’accordo, non è questione dei termini coi quali indagare LA verità in astratto, ma di capire quali verità può interessarci ricercare, credo. Non penso abbia senso parlare di verità in astratto (a dire il vero, credo non lo pensi nessuno di quelli di cui ho parlato).
grazie ancora
da un pusher letterario =)
buonanotte
il passo che hai citato è di Boscolo e Jossa! e l’ho pure commentato
non ce la posso fare … dopo aver commentato il libro ora voglio pure riscriverglielo inconsciamente ..
Questo è un bellissimo modo di valorizzare il nostro libro attraverso un dialogo proficuo e intelligente: grazie Lorenzo Marchese! Naturalmente, a differenza di Lorenzo Marchese, noi non crediamo nella luce della verità rivelata, religiosamente, da Gomorra (o da Moresco), ma riteniamo che la conoscenza letteraria abbia senso solo se NON è realistica, cioè NON pretende di aderire all’oggetto: saggi e saggi hanno affrontato il tema e non lo si può fare qui, ma la dialettica che si apre tra finzione metastorica, cioè, come Marchese sintetizza bene, narrativa in cui storia e cronaca sono mezzo anziché fine, e romanzi dotati della luce della verità o finalizzati alla conoscenza oggettiva (anche della differenza, che neppure è assolutizzabile) è certamente utile a definire un quadro in movimento. Tutti, alla fine, “in concorrenza sleale col potere”, su cui la convergenza è fin troppo facile. Ps, per sgombrare il campo da un equivoco: quando parliamo di romanzo storico come opposto alle finzioni metastoriche, ci riferiamo al romanzo storico “come lo si intende comunemente oggi”, cioè sugli scaffali delle librerie (dove compaiono come tali anche i romanzi di De Cataldo, per esempio), mentre abbiamo spiegato chiaramente nel libro che tra romanzo storico “classico” (Manzoni, per intenderci) e finzione metastorica odierna riconosciamo più continuità che contrasto.
Posso fare un’osservazione terra terra?
Il romanzo storico come strumento di analisi e critica ‘seri’ non dipenderà dal banale fatto che si sa com’è andata a finire?
Si conoscono in anticipo la direzione di marcia degli eventi e l’esito finale, chi ha vinto e chi ha perso. Questo rende molto più facile far prendere posizioni morali ai personaggi immaginari cui vogliamo far sostenere o incarnare questa o quella tesi.
Anche nel campo del gusto, il tempo ha già fatto la sua cernita. L’autore sa già cosa, del tempo di cui narra, è sopravvissuto e cosa no, cosa è stato ritenuto effimero e cosa no. Il personaggio andrà a colpo sicuro, dimostrando un gusto impeccabile, mentre i suoi antagonisti si perderanno dietro a cose ridicole e condannate.
E’ perfino più facile vestire i personaggi del passato e arredare le loro case.
Insomma, è il presente il tempo più difficile da raccontare, vedi certi romanzi del passato (tipo gli anni Cinquanta, Sessanta o Settanta) che oggi ci paiono incerti o sfocati o semplicemente sbagliati, rispetto a ricostruzioni armate del senno del poi.
Eppure sono dell’idea che bisognerebbe provarci lo stesso…
a Stefano Jossa (ma idealmente mi rivolgo anche a Claudia Boscolo):
grazie del commento. Questo pezzo, lo dico a beneficio di chi ci legge, è l’ideale prosecuzione di una recensione comparsa sull’Indice dei libri del mese di settembre: lì avevo rivolto osservazioni (e critiche) puntuali e un po’ ristrette, ma mi dispiaceva lasciare in sospeso alcune riflessioni di ampia portata cui il vostro lavoro apre.
Quanto alla precisazione del post scriptum, è ancor più opportuna. Ho avuto un po’ di difficoltà a capire che per voi romanzo storico “classico” e finzione metastorica sono in continuità: avevo colto meglio l’idea della rottura, forse perché traspare con più chiarezza dal vostro primo saggio.
a Stefano Trucco:
grazie. Non sono molto d’accordo con quanto dice. Più che altro perché non penso che fare storia del passato sia svolgere un ruolo di giudici, o scrivere a tesi (“Questo rende molto più facile far prendere posizioni morali ai personaggi immaginari cui vogliamo far sostenere o incarnare questa o quella tesi”, io lo leggo così).
La storia non è una direzione di marcia e l’individuazione di un esito finale, anzi molti dei libri trattati dai romanzi storici si occupano di farci rivivere ciò che è caduto fuori dal tracciato maestro degli eventi, ciò che è rimasto strozzato o ci è stato trasmesso a fatica. Interessano di più le mezze sconfitte o i bivi senza risoluzione, le sfumature che negano la nettezza di una divaricazione fra vittoria impeccabile e sconfitti, mi pare. E soprattutto, il passato ci interessa anche nel suo carattere estraneo, incapace di resistere all’urto del tempo: nella ricostruzione storiografica come nel racconto. Del tempo estinto, credo possa colpirci non solo ciò che ha un’incidenza simbolica su noi oggi, ma anche ciò che ci affascina perché NON ci appartiene più, irrimediabile.
Che poi sia più difficile rivestire il presente invece del passato, non so … Di sicuro nel primo ci sono molte più tracce, senza una (a volte minima) distanza critica. Ma immagino che alla fine sia anche una questione di stile e intenti.
addenda:
Naturalmente non credo nella “luce della verità rivelata”. Ma nemmeno in quella della tenebra. Solo, qualche lampadina per orientarsi, la trovo utile. Che sia realistica o no: non sono prescrittivo, in questo.
@ Marchese
dopo il narratore onnisciente, il critico onnisciente :)
ho citato quel passo proprio perché, magari a torto, ho colto nel loro discorso questo ricercare astratto. Mentre nelle tue domande più che una ricerca astratta di verità mi pare di aver colto la ricerca di senso. Solo che poi il commento di Jossa mi pare sposti un po’ le cose, e ti chiedo, e magari anche a lui, che cos’è la conoscenza letteraria. Nel passaggio che citi si parla di conoscere la storia, mentre Jossa adesso parla di conoscenza letteraria, che mi sembrano due cose diverse. Al di là del fatto che per esserci debba essere non realistica e non aderente all’oggetto, che sia vero o meno intento.
Un paio di domande per un pezzo che mi è piaciuto molto:
1)Non è necessaria una distinzione fra la presa di posizione soggettivista del narratore “storico” che guarda (famo a capisse) a Hayden White e quello che guarda (famo sempe a capisse) a Benjamin? In entrambi i casi l’anti-hegelismo risulta inevitabile, ma nel primo si lega ad una prospettiva ideologica che risale (filosoficamente) alla nietzschiana “Seconda inattuale”, e mira ad una presa di posizione che sottende l’impossibilità del discorso storico totalizzante (il grande esempio italiano è “I vecchi e i giovani” di Pirandello); la seconda è presa di posizione del punto di vista che, nell’avanzare della dialettica storica, è risultato sconfitto ma che, nella finzione narrativa, viene nuovamente attivato come elemento che dal progresso (cioè dalla “barbarie”) è stato silenziato.
2)Quanto la strada tracciata da Hayden White risulta ideologica (e oggi drammaticamente egemonica)? Quanto infatti, anche in un puro approccio epistemologico, il discorso sull’impossibilità della totalizzazione viene poi recuperato come impossibilità della totalizzazione stessa? La mancanza della Verità, insomma, ha in sé un bel coefficiente di “verità”, e risponde perfettamente, mi pare, a determinati funzionamenti e rapporti sociali (dalla “specializzazione” lavorativa al tempo di Nietzsche, alla nostra “liquidità”). E non basta parlare, in questo caso, della verità (per quanto debole e creaturale) del singolo individuo, perché inevitabilmente quel singolo individuo (sia uno scrittore o no) il funzionamento sociale se lo porta dentro, e ha un bel credersi autonomo da quello…
La narrazione, anche del singolo individuo, risulterà sempre “univoca”, perché univoco/a non è più la collettivizzazione delle idee (il punto di vista unico o chiamatelo come volete): l’unica cosa davvero univoca è la frammentazione/atomizzazione.
3) Questione dell’attualizzazione: se il momento storico narrato viene semplicemente attualizzato sul presente (se semplicemente si parla di quello per descrivere il presente), il risultato sarà ancora una volta vittima della visione ‘specializzante’, prospettica, frantumata che il nostro presente porta con sé, quindi la falsificazione del periodo storico narrato sarà inevitabile, ma non perché la Storia sia impossibile, ma perché non si riesce più a immaginare che la storiografia stessa abbia funzionato con modalità diverse da come funziona adesso, cioè senza essere a sua volta soggetta alla ‘frammentazione’ del nostro tempo. L’impossibilità della Totalità, insomma, va compresa anche come giudizio su di Noi, sul nostro tempo, non come scoperta epistemologica, perché in quest’ottica essa risulterebbe totalmente anti-storica. La possibilità del punto di vista della Totalità va riportata nel romanzo storico anche semplicemente come… storia della sua progressiva decadenza, e dunque (ed ecco il punto di vista dei “vinti” della prima domanda) come possibilità del suo riscatto. Ecco perché, credo, che un romanzo storico sia tale quando riesce a narrare la dialettica storica (senza nessuna teleologia ovviamente), vale a dire la stessa progressiva modificazione del modo di fare storia e del modo di concepirla, che è poi l’unico modo per non uscire dalla Storia, cioè per non credere che abbiamo fatto storia sempre allo stesso modo. In questo modo, infatti, la narrazione storica riuscirà a diventare anche critica della progressiva impossibilità di fare Storia che l’ideologia dominante ora veicola, e anche la narrazione di questa progressiva impossibilità si salverà come punto di vista realmente “storico” e realmente Totale.
@FF vs PPP:
poni una questione non da poco. Non posso parlare per gli autori, io mi posiziono così: ho molti dubbi sull’esistenza di una “conoscenza letteraria” e sulla validità di una scrittura che fornisca per lo più “verità letterarie” (menzionate nella conclusione del saggio di Boscolo e Jossa). Non perché non pensi, con qualche aggiustamento dovuto all’evoluzione delle forme letterarie, che, per dirla con Aristotele, la poesia si occupi principalmente dell’universale e la storia del particolare. Questa riflessione l’ho citata e posso dire di crederci. Ma quanto senso ha una distinzione dei poteri netta? La letteratura può dirci verità di tanti tipi, mentre i modi per arrivarci magari sono diversi, si rifanno ad altre tradizioni, paiono “scorretti” rispetto alla storiografia: ma, per parte mia, pensare a una conoscenza letteraria e a una storiografica implica una separazione dei compiti che a volte quasi sovrappone la letteratura alla metafisica (perché alla fine lì torniamo). Qui non sto parlando solo dei testi affrontati dal saggio, sia chiaro. Alcuni scrittori che apprezzo corrono il rischio di questa sovrapposizione: Trevi, per esempio.
C’è poi un altro discorso, cioè l’elusività della letteratura: non mi sento di dire che tipo di conoscenza essa ci debba garantire, perché ogni volta che (di fatto, involontariamente) si enunciano i compiti della letteratura quella si smarca.
@Mimmo Cangiano:
grazie del commento, molto denso. Cerco di rispondere per quanto posso:
1) la distinzione è necessaria, ha ragione. La fanno anche Boscolo e Jossa. In questo intervento però ho scelto di concentrarmi sulla presa di posizione soggettivista che guarda ad Hayden White, e di lasciare sullo sfondo la prospettiva dei praeteriti dalla dialettica storica (quella, corretto, benjaminiana). Gli autori ne parlano soprattutto nel paragrafo “Da Mogadiscio a Montecassino: memoria e identità”, con testi di Janeczek e altri; e anche Monica Jansen, nel secondo saggio del volume, affrontando il tema del precariato attuale in Italia in qualche modo si rifà a quella prospettiva.
2) pienamente d’accordo con la sua osservazione. C’è qualcosa di ricattatorio e anti-dialettico in queste atomizzazioni narrative: e anche, la butto lì, di molto televisivo. Scritture della realtà, televisione della realtà … hanno grandi armi retoriche, ma l’accorciamento prospettico che propongono a volte andrebbe recepito meno passivamente.
3) discorso molto complesso, ci penso su. Posso aggiungere che lo schiacciamento sul presente ha anche un fine moralistico e tipico (il che paradossalmente riavvicina queste finzioni sulla storia a certe forme della storiografia antica). Laddove la storiografia moderna non può più avere (a quanto so) ambizioni didattiche e morali scoperte, il discorso romanzesco sulla storia le rivendica, mettendo relativamente in ombra le questioni della dialettica storica, della totalità. Non so se è attinente alle sue riflessioni (anche perché non ho capito se mi ha fatto una domanda).