di Ilaria Schiaffini
[È uscito da poco, presso DeriveApprodi, il volume collettivo Etica e fotografia. Potere, ideologia, violenza dell’immagine fotografica, a cura di Raffaella Perna e Ilaria Schiaffini. Attraverso i contributi di studiosi di fotografia, antropologi, giornalisti, storici dell’arte e della comunicazione di massa, Etica e fotografia riflette sul valore politico o impolitico della fotografia. Quello che segue è il saggio iniziale di Ilaria Schiaffini]
Stragi, massacri e torture affollano oggi i canali di comunicazione: i quotidiani, le televisioni, il web e i social media ci incalzano verso la ricerca di fotografie e filmati di eventi traumatici. Un anno fa la foto di due adolescenti indiane impiccate a un albero dopo essere state violentate da alcuni coetanei maschi nei campi attorno alla loro casa invase i social network, provocando reazioni opposte: nello sdegno condiviso per l’orrore di una duplice violenza, quella fisica e quella mediatica, ciascun utente Facebook o Twitter interrogava il suo turbamento. Le posizioni si dividevano tra chi sentiva l’obbligo morale di postare a sua volta la fotografia per suscitare una reazione morale, sperando di rendere così in qualche modo giustizia alle vittime, e chi riteneva che diffondere quella immagine superasse la soglia di rispetto «del dolore degli altri». Si riproponeva così, moltiplicato per ciascun utente dei social media, il dilemma tra anestetizzazione e reazione morale, tra sentimentalismo e comprensione autentica della realtà già evidenziate a suo tempo da Susan Sontag nel seminale On Photography1.
Nell’era della rivoluzione digitale i sistemi di produzione, diffusione e condivisione delle immagini «peer to peer» hanno aumentato a dismisura il potere dell’immagine digitale: il coinvolgimento attivo e istantaneo di milioni di utenti del Web 2.0 amplifica enormemente il valore testimoniale del medium e le conseguenze politiche e ideologiche che ne derivano. Una fotografia o un video, decontestualizzati e diffusi in maniera virale sulla rete o sui social media riescono a influenzare molto rapidamente le opinioni della massa, fino a modificare i connotati stessi della democrazia. Il caso emblematico delle fotografie di Abu Grahib ha dimostrato in maniera indubitabile il potere dirompente del nuovo sistema di comunicazione visiva, e ha contribuito a rafforzare la necessità di fare i conti con il potere delle immagini-shock indebolendo le ipotesi iconoclaste radicali volte a delimitarne l’uso in nome del rispetto della sofferenza raffigurata2. La stessa Sontag nel suo ultimo contributo sul tema riconosceva in qualche modo l’emergenza di un valore etico (con le inevitabili conseguenze politiche) nella visione delle foto di atrocità rispetto alle aspirazioni verso un’ecologia delle immagini avanzate trent’anni prima3. Parallelamente anche le odierne forme di rappresentanza politica sono state trasformate dalla rivoluzione tecnologica: la rete non è solo utilizzata a fini di comunicazione e di consultazione interna di associazioni partitiche o di governo (si pensi alle trasmissioni in streaming dei congressi), ma è diventata in Italia anche la struttura stessa di un partito immateriale, che al web affida tutti i principali processi decisionali, dalla scelta dei candidati per le elezioni fino alle epurazioni dei dissidenti.
La fotografia, che nell’era postmediale si presenta strettamente connessa con il video per la condivisione di sedi e modalità di fruizione, rinnova oggi l’attualità di alcune questioni che ne hanno accompagnato la nascita: in primo luogo il valore testimoniale dell’immagine fotografica, la patente di veridicità che immediatamente siamo indotti ad attribuirle quando la consideriamo «specchio della realtà». Si è tornati così nuovamente a riflettere su una delle questioni originarie dell’immagine fotografica, quella della sua autenticità, che in quanto tale ha a che fare da vicino con la dimensione etica e politica: l’estrema malleabilità dell’immagine digitale ha indotto infatti a mettere in crisi la veridicità del medium fotografico a vantaggio di un sospetto di contraffazione ipso facto dell’immagine stessa4. Secondo alcuni la sostituzione del processo chimico della fotografia, mediante il quale i raggi luminosi impressionano la pellicola sensibile per contatto, con un sistema numerico minerebbe di per sé la fedeltà dell’immagine fotografica. Secondo altri, invece, la traduzione della traccia luminosa in codice binario non inficerebbe minimamente la credibilità della fotografia nell’era digitale5. Se ci spostiamo dalla teoria del dispositivo fotografico alla pratica dei suoi usi sociali, possiamo concludere che il paradigma realistico documentario della fotografia sopravvive con il digitale6, e che all’idea di autenticità si è sostituita quella, diversa ma affine, di credibilità.
Di certo va considerato l’aumento delle possibilità di contraffazione dell’immagine digitale, sia dal punto di vista della qualità dell’immagine, per gli inediti sistemi di ritocco, sia da quello della quantità, che ha a che fare con l’estesa accessibilità di quest’ultima. Il primo aspetto è antico come la storia stessa del medium: dall’allestimento di set fotografici simbolici, come il precoce caso di Hyppolite Bayard auto-raffiguratosi suicida nel 1840 per il mancato riconoscimento del suo procedimento di stampa positiva, alle molteplici forme di ritocco e fotomontaggio in fase di stampa, alle alterazioni semantiche più o meno intenzionali cui la foto decontestualizzata è inevitabilmente sottoposta mediante strumenti grafici, testuali e più in generale mediatici. La fotografia è costitutivamente ambigua, in quanto l’autentificazione è sorella gemella della falsificazione. Come scrive con felice ossimoro, Michele Smargiassi, essa può essere a buon titolo definita «un’autentica bugia»7.
Quali che siano le potenzialità di simulazione della realtà nell’era del digitale, inalterato sembra rimanere il valore probatorio della fotografia, l’attestazione di realtà che essa è in grado di indurre nell’osservatore fin dalle origini. Tuttavia questa «aura di credibilità» diventa un veicolo di ideologia e propaganda di inedita potenza e duttilità nel combinarsi con i nuovi sistemi di distribuzione delle immagini. Il punto non riguarda tanto la tecnologia di produzione delle immagini, quanto quella della loro diffusione e ricezione. Dunque non è tanto il pixel che le sostanzia quanto, piuttosto, la sua condivisione «peer to peer» a determinare conseguenze etiche e politiche dirompenti negli usi attuali della fotografia. L’avvento del digitale all’inizio degli anni Novanta è stato solo l’inizio di un processo di massificazione dell’espressione fotografica, che ha trovato nell’invenzione del telefono-fotocamera e nella tecnologia interattiva del Web 2.0 il suo completamento. Quella che Richtin chiama post-fotografia non è più una unità discreta assimilabile alla sua antenata analogica, quanto un «punto di accesso all’informazione e al mondo nel quale l’immagine è stata creata»8, una costruzione di realtà, una post-produzione di informazioni tra loro interconnesse. La diffusione delle immagini sui social media tramite le ubique protesi tecnologiche di smartphone e tablet diventa istantanea per l’azzeramento dello scarto temporale tra produzione e diffusione, massificata per il numero virtualmente infinito di destinatari, e non mediata da un qualsivoglia soggetto terzo finora esistente (agenzie di stampa, distributori, editori ecc.).
Nel fotogiornalismo tradizionale la questione etica si poneva in primo luogo dal punto di vista della produzione dell’immagine, ovvero da quello dei reporter che, ad esempio, di fronte a un evento traumatico si trovavano costretti a scegliere tra testimonianza fotografica e azione diretta, tra il fotografo e l’uomo. È il caso già proposto a suo tempo da Sontag e ribadito ancora recentemente da Ferdinando Scianna9. Oggi, invece, ogni cittadino può trasformarsi occasionalmente in fotogiornalista con l’ausilio del suo cellulare: nasce così il citizen journalism, che per certi versi può rappresentare una forma estrema di democratizzazione dell’informazione e del controllo sociale10. Oltre a entrare in crisi il ruolo del fotoreporter, è la fotografia stessa a soffrire una crisi epocale e quasi esistenziale, in quanto in questo quadro il mezzo più istantaneo e diretto di trasmettere l’atrocità non è più la singola e iconica fotografia presa dal fotogiornalista ma il video catturato e condiviso su internet dall’amatore11. Il compito di interpretare la realtà che era demandato in primo luogo ai fotografi ora è trasferito in prima battuta agli editor delle riviste e dei giornali, che hanno il compito di selezionare numeri elevatissimi di foto amatoriali, e poi alle grandi società di distribuzione delle immagini12. È qui che avviene lo scarto dalla testimonianza privata alla comunicazione collettiva, dall’appunto personale al messaggio politico.
Le grandi società di distribuzione delle immagini e quelle che governano i canali di informazione su carta e nel web assumono un potere invisibile quanto pervasivo, tanto più incontrollato quanto più tende verso la forma dell’oligopolio. Poiché esse si fondano sulla vendibilità dei loro prodotti e dunque sulla pubblicità, occorre secondo David Levi Strauss13 tornare a ribadire la differenza fra la fotografia come strumento di prova scientifica e quella come strumento di comunicazione, ricalibrare l’equilibrio tra presunta oggettività e uso soggettivo che si fa dell’immagine14. La spontaneità nella condivisione di ciascuno può essere inconsapevolmente asservita a stereotipi e mistificazioni se non è accompagnata dall’esercizio del senso critico e dall’approfondimento della conoscenza dei fatti: la libertà individuale produce una democrazia illusoria se l’azione non si traduce in responsabilità precisamente individuabili.
L’attualità ci offre alcuni esempi sorprendenti di uso politico delle tecnologie mediatiche, che a partire dall’11 settembre hanno fatto parlare di una vera e propria guerra delle immagini, combattuta a colpi di spettacolarizzazione ed estetizzazione di immagini di violenza e tortura15. Queste sono state utilizzate con speciale spregiudicatezza come arma contro l’Occidente e il mondo della cristianità nella serie di esecuzioni filmate degli Jihadisti dell’ISIS. I video delle decapitazioni di James Foley, Steven Sotloff e David Haines diffusi a partire da un anno fa circa spingevano all’estremo l’orrore veicolato dal documento fotografico con alcuni accorgimenti: l’uso del video, che reiterava virtualmente l’esecuzione, la serialità nella ripetizione dello stesso format televisivo e l’introduzione della prossima vittima designata, costretta ad assistere in diretta all’uccisione a freddo del compagno di prigionia inerme. Fra l’altro la presenza del testimone, nel rivolgere un disperato appello a ogni singolo riguardante, contribuiva a innalzare la temperatura del dramma umano e dello scontro politico. La paura si accompagnava alla rabbia per un ricatto estremo, tanto più insostenibile in quanto giocato sulla pelle di un uomo terrorizzato, tanto più inaccettabile perché esibito senza alcun rispetto per la dignità del prigioniero. La spettacolarizzazione e la dichiarata artificiosità dei set studiati dai militanti dell’IS (dal simbolismo dei colori delle divise all’umiliante set da circo realizzato per il rogo del pilota giordano), paradossalmente non indebolivano l’impatto di realtà della scena, che era invece rilanciato dalla efferatezza materiale e dal sadismo psicologico dell’evento traumatico. Questi esercitavano un’attrazione voyeuristica irresistibile per la diffusione della testimonianza video, sia in presentia che in absentia del testimone, dove l’impatto emotivo moltiplicato per ciascun utente si è tramutato in provocazione insostenibile, come hanno dimostrato le risposte politiche che ne sono derivate a caldo (l’avvio dei bombardamenti statunitensi nelle zone controllate dall’ISIS e l’esecuzione da parte del re di Giordania della terrorista della quale i terroristi chiedevano la liberazione).
Tali episodi rilanciano sotto nuova luce un aspetto centrale delle implicazioni etiche e politiche della fotografia, quello relativo alla fotografia traumatica. Già nel 1973 Sontag sosteneva che tali immagini provocano un effetto di paralisi a causa del senso di impotenza dello spettatore, dell’inadeguatezza rispetto alla possibilità di intervenire su qualcosa che è già passato. Questo era vero per le foto dei campi di sterminio di Bergen Belsen e di Dachau, da lei scovate in una libreria di Santa Monica nel 194516. Analogamente pessimista si mostrava Roland Barthes in Miti d’oggi, dove sosteneva che le foto-choc perdono il valore di scandalo una volta inserite in una dimensione linguistica veicolata dal fotografo-testimone che, in virtù della sua mediazione, lascia all’osservatore un semplice diritto di acquiescenza intellettuale17. Proprio perché rappresentano il già accaduto e non quello che sta accadendo o accadrà, esse ci spingono all’acquiescenza e all’accettazione, defraudandoci della nostra capacità di giudizio. È un punto che la costruzione del ricatto video dell’ISIS mette in luce molto bene: mentre il delitto già eseguito spinge alla vendetta postuma di qualcosa di non più cancellabile nel tempo, la minaccia in diretta, nel corpo e nello sguardo della vittima designata, incalza all’azione rispetto a possibili reiterazioni future, ovvero alla prosecuzione seriale della storia, nella quale il condannato sarà giustiziato di fronte a un altro testimone/vittima designata, che a sua volta potrà cambiare tragicamente parte in scena se l’Occidente non risponderà alle richieste dei fedeli islamici.
Su una linea analogamente pessimistica si colloca John Berger, secondo il quale la distanza tra la situazione di agonia fotografata e l’esperienza del riguardante determina una seconda violenza: «L’immagine fissata dalla macchina è doppiamente violenta e questa duplice violenza rende più netto il contrasto: il contrasto fra il momento fotografato e tutti gli altri momenti»18. Oltre alla distanza temporale, anche quella culturale o geografica possono avere un effetto anestetizzante, come nel caso del genocidio del Ruanda, colpevolmente liquidato dal mondo occidentale come guerra tra faide locali19. Di qui il subentrare allo shock iniziale di un senso di inadeguatezza morale, che potrà essere superato dalla rimozione o da un qualche gesto di penitenza o beneficenza. La foto perde così ogni valenza politica per trasformarsi in esempio della condizione umana in generale: «Un’accusa contro tutti e contro nessuno» 20.
Come porsi di fronte a immagini traumatiche di questo tipo, sempre più vicine «spazialmente» al nostro quotidiano e allo stesso tempo emotivamente da questo così irriducibilmente lontane? L’intrattabile realtà della fotografia si sposa oggi con una fruizione sempre più frettolosa, o «distratta», per usare le parole di Benjamin: l’utente tende a privilegiare la condivisione dell’immagine rispetto alla sua visione, il commento rispetto alla sua comprensione, e a sostituire l’esperienza diretta con la sua simulazione. Secondo David Levi Strauss la democrazia con l’era di internet non è aumentata ma diminuita perché il desiderio di partecipazione pubblica e democratica è stato rimpiazzato dal consumismo di merci e servizi: prima di ogni altra cosa, internet è principalmente uno strumento pubblicitario. Un maggiore accesso equivale a una maggiore informazione? «No», risponde l’autore, «abbiamo solo cittadini più docili, gente che passa la maggior parte del tempo a collezionare e catalogare immagini e informazioni, dedicando meno tempo all’analisi, al pensiero critico e alla socializzazione vera»21.
Tra gli aspetti paradossali delle potenzialità del Web 2.0 va tenuto presente infine che contraltare alla libertà del citizen journalism è la violazione della privacy individuale: si può denunciare un reato ma anche diffamare con un tasto del telefono, difendere una vittima di abusi e allo stesso tempo esporre alla gogna collettiva un innocente. L’ossessione voyeuristica indotta dalle nuove tecnologie si accompagna con l’esibizione narcisistica incontrollata della propria immagine, con l’effetto di modificare non solo le modalità di ricezione e apprensione delle informazioni, ma anche le relazioni sociali e affettive, con un impatto dirompente sulle giovani generazioni, i «figli di Andy Warhol»22. Una posizione più ottimista rispetto alle potenzialità della post-fotografia è offerta invece da Richtin, secondo il quale la connessione di testi e immagini, e la fluidità dei percorsi offerti dalla navigazione web consente agli utenti di costruire percorsi di approfondimento, superando la costitutiva laconicità della fotografia e offrendo nuovi strumenti di verifica delle informazioni e di crescita della consapevolezza critica23.
Per le ragioni fin qui accennate è necessaria oggi una riflessione condivisa e aggiornata, che tenga conto della complessità delle implicazioni e dei punti di vista sotto i quali considerare l’immagine fotografica e i suoi usi nell’era del Web 2.0. La presenza in questo volume di storici della fotografia e di giornalisti, di storici e di antropologi, di storici dell’arte e della letteratura, ha il senso di un dialogo interdisciplinare quanto mai necessario. Le considerazioni brevemente enunciate sono sullo sfondo dei contributi raccolti in questo volume24, che si orientano sull’emergenza di questioni etiche attorno a singoli temi, del presente o del passato, con diverse ottiche disciplinari. La dialettica tra rispetto della diversità e violenza dell’intrusione emerge negli interventi di Antonello Ricci sull’uso del dispositivo fotografico negli studi antropologici, mentre sulle questioni dell’identità di genere e della differenza sessuale vertono i contributi di Lucia Miodini, concentrata sugli stereotipi dell’immaginario bellico e di Federica Muzzarelli, che rilegge alcuni casi novecenteschi di censura del corpo delle donne. Implicazioni politiche e sociali dominano gli interventi di Adolfo Mignemi sulle immagini di reclusione e prigionia in contesti di guerra e di Raffaella Perna, che ricostruisce il decennio caldo degli anni Settanta in Italia. Prendono, invece, le mosse dallo specifico del linguaggio fotografico Antonello Frongia, che riflette sulla violenza implicita di uno degli accessori più invasivi del dispositivo fotografico, il flash, prendendo in esame il caso di Jacob Riis, e Michele Smargiassi, che ragiona sulla retorica del colore nel fotoreportage a partire dal dibattito suscitato dal Wpp (World Press Photo) del 2012. Una finestra sull’attualità è aperta anche da Andrea Cortellessa, che ricostruisce il pensiero fotografico sotteso all’epica di Giorgio Falco e la sua interazione con gli scatti di Sabrina Ragucci.
Note
1/ S. Sontag, Sulla fotografia. Realtà e immagine nella nostra società, Einaudi, Torino 1978 (ed. or. 1973).
2/ Emblematiche sono le riflessioni sulla rappresentabilità fotografica dell’orrore di Georges Didi-Hubermann sulle immagini dei campi di sterminio nazisti [Immagini malgrado tutto, Raffaello Cortina 2005, ed. or. 2003]. Sulle foto di Abu Grahib cfr. William J. T. Cloning Terror. La guerra delle immagini dall’11 settembre ad oggi, La Casa Usher 2012 (ed. or. 2011) e le considerazioni contenute in Picturing Atrocity. Photography in Crisis, a cura di G. Batchen, M. Gidley, N. K. Miller e J. Prosser, Reaktion Books Ltd, 2012, con bibliografia precedente.
3/ S. Sontag, Davanti al dolore degli altri, Mondadori, Milano 2003.
4/ Per una panoramica sugli aspetti teorici del dibattito sulla fotografia digitale in
relazione a quella analogica si rimanda a F. Parisi, Orientarsi nel mare post-mediale. La post-fotografia tra individuo e ambiente, in «Mantichora», n. 2, dicembre 2012 (ww2.unime.it/mantichora/wp-content/uploads/2012/12/Mantichora-2-pag-19-34-Parisi1.pdf).
5/ Tra i fautori più convinti di questa ipotesi in Italia è Claudio Marra (L’immagine infedele, Bruno Mondadori, Milano 2006; cfr. anche il recente Fotografia e arti visive, Carocci, Roma 2014)
6/ A. Gunthert, L’empreinte digitale. Théorie et pratique de la photographie à l’ère numérique, in Face au réel. Ethique de la forme dans l’art contemporain, a cura di G. Careri – B. Rüdiger, Archibooks 2008, pp. 85-95.
7/ M. Smargiassi, Un’autentica bugia. La fotografia, il vero, il falso, Contrasto, Milano 2009.
8/ P. Brook, F. Ritchin, Redefines Digital Photography, 09/02/2011 (www.wired. com/2011/09/fred-ritchin).
9/ F. Scianna, Etica e fotogiornalismo, Electa, Milano 2010.
10/ S. Hoffenberg, La fotografia cambia l’espressione visiva, rendendola democratica, in M. Heiferman, La fotografia cambia tutto. Come il mezzo fotografico trasforma la nostra vita, Contrasto 2013 (Aperture Foundation e The Smithsonian Institution, 2012), pp. 213-215.
11/ J. Prosser, Introduction, in Picturing Atrocity, cit., p. 13.
12/ Cfr. F. Richtin, La fotografia cambia il modo di riportare le notizie, in M. Heiferman, La fotografia cambia tutto, cit., pp. 220-221 e Bending the Frame: Photojournalism, Documentary, and the Citizen, Aperture Foundation, 2013.
13/ D. Levi Strauss, Clicca e sparisci. L’illusione della democrazia nell’epoca del digitale, in Politica della fotografia, Postmedia Books, Milano 2007 (Aperture Foundation, 2003), p. 140.
14/ J. Berger-J. Mohr, Another Way of Telling, Pantheon Books, New York 1982, p. 100.
15/ G. Fiorentino, L’occhio che uccide, Meltemi Editore, Roma 2004.
16/ S. Sontag, Sulla fotografia, cit., p. 18.
17/ R. Barthes, Fotografie-choc, in Miti d’oggi, Lerici 1966 (ed. or. 1957). In un saggio successivo, l’autore ammette la possibilità teorica di una immagine traumatica puramente denotativa e dunque al di fuori della connotazione fotografica che, in quanto attività istituzionale come ogni significazione ben strutturata, ha la funzione di integrare l’uomo e rassicurarlo [R. Barthes, Il messaggio fotografico, in L’ovvio e l’ottuso, Saggi critici III, Einaudi, Torino 1986 (ed. or. 1982), pp. 20-21].
18/ «Vedere la foto di agonia ci gela. Lo scatto isola quel momento, che è del tutto discontinuo rispetto al tempo normale. La macchina fotografica che isola un momento di agonia lo fa con la stessa violenza con cui l’esperienza di quel momento isola se stessa», J. Berger, Fotografie d’agonia, in Sul guardare, Paravia, Milano 2009, p. 44.
19/ D. Levi Strauss, Politica della fotografia, cit., p. 141.
20/ J. Berger, Fotografie d’agonia, cit., p. 45.
21/ D. Levi Strauss, Politica della fotografia, cit., p. 141.
22/ R. B. Woodward, Dare to be famous. Self-exploitation and the Camera, in Exposed: Voyeurism, Surveillance, and the Camera Since 1870, catalogo della mostra a cura di S. Phillips (Tate Modern, Londra – Museum of Modern Art, San Francisco – Walker Art Center, Minneapolis), 2010, p. 230.
23/ F. Richtin, Dopo la fotografia (2009), Einaudi, Torino 2012.
24/ Il volume nasce da un convegno svoltosi il 14 novembre 2014 all’Università di Roma La Sapienza (Facoltà di Lettere e Filosofia, Sala Odeion) e curato da chi scrive con Raffaella Perna.
[Immagine: Nilüfer Demir, Bambino siriano annegato, 3 settembre 2015].
“ 21 giugno 1989 – Sono trascorsi più di venticinque anni dalla per me sconvolgente mostra sui lager nazisti allestita nel cortile del Palazzo Pubblico. Fu come un nuovo inizio. Nel segno dell’orrore o, come ormai ho capito, dell’arte fotografica. “.
“È consigliabile, con una macchina fotografica, fissare quel lato della Galleria Colonna di Roma ora adattato a ricovero antiaereo. Gli anni non potranno che aumentare il valore documentario e il carattere magico di una fotografia nella quale si vedrà, su una lunga parete di sacchetti di sabbia foderata di cartone, staccarsi a grandi lettere questa proposizione: Il Re d’Inghilterra non paga. Disposti sotto la straordinaria frase il fotografo abbia cura di includere nella sua lastra quei bravi pensionati che pigliano il sole in attesa «dell’edizione col bollettino» e intanto dimostrano la verità delle teorie dei macchiaioli sulla pittura proiettando la loro ombra su un fondo bianco di calce. Sono ometti che occupano soltanto la parte inferiore della composizione, come un fregio. Alcuni appariranno concentrati in quell’atto – di questi tempi di incalcolabile portata – che si chiama: leggere il giornale. Gli iconologi futuri cercheranno poi di spiegare la visione.”
Ennio Flaiano, Metafisica quotidiana [1941] in L’occhiale indiscreto, Adelphi, Milano, 2019. p. 15
DOPO AUSCHWITZ. USCIRE DALLA CAVERNA…
Dopo i “venticinque secoli a la ‘mpresa” di Giasone (Dante, Par., XXXIII, 95), Curtius – ipnotizzato dalla magia di Goethe, che “scherzando” si autodefiniva “un Argonauta”, prende la sua maschera tratta fuori “dall’esatta descrizione storica dei mitologi”, e fa suo “il suo testamento. In ogni età c‘è una Argo, come aveva predetto Virgilio: «Ci saranno ancora un altro Tifi e un’altra Argo a trasportare eroi eletti»”.
Ma per quale destinazione?! Ancora e sempre per Versailles?!
Non è meglio uscire dal “letargo”, svegliarsi dal “sonno dogmatico”, e uscire “a rivedere le stelle”?! (DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica : http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5908).
Federico La Sala