cropped-45092_shutterstock_138714095-11.jpg
di Pier Vincenzo Mengaldo

Cella d’isolamento di Christopher Burney (ma il titolo originale, più pregnante, è Solitary Confinement) è stato pubblicato per la prima volta in Inghilterra nel 1951; tradotto presto per Adelphi è poi passato agli “Oscar” Mondadori; oggi è più o meno esaurito. Ragion di più per parlarne, perché si tratta certamente di un’opera di grande valore, testimonianza fra le maggiori di quell’esperienza della prigionia (politica) a cui le età di Stalin e di Hitler hanno dato lo sviluppo più ampio e crudele, ma che è ben lungi dall’essere scomparsa oggi, oscurando la nostra presunta idea di civiltà.

L’autore, e protagonista della vicenda, è (occorre bene usare il presente) un ufficiale inglese paracadutato nel 1942 in Francia per prendere contatti con la Resistenza locale; ma è subito catturato dai Tedeschi e confinato per ben 18 mesi, in isolamento, nella prigione parigina di Fresnes, da cui esce solo tre volte per interrogatori da parte della Gestapo — uno di questi alquanto violento. Poi viene trasferito a Buchenwald, “affollato, rumoroso e disgustoso opposto” di Fresnes come lui stesso scrive. Ma, nonostante la richiesta in questo senso del suo editore, Burney non ha voluto aggiungere l’esperienza di Buchenwald, così diversa, a quella di Fresnes; e del resto Cella d’isolamento manca totalmente anche di accenni a ciò che ha preceduto l’imprigionamento dell’autore. Entrambi i punti, convergenti, sono di grande interesse: non si tratta di un’autobiografia esaustiva ma di una struttura centrata nel modo più compatto possibile su un solo segmento di quella autobiografia, per sua natura unitario e aperto altrettanto alla riflessione e all’interrogazione che al racconto.

Cella d’isolamento è per tanti aspetti un unicum, ma naturalmente condivide più di un punto con altri resoconti di prigionia dell’epoca, ivi compresi quelli dai campi tedeschi di lavoro e annientamento. Così in particolare la riduzione della vita a ‘tempo’, in rapporto all’estrema riduzione dello spazio: “la vita non è riempita che dal tempo…” (Gramsci dalla prigione di Turi: “il tempo mi appare come una cosa corpulenta, da quando lo spazio non esiste più per me”); le strategie per contenere la fame e far durare il cibo, di cui tanti ci hanno parlato; l’impossibilità di “restituire” i colpi e relativa vergogna, che ci richiama subito un luogo di Intellettuale a Auschwitz di Jean Améry (Hans Mayer) e le relative riflessioni di Primo Levi ne I sommersi e i salvati; infine l’uso da parte tedesca – per i prigionieri — del verbo fressen, cioè il mangiare degli animali o il trangugiare umano, in luogo di essen (esempi fra l’altro in Levi e in Tu passerai per il camino di Vincenzo Pappalettera).

E d’altra parte quando si legge Cella d’isolamento viene da ricordare più di una volta il grande film di Bresson, : per affinità non solo di situazione ma di stoicismo e capacità di sopravvivere, costruita via via nel dettaglio.

Ma come è costruito il libro di Burney? Ci aiuta molto lo stesso autore nelle due Prefazioni alla sua opera, dove riflette sul genere “autobiografia” e più precisamente “di natura episodica,o aneddotica” e sui generi “diario” oppure “libro di memorie”, dichiarando che il suo libro “non appartiene né alla prima né alla seconda categoria”. Di fatto Cella d’isolamento sembra avere in sostanza questo carattere: un racconto autobiografico concentrato su uno spezzone organico della propria esperienza di giovane combattente, ma in cui la narrazione per così dire si ferma spesso per dar luogo a tutta una serie di riflessioni, sentenze, aforismi: all’autore preme inseguire il senso complessivo e di quella esperienza e della vita in generale. E bisogna dire che le sentenze e gli aforismi di Burney sono molto spesso di prim’ordine. Ne citerò un paio: “’Morte’ è una parola che non offre un bersaglio chiaro agli occhi della mente”, “se…Dio era l’unico assoluto, ed era il bene per definizione, non poteva esserci una cosa come il male: il male poteva essere al massimo un’espressione che significava ‘meno che bene’”.

Si può forse dire che i temi fondamentali del libro sono due (e di entrambi l’intelligentissimo autore è del tutto cosciente).
Il primo è la sua natura di insulare, o inglese, sbalzato in altro ambiente, il che può far venire in mente, ad esempio, la condizione del protagonista di un altro grande libro, Addio a Berlino di Isherwood; scrive Burney: “il protagonista era un ‘insulare’ anglosassone che in seguito tornò all’insulare modo di vivere anglosassone”, e che poteva anche sentirsi “inautentico” nel diverso ambiente francese (ciò che non viene mai messo in evidenza ma “è implicito in ogni sua [del libro] pagina”); oppure: “non riuscivo a superare i limiti postimi dalla tradizione in cui ero vissuto”. Bene, nel modo con cui l’ufficiale affronta il suo difficilissimo destino possiamo facilmente scorgere i segni della sua inglesità, Understatement, felpata ironia (“quell’ironia che vedevo in tutte le cose”), effetti di sottovoce ecc.; ma è quella stessa ironia che egli sa volgere anche contro la sua patria, chiamata a un certo punto plasticamente Puritania, che colui che scrive lascerebbe volentieri, “senza…un solo sguardo di rimpianto”.

L’inglesità di Burney si coglie perfettamente dalla sua cultura. Certo egli si rivela come un uomo di ampie letture, francesi (Pascal, Rabelais) ecc. (anche Guerra e pace), ma è proprio la sua cultura più esplicita che lo dichiara inglese: Antico e Nuovo Testamento, Shakespeare, che subito fa mostra di sé nello splendido esergo dal Riccardo II, il dottor Johnson ecc. ecc., e vorrei suggerire che la formazione insulare-anglosassone di Burney si manifesta ancor più da una citazione di Gilbert e Sullivan, gli autori di commedie musicali che fanno parte integrante della cultura fondamentale dei parlanti inglese, e solo di quella. Ma torniamo alla Bibbia, che Burney non si limita a citare come metafora del suo stato ecc. (ricorderò solo questo magnifico passo: “…un versetto dei Salmi. ‘Poiché tutti i nostri giorni sono trascorsi nella tua collera; i nostri anni sono passati come una storia che ci è stata raccontata’. Mi parve che la seconda di queste due frasi fosse la migliore descrizione che sia mai stata fatta della vita di un detenuto”); ma che discute a fondo con spirito laico e materialista, e se occorre con ironia: eccolo che accoglie da qualcuno che non viene citato questa tesi: “’Il Nuovo Testamento è la migliore opera di propaganda che si conosca, perché dice alla gente esattamente quello che vuol sentirsi dire”; o ancora: “gli Ebrei, nella loro sventura, pretesero di avere un padre di tipo vittoriano, al quale attribuirono le poche cose buone che incontrarono sul loro cammino e, assai più giustificatamente, le loro eterne tribolazioni”; “l’intero Vangelo diventava sempre più un’impalcatura di paradossi che si controbilanciavano esattamente, in modo che a ciascuna affermazione se ne poteva opporre una contraria: e a nessuna era data un’importanza decisiva”, e così via. Insomma la lotta di Burney per sopravvivere da uomo in condizioni così estreme è anche lotta contro le affermazioni costrittive dei Libri Sacri, in nome di un’esegesi razionale e di un sano empirismo all’inglese (“l’Inferno ha qualcosa di persuasivo. Il Paradiso è una nozione vaga e rococò”).

L’altro e più grande tema è ovviamente l’adattamento – per diciotto mesi! — alla vita (o non-vita) della cella d’isolamento. Certo emergono dal libro anche episodi e personaggi che non appartengono all’io. Terrificante per esempio la notizia che Burney dà di un giovane resistente francese che la Gestapo spedisce a casa dalla madre – tanto non serve più – senza occhi, senza denti, senza lingua né lineamenti (e non aveva parlato!).

Ma ovviamente Cella d’isolamento è soprattutto un libro autobiografico, che, per dirla con le parole al solito moderate ed esatte dell’autore, riferisce di “un esercizio piuttosto che [di] un’elevazione” — e quanto agli esercizi pratici (la cui routine il prigioniero stabilisce fin da subito per poi seguirla sempre scrupolosamente) si va dal misurare sistematicamente il “cieco nido d’aquila”, cioè la cella, sempre allo stesso modo coi propri passi, al mangiare con lenta parsimonia, agli esercizi di ginnastica e a quelli di memoria…).

Ma il libro è anche, e forse soprattutto, secondo un’altra definizione dell’autore, “un libro sulla solitudine”. E in effetti “solitudine” e “isolamento” sono tra le parole che s’incontrano più spesso. Ma quello che va notato è che la nozione di ‘solitudine’ da una parte allude a una condizione oggettiva e subìta, ma dall’altra – e direi soprattutto – a qualcosa di cercato e ottenuto per la propria stessa ’salute’ personale. Si può dire anche che Burney reagisce alla solitudine coatta coltivando la propria solitudine personale, o trasformando quella in questa. Culmine di questo atteggiamento è l’episodio, altrettanto inatteso quanto significativo, in cui egli decide di non rispondere più ai contatti attraverso il muro di un vicino di cella (altra citazione opportuna: “…chiudersi nella propria intimità”).

Bisogna però guardarsi dall’interpretare questo atteggiamento di Burney secondo lo schema metafisico, caro a varie correnti di pensiero moderne, secondo cui il vero sogno del prigioniero sarebbe la prigionia stessa. Come s’è detto più volte, Burney è un inglese laico e materialista, sempre devoto al concreto, la cui vicenda conclusiva non va intesa come conquista di una solitudine assoluta, ma di una solitudine che fa tutt’uno con un percorso vitale di resistenza. Secondo che scrive lui stesso: “Mi rendevo conto che tutti quei mesi di isolamento, anche se a volte non avevo potuto evitarne il tormento, erano stati in un certo senso un esercizio di libertà”; o anche: “La solitudine, coi suoi misteri e le sue avventure, era passata sopra di me come un’onda…”.

[Immagine: Cella (gm).]

1 thought on “Cella d’isolamento di Christopher Burney

  1. Pingback: Brandelli | *lbc*

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *