di Mauro Piras
[Giovedì scorso sono stato all’apertura dell’anno Cidi (Centro di Iniziativa Democratica degli Insegnanti) a Torino. I due relatori erano Giuseppe Bagni, presidente nazionale del Cidi, e Domenico Chiesa che, come si dice, non ha bisogno di presentazioni. Un incontro importante, per le personalità, e per il momento, segnato dall’approvazione della riforma della scuola (Legge 107/2015), e dalle divisioni che ha scavato tra i docenti. Ne sono nate queste riflessioni]
Care amiche, cari amici del Cidi,
quando sono venuto all’incontro giovedì scorso, sapevo che le critiche alla legge di riforma della scuola sarebbero state molto dure, ma sapevo anche ci conosciamo bene, che i legami sono di lunga data e fondati sulla stima reciproca, quindi che l’incontro sarebbe stato fecondo. E lo è stato. Certo, mi ha colpito che l’opposizione alla Legge 107, da parte dei relatori, fosse a tutto tondo, sulla base del presupposto che essa sarebbe sostenuta da un unico e fortissimo intento ideologico neoliberista. A me questa legge sembra molto più un bricolage improvvisato, con alcuni elementi di ideologia meritocratica abborracciata, e molti pezzi di altre cose messe lì disordinatamente, alcune utili altre dannose. Ma Bagni e Chiesa hanno buoni argomenti. Per esempio sui pericoli della competitività e di un eccessivo individualismo, soprattutto nella scuola primaria. Quindi fin qui tutto bene. Anzi ho, come sempre, imparato qualcosa di fondamentale. Soprattutto quando lo sguardo si è spostato sulla didattica. Bagni ci ha ricordato che alla fine apprende solo chi vuole apprendere, cioè chi ama quello che studia, e che un insegnante deve mirare a questo, a far amare quello che insegna, non a svolgere i programmi, mettere i voti, riempire la testa dello studente di nozioni ecc. Nella crisi che attraversa oggi la scuola superiore, questa esortazione, per quanto ovvia, dovremmo ripetercela ogni giorno. E Domenico Chiesa ci ha ricordato un’altra ovvietà sempre sul punto di essere dimenticata: il voto è lo strumento peggiore per incentivare all’apprendimento, perché il voto inchioda a un momento e a una prestazione, stabilisce gerarchie, genera frustrazione.
La mente segue queste riflessioni, e si dice che oltre la politica bisogna ritrovare il terreno di intesa su questi problemi. Ma resta sempre qualcosa che stona, in quello che sento, qualcosa che mi mette a disagio, mi lavora dentro. Che cosa? È una impostazione generale, ideologica, direi, del discorso dei relatori, e condivisa da quasi tutto l’uditorio. Spesso gli amici “più di sinistra” (di me) mi hanno criticato, in questi mesi, per non aver voluto guardare il contenuto ideologico della legge, cioè il progetto generale che ci sta dietro, una certa concezione delle persone, dei rapporti umani nel mercato. Accetto questa critica, forse il mio sguardo è stato troppo miope, troppo attento ai dettagli. Ci tornerò. Ma intanto, accettando questo modo di leggere le cose, dico alcune cose sull’“ideologia” che sta dietro i discorsi ascoltati al Cidi. Uso però il termine “ideologia” in senso neutro, banale, come visione e progetto generale. Non quindi in senso negativo.
Quello che vedo è questo: una concezione da “avanguardia rivoluzionaria”, che conosce il bene in anticipo sulle masse, e si irrita se la politica segue invece gli umori della maggioranza, dell’opinione pubblica. Bagni e Chiesa hanno detto che la legge di riforma della scuola è demagogica, perché risponde a certe richieste che vengono dalla società, la quale a sua volta ha una visione conservatrice e distorta della scuola. La società vorrebbe più merito, più competizione, un maggiore ruolo delle famiglie, la scuola come servizio ai clienti, e la legge offre queste cose. Alla ricerca del consenso elettorale sul breve termine, il governo si muove con una strategia di marketing: risponde alle esigenze più sentite, offre la merce che si vende meglio. C’è molto di vero in questo, dato lo stato delle nostre democrazie; ed è vero che il populismo di Renzi lo spinge a cercare un rapporto diretto con certi umori dell’opinione pubblica, scavalcando i corpi intermedi (i partiti, i sindacati) e le istituzioni (il parlamento, la scuola). C’è molto di vero, ma respingere senza mediazioni “gli umori delle masse” non è la soluzione giusta.
La democrazia, da sempre, vive in una tensione inevitabile: da un lato, la maggioranza espressa dai cittadini è la fonte di legittimazione delle deliberazioni pubbliche; dall’altro, questa maggioranza può essere manipolata, ricercata e ottenuta con strumenti non democratici (propaganda, marketing ecc.). I cittadini attivi, animati da spirito critico, spesso diffidano degli umori delle maggioranze, per la seconda ragione. Allo stesso tempo, si richiamano alla democrazia, quindi non possono negare il primo principio. Quanto è espresso dall’opinione pubblica deve essere oggetto di critica e dibattito pubblico perché rischia di generare la dittatura della maggioranza. Tuttavia, questo pericolo non deve mai far dimenticare il principio di legittimazione iniziale. Quindi, il sospetto nei confronti delle “maggioranze” non può essere pregiudiziale. Purtroppo, invece, ho avvertito negli interventi al Cidi una intonazione che tende ad assumere questo sospetto pregiudiziale. Cerco di spiegarmi meglio.
Se si dice che la legge è demagogica perché risponde alle richieste della società, senza analizzare che cosa effettivamente la società vuole dalla scuola, questa critica è frutto di un sospetto pregiudiziale. In piccolo, qualcosa del genere si avverte nei rapporti dei docenti con le famiglie: quando queste criticano l’operato dei docenti, in prima battuta la reazione di questi ultimi è di diffidenza. A priori, le famiglie sono sentite come ostili; ma soprattutto, si presuppone che le loro critiche nascono da una prospettiva distorta sulla scuola. Invece, le critiche andrebbero prese per quello che sono, e accettate se giuste. Analizzandole una per una. Lo stesso avviene nei rapporti generali tra la scuola e la società. Chi lavora nella scuola tende a diffidare pregiudizialmente di chi ne sta fuori; e quindi tende a pensare che le richieste della società siano necessariamente distorte, non ricevibili. Cerchiamo invece di vederne alcune.
In sostanza, girano tutte intorno alla valutazione dei docenti. Le famiglie sono stanche di alcune cose. Prima di tutto, del fatto che la qualità dell’insegnamento sia affidata al caso: quando si mandano i figli a scuola si dice sempre “è una questione di fortuna”, perché non si può sapere se gli insegnanti saranno buoni o meno buoni. Quindi ci si aspetta qualcosa che permetta di migliorare e rendere più affidabile la qualità della didattica. In questo senso, per esempio, ci si può aspettare che il lavoro dei docenti sia valutato, anche da parte del loro superiore diretto, cioè il dirigente scolastico, che è la persona più vicina a quel lavoro. Inoltre, le famiglie vorrebbero che gli insegnanti del tutto inadempienti fossero sanzionabili, in qualche modo, per ridurre i danni che possono fare agli alunni. Ancora, non capiscono perché la retribuzione dei docenti debba essere uguale per tutti, anche quando appare evidente che ci sono docenti che si impegnano a fondo, e altri che si limitano a ripetere schemi sempre uguali, o addirittura tirano via. Infine, vorrebbero spesso, per la scuola secondaria, una didattica “meno frontale”: una didattica cioè più coinvolgente, basata su uno stile di insegnamento più interattivo e più rispettoso dell’autonomia dei ragazzi. E vorrebbero soprattutto, per tutti i docenti, una maggiore attenzione alla “relazione didattica”, cioè alla qualità del rapporto degli insegnanti con gli alunni.
Non si possono liquidare queste richieste come frutto di una visione conservatrice e distorta della scuola. Bisogna riconoscere che questi problemi ci sono, e proporre soluzioni serie. Bisogna accettare che la valutazione dei docenti va fatta, e impostata in modo che i docenti rendano conto non solo ai dirigenti scolastici, ma anche alle famiglie e agli studenti. Invece proprio questi contenuti della Legge 107, cioè l’introduzione di genitori e studenti nel Comitato di valutazione, e il potere assegnato ai dirigenti scolastici di valutare i docenti, sono stati attaccati come puramente demagogici. Sono i contenuti che vengono considerati frutto di una ideologia meritocratica e antiegualitaria, generata nel corpo sociale dalla vittoria definitiva del “neoliberismo”. Il problema però è che evocare il neoliberismo come causa di ogni conflitto politico o sociale non ci aiuta molto; rischia di diventare la notte in cui tutte le vacche sono nere, perché è semplicemente il tutto dell’ordine sociale che spiega qualsiasi azione sociale. E, più importante, in questo modo si rifiutano le opinioni della maggioranza, perché le si considerano “ideologiche” in senso negativo, marxiano: cioè falsa coscienza. Ed ecco quindi che emerge l’atteggiamento di cui ho parlato: l’“avanguardia politica” rifiuta di prendere sul serio certe esigenze, perché non sarebbero frutto di una coscienza politicamente educata. Insomma, la maggioranza è manipolata, e chi segue la maggioranza è demagogico.
A me qui non interessa il merito della legge. La si può respingere, anche in blocco, mostrando che in ogni punto è completamente fuori strada. E anche mostrando, se si vuole, che è animata da uno spirito individualista e competitivo. Ma non si può sostenere che le richieste provenienti dalla società siano solo questo, rifiutandosi di prenderle sul serio. La democrazia impone di prendere sul serio l’opinione di tutti, altrimenti il principio di eguaglianza viene violato, dalla presunta superiorità degli esperti, delle persone competenti, delle “persone veramente democratiche”, delle “persone veramente di sinistra” ecc. Se la maggioranza è fuori strada, perché non segue il bene additatole dalla minoranza illuminata, questa si chiude in una monotona e triste condanna dei tempi presenti, che rischia di mancare spesso il bersaglio nell’analisi sociale ma, soprattutto, di diventare del tutto impolitica.
Con affetto,
mp
(Torino, 7 novembre 2015)
[Immagine: Aula scolastica (gm)].
Grazie dell’articolo, Mauro. Secondo te da dove ha origine questa mentalità presenti in molti che si reputano “più a sinistra di te” che ritiene che per unire e superare le visioni imperfette e parziali di ciascuno degli interessi particolari presenti nella società sia sbagliato compiere un confronto dal basso tra i cittadini e i membri della società e vedere a quali risultati arriva e che invece ritiene sia giusto che pochi autoproclamatisi “illuminati” possano dall’alto autolegittimarsi come portatori delle uniche e migliori soluzioni possibili ai bisogni dei cittadini, in modo che nessuno abbia il diritto di valutarli e giudicarli?
Secondo te chi si allontana da questa visione e che dà più voce al risultato del confronto dal basso tra i vari componenti della società (che non coincide con la pura “volontà della maggioranza”) davvero non può ritenersi più di “vera sinistra”? Forse in effetti la mia impressione è che in Italia manca una vera “cultura del confronto” in quanto chi è di idee diverse spesso viene liquidato come “ideologico” e inoltre si danno scarsissimo valore all’argomentare le proprie idee e a supportarle con dati dell’esperienza documentati e condivisi. Inoltre mi piacerebbe sapere da te come in altri paesi europei funzionano le discussioni sulle leggi delle scuole e se per te non ci sono state derive “neoliberiste”, parola che effettivamente sembra che usino molti della “vera sinistra” per spiegare in modo semplice troppe cose in questa società complessa.
Forse varrebbe la pena di rivalutare l’ideologia, da cui in fondo nessuno è escluso, nel bene e nel male: né le “avanguardie rivoluzionarie”, né i fautori del liberismo (neo o vetero), che spesso sono i sostenitori di una concezione negativa del termine. Se ideologia è un sistema di idee, una visione del mondo ritenuta, legittimamente, migliore di altre, ne deriveranno scelte politiche ad essa coerenti. Nulla di male né di diabolico (diabolico è vederci disegni perversi: trattasi invece semplicemente di lotta politica). Quando oggetto delle scelte politiche sono aspetti che investono in modo sostanziale la società, ossia destinate a disegnare la sua identità futura, allora mi sembra più che lecito interrogarsi su quale sia la visione del mondo che le ispira. La scuola è uno di questi aspetti, forse il principale.
Ma non mi pare proprio che Mauro neghi legittimità a questo interrogativo, tutt’altro. Pone invece alcune questioni per così dire pratiche e concrete, richieste apparentemente terra terra che però sono, a mio modo di vedere, del tutto coerenti con una visione del mondo “di sinistra” e che io riassumerei così: come faccio ad evitare che sia un principio di casualità a determinare che uno studente abbia buoni o cattivi professori? (ne segue tutto ciò che lui scrive: come faccio a motivare i professori a essere migliori, a valutarli ecc. ecc.). Perché se è solo la fortuna che determina la formazione dei cittadini di domani, allora posso essere certo che la conseguenza sarà che, al di là dell’ideologia che ispira qualsiasi riforma, chi ha i soldi o le conoscenze per sottrarre i propri figli alla legge del caso potrà permettersi di dare loro una buona formazione, gli altri no. Ossia si creerà, si sta già creando, una situazione di diseguaglianza tra chi può permettersi buoni studi e chi può solo sperare che la fortuna gli consenta di averli. Se la riforma di Renzi su questo punto dia risposte soddisfacenti, questo non so dire, ma concordo sul fatto che il problema va posto e risolto, anche in fretta. È solo uno dei problemi, ovviamente. Altri e altrettanto importanti riguardano didattica, programmi ecc., ma da osservatore esterno mi è sembrato fosse quello su cui maggiormente si sono levate le critiche
In sostanza, Mauro ha ragione a cercare di distinguere tra la doverosa analisi ed eventuale critica e possibile cambiamento degli aspetti ideologici della riforma, e la necessità di trovare un modo per valutare gli insegnanti. Perché, a dirla tutta, offrire a tutti la migliore scuola possibile (e i migliori insegnanti possibili) è una politica che si ispira ad una precisa ideologia, quella egualitaria: uguali condizioni di partenza per tutti, che deve conciliarsi con la valorizzazione del merito, degli insegnanti come degli studenti
Alcune osservazioni scollegate. Non sono in grado di articolare un commento organico e d’altra parte forse farlo richiederebbe di doppiare il post in termini di lunghezza, e non è il caso.
Proprio perché la scuola è un luogo nel quale precipitano le contraddizioni sociali a volte le lotte che l’hanno per teatro hanno quel tipico carattere di lotta ideologica fra fronti contrapposti. Intendo dire che io in classe, in un contesto del quale ho il diretto controllo, riesco ad essere pragmatico. Mi riesce più difficile nella macrodimensione del “sistema scolastico italiano” dove sono in campo forze che trascendono le mie, non tutte buone.
Mi si perdonerà la metafora bellica: se mi chiamassero a combattere per l’Italia nelle trincee della Prima guerra mondiale dovrei decidere se combattere o disertare. Se accetto di stare in trincea posso impegnarmi a non essere barbaro col mio commilitone, ma questo umano pragmatismo poco intacca lo scontro di forze in campo al livello degli stati maggiori e dei tavoli politici. E lì devo difendere il mio campo, se ritengo che il nemico sia pericoloso.
Dice Moroni che avere una scuola di qualità è un tema cha ha che fare con l’eguaglianza. Capisco cosa vuole dire, ma mi domando se davvero in Italia, dove è stato il sistema di istruzione pubblico a consentire, in passato, mobilità sociale e acculturazione, sia questo il punto. In altri sistemi scolastici il pubblico è allo sfascio e il privato è il rifugio di chi se lo può permettere. In Italia non è stato così e in certa misura non è ancora così. Nel sistema pubblico la fortuna o la sfiga di avere un insegnante bravo o cattivo è una possibilità egualitaristicamente concessa a tutti, ricchi e poveri, studiosi e non studiosi, e il privato è minoritario e non è quell’isola di perfezione che le scuole private provano a promuovere per farsi pubblicità (ci sono buone scuole private, del livello delle buone pubbliche, e pessime private, del livello delle pessime pubbliche).
Per cui non capisco cosa c’entri la valutazione dei docenti con l’egualitarismo. Soprattutto cosa c’entri coi comitati di valutazione della Buona scuola o anche con esperimenti di valutazione meno abborracciati di questo.
Il problema sta nel manico: nel reclutamento dei docenti pasticciato di questi anni, nel fatto, probabilmente anche, che l’insegnante è un mestiere per vocati al martirio e idealisti, oppure è un ripiego. Se qualcuno ha in mente una riforma che renda appetibile per i migliori diplomati fare Lettere e poi gli insegnanti, credetemi che potremmo farci meno seghe mentali su come valutare gli insegnanti in servizio. Diversamente il sistema di valutazione diventa una ridicola pantomima che pretende di discernere il merito là dove si fatica a sopravvivere a una scuola dove ogni giorno ti scontri con problemi di apprendimento, specifici e non, demotivazione, pessima reputazione sociale, incalzare di un mondo intorno che è pronto solo a farti ricorso, esperti veri e improvvisati che sanno tutti benissimo meglio di te cosa dovresti saper fare per essere un buon insegnante, mille cose su cui aggiornarsi, ecc…
Problemi di diseguaglianza nella nostra scuola ci sono, ma dipendono da stratificate ragioni sociali: la differenza socio-economico-culturale tra nord e sud, una didattica (cioè una formazione culturale dei docenti) che probabilmente va bene per i licei ma non per i professionali, non dal fatto che quella scuola e non quell’altra ha un cattivo insegnante.
Infine, caro Mauro, non c’è alcuna “avanguardia politica” che si ritenga la depositaria della verità a costo però della rimozione della realtà circostante. Ci sono dei tic, è vero, dei riflessi pavloviani, ma ciò che conta è ciò che sta sotto quei tic. Nel senso che conosco colleghi pieni di tic “avanguardistici” che però sono insegnanti non male. Anche questo non mi pare il punto, in fondo.
Troppo benaltrista?
Un saluto a tutti
Caro Mauro,
grazie per il continuo sforzo di confrontarti, anche a costo di sembrare, a molti amici, un Don Chisciotte convinto che la Dulcinea del momento sia il PD.
Il tuo scritto mi sembra in parte contraddittorio. Affermi, come il buon Goethe, che “si può imparare solo ciò che si ama” e poi appoggi i meccanismi della riforma volti a valutare la produttività effettiva dei docenti.
Insomma, da una lato ribadisci, giustamente, il ruolo illuminante e creativamente propositivo dei docenti e poi plaudi alla tendenza governativa di inseguire gli umori casuali delle masse disinformate che però al momento giusto votano. Dove finisce l’intellettuale onesto che conosco e dove comincia il neopolitico in fieri, attento alla doxa manipolabile?
Un caro saluto
Giorgio
Ma poi…chi è un buon insegnante? Quello che, secondo un commento precedente, si può permettere una scuola a pagamento di lusso che imbottirà il suo rampollo di informazioni e nozioni, o una scuola meno uniforme, nella quale gli adolescenti saranno confrontati, come già avviene, con insegnanti di vario tipo, taluni validi solo umanamente, altri solo tecnicamente, alcuni umanamente, culturalmente e professionalmente? Cosa forma di più in vista dell’inserimento adulto nella società? Entrare in contatto dialettico con le contraddizioni della realtà o rimanere isolati in un ambiente ovattato, volto subdolamente all’addomesticamento delle future schiere di operai e impiegati? La formazione specifica la si riceverà in ogni caso all’università. Vale la pena di stravolgere la scuola, al fine di uniformarla alla futura azienda in cui una parte dei suoi allievi dovrà tirare a campare fino alla pensione?
Ringrazio Giorgio perché mi ha fatto venire in mente una cosa che mi era rimasta nella penna (cioè nelle dita digitanti).
Io ancora non sono riuscito a trovare una coerenza nei nostri discorsi sulla scuola imbottiti di puerocentrismo (e poverini i ragazzi che devono essere valutati, sai come vanno sotto stress) e la richiesta di valutazione e di controllo che si richiede per i docenti. So che mi si risponderà che i ragazzi sono in formazione e hanno diritto alla formazione migliore e che invece i docenti non sono soggetti in formazione e hanno il dovere di essere all’altezza. Perciò rispondo che:
se la guardate un po’ più da lontano è la formula del nostro tempo: nella bambagia fino a che hai diritti da minorenne e poi nello spietato mondo della competizione fra adulti consenzienti e reponsabili.
Una bella schizofrenia questo capitalismo dal volto umano.
Daniele ha messo, come spesso accade, il dito nella piaga…
“le famiglie vorrebbero che gli insegnanti del tutto inadempienti fossero sanzionabili, in qualche modo,”
Sacrosanto. Il problema c’è, è reale e sotto gli occhi di tutti; nuoce agli studenti e alla reputazione della categoria. Ma non mi risulta ci sia nulla in proposito nella 107…
Non ho capito.
Secondo Piras, quindi, valutare gli insegnanti serve a rendere tutti gli insegnanti brillanti ed efficienti?
A me pare, ma sarà che mi sfugge qualcosa, che se si valuta, si creano forme di classificazione dell’esistente, cioè finalmente sapremo quali sono quelli buoni e quali quelli cattivi.
In fondo poi, è ciò che Piras ricerca, quando dice che bisogna finirla con la casualità, che rende il trovare un buon insegnante come un colpo di fortuna.
Eppure, caro Piras, per quanto possa apparire sgradevole questo elemento di casualità, c’è qualcosa di peggio che potrebbe succedere, e sicuramente succederà andando avanti con la valutazione, che ogni specifico istituto avrà un suo livello qualitativo esattamente definito (non dico che sia obiettivo, dico che lo sarà rispetto a un determinato criterio, per quanto arbitrario esso sia), e che saranno appannaggio delle classi più alte.
Quella casualità è seppure in modi discutibili, egualitaria (il caso è per definizione egualitario, almeno sul versante della possibilità d’accesso), lo stilare una classifica è inevitabilmente classista come dovrebbe essere evidente a tutti.
Cerco di portare il mio contributo alla discussione.
Gli insegnanti assumono tendenzialmente una posizione anti-sistema, nel nostro Paese. E’ come se sviluppassero il tema (un po’ vetusto, ai miei occhi) che per sentirsi ‘intellettuali’ bisogna essere ‘antagonisti’. Se poi non è l’antagonismo la marca del loro vigore intellettuale, lo è la percezione di sé come rappresentanti del dolore-del-mondo (mi perdoni l’amico Leonardo Ceppa a cui rubo questa bella espressione). Della categoria, a cui appartengo, conosco poi bene i vezzi narcisistici, peraltro connaturati ad un ruolo che è anche teatrale, nella quotidiana gestione delle classi. Mi pare che gli insegnanti italiani abbiano difficoltà a considerare la propria professione come una manovalanza tenace fatta di protocolli e pratiche, di tecniche, insomma. Questo accade molto vistosamente nel segmento della scuola superiore, dove l’attenzione verso i bisogni dello studente cala a favore della centralità delle discipline, incarnate (letteralmente) dal docente.
La legge 107 non ha assolutamente la forza di scalfire significativamente questo quadro. Ha però rivelato la nudità del re, e cioè che molti docenti, in Italia, non intendono assumere un ruolo più tecnicamente definito e definibile, invocando la mutevolezza del reale, l’inafferrabilità dello spirito e simili categorie per non assumersi la responsabilità di contribuire ad un meccanismo di rilancio, tecnico, innanzitutto, della scuola pubblica.
E però chi sostiene che la scuola pubblica gode di ottima salute in Italia ha il prosciutto sugli occhi, mi spiace dirlo. Il livello culturale delle masse, ora ben visibili nella Rete e nei social network, è paurosamente basso e arretrato. Anche le élites culturali rivelano una fisionomia particolare, tendenzialmente vetero-umanista, gentiliana per ascendenza, non consonante con i tempi. E non si può liquidare con un’alzata di spalle in nome della creatività o della libertà d’insegnamento il dato preoccupante di una generazione che non ha facile accesso al mondo del lavoro anche perché in possesso di competenze non coerenti con le professionalità richieste; se aggiungiamo i dati relativi alla dispersione scolastica, davvero non c’è di che stare tranquilli.
Naturalmente la scuola è stata mal governata, e per decenni. Ma mi preme qui sottolineare un aspetto della cattiva gestione che non sempre mi sembra presente nel dibattito: il mancato reclutamento degli insegnanti attraverso concorsi a cattedre regolarmente banditi. Nel regime delle graduatorie annose, nell’utilizzo dei precari, nella valorizzazione del solo criterio di anzianità per la progressione della carriera, il corpo docente ha perso tono, diciamo così, e la sua qualità complessiva si è abbassata perché la professionalità docente non è stata regolata, in entrata, da una prova d’esame che tenesse conto, nelle sue richieste, anche dei mutamenti culturali e sociali circostanti. Una inerte routine si è impossessata della maggior parte delle comunità scolastiche, mentre i nostri bambini, i nostri ragazzi, le nostre famiglie mutavano alla velocità della luce. Ora, l’idea della valutazione in corso di carriera desta scandalo. Se però guardiamo a questo dato di realtà, ossia che in cattedra si trovano docenti provenienti, di anno in anno, da liste d’attesa, ora per di più svuotate ope legis fino all’ultimo naufrago (mi si perdoni l’espressione), ci dovremmo scandalizzare di meno. Personalmente non riesco a farmi contagiare dalla passione per il variopinto mondo degli insegnanti inadeguati, che facilmente sono diventati e restano, nell’immaginario collettivo, macchiette patetiche.
Il comitato di valutazione così come concepito nella legge 107 è uno strumento molto blando, a mio avviso, e molto di facciata, perché includendo la componente genitoriale e quella degli studenti delle superiori strizza l’occhio alle masse, all’utenza (brutta parola), ma non fornisce se non indicazioni assai vaghe sugli obiettivi anche formativi della valutazione dei docenti. Però la novità induce a riflettere e a confrontarsi, ed è già meglio questo che la strenua inertia degli ultimi decenni.
Cari amici,
il mio intervento non era contro l’ideologia ma contro il suo opposto, cioè la critica dell’ideologia. Ho usato il termine ideologia in due sensi diversi: come progetto, sistema di idee ecc., quindi in senso neutro, come una “rete” in cui probabilmente siamo tutti e facciamo delle scelte di campo (come dice Andrea); e come “falsa coscienza”, nel senso propriamente marxiano, che dà all’ideologia un senso negativo, perché la falsa coscienza, per quanto socialmente necessaria, è una rappresentazione distorta dei rapporti di dominio. La critica dell’ideologia vuole svelare questa falsa coscienza, e così emancipare gli uomini. La critica dell’ideologia ha molto da insegnarci, perché è vero che i rapporti di dominio sono intrecciati con il pensiero e con il simbolico, e quindi questi non sono innocenti. Però è problematica, perché suppone una posizione superiore del soggetto “critico” rispetto al soggetto “criticato”. Questa difficoltà esige di essere molto prudenti, e di accettare di confrontarsi in posizione di parità con chiunque, sulla base di un principio democratico, per disinnescare i pericoli della critica dell’ideologia troppo sicura di sé.
Io penso che molta sinistra italiana, di origine marxista, non sia ancora abbastanza consapevole dei limiti della critica dell’ideologia, e la assuma in modo aproblematico. Per rispondere a Michele, da qui derivano atteggiamenti come quelli che lui critica. Per esempio, quando Giorgio condanna “gli umori casuali delle masse disinformate che però al momento giusto votano”, secondo me cade in questo errore. E non si tratta di “riflessi pavloviani”, come dice Daniele, ma dell’eredità di una cultura politica, che dobbiamo saper criticare. Niente toglie che chi ha questi atteggiamenti sia un ottimo docente, ma il problema è il modo di fare politica. Concordo con Michele che è “più di sinistra”, in realtà, ricostruire un rapporto paritario con qualsiasi interlocutore.
Ecco perché, nel caso specifico della Legge 107, non mi convincono le posizioni che la considerano semplicemente demagogica, perché giudicano certe esigenze poste dalla società solo come frutto di una ideologia dominante. Potranno pure essere frutto di questa ideologia, ma le esigenze vanno eventualmente respinte prendendole in considerazione in quanto tali, e mettendo da parte il “sospetto preventivo”. Per questo non capisco la metafora di Daniele. O meglio la capisco: se penso che ogni azione sociale, nel suo piccolo, sia presa inevitabilmente nella macchina del dominio sociale allora diventa impossibile agire nella quotidianità, e anche in una politica ravvicinata, senza pensare che tanto è inutile, perché ci sono forze ben più potenti in campo. Ma questo è, nella mia visione, il “problema Adorno”: tutto, anche l’azione morale più semplice, anche il gesto di affetto quotidiano, è avvelenato dal sistema, e quindi si fa sempre il male, e si è sempre sconfitti. Ma questa visione è sbagliata, anche se mi permetterete di non spiegare qui perché. Dico solo che si vive una sola volta.
Vengo ad alcune questioni di merito, anche se l’intervento non era sul merito. Non capisco, Daniele, in che senso cercare una scuola di qualità implicherebbe abbandonare il sistema pubblico. Non mi sembra che si stia facendo questo. E in ogni caso il sistema scolastico pubblico italiano adesso non è per niente egualitario. Hai ragione a dire che la cosa più importante è un buon reclutamento dei docenti, ma questo non toglie che serve anche la valutazione del loro lavoro, perché impone a tutti di essere responsabili. Inoltre, se dici che la diseguaglianza nella scuola dipende anche da un modello didattico sbagliato, valutare i docenti può servire per migliorare questa didattica. Anzi, dovrebbe essere il primo obbiettivo. Inoltre, valutare i docenti non è affatto in contraddizione con la valutazione che noi facciamo quotidianamente degli studenti, Daniele. Perché noi li valutiamo, e spesso anche in modo approssimativo. Perché è difficile. L’incoerenza sta nel dire che siccome valutare i docenti è difficile, allora i docenti non devono essere valutati, pur continuando a valutare gli studenti.
Sulla sanzione degli inadempienti la Legge 107 non dà risposte, è vero Michela. Però se crei un sistema di valutazione qualcosa puoi fare. Se non crei niente, non puoi fare niente.
La valutazione, Cucinotta, deve servire a migliorare la didattica (anche in questa legge è così), e in tal caso non si capisce perchè dovrebbe uniformare, né perché dovrebbe creare le scuole per ricchi. Adesso la scuola italiana è differenziata in scuole buone e cattive, e tutti le conoscono, e la gente colta e benestante non manda i suoi figli in certe scuole. Con il bonus di valorizzazione del merito della Legge 107, che pure ho criticato perché è male impostato, un preside di una scuola svantaggiata potrebbe cercare di tenersi docenti che di solito da quelle scuole, oggi, fuggono appena possono, per andare in scuole dove è più facile insegnare. Questa è la scuola di classe reale, aprite gli occhi.
Ho molto apprezzato, nelle osservazioni di Piras, prima di tutto il tono realmente interlocutorio (il che, per contrasto, mi ha fatto dolorosamente capire quanto ciò sia diventato raro); e in secondo luogo il corretto utilizzo del termine “ideologia” nei suoi due differenti significati, anche questo purtroppo una vera rarità. Io faccio l’insegnante e diffido del principio di valutazione del lavoro di docente, perché non conosco criteri affidabili che permettano di classificarlo o giudicarlo. Ovviamente si possono giudicare i risultati ottenuti, per esempio misurando il livello di partenza degli allievi, quello di arrivo e valutando lo scarto: però chi fa questo lavoro sa perfettamente che in una scuola come quella italiana, imperniata sulla classe di scolari anziché sul singolo studente, l’attività del docente è resa più o meno facile prima di tutto dal comportamento del gruppo di colleghi che lavorano nella stessa classe. I buoni risultati non sono mai interamente prodotti dall’attività del singolo ma sempre da quelli della squadra: introdurre elementi concorrenziali (e la ricompensa individuale lo è) all’interno del gruppo significa distruggerne l’efficacia. Invece che mettersi a valutare la maggiore o minore bravura ed originalità del singolo professore (e cioè inventare dei criteri per capire chi lavora meglio) sarebbe già più che sufficiente distinguere tra chi lavora e chi no, il che dovrebbe essere molto più semplice (basterebbe controllare quante verifiche vengono effettuate dall’insegnante prima di dare il voto conclusivo, con quale cura vengono corrette, che proporzione c’è tra il programma svolto e i voti nel corso dell’anno scolastico ecc.). Quanto alla valutazione del lavoro svolto dalla squadra, questa non dovrebbe mai e per nessun motivo portare ad una gratifica salariale del singolo ma semmai ad una serie di miglioramenti offerti alla scuola in cui il gruppo di insegnanti lavora, o a vantaggi non pecuniari ma legati al miglioramento della propria formazione culturale. Più soldi al singolo solo ed esclusivamente se ha lavorato, quantitativamente, più tempo: il resto sarebbe davvero ideologia nel senso marxiano del termine.
Caro Mauro, mi sforzerò di essere sintetico, anche se i problemi sono grossi.
Parto da quelli generalissimi, politici e di filosofia della storia, e arrivo a quelli scolastici, più specifici.
1) Mi si perdonerà se parlo di me. Individuare a sinistra una “sinistra avanguardistica marxista” che ha troppa fiducia nella critica dell’ideologia è appunto una lettura assai ideologica, se la si appiccica addosso a chiunque critichi (da sinistra del Pd).
Chi si ritiene liberal-democratico e riformista dovrebbe forse domandarsi perché una persona come il sottoscritto (e temo di non essere il solo, per cui mi cito perché, chissà, potrei essere emblematico), che ha sempre avuto, prima che per opzione politica per antipatia personale, sospetto verso la sinistra-sinistra che si picca di essere minoranza virtuosa (il catarismo mi è estraneo), oggi veda come assai più pericolosa il riformismo moderato moderatissimo (nello stile di Blair e di Renzi). Forse anche a sinistra del Pd le cose sono più complicate. Quando si è in maggioranza si diventa sempre, ineluttabilmente, spocchiosi con le minoranze. Poverini, ancora non ci sono arrivati.
2) Mi pare difficile che si possa dire che una visione pessimistica alla Adorno sia sbagliata. Come che si possa dire che sia giusta. Per quanto Adorno e Marx possano pretendere di essere scientifici, analitici, dialettici o giù di lì, le loro visioni complessive hanno una forza che è innanzitutto utopistica e poetica, simbolica, mobilitante. In questi campi del linguaggio il concetto di giusto e sbagliato è improprio. Certo, si può dire che appunto si tratta di poesia e non ha niente a che vedere con la prassi politica, con le cose serie. Questo lo contesto radicalmente. Ma anche io non spiego qui perché.
3) Che il pessimismo implichi un’azione pratica meno energica, meno vitale, meno ottimistica, meno appassionata è una cosa, questa sì, falsa. Gli ottimisti non lo capiscono. E’ un loro limite. Di solito confondono pessimismo con menagramismo e querimonia.
4) Non ho capito dove avrei sostenuto che il sistema pubblico sia minacciato dalla scuola di qualità. Forse anche questo, cioè che tu abbia letto questo nelle mie parole, è un interessante riflesso condizionato.
Io dicevo una cosa molto più precisa sul rapporto tra valutazione dei docenti e egualitarismo.
5) Valutazione dei docenti e degli studenti: parliamone. Ma a latere posso anche dire che viviamo in un sistema schizofrenico al riguardo, come ho detto nell’ultimo intervento. Non capisco in cosa tentare discorsi generali debba essere sempre essere visto con sospetto e con un lieve sorriso ironico.
Cara Mariangela, le tue parole, parole di una persona intelligente, colta, sensibile, appassionata, mi rattristano. Hai ragione, la scuola italiana ha tanti difetti, ma non capisco perché per parlarne e tentare di risolverli si debba passare da questa pietosa ironia sulle nostre pretese di essere intellettuali, o antagonisti o cristici.
Non capisco questo livore verso questo luogo di cultura (media, approssimata) che è la scuola. O meglio, lo capisco: è l’antiintellettualismo di chi è intellettuale ed è stufo di esserlo. Allora non aspettiamo che ci facciano fuori in quanto intellettuali, va, suicidiamoci prima noi, per sopraggiunta reazione autoimmune.
Gli insegnanti devono essere professionali? Certo. La tecnica ci aiuta? Certo. Dobbiamo rendere conto di quel che facciamo? Certo. Si abusa a volte della libertà d’insegnamento? Certo.
Ma io so che per riflettere su ciò che faccio ho bisogno di cultura e di intellettualità, non di diventare un professionista compito. Conditio sine qua non.
Che male c’è a difenderla?
Caro Daniele,
ho pochissimo tempo, ma una cosa sul punto 4).
Forse ho capito male, ma nell’esordio del tuo primo commento mi sembrava che tu dicessi che la scuola pubblica in Italia garantisce una certa eguaglianza e che il rischio è invece che essa si indebolisca a favore della scuola privata, che ovviamente non garantisce l’eguaglianza. Io invece non credo che la scuola pubblica adesso garantisca l’eguaglianza, anche se in passato ha promosso la mobilità sociale ecc.; e non penso che il pericolo sia la privatizzazione della scuola, da noi. E poi mi sembra che il problema della qualità della scuola ci sia, in Italia, e che riguarda anche la scuola pubblica. In ogni caso tu hai introdotto questo discorso su pubblico e privato, anche se forse l’ho capito male.
Sugli altri temi, e anche su questo, con più calma la settimana prossima.
Caro Mauro, provo a rispiegare meglio quel che intendevo dire.
Contestavo (a Moroni) che un sistema di valutazione contribuisca addirittura all’eguaglianza di opportunità di apprendimento. Ok, valuto internamente il docente. E quindi? La diseguaglianza si pone al livello di sistema, in quei sistemi che hanno scuole di serie A (di norma private) e scuole di serie B (di norma pubbliche). Lì chi può la scuola di qualità se la paga e gli altri si arrangino. In Italia non è così. Capisco l’argomento “un sistema di valutazione permette di marginalizzare gli insegnanti peggiori”; non il nesso con l’egualitarismo. Capisco l’argomento della casualità, non quello della giustizia. Anche uno studente bravo, in una scuola ben corazzata, in un sistema come il nostro si becca il docente cattivo e se lo tiene.
Se proprio devo dirla tutta, valutare i docenti aggrava, semmai, il problema, perché le scuole che si piccano di essere serie si sceglieranno i docenti migliori e gli altri si parcheggeranno altrove. (Non dico che questo sarà l’effetto dei comitati di valutazione della Buona scuola, che non sono ancora così feroci e, per come la vedo io, creeranno solo un sistema di competizione interna i cui effetti negativi sono ancora tutti da ponderare: parlo di un sistema di valutazione ipotetico nel quale il reclutamento dei docenti sia assolutamente liberalizzato).
Insomma, il contrasto privato-pubblico l’avevo introdotto solo per alludere a quei paesi dove questa distinzione è discrimine fra qualità buona e cattiva, non per parlare di rischi di privatizzazione della scuola italiana.
Caro Piras,
uno strano modo di confrontarsi il suo. Alle obiezioni, risponde semplicemente ribadendo ciò che ha già detto.
Prendiamo la valutazione. In lingua italiana, significa classificare, mi pare, fino nel caso più estremo a stilare un elenco inteso come una classifica. Perchè mai ciò dovrebbe migliorare il livello qualitativo?
Io l’ho visto all’università, la valutazione non si traduce in un miglioramento, si traduce nel distrarre i docenti dai loro compiti istituzionali, per studiare i criteri stilati dall’ANVUR e dal proprio Ateneo, e mettere in atto una strategia fatta di stratagemmi, di mezzucci che assecondino ciò che comporta un migliore giudizio. Tutto questo non ha davvero nulla a che fare con un miglioramento qualitativo.
Passiamo ora alla questione della discriminazione tra istituti. Seppure bisogna convenire che già oggi una sorta di discriminazione esista già, mi chiedo come si possa essere così ciechi da non vedere come le nuove forme di autonomizzazione degli istituti renderà questo processo molto più marcato. Non vedo come ci si possa consolare constatando che già oggi ci sono elementi di discriminazione. Ciò rende l’effetto della nuova normativa ancora più forte, perchè gli istituti che già oggi godono di una posizione di vantaggio, si trovano nella condizione ideale per amplificare questo vantaggio pregresso.
Mi aspetto, caro Piras, una replica argomentata, non un ribadire in stile assertivo, in caso contrario meglio astenersi del tutto.
Segnalo questo intervento critico di Luigi Tremoloso, a cui cercherò di rispondere appena possibile:
http://www.insegnareonline.com/rivista/opinioni-confronto/caro-mauro
Segnalo questo editoriale di Mario Ambel, che risponde anche al mio intervento (e intanto lo ringrazio):
http://www.insegnareonline.com/rivista/editoriali/verra