cropped-10955190_849788051727192_4987975574243799712_o.jpgdi Pierluigi Pellini

[Cent’anni fa, il 12 novembre 1915, nasceva Roland Barthes. Una versione abbreviata di questo articolo è uscita su «Alias – il manifesto»]

Se per soddisfare l’ansia di bilanci, che detta il rituale di ogni centenario, si volesse ricorrere all’evidenza spiccia e provinciale del mercato librario italiano, la risposta sarebbe chiara e inappellabile: invecchiano bene i Miti d’oggi (1957), cronaca frammentaria, ma d’insuperata lucidità e forza corrosiva, di quella modernizzazione postbellica da cui ancora scaturisce il nostro presente – le Mythologies (questo il titolo francese) vengono spesso lette, è vero, come esaltazione già postmoderna della nascente civiltà dei consumi, come descrizione affascinata dell’«esorcismo» che transustanzia la merce in feticcio, mentre si ispiravano in realtà a un progetto di brechtiana demistificazione: ma appunto vengono lette, e il loro fascino è intatto. Viva è certamente anche la cosiddetta trilogia letteraria, composta dal bricolage autobiografico del Barthes di Roland Barthes (1975), dai Frammenti di un discorso amoroso (1977), e soprattutto dalla Camera chiara, il libro folgorante sulla fotografia – uno dei più belli del Novecento – uscito nel 1980, poche settimane prima della morte del suo autore, che a conclusione di un percorso intellettuale interamente votato allo studio dell’artificio semiotico, della codificazione, contaminazione e disseminazione dei linguaggi, fa i conti con «il risveglio dell’intrattabile realtà» (così recita, quasi sinistra profezia, l’ultima riga del testo) e scava nel sostrato tanatografico dell’autobiografia, sia pure indiretta, esibendo il trauma immedicabile della perdita dell’essere amato (la madre Henriette era scomparsa nell’autunno del 1977); e proprio per questo, come rifiuta ogni pertinenza esistenziale all’elaborazione del lutto teorizzata dalla psicanalisi, nega paradossalmente all’immagine fotografica ogni statuto di ars, leggendola solo, con pietas struggente e vertiginoso paralogismo, come «un’emanazione del referente», come «Contingenza suprema». Perché «la foto dell’essere scomparso viene a toccarmi come i raggi differiti di una stella», è «il passato e il reale insieme». Nell’anno stesso che segna, nelle semplificazioni storiografiche, con l’esaurimento delle avanguardie e dei movimenti di contestazione, il definitivo ritorno all’ordine (del romanzo tradizionale, e della Storia borghese), uno dei protagonisti indiscussi della svolta linguistica e ermeneutica degli anni Sessanta, mentre accumula appunti per un tardivo e forse improbabile esordio romanzesco (modello lontano Proust; motore della scrittura, ancora, la memoria della madre), scrive un libro sull’opacità mortuaria del referente, la cui «certezza» impone di «sospendere l’interpretazione», perché «l’evidenza è ciò che non vuole essere scomposto». Nella negazione, a suo modo lacaniana, della possibilità stessa di un metalinguaggio, si chiude un’epoca.

Per questo può apparire oggi morto, invece, il Barthes critico letterario: non sono più ristampati, in Italia, testi che fino a vent’anni fa erano presenza canonica in ogni bibliografia d’esame universitario. Se potrebbe non stupire l’assenza d’interesse per il libro più controverso della critica nuova – Sur Racine (1963): in italiano, peraltro, inglobato negli einaudiani Saggi critici, ancora in catalogo; un libro che due anni dopo la pubblicazione era stato bersaglio del pamphlet di un onesto quanto ottuso sorbonicolo, Raymond Picard, il cui titolo derubricava la nouvelle critique a nouvelle imposture (non senza qualche solido appiglio filologico, ma con una neopositivistica grettezza facilmente demolita da Barthes in Critica e verità, 1966) –, colpisce l’ostracismo di cui sono ormai vittima un testo-feticcio del formalismo strutturalista (Introduzione all’analisi strutturale dei racconti, 1966) e il modello precoce, e forse insuperato, di ogni ermeneutica post-strutturalista (S/Z, 1970). Di quest’ultimo, labirintica lettura, o anzi riscrittura, della stupefacente polisemia di un racconto di Balzac, Sarrasine, Michel Foucault ebbe a dire: «la prima vera analisi testuale che io abbia mai letto»; oggi, appare ai più illeggibile.

Il referto del mercato sembra insomma confermare, come prevedibile, un tenace luogo comune: ci sono due Barthes, lo scrittore e il critico; e se la fortuna di quest’ultimo si è eclissata, al pari delle mode culturali e dei metodi che di volta in volta ha lanciato, adottato, o smantellato dall’interno (contro la sciatteria di troppe ricostruzioni manualistiche, converrà ricordare come in meno di dieci anni il presunto patriarca dello strutturalismo abbia attraversato in rapidissima successione, o perfino praticato contemporaneamente, approcci al testo diversissimi, dalla thématique di scuola ginevrina a un’ermeneutica già decostruzionista, passando appunto per varie versioni di formalismo e strutturalismo), la postuma vitalità delle opere creative trova invece cauzione non esauribile nella qualità abbacinante della pagina, in quel «piacere del testo» che dà il titolo al saggio del 1973 da molti considerato come lo spartiacque fra una prima e una seconda maniera. Per quanto grossolano, il dualismo potrebbe perfino apparire in prima approssimazione esatto, se non fosse radicalmente smentito dall’unitaria tensione, intellettuale e propriamente erotica, che dà forma e compattezza all’intero corpus barthesiano: quella tensione che mira a abolire ogni distinzione fra scrittura e lettura, testo e commento, teoria e pratica letteraria, opponendo a ogni estetica della purezza (dei generi e delle forme) un’etica della contaminazione; a inaugurare una pratica sofisticata della bathmologia (neologismo memorabile che evoca una scienza delle gradazioni); e a imporre un’insistita apologia del concetto cui è dedicato il seminario del 1978, il «neutro»: inteso come strumento filosofico capace di sciogliere il legame fra segno e referente, svuotare di senso categorie e antinomie (culturali, sociali, sessuali), scardinare gli imperativi del logos, sottrarre il discorso al ricatto del principio di non-contraddizione – senza peraltro cedere alle sirene del nichilismo, alla tentazione del silenzio, alla totale negazione perseguita nei suoi testi più radicali dal pur ammirato Maurice Blanchot. Un’apologia tanto più significativa nel momento in cui, puer senex, l’attempato orfano contempla nella più derelitta disperazione la fotografia ritrovata della «madre-bambina», da cui prende l’abbrivio esistenziale la scrittura della Camera chiara.

Perciò Barthes – tutto Barthes, che meriterebbe di essere interamente riedito in traduzioni meno sciatte di alcune fra quelle che circolano – è vivo, oggi, soprattutto nelle sue contraddizioni, nei suoi paradossi. Sempre incline, per curiosità intellettuale e slancio di desiderio, a accompagnare con la riflessione teorica le sperimentazioni delle avanguardie (dal nouveau roman a «Tel Quel»), a dar credito alle avventure intellettuali delle generazioni più giovani – non però ai tumulti verbosi del maggio ’68: percepiti dalla sua schiva eleganza come retorica sopra le righe; e interpretati, pur fra qualche incertezza, come sopraffazione tribunizia, antitetica a una più congeniale trasgressione accolta nella polisemia della scrittura –, Barthes ama in realtà i classici; è a suo agio nel grand siècle di Racine e dei moralistes; e anche (forse soprattutto) nel secolo della vituperata narrativa realista, in quell’Ottocento di cui ha studiato una delle figure emblematiche in un altro libro giovanile e bellissimo, Michelet (1954). Perfino quando riserbo, misura, distacco – i tratti umani che ne caratterizzano la personalità pubblica – si rovesciano, a intermittenze, in provocatoria iattanza, quando la violenza dello scritto sembra negare mitezza sfuggente e delicatezza del tratto, è sempre in difesa della letteratura che alza i toni del conflitto: del tutto a torto è stata imputata a Barthes – come del resto a Jacques Derrida, cui non lo accomunano soltanto l’elogio dell’écriture e l’idea di un continuo differimento del senso – qualche responsabilità nella dissoluzione dello specifico letterario consumatasi nel passaggio fra decostruzionismo e cultural studies, qualche colpa nell’azzeramento del prestigio istituzionale delle humanities cui oggi assistiamo.

In realtà, la denuncia famigerata, nella lezione inaugurale al Collège de France, della natura intrinsecamente dispotica della comunicazione linguistica (la lingua sarebbe senz’altro «fascista»: affermazione, va da sé, in buona logica autocontraddittoria) è certo omaggio al collega, amico e rivale, che ne ha caldeggiato l’elezione: riprende infatti, con spettacolare rincaro, le analisi di Foucault sul discorso del potere; ma solo per sottrarre, contro Foucault, la scrittura letteraria a ogni ipoteca della doxa dominante: facendone lo spazio del desiderio – spazio trasgressivo, erotico, libero, precisamente perché neutro, protetto dall’intransitività di un linguaggio autoriflessivo. In questo senso, l’ipotesi restaurativa – con tanto di ritorno alla storia letteraria, all’erudizione neopositivista, alla difesa dell’istituzione pedagogica, perfino alla centralità dell’autore e del soggetto – formulata dal più intelligente, ambizioso e opportunista fra gli allievi di Barthes, Antoine Compagnon, oggi idealmente suo successore al Collège, non è solo apostasia, non segna solo la vittoria (alquanto malinconica: nella più generale marginalizzazione degli studi letterari) della vecchia Sorbona e del buon Picard; è anche inveramento, parziale e distorto, di una possibile evoluzione (o involuzione), che la morte precoce ha inibito allo stesso autore del Piacere del testo. (Un’involuzione, converrà aggiungere in parentesi, vincente in Italia fin dagli anni Settanta: quando il filologismo storicista del cosiddetto strutturalismo pavese ha privilegiato, fra i modelli francesi, i tecnici della narratologia rispetto ai teorici – il peggiore Genette rispetto al migliore Barthes).

Infatti proprio gli ultimi libri, quelli pubblicati da Barthes dopo il 1973, pur adottando con più esibita, e disinibita, libertà forme frammentarie e centrifughe, pur destrutturando il racconto, disseminando l’argomentazione, ostentando l’io – non più proscritto – nella sua fragile, oscillante contingenza, ritrovano paradossalmente la lezione dei classici: modelli impliciti, e a tratti perfino espliciti, essendo le Massime di La Rochefoucauld e soprattutto i Pensieri di Pascal. Perciò l’opera di Barthes è forse, in tutto il secondo Novecento, la più cospicua fonte di scintillanti aforismi: mai esenti dal sospetto, tormentoso innanzitutto per l’autore (che s’interroga sul «rischio d’arroganza»), di percorrere le scorciatoie della provocazione, di alimentare con brillante facilità la presunta «nuova impostura»; e invece capaci, quasi sempre, di prendere in contropiede la pigrizia del luogo comune, facendo nascere dall’aporia un pensiero che s’identifica con l’atto stesso della scrittura. Una di queste frasi memorabili (cioè intrinsecamente promesse a un’ambigua classicità) sembra attagliarsi alle dinamiche del centenario: «La Storia è isterica: essa prende forma solo se la si guarda – e se la si guarda bisogna esserne esclusi». Per questo il contributo di gran lunga migliore, fra i molti usciti quest’anno, è il libro di una studiosa esclusa per ragioni anagrafiche da ogni diretta discendenza; ma profondamente coinvolta in un’avventura intellettuale che sente vitale e inevitabile, per noi, nella difficile ricerca di una conciliazione fra desiderio e verità. Il Roland Barthes di Tiphaine Samoyault, pubblicato dalle Éditions du Seuil – settecento pagine appassionanti che purtroppo, è facile prevederlo, nessun editore italiano avrà il coraggio di tradurre – è molto più di una biografia, anche se attinge copiosamente, ma con intelligente discrezione, alla mole ancora cospicua dei diari e degli appunti inediti conservati alla Bibliothèque Nationale de France; è un libro che attraversa mezzo secolo di cultura non solo francese, alternando ricostruzione della vita, analisi delle opere, confronto spesso illuminante con altri protagonisti della scena letteraria e filosofica (André Gide, Jean-Paul Sartre, Philippe Sollers, Michel Foucault). Senza condiscendenza apologetica, se è vero che non esita a stigmatizzare qualche frivolezza mondana, qualche indizio di sudditanza ideologica, sia pure riluttante, nei confronti del sopravvalutato Sollers e del gruppo di «Tel Quel» (con relativa infastidita cecità durante il viaggio nella Cina maoista del 1974); senza i compiacimenti scandalistici, cui ha spesso indotto la moltiplicazione, negli anni dell’incipiente vecchiaia di Barthes, dei commerci sessuali, anche mercenari; senza la pretesa, soprattutto, di ridurre a tesi o fattizia coerenza il magma incandescente della vita e dell’opera.

Samoyault riesce insomma a sottrarsi alle secche delle due dominanti letture antitetiche (di sinistra e di destra, diciamo per semplificare), che fanno del personaggio forse più rappresentativo della cultura francese del secondo Novecento di volta in volta un terrorista delle lettere o un pontefice fumista. Letture entrambe inclini a dimenticare quanto scrive Barthes nel Piacere del testo: «Né la cultura né la sua distruzione sono erotiche; è la faglia fra l’una e l’altra che lo diventa».

[Immagine: La firma di Roland Barthes (gm)].

3 thoughts on “Paradossi di Barthes

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