di Guido Mattia Gallerani
[Cent’anni fa, il 12 novembre 1915, nasceva Roland Barthes. Guido Mattia Gallerani ha scritto il saggio Roland Barthes e la tentazione del romanzo (Morellini, 2013). Su LPLC ha pubblicato un resoconto degli scritti su Barthes nell’anno del centenario. Tra il 6 e l’8 novembre, a Torino, Federico Novaro ha organizzato una mostra di tutte le traduzioni di Barthes uscite in Italia. Questo intervento è la versione ampliata della scheda dedicata ai Miti d’oggi nel catalogo online (<http://www.federiconovaro.eu>)]
Miti d’oggi mi giunse in una forma derivata e seconda, che cancellava la sua traccia originale: quando lo lessi, era già stato integrato in un grado secondo del testo, l’archi-testo dell’opera completa nell’edizione francese del 2002. La mia partecipazione era viziata dalla mia biografia per sempre, ma sarebbe stata anche condannata a una distanza accresciuta e accessoria, deviata soprattutto dalla presenza inglobante di quel dispositivo già mitico che si ottiene da un’opera completa: “Barthes scrittore”.
Eppure, già nell’edizione originale del 1957, le Mythologies non erano più quegli articoli scritti da Barthes nei due anni precedenti e pubblicati sulla rivista Les Lettres nouvelles; oltretutto, in Italia i saggi si conobbero già nella traduzione della raccolta uscita per Seuil e pubblicata nel nostro paese da Lerici, nel 1962, e in maniera più concreta a partire dal 1974, data della pubblicazione per Einaudi.
La mia lettura dislocata poteva essere una lettura autentica, in Italia, e apparire normale nel contesto della ricezione. Col tempo, ho anche capito che leggere i Miti d’oggi prescindendo dal loro contesto poteva essere, invero, il modo giusto di ritornare a Barthes. Partito dal Barthes scrittore, ne avrei ritrovato uno più autentico: Barthes saggista.
Nei diversi gradi di allontanamento dal contesto originario, i Miti d’oggi avevano passato tutte le tappe possibili della trasformazione editoriale e della vita di un autore. Si era persa nel frattempo non solo una forma, mutata nella loro articolazione interna, ma anche un contenuto: quelle immagini, quei discorsi da cui Barthes desume le apparizioni e i caratteri del mito borghese nella Francia degli anni Cinquanta, erano irrimediabilmente scomparsi. Tuttavia, proprio questa prospettiva straniante mi nascondeva un fatto: i contenuti di quei saggi non si perdevano soltanto lungo la storia dei testi, ma non erano nemmeno reperibili dentro i testi stessi, o a fianco di essi. Barthes non aveva accompagnato i suoi scritti con le prove del loro fondamento: le pubblicità degli oggetti, delle prime pagine dei giornali, dei reportage giornalistici su cui i Miti d’oggi avevano creato la loro fama. I Miti d’oggi nascevano da uno stato di cose evidente e innegabile, da una cultura consumistica immediatamente percepibile come fenomeno diffuso, e declinabile in quella varietà che faceva la fortuna del libro; eppure, dimostrabile soltanto tramite una prova sempre indiretta della sua esistenza. La cultura borghese era una realtà, ma in senso lacaniano.
In verità, i miti erano il prodotto di una rielaborazione discorsiva da parte di Barthes. Lo stesso Barthes confessa quest’ambiguità, nel rapporto tra il mito, che “è una parola”, e il metalinguaggio del “mitologo” o del semiologo che demitizza le sue manifestazioni. Quest’assenza delle immagini soprattutto diventa una scena originaria della sua mitologia quando si pone alla base stessa del saggio teorico, Il mito, oggi, che Barthes inserisce ex novo in chiusura della raccolta del 1957.
Nemmeno la foto di Paris-Match (n° 326, 23 giugno-3 luglio 1955) che Barthes utilizza come esempio per spiegare il funzionamento del mito borghese è riprodotta nel saggio teorico.
Il discorso con cui Barthes ricostruisce l’apparizione del mito dell’impero francese si basa su una sostituzione di quest’immagine con un’altra, che è ugualmente assente, ma è più funzionale al discorso di Barthes perché si propone già in una forma testuale. Le due immagini non sono scollegate: hanno un sottile rapporto metonomico che lega il contenuto visivo di una con quello descrittivo dell’altra. La sostituzione è quella di un bambino con un adulto, un soldato: “Dal barbiere mi tendono un numero di Paris Match. Sulla copertina un giovane nero in uniforme francese fa il saluto militare, gli occhi alzati, fissi probabilmente sulla piega di una bandiera tricolore. Questo è il senso dell’immagine. Ingenua o no, so bene cosa significa: che la Francia è un grande impero, che tutti i suoi figli, senza distinzione di colore, servono fedelmente sotto la sua bandiera e che non c’è miglior risposta ai critici del nostro preteso colonialismo che lo zelo di questo nero nel servire i suoi presunti oppressori. Mi trovo perciò, anche qui, davanti a un sistema semiologico maggiorato: c’è un significante, esso stesso già formato da un sistema precedente (un soldato nero fa il saluto militare francese), c’è un significato (che qui è un misto intenzionale di francità e di militarità); c’è infine una presenza del significato attraverso il significante”.
Passati due anni, davanti agli occhi dei lettori quella foto vagava nella memoria in una forma incerta, su cui la scrittura può agire, ingrandire, correggere, “legendare”. Il bambino che fa il saluto militare diventa un soldato. Si tratta di un cambiamento importante ai fini argomentativi della teoria del mito. Per un bambino non si sarebbe potuto desumere quella naturalezza che Barthes riconosce al mito moderno. Il saluto militare di un bambino non è lo stesso di quello di un adulto: non implica una partecipazione volontaria all’istituzione militare (ciò che Barthes chiama zelo). Il sistema di connotazione dell’imperialità francese apparirebbe meno naturale se la connotazione stessa fosse apposta sul bambino invece che sull’adulto: l’unione del segno militare – il saluto – con l’adulto di colore non è arbitraria.
Barthes ne era certo cosciente: sapeva benissimo che sul piano letterario gli era concesso ciò che l’analisi semiotica dell’immagine non gli avrebbe mai permesso, che per lo svelamento del mito il testo avrebbe dovuto compiere qualche correzione e aggiustamento per riportare in superficie il suo oggetto più profondo. È stato rimproverato a Barthes di ridurre la semiotica a una linguistica, a una semiologia letteraria; ma corrompere l’immagine per il bene della verità era l’unico modo per fare dignità teorica a un progetto letterario e politico. Non è allora la linguistica che è alla base della semiologia, come Barthes proponeva rovesciando Saussure: è la scrittura letteraria che è alla base della (sua) semiologia.
Certamente, non tutti i miti di cui si occupa Barthes sono ricavati da immagini. Per questo, sempre nel saggio finale, Barthes introduce un secondo esempio, una formula latina, “quia ego nominor leo”, che precede la descrizione della foto di Paris Match e l’accompagna, al fine d’illustrare il funzionamento del mito. A conti fatti, non è davvero pertinente per l’illustrazione politica che Barthes dà del mito nelle pagine seguenti: è un esempio che chiarifica la lettura a più livelli di un segno, ma non coinvolge lo stesso nell’interpretazione ideologica del mito. Il mito è un prodotto culturale che permette di soprassedere alle differenze tra le classi sociali e, in particolare, favorire l’alleanza tra borghesia e la piccola borghesia. Come meccanismo di anti-differenziazione, il mito è per Barthes l'”assenza sensibile” della Storia e del reale storico. Il mito sopprime quella dialettica che renderebbe l’uomo borghese responsabile per la costituzione sociale che la sua classe ha prodotto.
D’altronde, si tratta di un tipo di ragionamento deduttivo che si fonda su una ricostruzione già strutturalista, basata su una casella assente da ricostruire tramite l’opera stessa, di cui si ritagliano frammenti per comporli in una nuova configurazione dotata di un senso maggiorato. Ancora nella sua ultima opera, La camera chiara, Barthes non mostra l’immagine della madre intitolata la Foto del Giardino d’Inverno proprio per poter sviluppare una narrazione che evidenzi il paradosso di una madre-bambina. Al contempo, l’autore trucca con la propria descrizione un’altra immagine della madre, stavolta riprodotta sotto il titolo La Souche, “la matrice”, affinché essa non appaia essere quella foto cui Barthes ha dato un altro nome e dice di non riprodurre, vale a dire la fotografia del Giardino d’Inverno. O ancora, in S/Z non ci sarà più nessuna copia dietro il testo verso cui riferirsi per trovare un referente reale: il racconto di Balzac e il commento di Barthes costituiranno un mondo autonomo, di cui il testo è l’unico e ultimo depositario, ed entro cui l’esercizio della lettura e quello del commento contribuiscono entrambi ad abbattere le barriere tra lettore e autore, tra consumatore e produttore. Questo truccare gli oggetti culturali è opera dell’uomo strutturalista, colui che vorrebbe produrre senza arrivare al prodotto: quest’utopia è già inscritta nella semiologia letteraria degli esordi di Barthes.
Tornando al saggio finale, Il mito, oggi, Barthes parla della solitudine del mitologo rispetto alla partecipazione sociale con cui il pubblico, gli utenti delle immagini, godono dei miti. Aggiunge pure che il mitologo non è separato soltanto dai propri lettori o dagli spettatori, ma anche dall’oggetto stesso del mito. Il mitologo è condannato all’uso del metalinguaggio. Franco Fortini scrisse in un contributo in memoria di Barthes (Lezione di crepuscolo, 1985) contro “la tenacissima illusione di chi crede che l’uso letterario della lingua sia una sorta di guscio trasparente e rigido che consente di essere, nello stesso tempo, nel mondo ma non del mondo”. Barthes era consapevole anche di questo rischio, se nella sua Lezione inaugurale al Collège de France abiura il metalinguaggio critico sulla scorta di questa stessa illusione: “La semiologia, benché tutto all’origine lo permettesse, poiché essa stessa è linguaggio sopra altri linguaggi, non può essere essa stessa un metalinguaggio. Proprio riflettendo sul segno che essa scopre, qualsiasi relazione d’esteriorità di una lingua ad un’altra si rivela, alla lunga, insostenibile: il tempo usa il mio potere di distanza, lo mortifica, fa di questa stessa distanza una sclerosi: non posso essere per sempre fuori dal linguaggio, considerandolo come un bersaglio, e al contempo dentro il linguaggio, trattandolo come un’arma”.
Il semiologo paga con la solitudine e l’allontanamento dal sociale l’esercizio della propria funzione: il suo lavoro è ugualmente alienante, la sua opera letteraria è destinata a diventare anch’essa un prodotto. Barthes ci restituisce un metalinguaggio che è un’arma anti-mitica, perché inverte il processo del mito con le stesse subdole armi: deforma il reale per i suoi scopi demistificatori, ma non in nome dell’irresponsabilità rispetto alla storia, ma in nome del vero, incarnato in una teoria della storia, cioè sotto ancora una responsabilità della prima rispetto alla seconda. Lo svelamento è però ottenuto a prezzo di un allontanamento dall’oggetto originario: una distanza necessaria che non può fare a meno di depotenziare la teoria stessa, nel momento in cui si fa letteratura: il linguaggio letterario diviene un’arma che si rivolta anche contro il proprio semiologo, svelando i limiti della sua teoria e quelli del suo discorso secondo. Se egli svuota l’oggetto per svelarne la costituzione ideologica, la sua relazione con la struttura politica, non può poi più riprodurlo o convocarlo come prova oggettiva. La semiologia di Barthes non è totalizzante, non è né compiutamente teorica, né pienamente semiologica o marxista; ma è nondimeno relativistica in senso epistemologico e saggistico; nel momento in cui si studia il fenomeno, l’analisi lo deforma in qualche punto, il trucco non può essere più cancellato dall’immagine originaria: bisogna concentrarsi su un solo aspetto.
Miti d’oggi non si riduce certamente al solo saggio teorico finale. Esiste pure un contrasto tra i singoli articoli e questo contributo teorico, che in un’ottica di sintesi segue, non precede, la serie dei testi. Nondimeno, molti aspetti del mito segnalati da Barthes nel saggio teorico si ritrovano all’interno degli articoli, come la tautologia della parola del mito o la sottrazione della storia. Ci sono saggi più divertenti e leggeri, come quelli sulla materialità artigianale del giocattolo di legno contro la forma alienante dei giocattoli in plastica: un prodotto che si riconduce al mito della fabbricazione capitalista; oppure la sociologia del vino come mito francese delineata da Barthes in dialogo con Bachelard, che invece del paradigma latte/vino si concentrava su quello di vino e acqua.
Ci sono poi i saggi più perturbanti. Alcuni sembrano già innervati del rapporto proustiano che sarà proprio dell’identificazione dell’ultimo Barthes con la postura dello scrittore. Ad esempio, troviamo la lettura del processo a Gérard Dupriez, parricida e matricida, che sembra ricalcare l’articolo pubblicato da Proust su Le Figaro dal titolo Les sentiments filiaux d’un parricide (1907). Assente nella prima edizione di Lerici del 1962, l’articolo di Barthes verrà reintegrato nel 1974 nell’edizione Einaudi. Se Proust si soffermava sulle semplificazioni della stampa giornalistica dell’epoca, insistendo sulla caratterizzazione della tragicità normale del parricida Henri van Blarenberghe, Barthes analizza i limiti della costituzione penale dello Stato (da un punto di vista anacronistico, potrebbe ricordare Foucault, ma Barthes vi è trascinato soprattutto dallo Straniero di Camus, soprattutto in un altro articolo, dedicato al celebre processo Dominici). Il tribunale costruisce il crimine secondo le norme della psicologia classica, basandosi su un principio di causa ed effetto che solidarizza con la logica narrativa. Barthes riflette, insomma, sul ripiegamento della giustizia sulla letteratura giudiziaria. La giustizia borghese come mito diventa visibile perché si costruisce come letteratura: tra gli atti giudiziari e i reportage giornalistici del tempo si perde il processo, l’oggetto originario.
Più di tutti, la sottrazione dell’oggetto mitico da parte della semiologia letteraria si ritrova forse nel mito del Giovane poeta, estratto dal caso di Minou Drouet: la bambina poetessa pubblica Arbre, mon ami nel 1957 e viene investita da diverse polemiche riguardo l’autenticità dei testi; interviene anche Jean Cocteau affermando che tutti i bambini sono poeti, tranne Minou Drouet. Per Barthes, quello dell’enfant prodige è un mito necessario all’irresponsabilità dell’uomo borghese rispetto ogni forma di discorso letterario; ma l’oggetto è anche in relazione col mito della velocità, con la necessità di guadagnare tempo rispetto agli altri: l’enfant prodige si perfeziona come una manifestazione ideale e primaria dell’uomo capitalista. In nota, Barthes confessa la sua premessa di partenza: non accettare la buona fede della bambina, ignorarne l’autenticità. Per demistificare il mito dell’infanzia poetica, Barthes ha dovuto cancellare le tracce di Minou Drouet e appiattire il suo individuo storico su un discorso scandalistico: una parola atta ad essere svelata nella sua innocua naturalezza, perché ha già perso il contatto con quella bambina, contro cui sarebbe impossibile e scandaloso intentare ogni processo.
Questo sforzo dialettico, al contempo di svelamento e di appropriazione, mi sembra quanto mai attuale come forma politica di scrittura rispetto al prodotto culturale capitalistico. Non negarlo semplicemente, ma ritrasformarlo in una scrittura saggistica, previa conversione dei prodotti culturali in miti di parole. Perché l’operazione riesca contro il potere dell’ideologia, Barthes è costretto a sacrificare un poco di rigore teorico. Ma cosa bisognerebbe sacrificare oggi per leggere negli oggetti culturali quell’indifferenziazione necessaria all’oblio della storia? La perpetuazione del prodotto in nuove reti capillari a livello globale richiede un’altra mitologia corrispondente a un altro immaginario. Barthes sa bene che può rivolgersi a soli miti “francesi” per poter mantenere a contatto la parola ricavata dal mito e la propria arma letteraria. Mi chiedo quale sarebbe l’esito di questa solidarietà con un mito di tipo globale, che non pare più decostruibile tramite una semiologia di tipo letterario come quella di Barthes. Le forme culturali dell’assenza della storia si potrebbero svelare, nelle loro interne contraddizioni, tramite il camuffamento degli oggetti del mito?
Il mito è nel nostro immaginario già un racconto, che avvolge l’oggetto e il suo segno; più che una parola, potrebbe essere l’articolazione di un desiderio nella riscrittura infinita di una fiaba o di una narrazione fantastica, o nella promessa utopica della fantascienza. Ad esempio, la pubblicità della Coca Cola era già un mito nel senso barthesiano. Nell’antica immagine della bottiglia di vetro della Coca Cola (1916) possiamo leggere il mito della modernità a vari livelli (ad esempio, nella lavorazione del vetro a forma affusolata); ma quel segno mitico partecipa del campo della narrazione anche di un altro mito, come quello di Babbo Natale, con cui riscrive la propria narrazione al servizio della pubblicità.
L’arma della riscrittura descrittiva sembra tolta ad un ipotetico avventuriero mitologo dell’oggi. Un mito che si fa globale superando le differenze di parola con la forma antropologica della narrazione, con cosa si può combattere? Il travestimento primario che lo renda pienamente intellegibile non può più avvenire con le armi barthesiane della descrizione, ad esempio di un metonimia che procede dal campo visivo allo statuto del testo. Bisognerebbe opporre, innanzitutto, una riscrittura delle narrazioni dei miti in grado di renderli intellegibili nelle loro intime contraddizioni narrative; oppure, in alternativa, comporre una metafora dei miti di oggi che sveli la contraddizione stessa portandola fuori, intatta, oltre la loro resistenza narrativa. Il saggio non può più essere la forma del mitologo di oggi, se non venendo a patti col narrativo o con il poetico.
[Immagine: Citroën DS ]
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