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Intervista a Farhad Khosrokhavar, a cura di Marc Semo

[Farhad Khosrokhavar insegna all’ École des Hautes Études en Sciences Sociales a Parigi. Ha scritto, fra le altre cose, dei saggi sui movimenti islamici radicali (Les Nouveaux Martyrs d’Allah, Flammarion 2002; Quand Al Qaïda parle: témoignages derrière les ornarreaux, Grasset 2006; Radicalisation, Maison des sciences de l’homme, 2014). Questa intervista è uscita su «Libération»].

Non c’erano stati finora attacchi suicidi in Francia. Si tratta di un punto di svolta?

Finora gli attacchi jihadisti commessi sul suolo francese avevano tutti un bersaglio, ad esempio Charlie Hebdo e la comunità ebraica, nel mese di gennaio 2015, o i militari francesi musulmani, come Merah prima di attaccare una scuola ebraica a Tolosa nel 2012. Ora siamo di fronte a un terrorismo cieco, soprattutto perché molti obiettivi sensibili sono protetti, e quindi più difficili da raggiungere. Le stragi del 13 novembre nel loro modus operandi ricordano quelle della stazione di Atocha a Madrid nel 2004 o quelle della metropolitana di Londra nel 2005, che erano operazioni suicide. Penso che dovremmo anche chiarire il concetto di kamikaze. C’è quello che potremmo chiamare il ‘kamikaze immediato’, che attiva la cintura esplosiva per fare la sua carneficina, e c’è il ‘kamikaze differito’ che vuole combattere fino alla fine con le armi in mano. Psicologicamente, non c’è differenza apprezzabile tra uno e l’altro: entrambi sanno che la fine mortale è certa.

Come si diventa un attentatore suicida?

Nelle organizzazioni jihadiste ora che operano in Siria o in Iraq l’offerta di volontari disposti al sacrificio supremo è tale che c’è l’imbarazzo della scelta. Il processo di formazione e il futuro del ‘martire’ combattente è tracciato. Anche coloro che hanno lasciato l’Occidente per combattere non sono tutti i volontari per la morte: sono anche attratti dall’avventura. La questione si pone in modo diverso in Occidente, dove possono operare solo piccoli gruppi. Sono fratelli, come i Kouachi, o piccole bande di amici chiuse in se stessi e affiatate. Una volta che il gruppo inizia a crescere e fare proseliti, viene notato dalla polizia e smantellato. La scelta di chi compie l’operazione è fatta in modo molto tradizionale, ma c’era sempre un passaggio all’estero, per quanto breve, di almeno uno dei pilastri del gruppo. Non ci si radicalizza da soli a casa dietro lo schermo. Merah era passato attraverso le aree tribali del Pakistan, Nemmouche (l’assassino del Museo Ebraico di Bruxelles) dalla Siria, il più giovane dei fratelli Kouachi, autori del massacro di Charlie Hebdo, dallo Yemen. Il passaggio all’atto, tuttavia, si realizza da soli, anche se lo sfondo ideologico e la logistica sono parte di una realtà organizzativa più vasta.

C’è un percorso tipico?

Gli autori di attacchi jihadisti, in generale, sono cresciuti in famiglie disgregate. C’è spesso un passaggio attraverso la prigione, che è sempre una tappa importante nel corso del processo di radicalizzazione. C’è poi un terzo elemento importante: sono dei born again, dei musulmani che hanno riscoperto l’Islam nella sua forma più radicale o dei convertiti che hanno trovato un modo per dare senso alla loro vita. E infine, come ho ricordato in precedenza, il viaggio iniziatico in una terra di jihad. Questo è stato il caso di Khaled Kelkal nel 1995, che era stato in Algeria al tempo della guerra civile con i gruppi islamisti. Questo passaggio è anche essenziale perché permette al futuro kamikaze di diventare estraneo alla società di origine e di acquisire la crudeltà necessaria per agire senza colpa o rimorso. È lì, sul campo, che ci si indurisce in nome della fede. Quando si è pronti a uccidere si è anche pronti a morire. Questo era già vero per i militanti fanatici del comunismo e del nazismo, quelli dei gruppi terroristici rossi o neri degli anni settanta.

Lei parla nella sua ricerca di un modello europeo di radicalizzazione. Di cosa si tratta?

In Europa ci sono sacche di povertà che si ideologizzano. Il fenomeno esisteva prima, per esempio negli Stati Uniti, nei ghetti neri in cui più di un quarto degli uomini era passato attraverso la prigione. In Europa, dentro queste sacche di povertà, la radicalizzazione nei confronti della società si fa in nome dell’Islam. Il sentimento di vittimismo e l’adesione a una causa collettiva permettono il superamento dello stigma dell’emarginazione. Un nuovo elemento appare con sempre più evidenza: la radicalizzazione dei giovani che provengono dalle classi medie, di famiglie musulmane e non. Tra i volontari passati ultimamente per la jihad in Siria o in Iraq, il 25% al ​​30% proviene da questi ambienti, e la percentuale di ragazze e giovani donne è molto alta, più del 3%. Questo fenomeno può essere spiegato in parte dal declino della politica e dalla ricerca di un’utopia, ma ancor più dalla paura per lo status sociale e il futuro. Ci si aggrappa alla prima utopia totalizzante che passa.

Cosa dovremmo fare con le centinaia di jihadisti di ritorno da Siria o Iraq?

Il passaggio attraverso la prigione riguarda una buona metà di loro, quelli considerati pericolosi. Data la crisi e l’urgenza, non c’è altra soluzione a breve termine, anche se è evidente che il carcere non è una soluzione a medio termine – soprattutto perché è una tappa del percorso di radicalizzazione. I jihadisti che ritornano hanno profili diversi. Ci sono gli induriti, che rimangono determinati a uccidere e a vendicarsi delle società miscredenti: per loro non c’è alcuna alternativa alla repressione penale. Ci sono i traumatizzati, profondamente scossi dalle esperienze che hanno fatto e che sono tentati dalla violenza. Ci sono gli indecisi, scossi dall’esperienza che hanno fatto e incerti sul proprio destino: se li mettiamo in carcere con gli induriti, ciò sarà controproducente. E ci sono pentiti, che sono disposti a denunciare, partendo dalla loro esperienza, che cosa è veramente la jihad, e che dovrebbero essere incoraggiati. Dobbiamo saper affrontare queste diverse realtà.

[Immagine: Parigi, 14 novembre 2015]

6 thoughts on “Radicalizzazione

  1. Eccellente contributo. Credo sia necessario far girare il più possibile parole come queste perché tra poco saremo sommersi di violenza verbale, paure e strumentalizzazioni della paura. Metto il pdf in piattaforma dei miei corsi di Antropologia Culturale a Padova: perché è esattamente questo “loop” (paura – ghetto – terrorista) che genera pratiche di disumanizzazione e deculturazione da ambedue i versanti “noi” / “loro”.
    Piangiamo questi morti come “nostri”, certamente. Il dolore delle loro famiglie è il nostro dolore. Con la consapevolezza però che quanto è accaduto a Parigi è esattamente quello che accade frequentemente a Kabul o a Karachi o a Baghdad, per non parlare della Siria. Come antropologo ho sviluppato una prospettiva per la quale non faccio più la differenza tra un afghano e un francese. Quando vengono fatti a pezzi da una bomba per me sono uguali esseri umani. Con la stessa innocenza di fronte alla follia, lo stesso diritto a vivere in pace su questo pianeta.
    La consapevolezza e la lucidità non devono abbandonarci. In questa terza guerra mondiale “in pezzi”, si, dove persone del tutto innocenti si trovano improvvisamente calate in scenari da incubo, e da questi scenari cercano di fuggire. Cerchiamo di non dimenticarlo. Lo sguardo sbigottito dei parigini non è così diverso da quello di chi sta scappando dalla Siria.
    La lucidità non deve abbandonarci e almeno due o tre mosse della partita dobbiamo cercare di prevederle. Il cosiddetto califfato sta accellerando l’entrata dell’Europa in guerra in Siria. Per quale ragione? Avranno contro il mondo, oltre ai peshmerga curdi, forse anche sul terreno. Quali chances hanno di sopravvivere alla guerra vera? Non è per caso che la distruzione dell’esercito dell’Isis sia il segreto obbiettivo del generale “califfo” e della sua stretta banda? Forse che il bottino accumulato dall’Isis è oggi talmente immenso che a qualcuno viene la tentazione di ridurre i dividendi? Quale modo migliore per disfarsi di un esercito di fanatici che diventa inutile?
    Che gli sciacalli dell’Isis mettano all’insegna della loro disumana aberrazione la firma di Maometto, su quegli stendardi neri, è la peggiore cosa che potesse accadere all’Islam. L’Islam, ricordiamolo, ha una teologia irenica. La parola Islam, nel suo etimo, evoca pace, sicurezza, fratellanza.
    Francesco Spagna

  2. Considerata la sua brevità, l’intervista mi sembra molto utile (su argomenti di questa portata non si può non essere, in così poco spazio, un po’ generici); però se il riferimento agli anni ’70 riguarda il terrorismo italiano, questo confronto è del tutto fuori luogo perché si tratta di fenomeni davvero troppo differenti.

  3. Intervista breve ma utile. Almeno dà informazioni precise, non le solite cose generiche che si dicono in questi casi.

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