cropped-5588493926_75a403fc6f_b.jpgdi Didier Péron

[Questo articolo è uscito su «Libération»].

Il terribile muro di immagini che si costruisce sotto i nostri occhi attraverso le fotografie delle vittime identificate degli attentati di venerdì porta con sé una conferma: la popolazione colpita dai terroristi dell’Isis era l’idealtipo del giovane urbano cool che di sera riempie i caffè, i locali e le sale da concerto della capitale. Bisogna conoscere bene le abitudini sociali e il valore simbolico dei luoghi per non attaccare un feudo turistico (Beaubourg, gli Champs-Elysées, il Louvre) o un’enclave comunitaria (il Marais gay o il XIII arrondissement cinese), ma una zona al tempo stesso borghese, progressista e cosmopolita, certamente in corso di hipsterizzazione avanzata.

Se si guarda la mappa di questo frammento di rive droite, si capisce che queste strade testimoniano un’eterogeneità sociale ed etnica scomparsa da un buon numero di altri arrondissement. Negozi alla moda, bar pachistani, caffè arabi, ristoranti cinesi o vietnamiti, librerie musulmane e sinagoghe coesistono in uno spazio urbano movimentato. E il Bataclan era riempito quella sera da un pubblico di adolescenti e giovani adulti venuti in assoluta tranquillità ad applaudire un gruppo rock di successo che prende in giro i codici maschilisti e ottusi della sottocultura redneck. L’attentato fallito allo Stade de France voleva distruggere l’epicentro di un’ampia comunione fondata sull’edonismo sportivo, con al centro una nazionale francese dall’identità composita, una squadra i cui giocatori più brillanti provengono dalle periferie povere.

Chiaramente sembra esserci una successione storica coerente tra l’attentato contro Charlie Hebdo in gennaio e gli attacchi portati nel X e XI arrondissement venerdì sera. Due generazioni sono state prese di mira. L’assalto dei fratelli Kouachi intendeva tacitare la vecchia guardia dello spirito gauchista libertario e la sua insolenza laicista. Sparare su Cabu (76 anni), su Wolinski (80 anni), Bernard Maris (68 anni) voleva dire non avere nessuna pietà per chi scherza e nessun rispetto per gli anziani. Gli avvenimenti di venerdì decimano un altro genere di persone, ancora scosse per la vigliacchieria degli attentati di gennaio, prima a Charlie Hedbo, poi all’Hyper Cacher. Una stessa scena di irruzione violenta, il 7 gennaio negli uffici del settimanale dopo la riunione di redazione e venerdì scorso nella sala da concerto surriscaldata, nel momento culminante del concerto, come se gli jihadisti irrompessero per sorprendere e punire un collettivo che trae piacere insieme, o che semplicemente prova il piacere di stare insieme.

Se si considera che, in Francia più che altrove, una generazione si definisce per il suo battesimo di rivolta o manifestazione, che si tratti del Maggio ’68 o dei moti del 2005, si ha l’impressione che, per la prima volta forse, una generazione nasca e muoia nello stesso anno. Un ragazzo può essersi mescolato l’11 gennaio scorso all’immensa manifestazione di solidarietà con le vittime di Charlie Hebdo ed essersi fatto uccidere dieci mesi dopo, secondo un’ordalia jihadista che maneggia con temibile perversione l’aleatorietà della morte e la leggibilità dei massacri. «Nei quartieri attaccati si possono vedere dei giovani, con la sigaretta e il bicchiere in mano, che socializzano con quelli che vanno alla moschea del quartiere», dice lo storico del Medio-Oriente Pierre-Jean Luizard in un’intervista a Mediapart. «E’ proprio questo che l’Isis vuole distruggere spingendo la società francese verso un ripiegamento identitario […]. Che ciascuno consideri l’altro non più in funzione di ciò che pensa o è, ma in funzione della sua appartenenza comunitaria». Avere vent’anni nel 2015 significa essere nati nel 1995, l’anno dell’assassinio razzista di Imad Bouhoud, gettato nel porto di Le Havre da alcuni skinhead, l’anno degli otto attentati islamisti fino alla morte di Khaled Kelkal; significa avere sei anni quando cadono le Torri Gemelle. Non sappiamo descrivere la parte oscura, invisibile delle influenze politiche che danno forma agli individui negli anni di apprendistato, mentre sappiamo farlo bene con i traumi privati grazie alla psicoanalisi.

Il filosofo Frédéric Worms analizza l’emersione di una generazione risvegliata e radunata da questo evento, legata per sempre a queste morti precoci e alla necessità di lottare contro lo spirito di vendetta e di chiusura che una simile ingiustizia suscita; una generazione, dice Worms, «che era già lacerata ma non lo sapeva, e che, senza farsi ossessionare, sarà ancora là, ancora al bar». I membri dello Stato islamico sperano che e cospirano perché la società francese soccomba a una follia simmetrica alla loro, spingendola agli estremi. Ci vorrà meno coraggio a rimanere dei buoni nevrotici troppo chiacchieroni, un po’ alcolizzati, ossessionati dal sesso e vagamente colti che a portare avanti il compito che ci attende oggi più che mai – quello di fare ascoltare con forza una voce umanistica sotto il rumore dei proiettili.

 

[Immagine: Bataclan]

29 thoughts on “Generazione Bataclan

  1. Ci vorrà meno coraggio a rimanere dei buoni nevrotici troppo chiacchieroni, un po’ alcolizzati, ossessionati dal sesso e vagamente colti che a portare avanti il compito che ci attende oggi più che mai – quello di fare ascoltare con forza una voce umanistica sotto il rumore dei proiettili.

    A me pare un flagrante non sequitur…

  2. Perplessita’:

    1) gli attentatori allo Stade de France potrebbero aver realizzato solo una manovra diversiva, per catalizzare in quel punto della citta’ le forze dell’ordine; se cosi’ fosse il valore simbolico della partita sfumerebbe a favore di uno per cosi’ dire “strategico”;

    2) il paventato “ripiegamento identitario” della Francia si innesta, credo, su un’identita’ nazionale gia’ mastodontica, no?

    3) la traduzione “voce umanistica” a cosa corrisponde, eventualmente, in francese?

  3. Non c’è bisogno di “poche forze speciali e qualche attacco aereo”, come vuole (ovviamente) il concretissimo Bernard-Henri Lévy. Basterebbe cominciare finalmente a sostenere formazioni come ad esempio le YPG/YPJ curde, che hanno ottenuto da sole importanti vittorie militari, ma su questo va dato atto al “filosofo” di fare una giusta osservazione: “Perché dosare tanto meschinamente il nostro aiuto agli alleati curdi?”.
    Meglio ancora basterebbe smetterla di finanziare gli amici dell’ISIS, come quell’Arabia Saudita con cui noi per primi facciamo ricchi affari. C’è arrivata pure “Famiglia Cristiana” in uno dei pochi articoli lucidi finora comparsi sulla questione “che fare”. Non lo si fa perché questo andrebbe a mettere i bastoni tra le ruote alle nostre rampanti economie.

    Poi magari ci si potrebbe pure interrogare concretamente sul come impedire che i ragazzi delle periferie (la banlieue a Parigi, ma anche le terre di nessuno che circondano i nostri capoluoghi) trovino l’unica via d’uscita a una condizione di povertà e di abbandono nell’estremismo islamico. Ne parla già Farhad Khosrokhavar nell’intervista ripubblicata ieri da LPLC. Non è stato difficile costruire questi posti orrendi nei quali relegare i poveracci; un po’ più difficile (e infatti non è stato fatto) era dotare questi posti di quello che occorre per condurre una vita che sia per lo meno degna di questo nome. Ora è tardi, ma se si cominciasse a ragionare politicamente su come rilanciare le periferie d’Europa non sarebbe male – se solo questo del rilancio delle periferie non fosse uno slogan sempreverde per le tornate elettorali…

    P.S. i musulmani si stanno ampiamente dissociando attraverso campagne sui social network, come hanno sempre fatto quando l’Isis ha attaccato in Tunisia, in Egitto, ancora a Parigi all’inizio dell’anno… Si dissociano anche se Lévy sembra non vederlo; del resto è probabile che non se ne accorgerebbe nemmeno se tutta la comunità islamica europea si scagliasse armi in pugno contro i miliziani dell’Isis. Ma noi italiani invece ci siamo dissociati dal titolo dell’edizione di ieri di “Libero”?

  4. @Giuseppe – Alle osservazioni nel suo PS del commento precedente (discretamente fazioso nell’affermare “Si dissociano anche se Lévy sembra non vederlo; del resto è probabile che non se ne accorgerebbe nemmeno se tutta la comunità islamica europea si scagliasse armi in pugno contro i miliziani dell’Isis. Ma noi italiani invece ci siamo dissociati dal titolo dell’edizione di ieri di “Libero”? – il mio intento non era affatto quello di tirare in ballo questioni di bieca natura politica, di propaganda) aggiungerei alcune linee: L’Islam moderato dovrebbe, dissociandosi, rispondere anche a domande come queste: Perché mai quasi sempre nel mondo islamico le donne sono tenute in una condizione di spaventosa inferiorità, perché nei suoi Paesi si traducono pochissimi libri, perché costruire una chiesa o una sinagoga deve essere vietato, perché il mondo islamico non ha sottoscritto se non parzialmente le dichiarazioni sui diritti dell’uomo, perché in genere si fa così poco per debellare l’analfabetismo? L’Islam ha una cultura, una storia, una ricchezza grandissime – nessuno lo mette in dubbio. Nessuno mette in dubbio parimenti le responsabilità dell’Occidente nel trattamento umanitario, sociale, in certi luoghi e verso certe fasce della popolazione. Ma le responsabilità si hanno da entrambe le parti, da entrambe le parti. E che l’unità in nome del rispetto di certi valori (“ciò che la persona pensa, non la comunità a cui appartiene” si dice tra l’altro in questo articolo di Peron) è – discretamente – essenziale.

  5. Abbastabza evidente, inoltre, che questo blog si voglia presentare come intelletualmente elitario e giudice obiettivo, sotto l’egida della bandiera di Foucault, quando cade spesso in storture di natura ideologica, e si ritrova nella posizione di un fare politica, e non cultura come darebbe ad intendere. Con ciò definitivamente mi congedo. Grazie.

  6. L’annullamento identitario in atto nelle banlieu (e non solo) non può che esitare – in coloro che sono paradossalmente più sensibili e meno disposti a sopravvivere nella disperazione – in una attesa messianica di redenzione che li rende preda del ‘richiamo’ della Grande Madre dell’Islam radicale, che li accoglie come figli ritrovati nel proprio mondo, scisso tra una realtà di vendetta e un aldilà di ricompense e onori.

  7. Chissà che paura al quartier generale dell’ISIS, quando gli arriva questo numero di “Libération”…nelle banlieues francesi, poi, facce scure e pensose, riflessioni che ti cambiano la vita…
    Cosa ci vuole per cominciare a pensare, l’attacco atomico?

  8. «Libertà in cambio di sicurezza, è ovvio: e guerre tutte le volte che ci sarà da dichiararle, e vincerle in fretta. Abituarsi ai morti per terrorismo come ci siamo abituati ai morti del sabato sera, in nome della qualità della vita. “Noi continuiamo a vivere alla grande, non vogliamo sapere quanto costa”.» Così scrive Walter Siti nel terzo capitolo, dedicato al terrorismo islamico, del suo romanzo-saggio “Troppi paradisi” (Einaudi, Torino 2006, pp. 219, 228), in significativa consonanza peraltro con temi, giudizi e toni che caratterizzano la narrativa del suo collega francese Michel Houellebecq.

    Consideriamo allora, da un lato, in un tranquillo ‘week-end’ parigino lo slancio consumistico della folla degli avventori dei ristoranti, dei frequentatori di un concerto rock e degli appassionati di calcio allo stadio e, dall’altro, l’esplodere delle bombe, il crepitio dei ‘kalashnikov’ e l’odore del sangue diffuso dai terroristi-‘kamikaze’ che irrompono in queste situazioni di vita metropolitana e rovesciano addosso alla folla che le crea, in modo tanto spietato quanto indiscriminato, un carico spaventoso di terrore, di distruzione e di morte. Non vi è dubbio che in questa impressionante dissimmetria sia racchiuso il significato, ad un tempo apocalittico e catastrofico, dell’eccidio perpetrato a Parigi nella notte del 13 novembre 2015.

    Vediamo le reazioni a partire dalla mia. Appresa la notizia del nuovo attentato terroristico che ha colpito la capitale francese, confesso che ho vissuto due opposte reazioni emotive. La prima, tipica dell’uomo occidentale critico verso la propria civiltà perché conscio della decadenza, della volontà di dominio e del demone nichilistico che la abitano. La seconda, propria invece di un individuo integrato nel sistema socio-culturale di appartenenza, propenso, di fronte a tanta barbarie, a giustificare, se non ad invocare, il contrattacco nei confronti di qualunque forza sia portatrice di una minaccia e di un ‘vulnus’ ai valori dell’Occidente. Sennonché l’improvvisa trasformazione di uno spettacolo bello, tranquillo e felice in una spettacolo orrendo, terrificante e atroce, operata dall’irruzione parigina di Gog e Magog in versione jihadista, ci mostra quanto sia fragile e vulnerabile, dal punto di vista antropologico, una civiltà fondata sulla rimozione della morte dal contesto sociale, una civiltà che rischia di collassare se la morte rimossa torna in qualche modo a presentarsi inesorabilmente quale realtà simbolica e dato materiale per effetto della scelta omicida e suicida di chic-chessia.

    “Fare ascoltare con forza una voce umanistica sotto il rumore dei proiettili” è, per dirla con De Gaulle, “un vasto programma”, forse solo una generosa illusione. Ricorda l’esortazione: “Admirez-vous les uns les autres”, che il poeta belga Émile Verhaeren rivolse irenisticamente ai popoli europei che di lì a poco si sarebbero scannati nella prima guerra mondiale…

  9. Riporto la mia riflessione-poesia, scritta dopo tutte le discussioni con amici e conoscenti di questi giorni.

    Dopo tutto,
    resta solo la nebbia
    assieme a molta stanchezza.

    Appesi morbosamente allo Spettacolo del Terrore mondiale
    nel ventre di Parigi,
    l’essenza dello spirito cittadino occidentale,
    in Boulevard Voltaire.

    è incredibile la portata simbolica degli eventi:
    che sia la spiaggia tunisina, il venerdì sera nel quartiere cool parigino, il lavoro ectico del world trade center, la redazione del giornale satirico, lo stadio di calcio:
    tutti i punti essenziali ed i nostri valori (l’edonismo, le vacanze, il lavoro, lo sport, la libertà di stampa e di pensiero)
    ci vengono additati dall’Altro, il non umano,
    l’emarginato, il virtuale:
    il foreign fighter cresciuto nell’era dei social network in paesi dalle politiche interculturali e d’integrazione che hanno rivelato dei buchi, delle patacche marce che sanno di gelosia, invidia, discriminazione.
    Immagino chiaramente, mi sembra di sentirli dai loro discorsi sbirciati nei post di facebook, in quel loro Argo hyper-francese ma con errori di grafia che destano le mie curiosità di storica della lingua (qual’è l’isoglossa in questione, e da dove passa?)

    immagino i loro momenti di ricreazione nelle scuole di Parigi,
    i cortili freddi,
    quei cieli grigi,
    il richiamo delle loro Prof-Mariannes che gli gridano con sicumera isterica di rientrare per le loro lezioni su Descartes, Baudelaire, forse anche sul post-colonialismo.

    Si semina quel che si raccoglie.
    La mia pena va a queste vite fragili, impigliate nello specchio per allodole di un’anomania durkheimiana.
    La mia pena va anche a chi estremizzerà il conflitto, come i leghisti, i lepenisti e tutti gli altri fautori del comunitarismo endogamico.

    Forse fra 50 anni nelle scuole verrà istituita la disciplina dell’interculturalità, la smetteremo di crederci il buco del c**o dell’universo e sapremo pronunciare, assieme ai nomi dei nostri amici africani e cinesi, anche i nostri valori di umanesimo, pacifismo e solidarietà.

    Nobil natura è quella
    Che a sollevar s’ardisce
    Gli occhi mortali incontra
    Al comun fato, […]
    Quella che grande e forte
    Mostra se nel soffrir, nè gli odii e l’ire
    Fraterne, ancor più gravi
    D’ogni altro danno, accresce
    Alle miserie sue, l’uomo incolpando
    Del suo dolor
    (La ginestra o fiore del deserto, G. Leopardi)

    Se è vero che le metropoli sono un archetipo della Grande Madre è come se ieri sera si fosse consumato un matricidio per tutti noi, in mondovisione,
    a ognuno poi effettuare il montaggio dei pezzi, costruire il proprio telegiornale/interpretazione, funzionale al proprio racconto.
    Ieri ho scritto queste parole a whatsapp, che è stato un balsamo fino per tenermi unita anche con gli amici cari sparsi per il mondo

    “Siamo la generazione delle torri gemelle
    Le nostre adolescenze e giovinezze sono state segnate dalle “puntate internazionali”: Londra, Parigi, Parigi ancora
    C’è una fetta di mondo che l’occidente ignora
    Ma che pure ha allevato
    Come un embrione in vitro

    Venerdì 13″

  10. Una voce umanistica dice l’articolo. Sarebbe interessante sapere quale, perchè francamente mi pare che già da tempo nell’Europa neoliberista non ve ne sia da tempo traccia.

    Inoltre, tale ipotetica voce umanistica non solo deve prevalere sul rumore delle pallottolle, ma anche sul discorso demenziale pronunciato appena ieri da quell’inetto di Hollande, che proclama lo stato di guerra di cui in tutta evidenza non v’è alcun requisito giuridico, chiedendo nel contempo i pieni poteri dello stato d’emergenza perfino tramite modifica costituzionale, e tutto per quanto egli si sia dimostrato assolutamente inadeguato al suo compito.
    Io proporrei piuttosto ad Hollande di dimettersi, mi sembrerebbe l’unica decisione minimamente logica.

  11. “Una voce umanistica sotto il rumore dei proiettili”, non dimentichiamolo mai e non permettiamo a nessuno di etichettarlo come buonismo o, persino, arrendevolezza.

  12. @cucinotta

    i pieni poteri e lo stato di emergenza sono due cose diverse. Hollande non ha chiesto i pieni poteri, né, formalmente, ha proclamato lo stato di guerra, la cui definizione giuridica, fra l’altro, non è tanto semplice.

  13. Una “voce umanistica” dovrebbe anzitutto ricordarci che gli attentatori di Parigi sono uomini come noi.
    In quanto tali, sono capaci di ragione, amore e odio. Con la ragione costruiscono una strategia politica, con l’amore proteggono l’amico, e con l’odio attaccano il nemico.
    Noi, in quanto tali, dovremmo fare lo stesso.

  14. Caro Filippo,
    grazie delle puntualizzazioni, che nel dubbio ritengo corrette.
    Ciononostante, davvero lei crede che cambino il senso di ciò che tentavo di affermare?
    Tra ritenersi in guerra, ed essere in stato di guerra, secondo lei ci corre questa differenza abissale? Mi pare che il concetto sia lo stesso, magari espresso non in termini giuridicamente corretti (non sono un giurista, e si capisce).
    Così, pure lo stato di emergenza, non significa tutti i poteri (manca lo ius primae noctis) al presidente, ma amplia i poteri dell’esecutivo a danno delle libertà personali: non stiamo parlando della stessa cosa?
    Lei, che sicuramente è una persona intelligente, crede di avere dato un grande contributo alla discussione con tali pignolerie?
    Un caro saluto.

  15. Les Français approuvent la riposte de Hollande (sondage)
    D’après un sondage Odoxa pour Le Parisien-Aujourd’hui en France, les trois quarts des Français (73%) jugent que François Hollande a été «à la hauteur» des événements après les attentats et approuvent à une très large majorité les mesures proposées par le chef de l’État. 25% des Français jugent que le président de la République a été «tout à fait» et 48% «plutôt» à la hauteur. 26% pensent qu’il ne l’a pas été et 1% ne se prononce pas. Sans surprise, les jugements sont beaucoup plus positifs chez les sympathisants de gauche (90%) mais sa réaction est également majoritairement approuvée à droite (63%).

    Parmi les mesures annoncées par François Hollande devant le Parlement réuni en Congrès à Versailles, ils approuvent à 91% l’élargissement des possibilités de déchéance de la nationalité française, à 89% la création de 5.000 emplois supplémentaires de policiers et de gendarmes et à 84% le fait de faciliter les règles de la légitime défense pour les policiers.76% des Français estiment aussi que l’appel à l’union nationale «est une bonne réponse car cela montre que la démocratie est plus forte que le terrorisme». A l’inverse, 24% y voient «une mauvaise réponse car c’est une manoeuvre politicienne hypocrite».

    Par ailleurs, 81% des personnes interrogées (+20 par rapport à septembre) approuvent les frappes aériennes contre Daech en Syrie (contre 18%) même si 63% jugent qu’elles vont «contribuer à davantage exposer» la France à des risques d’attentats. Les Français sont également majoritairement favorables (62% contre 38%) à ce que la France participe à une intervention militaire au sol en Syrie, ce qu’exclut l’exécutif. Interrogés sur les sentiments (deux réponses possibles) qu’ils éprouvent après les attentats de Paris, 57% répondent «la colère», 40% «la peine», 31% «la solidarité» et 13% «la peur».

  16. @cucinotta

    Non sono pignolerie. Fra lo stato di emergenza e i pieni poteri, per esempio, la differenza è davvero abissale. Si informi, e non avrà più dubbi. Per quanto riguarda la restrizione delle libertà dovuta allo stato di emergenza: si tratta ovviamente di scelte criticabili, ma, senza nemmeno parlare dei rischi che saranno presenti in Francia a medio e lungo termine, a Parigi fra 12 giorni c’è la Conferenza internazionale sul clima. Non sono sicuro che lei si renda conto del pericolo che che ciò può rappresentare. Gli sbagli che hanno condotto alla situazione attuale sono, purtroppo, a monte, sono gli sbagli della politica internazionale francese negli ultimi anni. Adesso, nell’immediato, in Francia la priorità non può essere che la tutela della sicurezza dei cittadini. Se qualche individuo schedato dai servizi segreti subirà una perquisizione decisa non dai giudici ma dal prefetto, ce ne faremo una ragione.

  17. @Filippo
    Ha visto che esiste un modo alternativo alla semplice delegittimazione con argomentazioni di tipo giuridico-formale delle opinioni diverse dalle sue, per sostenere una tesi alternativa? Il risultato è che adesso anche le sue opinioni, finalmente espresse in questo suo secondo commento, possono essere oggetto di discussione.
    Da questo punto di vista, io rimango sbalordito dalla facilità con cui tanti sono pronti ad accettare senza battere ciglio l’abbandono di quei principi che sembravano così strettamente correlati con l’ordinamento di uno stato liberale.
    “Ce ne faremo una ragione”, ammette senza esitazione il nostro Filippo, che stiamo a considerare le libertà personali di fronte alla necessità di tentare di avere qualche morto in meno?
    La domanda successiva è cosa non siamo disposti ad accettare ancora per aumentare la sicurezza, dove collochiamo la linea oltre cui non siamo per nessun a ragione disposti a transigere.
    La cosa che mi ha colpito è che uno stato di emergenza prolungato così a lungo richiede addirittura una modifica della costituzione. Mi chiedo cosa devo pensare dei padri costituenti, di coloro che la costituzione scrissero, erano distratti, non hanno considerato abbastanza i problemi della sicurezza, perchè mai invece di affidare alla legislazione ordinaria, hanno scelto di fissare il limite temporale direttamente nella loro costituzione?
    Per queste ragioni, io invitavo a ragionare sul collegamento tra il verificarsi di questi attentati e la svolta a cui assistiamo in Europa e che finora abbiamo vissuto principalmente sul piano economico. La svolta neoliberista ha generato una crisi economica che risulta la più grave almeno a partire dal dopoguerra. Un aspetto peculiare di questa crisi mondiale è costituita dagli assurdi vincoli di bilancio che la UE e le sue strutture impongono agli stati aderenti, in particolare a quelli dell’area euro.
    A fronte della sempre più ampia consapevolezza popolare del ruolo nefasto giocato proprio dall’unione europea nello sviluppo della crisi, si va generando un movimento transnazionale di rifiuto di questa unione e dei suoi dettami neoliberisti, come evindenziato dall’esito di recenti elezioni in vari paesi, Portogallo, Croazia e Polonia in particolare.
    A cosa assistiamo oggi? All’accoglimento prima ancora di subito da parte della UE della richiesta della Francia dell’applicazione della famosa clausola di solidarietà in caso di guerra, senza evidentemente riflettere minimamente sull’assurdità della dichiarazione di Hollande con cui affermava lo stato di guerra, e quindi la carenza anche a puro livello giuridico-formale delle condizioni che la clausola esplicitamente prevede.
    Insomma, alle spinte centrifughe dentro la UE che i popoli manifestano con strumenti democratici, l’establishment europeo risponde con una gestione degli attentati che, al di là di ricostruzioni più o meno complottistici e più o meno fantasiose, va in direzione esattamente opposta alla volontà popolare.
    Si potrebbe dire che questi attentati hanno sì fatto alcuni morti e feriti, ma qualche frutto positivo per l’establishment europeo l’hanno prodotto, modifiche costituzionali in senso più repressivo, e rafforzamento della UE, che a livello di risultati elettorali sembrava già decotta.
    Ognuno tragga da sè le sue personali conclusioni.

  18. @ cucinotta

    Non m’interessa ragionare con chi si rifugia dietro la formula magica della critica al neoliberismo per scrivere inesattezze o banalità, ho smesso di leggere questo suo commento dopo poche righe. Nei messaggi precedenti mi premeva solo far rimarcare le oggettive minchiate che lei aveva detto, nessuna intenzione di dialogo, da parte mia.

  19. Il commentatore Filippo, un altro esempio di inutile arrogante, anche vigliacchetto perchè non da’ le sue generalità.
    Vedo che la coda si allunga, sta diventando il passatempo dei frustrati di tutto il web.

  20. @cucinotta

    Se il fatto di fornire le sue generalità complete la spinge a scrivere imprecisioni e sciocchezze, le consiglio di porsi qualche problema d’identità.

  21. Dal punto di vista politico-militare, sul quale mi riservo di intervenire commentando l’articolo di Piras, occorre rilevare che l’evento fondamentale, che si è prodotto l’11 settembre 2001 e che si è riproposto nella catena di attentati del 2015, è il mutamento della natura della guerra, già individuato nel 1999 dai colonnelli cinesi Qiao Liang e Wang Xiang in un testo per molti aspetti profetico, accusato da ambienti americani di fornire le basi teoriche al nuovo terrorismo. In tale testo gli autori sostenevano che «non vi è nulla al mondo, oggi, che non possa diventare un’arma» (cfr. “Guerra senza limiti. L’arte della guerra asimmetrica tra terrorismo e globalizzazione”, a cura del generale Fabio Mini, Libreria Editrice Goriziana, Gorizia 2001, p. 59), il che comporta un’estensione senza limiti del concetto stesso di arma, e dunque anche del concetto di guerra. D’altra parte, questa estensione (concettuale e pratica) della guerra che pervade tutti i campi (da quello finanziario e commerciale a quello mediatico e tecnologico) offre ai deboli la possibilità di attaccare i forti, altrimenti invincibili sul campo di battaglia tradizionale. Secondo i due colonnelli, la nuova caratteristica del conflitto è costituita dal fatto che la parte debole cercherà di colpire l’avversario là dove questo non si aspetta di essere attaccato, e il centro dell’assalto sarà sempre un punto atto a provocare il massimo ‘shock’ psicologico, come puntualmente si è verificato nella notte parigina del 13 novembre 2015.

    Tornando a svolgere il filo, per così dire, antropologico delle precedenti considerazioni, occorre inoltre sottolineare che i terroristi hanno smesso da tempo di suicidarsi in pura perdita e mettono in gioco la loro stessa morte in modo offensivo ed efficace, seguendo un’intuizione strategica che coglie con esattezza il limite dell’avversario, la sua fragilità e la sua vulnerabilità, nell’esclusione della morte dal proprio orizzonte di vita. Circostanza, questa, che riporta alla mente quel passo famoso della “Fenomenologia dello Spirito” in cui Hegel dimostra che il riconoscimento fra le autocoscienze si basa non sull’amore, ma sul conflitto, in quanto il riconoscimento implica dolore, sofferenza e antagonismo. È nel conflitto che, secondo il filosofo di Stoccarda, l’autocoscienza che, pur di essere riconosciuta, non teme la morte ed è disposta a sacrificare la sua stessa vita diventa il signore dell’autocoscienza che, pur di aver salva la vita, rinuncia al riconoscimento e diventa servo. Si può così constatare che, ancora una volta, il parametro essenziale della lotta per il riconoscimento (e oggi del conflitto fra le civiltà) è l’atteggiamento assunto nei confronti della morte, definita da Hegel con un’espressione potente “il padrone assoluto”. In conclusione, si conferma anche su questo versante delle riflessioni qui sommariamente esposte come la capacità dei terroristi di dare un senso sia strategico sia culturale ai propri gesti omicidi e suicidi risieda nell’esplicita dissacrazione, compiuta da ‘kamikaze’ disposti a sacrificare le loro esistenze, dell’unico valore socialmente celebrato in Occidente: quello di una vita in grado di fingersi eterna. La domanda inquietante che sorge a questo punto è allora la seguente: non è forse vero che contro un terrorista disposto a morire ‘senza se e senza ma’ le nostre difese saltano quasi tutte, essendo organizzate intorno ad un principio fondante che a noi pareva indiscutibile: “se fai questo, muori”? In altre parole, proprio perché la nostra economia, intesa non solo come produzione di beni ma anche come stile di vita, ci ha abituati a sopravvalutare la vita e a occultare la morte, che cosa succederà ora che è proprio su quel punto che veniamo colpiti con paradossale simmetria?

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