di Mauro Piras
Che giorno è il 12 novembre 2011? In condizioni politiche normali, sarebbe stato un giorno di entusiasmo condiviso per tutti quelli che si sono sempre opposti al berlusconismo: la fine del suo predominio politico, e l’inizio di un possibile rilancio del centrosinistra. Non è stato così. Le manifestazioni stesse in via del Plebiscito o davanti al Quirinale non avevano un tono allegro; si avvertono nell’aria l’astio, la tensione per la situazione pericolosa in cui ci troviamo, e l’insoddisfazione per la risposta politica che abbiamo di fronte.
Un governo tecnico, a rigor di termini, non esiste. E l’incarico a Monti è solo l’unica opzione politica percorribile in questo momento, senza andare in pochi mesi al collasso finanziario dello stato italiano. La festa è rovinata, quindi? Hanno ragione quanti dicono che c’è poco da festeggiare, che il rimedio è peggio del male, che nasce un esecutivo espressione dello strapotere della finanza internazionale?
In effetti, questa scelta è imposta dall’emergenza economica; altrimenti la crisi politica avrebbe portato più naturalmente alle elezioni anticipate, oppure un governo di transizione sarebbe nato da esigenze apertamente politiche (riformare la legge elettorale, fare le riforme istituzionali). Quindi la lettura sembra semplice: la Banca Centrale Europea, istituzione non democratica perché non elettiva, e peggio ancora i mercati finanziari, che non solo non sono democratici, ma non sono neanche tanto razionali, hanno preso il sopravvento sulle istituzioni rappresentative italiane. Copione già visto in Spagna e in Grecia.
Questa analisi non è corretta. La politica rappresenta la direzione della volontà collettiva, cioè la possibilità di orientare una collettività secondo certe scelte o altre. È politica perché può scegliere e creare delle opzioni, secondo le possibilità reali. Se vuole, può orientare le possibilità reali a degli ideali, quelli delle forze politiche in campo, che fanno la differenza tra diverse opzioni. Per fare questo però bisogna agire, e agire quando le possibilità ci sono. Se la politica non agisce, non fa scelte, si blocca nel tentativo illusorio di non perdere mai consensi, di non scontentare mai i suoi elettori, allora si fa dominare dagli eventi. L’anno scorso, a dicembre, avevamo due opzioni: un governo di destra che ricostruisse e allargasse il suo consenso e facesse delle riforme (di destra), oppure le elezioni e un centrosinistra che proponesse modi diversi di affrontare i problemi economici e finanziari. Non eravamo sotto attacchi speculativi. La destra non ha saputo decidere, ha messo su una maggioranza improvvisata, ed è andata avanti per mesi nell’inazione. Da luglio si è scatenata la speculazione sui nostri titoli. Si poteva ancora fare qualcosa. Invece niente. La responsabilità è di chi non ha deciso, cioè della classe politica al governo e del blocco sociale che ha continuato a sostenerla troppo a lungo. Gli eventi economici delle ultime settimane hanno ridotto al minimo gli spazi di azione politica. Qui è la costrizione della democrazia, in effetti. Ma è superficiale dire: è colpa della finanza e della Bce. La finanza fa quello che fa perché funziona così nel contesto attuale (che non è accettabile, va modificato, si veda sotto) e la Bce fa semplicemente il suo lavoro, per come è impostata. È puerile sfuggire alle proprie responsabilità politiche accusando sistemi e istituzioni. Si possono recuperare margini di azione politica, progressivamente, se si interviene in fretta, si raddrizzano i conti e ci si sottrae alla speculazione finanziaria. Una volta recuperati questi margini, si rimettono in campo opzioni diverse, e si affronta anche il problema del controllo europeo e internazionale dei mercati finanziari. Ma con che credibilità si può porre questo problema quando non si è in grado di amministrare il proprio stato?
In realtà il governo Monti non è il governo della finanza internazionale: è lo sbocco inevitabile della crisi politica e finanziaria italiana. Per capire questo, facciamo un piccolo esperimento mentale. Per valutare la reale portata della speculazione finanziaria sulla nascita del nuovo esecutivo, rappresentiamoci la situazione senza tale speculazione. Si tratta di un’ipotesi controfattuale. Contrariamente a quanto molti pensano, la spiegazione storica si serve anche, a volte, di questo tipo di spiegazione causale.
Vediamo. L’anno scorso a dicembre l’Italia non era sotto l’attacco della speculazione, né lo è stata fino a luglio. L’esecutivo ha di fatto perso la sua maggioranza già da dicembre, anzi, dal punto di vista dei reali rapporti politici, dal luglio del 2010, da quando Fini è stato espulso dal Pdl. Infatti la paralisi politica è iniziata lì. Dopo il voto di fiducia del 14 dicembre la cosa è stata evidente: nessuna iniziativa legislativa seria, per evitare una crisi di governo; legiferazione di piccolo cabotaggio a colpi di decreti-legge e di voti di fiducia; incapacità totale di fare riforme, di mettere davvero a posto i conti e di promuovere misure per la crescita, a causa del potere enorme dei veti incrociati in questa situazione di debolezza. Se non ci fosse stato l’attacco della speculazione finanziaria, fino a quando saremmo andati avanti così? Non molto. Il blocco sociale che ha sostenuto il berlusconismo si stava già sgretolando. Allora alla crisi politica si sarebbe arrivati comunque. Ma la crisi politica (interna) sarebbe stata anche crisi economica e finanziaria (sempre interna), perché, speculazione o meno, uno stato non può continuare a portarsi sul groppone un debito del 120% del PIL, pagando per gli interessi troppo alti miliardi che sarebbe meglio utilizzare per gli asili nido, per la scuola, per i sussidi di disoccupazione o per incentivi alle imprese (faccio un elenco a caso). Questi sono problemi che esistono in sé, e che, in un modo o in un altro, da destra o da sinistra, vanno affrontati. Se fosse esplosa la crisi politica senza la pressione esterna della speculazione, avremmo avuto ovviamente due possibilità (quelle di cui si parla da mesi, se non da anni): o elezioni subito o un “governo di transizione”.
Elezioni subito: saremmo andati a votare, e molto probabilmente non avremmo ottenuto maggioranze chiare, perché il quadro sembra questo. Oppure magari le avremmo avute, ma se avesse vinto il centrodestra non si vede come avrebbe potuto cambiare politica; e se avesse vinto il centrosinistra (Pd-Idv-Sel) avrebbe pagato le divisioni al suo interno proprio sulle ricette economiche e finanziarie. Le alleanze coatte, senza tempo di chiarire queste cose, sono però inevitabili, a causa di una legge elettorale il cui più grande difetto non è il voto di lista, ma il premio di maggioranza e la forte penalizzazione di chi non si allea con altre forze. Insomma, con molta probabilità le elezioni avrebbero dato vita a una maggioranza instabile, con la solita paralisi politica e il persistere della crisi finanziaria ed economica italiana. Perché non va dimenticato che un governo serio deve affrontare questa crisi per la sua gravità in sé, e non perché i mercati ce lo chiedono: l’Italia è un paese fermo da oltre dieci anni, non dal 2008.
Poiché tutte queste cose erano chiare a molti, ben prima della crisi speculativa si parlava già di un governo di transizione, cioè di non votare subito in caso di crisi politica. Lasciando da parte le motivazioni contingenti, legate agli interessi di parte, che spingevano in tal senso, c’era però una ragione seria: la percezione che la vita politica italiana dal 1994 al 2011 non ha fatto altro che attraversare una lunghissima crisi di sistema non risolta. L’ultimo episodio di questa storia è rivelatore: un esecutivo che ha iniziato con una maggioranza blindata in parlamento è finito nella stessa litigiosità e paralisi in cui si era trovato Prodi che aveva vinto di pochissimi voti e, si può dire, non aveva una maggioranza in Senato. E prima? I governi Berlusconi 2001-2006 sono durati tutta la legislatura per non fare quasi niente (e lasciamo perdere la gestione finanziaria). Il centrosinistra nel 1996 ha vinto perché la Lega, all’epoca, è andata da sola; ha poi avviato delle riforme interessanti, ma si è autosilurato. Prima, tra il breve Berlusconi I del 1994 e il 1996, un “governo tecnico”. Cioè il vuoto della politica.
La crisi politica italiana è una crisi di sistema politico, non di sistemi elettorali o di modelli istituzionali. Le forze politiche reali non hanno ancora trovato, dopo il collasso del 1992, un minimo di equilibrio, una ricomposizione che permetta di formare maggioranze vere e di governare. La crisi del sistema politico ha, alla lunga, portato all’incancrenirsi della situazione finanziaria, diventata insostenibile e basta, speculazione o meno.
Per queste ragioni, probabilmente saremmo approdati comunque a un governo “tecnico”, “di transizione”, “di emergenza nazionale”, chiamatelo come vi pare, sono tutte formule che servono a nascondere il fallimento della politica. Ci saremmo arrivati più o meno per incapacità generale. Ma una soluzione del genere, se pensata politicamente, può essere un’altra cosa. Se la crisi è di sistema, un governo del genere dovrebbe essere investito del progetto politico di fare alcune riforme strutturali e di ricomporre il sistema.
Tutto quello che ho detto fin qui, ovviamente, è una fantasia. La crisi europea del debito c’è, e ha fatto precipitare la crisi politico-finanziaria dell’Italia. Il suo effetto più grave è che ci ha tolto dal terreno quasi del tutto l’opzione delle elezioni. È vero che questo significa una brutale limitazione della democrazia indotta dai sistemi economici. Tuttavia nel nostro caso (come in quello greco) questa limitazione è stata così violenta perché la classe politica aveva già fallito, e il nostro sistema politico era già al capolinea. È puerile accusare di questo solo i mercati finanziari. Faccio notare che la Spagna si è sottratta inizialmente alla speculazione mantenendo una autonomia politica maggiore, perché il governo in carica ha preso dei provvedimenti e ha indetto le elezioni. La Spagna ha subito la pressione dei mercati, ma con costi meno alti in termini di democrazia perché ha un sistema politico stabile e governi che governano. (Gli attacchi speculativi di questi ultimissimi giorni alla Spagna e alla Francia sono indotti dalla generale debolezza dell’eurozona, non dalla situazione specifica di questi paesi.)
Quindi, la mia conclusione è questa: il governo Monti è, anzitutto, in larga parte lo sbocco inevitabile della crisi politica e finanziaria italiana, che si trascina da più di dieci anni, se non addirittura da diciassette; solo in seconda battuta è, anche, la “risposta ai mercati”, quindi frutto di una più ampia crisi della democrazia, che riguarda la linea di confine tra sistemi economici e sistemi politici, linea che si è abbassata negli ultimi decenni comprimendo l’autonomia dei sistemi politici. La classe politica italiana ha però il dovere di affrontare in primo luogo le difficoltà interne, perché: 1) la crisi politico-finanziaria è da lungo tempo insostenibile; 2) una classe politica ha una responsabilità verso i redditi e i beni dei propri cittadini, poiché la democrazia non è solo il voto del popolo (altrimenti avrebbero ragione i berlusconiani, da sempre), ma anche le istituzioni di garanzia che proteggono i diritti delle persone, tra cui si trovano anche i redditi e i depositi bancari. Quindi basta piagnistei e scaricabarile, questo governo serve per affrontare questa crisi e trovare soluzioni istituzionali.
Detto questo, è ovvio che il problema sul tappeto c’è: la sovranità democratica è stata, negli ultimi venti anni almeno, compressa dalla crescita globale dei sistemi economici. La cosa è stata riassunta molto bene in una formula: siamo passati da state embedded markets a market embedded states. Ancora fino agli anno ottanta circa, gli stati nazionali potevano manovrare le leve dell’economia, perché questa era agganciata funzionalmente agli stati stessi tramite il predominio di sistemi di mercato nazionali; lo sviluppo di sistemi economici sovra- e transnazionali, e soprattutto la perdita di controllo della finanza internazionale, hanno rovesciato i rapporti: gli stati sono immersi in un unico grande mercato, in cui si trovano a competere con global player non statali che spesso sono più grandi degli stati stessi, in termini di capitali. Solo le grandi potenze di taglia diciamo “imperiale” (Stati Uniti, Cina, Russia) riescono a competere su questo mercato globale preservando una fetta significativa della loro sovranità. I singoli stati europei non possono. E in più l’Unione Europea ha il problema strutturale di una moneta unica che non può essere accompagnata da una politica fiscale e finanziaria, perché non ha istituzioni politiche e fiscali unitarie, né un debito pubblico unificato. Da qui la crisi dei debiti nazionali. Tutto questo è detto molto sommariamente, mi scuso. Ma il problema è qui.
Ora, le istituzioni sociali (quindi anche i sistemi) sono opera dell’uomo, quindi è vero che non sono un destino ineluttabile. Ma è superficiale pensare che, non essendo fatti naturali, si possano modificare solo con la volontà politica. Le istituzioni sono frutto di effetti che sfuggono ampiamente alla volontà politica. Si possono guidare e riorientare, se se ne comprende il movimento. Adesso, quel poco che si capisce è che l’unica via d’uscita è il rafforzamento politico di istituzioni sovranazionali: solo queste possono portare a ridimensionare, per esempio, il ruolo dei mercati finanziari. In Europa, il livello di sviluppo delle istituzioni comunitarie è una buona base per farlo, e per arginare i nazionalismi che prevalgono nelle cabine di regia a due auto-nominate, spesso troppo strette all’ortodossia finanziaria. Se non ci si muove in questa direzione, ribellarsi in maniera ingenua alle indicazioni della Bce (e non tenere conto dell’andamento dei mercati finanziari) è irresponsabile e autolesionista perché: 1) più ci si ribella e si rinviano i provvedimenti, più si rimanda il momento in cui, consolidata la forza dello stato, si può rilanciare, con accordi sovranazionali, il controllo della politica sui mercati; 2) paradossalmente, più si evitano le decisioni finanziarie, più si rafforza la pressione irrazionale dei mercati, che reagiscono e limitano la sovranità nazionale; 3) ovviamente, e come già detto, si espongono a rischi enormi i redditi delle persone, dal momento che si creerebbe una crisi di liquidità gravissima, con conseguente recessione, licenziamenti, ecc; 4) l’Unione Europea l’abbiamo scelta, e le limitazioni di sovranità sono un frutto di questa scelta, quindi se vogliamo migliorarla dobbiamo starci dentro, con un qualche potere, e non sottrarci ai nostri impegni (ed è impossibile pensare che la soluzione si possa trovare chiudendosi nei piccoli stati nazionali europei).
Insomma, in definitiva: se la smettiamo di piangerci addosso e di accusare di buona parte dei nostri mali nemici esterni e occulti, il governo Monti può essere investito di un progetto politico. Se non la vediamo così, facciamo il gioco del populismo della destra che, non a caso, in questi giorni agita proprio gli stessi temi: il governo della finanza e della tecnocrazia, la soppressione della democrazia, ecc. Ma quando la destra più populista si trova a dire le stesse cose di una parte della sinistra, allora questa, secondo me, si deve fare qualche domanda.
(Torino, 14-17 novembre 2011)
Ottima analisi, anche dettagliata, delle ragioni autoctone italiane – cioè la paralisi del sistema politico – che hanno portato al governo tecnico. Ma proprio perché questo governo “appare” come il governo dei mercati e della Bce rischia di dare nuova linfa al populismo e alla sua propaganda, riportandoci, dopo una cura da cavallo per sanare l’emergenza finanziaria, all’emergenza democratica che dura da anni. L’Europa, del resto, ha il difetto di essere una costruzione molto imperfetta, priva di istituzioni sovranazionali veramente rappresentative. Finché sarà così, lo spazio per il populismo resta aperto in tutta l’area.
Un articolo zeppo di imprecisioni e abbagli, ma soprattutto *embedded*, il cui senso è uno solo: il capitale è la nostra unica verità, è la nostra unica lingua, è l’unico nostro orizzonte.
L’apogeo dell’artificio retorico, tra ingenuità e ignoranza, è raggiunto proprio nel nucleo centrale del discorso, in quella idea tanto semplice quanto profondamente confindustriale: prima, grazie al governo Monti, “si raddrizzano i conti e ci si sottrae alla speculazione finanziaria”, dopodiché possiamo pensare ad altro.
Ciò che questo signore non riesce a capire è che il capitalismo è esso stesso “conti in rosso” e “speculazione finanziaria”, che sono quindi situazioni irrisolvibili dentro l’attuale configurazione sociale ed economica.
Il risultato del governo Monti è già evidente dalle premesse: a fronte di un leggero aggiustamento, peggioreranno le condizioni di vita dei “soliti noti” (lavoratori, disoccupati, pensionati, etc.). Questa *evidenza tragica* è visibile a chiunque; tutto dipende da quale posizione si osservano le cose.
La condiscendenza verso il governo Monti non è altro che «una civetteria d’agonizzanti».
NeGa
Trovo singolare questo articolo perchè vive una forte contraddizione interna: da una parte, tenta lungamente di argomentare volendosi proporre come un esempio di logica stringente che non ammette repliche, dall’altra però di fatto negli snodi più delicati utilizza una struttura assiomatica, si affida cioè a una presunta evidenza indiscutibile.
Dal mio personale punto di vista, ma mi guardo sempre bene dal considerare le mie tesi come indiscutibili, la crisi di oggi che è prima di tutto una crisi globale e solo secondariamente una crisi nazionale italiana, mostra i limiti da una parte del funzionamento dei mercati finanziari globali e dall’altra i limiti dei sistemi liberaldemocratici.
Si tratta cioè del combinato di due concomitanti crisi sistemiche certamente correlate ma nello stesso tempo non coincidenti, ma che di fatto concorrono entrambe ad estromettere la democrazia dalla politica, la quale, anche quando abdica dai propri poteri, non può comunque smettere di esistere: quando qualcuno scrive di sospensione della politica, dovrebbe più corrttamente dire sospensione della democrazia.
Che la democrazia sia sospesa è un fatto. E’ tesi pressocchè unanime che elezioni anticipate non sarebbero state compatibili con i tempi e la gravità della crisi finanziaria, ed anzi che sarebbero state inutili perchè dalle urne non poteva venire nessuna soluzione alla crisi finanziaria.
Dunque, una condizione internazionale, l’andamento dei mercati finanziari globalizzati, determina le scelte squisitamente politiche, mettendo così in evidenza l’impossibilità dei sistemi istituzionali esistenti a dare risposte adeguate alle esigenze pressanti che vengono dalla situazione storicamente determinatasi.
Che l’impossibilità della democrazia non sia affare di oggi ma che il suo evidente stato di crisi sia di lunga data, e non certo solo in Italia, è un discorso che condivido con l’autore. E’ evidente che la campagna di stampa lanciata dalla destra è strumentale e che la sospensione della democrazia preesisteva in una certa misura già da tempo.
Tale considerazione dovrebbe forse tranquillizzarci? Direi di no, anzi mi rende ancora più preoccupato, proprio perchè evidenzia la fragilità del sistema politico adottato ovunque in tutto l’occidente.
Se l’intento dell’autore era quello di sottolineare come l’episodio del governo Monti sia solo un episodio di una lunga crisi della democrazia. allora concordo con l’autore, ma se invece, come appare dalla lettura dell’articolo, l’intento era quello di tranquillizzarci, che la democrazia goda di ottima salute, allora è chiaro che le nostre opinioni divergono profondamente.
Vorrei infine aggiungere che a mio parere oggi vengono al pettine le contraddizioni inevitabili tra il concetto di democrazia in senso etimologico e principi liberali. E’ la pratica del liberalismo che c’ha portato all’attuale crisi, e la crisi quindi dovrebbe essere vista come una straordinaria opportunità di messa in discussione di certezze ingiustificate che ci portiamo dietro ormai da troppo tempo, ma questo è un discorso che meriterebbe ben più spazio.
Due parole iniziali di replica, mi scuso per la brevità (inevitabilemente dogmatica), più tardi risponderò con un po’ più di tempo.
Non voglio tranquillizzare, e non ritengo che la democrazia goda di ottima salute (Cucinotta); semmai volevo dire che qui da noi sta peggio, perché oltre alla crisi sistemica globale attraversa anche una crisi interna di sistema politico.
Le due crisi si collegano proprio nella connessione tra populismo e debolezza delle istituzioni sovranazionali (Genovese), e su questo concordo con l’osservazione; nel caso dell’Europa, questo problema si è visto fin dai referendum francese e olandese, prima, irlandese, poi, sul progetto di Costituzione e sul nuovo Trattato. La crisi della democrazia va spostata a livello sovranazionale; cercare le soluzioni a livello nazionale porta a derive populiste e a chiusure identitarie, e rafforza gli effetti sistemici più negativi.
Ovviamente, la crisi è anche del sistema capitalistico nelle sue strutture (ng). Su questo torno più tardi. Per ora dico solo che non credo che le liberaldemocrazie siano in crisi in quanto tali.
-messaggio (auto)promozionale-
se credi che le liberaldemocrazie siano in crisi in quanto tali non leggere solo editoriali…
passa ai versi di
http://officinedipoesialin.wordpress.com/
la poesia sperimentale ad un nuovo livello
Mi scuso se faccio ragionamenti più pratici ma non posso farne a meno; è stata una lunga agonia che forse non ci fa intravedere più la cornice in cui ci trovavamo. Abbiamo avuto uno che si è considerato il miglior statista di questo paese e tralasciando tutto, ma dico davvero tutto, ciò che abbiamo dovuto sopportare e quindi io ora dico: finalmente.
Non ricordare questo passato, spero mai più a ripetersi, secondo me ci conduce ad errori di valutazione.
Vengo alla “crisi della politica”. Io non la vedo.
E’ previsto dalla nostra costituzione che qualora si verifichi la situazione in cui in parlamento una maggioranza (dopo un ovvio passaggio di sfiducia al governo in carica) è pronta a sostenere una candidatura proposta dal presidente della repubblica, questi abbia la facoltà di incaricare quel soggetto, anche fuori dal quadro politico, a formare un governo previo iter di consultazione.
Mai mi è toccato di ringraziare così tanto il rappresentante dell’unità di questo paese.
In più questo incaricato è stato nominato all’uopo senatore; che tempismo.
Io non parlerei neanche di governo tecnico. Anche qui l’incaricato sceglie la squadra e ha la facoltà di non nominare iscritti a partiti.
Trovo quindi che sia stata svolta una delle massime espressioni di democrazia esercitate in questo paese (ma ci vogliamo dimenticare di come si cambiavano i governi della I repubblica? quali elezioni con le staffette definite a tavolino? non si parlava di fine della democrazia?). E poi di che democrazia parliamo: consensuale, rappresentativa?
Tutte forme molto lontane da quelle da tempo imposte dal liberismo o libertarismo.
Più che sconfitta o sospensione della politica giudico la situazione accaduta come sconfitta dei partiti non in grado di comprendere la società contemporanea.
E sui poteri forti direi: non della finanza poiché ci sono sempre stati in forme diverse ma una palese invadenza nel modo più garbato possibile del vaticano e qui non basta più il mio tempo.
saluti
Purtroppo non ho tempo per poter fare un commento, ma ho molto apprezzato l’articolo, per la chiarezza analitica, innanzitutto, e per l’ethos che lo ispira: realismo più etica della responsabilità, ma anche apertura dei possibili. E’ una concezione della politica per me davvero condivisibile.
Secondo me sono gli unici argomenti possibili per fondare la posizione attuale del Pd: dovrebbero distribuire l’articolo nelle sedi. Non lo dico per ridere, perché il Pd difetta di capacità di argomentazione, che qui invece c’è. Resta fuori però la paura che soprattutto i bersaniani in quel partito hanno: di restare invischiati nel prossimo futuro in una grande operazione neomoderata, cioè neodemocristiana. Il berlusconismo, raggiungendo in seguito la Lega all’opposizione, rischia di perdere solo i Pisanu e gli Scajola, ma il Pd rischia proprio di spaccarsi in due restando con Monti, o chi per lui come leader, a fianco di Casini. Il punto è che purtroppo non ha una proposta alternativa per gestire la crisi, e deve accodarsi alla direzione neoliberale o neoliberista. Povero Pd! Ha anche timore di andare al governo, non sa che pesci prendere.
Sono colpita dai soliti nomi che si spendono in commenti-ricette sui siti come questo. Quanto tempo libero! Questo genovese poi interviene continuamente, a tutte le ore dispensando verità. Se sono questi gli intellettuali…
Genovese, i suoi lettori non si raccapezzano più: prima lei ci invita a sfasciare i bancomat, ora sta con Piras… Cosa bisogna fare secondo lei? (Sfasciare i bancomat con Piras non si può, perché Piras dice che la proprietà privata è frutto del lavoro delle proprie mani…)
Anzitutto, grazie a Signorina Else per avere colto il senso della mia posizione, e averlo reso meglio di quanto avrei potuto fare io. E grazie a Genovese per l’apprezzamento, per quanto critico (sulle critiche, vedi sotto).
Poi, ammetto che ci possano essere delle parti del testo un po’ “assiomatiche” (Cucinotta), perché non tutto è argomentato, ma chiederei con più precisione quali sono, per vedere se posso o meno rispondere alle obiezioni.
Vengo ai temi. Questa volta li incolonno partendo dal più generale.
1. La crisi è prima di tutto globale (Cucinotta), ed è una crisi del capitalismo e del sistema finanziario, da un lato (ng, Cucinotta), delle democrazie liberali dall’altro (Genovese, Cucinotta). Che la crisi sia globale è indubbio, e si è sviluppata larvatamente nel corso di trent’anni, per esplodere con la crisi economica del 2008. Ciò non toglie che l’Italia ha problemi più gravi che vengono da più lontano, ma su questo al punto successivo.
Quanto alla crisi globale in sé, i due piani, economico e politico, vanno distinti.
Il piano economico. Il capitalismo finanziario sviluppatosi negli ultimi trent’anni è certo in crisi, perché ha domato la crisi dell’inflazione, che ha dominato gli anni settanta, con una progressivo spostamento verso il debito e la finanza, a scapito della crescita effettiva (relativa) dei redditi e dell’occupazione. Questa macchina si è rotta nel 2008, svelando la fragilità di questa costruzione. Ma bisogna evitare di intonare troppo rapidamente il de profundis del capitalismo su questa base. In primo luogo non va dimenticato che il capitalismo non è solo quello occidentale, europeo e atlantico; ormai questo ne è solo una parte, nei grandi paesi emergenti (Cina, India, Brasile) la crescita continua, con squilibri feroci, certo, perché chi arriva più tardi brucia le tappe, ma certo contribuendo a portare fuori dalla povertà milioni di persone che decenni di aiuti ONU e simili non hanno mai aiutato realmente. In secondo luogo, perché troppo spesso il de profundis è stato intonato, anche per crisi più gravi, come quella del 1929, in un contesto in cui poteva sembrare che ci fossero dei modelli economici alternativi; adesso quei modelli non ci sono, perché hanno dimostrato di essere assolutamente inefficienti, quindi è ancora meno probabile che il capitalismo finisca. Il sistema economico è un sistema funzionale, che non si può attaccare arbitriamente in un punto senza provocare enormi danni, molto concreti, alle persone. Adesso abbiamo di fronte varianti del capitalismo; e possiamo riflettere su esperienze di capitalismo “addomesticato”, per pensare a come reinventarle in un contesto molto più ostile, perché il sistema è globale. Ma non va neanche troppo idealizzata l’esperienza dei trent’anni dello stato sociale europeo, perché non va dimenticato che è stato reso possibile dallo scambio ineguale con i paesi produttori di petrolio. Se oggi l’apertura dei nostri mercati agricoli può innalzare i redditi dei paesi africani, pur sottoponendo a tensione la popolazione agricola europea, dov’è il problema di giustizia a cui dobbiamo dare priorità?
Il piano politico. Qui il problema è: a causa dell’economia globale, gli spazi della politica democratica si sono contratti. I mercati limitano la possibilità di fare politiche sociali, di far giocare liberamente le opzioni politiche, e tutto sembra ridursi al “pensiero unico liberista”. In generale è vero, ma introdurrei i seguenti correttivi. Non è vero che c’è una crisi delle liberaldemocrazie in quanto tali. La crisi è funzionale, non normativa; gli stati non riescono a garantire il benessere che garantivano prima, ma continua a essere condivisa, anzi cresce, la fiducia nel progetto democratico. Il progetto è inceppato, forse, ma non è rifiutato. C’è una dinamica di inclusione democratica che procede, su altri terreni, anche se è più ostacolata sul terreno sociale (ma non siamo comunque al livello della totale mancanza di protezione degli anni trenta). Anche i movimenti di contestazione dal basso fanno parte della logica delle democrazie liberali, altrimenti queste non sarebbero tali. L’inadeguatezza degli stati a fare fronte alle pressioni dei mercati può essere affrontata, l’ho già detto, spostando il problema a livello sovranazionale, ma regionale, in ampie aree già integrate per altri aspetti, come per esempio l’Europa. La sinistra dovrebbe davvero rilanciare verso l’alto il progetto di integrazione politica dell’Europa, invece di vedere in questa solo tecnocrazia, e alimentare così forme di chiusura locale anche nel proprio elettorato. E’ vero che le classi politiche nazionali in Europa attualmente sono molto inadeguate (la Merkel lo ha dimostrato ancora in questi giorni), ma la crisi sta offrendo delle occasioni: la creazione di un debito pubblico europeo, per esempio, è un’occasione per spingere verso vere elezioni politiche europee. Se si snobbano queste cose, perché espressione del capitalismo neoliberista ecc., si perde il treno.
2. La situazione italiana. Condivido l’attacco dell’intervento di ammiraglio61: cerchiamo di essere pratici, il che non vuol dire perdere di vista una prospettiva (anche emancipativa, perché no?) più alta. Ma io ho bisogno di vedere il rapporto tra le grandi idee e le cose che si fanno. Obbietto però che la sua analisi è fin troppo ottimista (persino per me!), perché in Italia il problema non è il funzionamento formale delle istituzioni (in questo, è vero, tutto sommato abbiamo mantenuto un equilibrio che non era così scontato), ma il sistema politico, cioè il numero e l’identità dei partiti politici, i progetti politici e il loro rapporto con la realtà sociale. In questi giorni, chi sta a contatto con gente che amministra o che lavora nel mercato (piccoli imprenditori, ecc.) si rende conto che il consenso al governo Monti è molto forte, anche da parte di persone che, per esempio, sanno che la riforma delle pensioni li penalizzerà. Perché? Perché l’immobilismo, l’inefficienza e l’irresponsabilità della classe politica hanno portato solo a bloccare il paese, a tutti i livelli. Quindi, io continuo a dire sconfitta della politica, e non solo dei partiti, perché intendo sconfitta di un sistema e di una classe politica (e non solo: il crollo della legittimità rappresentativa è verticale nel sindacato, anche).
Vengo quindi agli ultimi punti sollevati da Genovese. Certo, se il PD si identifica con il governo Monti, si rovina. Il PD dovrebbe essere capace di dire che farebbe altre politiche, se potesse governare. Ma che non può governare, perché per farlo ci vorrebbero le elezioni (faccio notare di passaggio che gli spagnoli se le sono fatte, le elezioni anticipate, perché lì non c’è un fallimento della politica). Però bisogna vedere anche un’altra cosa: certe scelte non sono necessariamente neoliberiste. Se mettiamo tutto nel sacco alla stessa maniera, impediamo la ricostruzione di un sistema politico. Un solo esempio, che so essere molto irritante per la sinistra, soprattutto sindacale (quest’ultima la conosco bene dall’interno): vista da sinistra, la riforma delle pensioni non è un problema di conti dello stato, ma di equità nei confronti delle generazioni più giovani.
Scusate la lunghezza.
Confermo la mia prima impressione: il discorso di Piras è tutto interno alla gestibilità del capitalismo; magari con l’idea di “temperarlo”, però da considerarsi classicamente il migliore dei mondi possibile; con in più l’aggravante della impensabilità d’un diverso. A fronte di un simile posizionamento, che dialogo ci può essere? Cambiando la prospettiva cambiano le analisi e le soluzioni. Comunque, mi addentro nell’abisso e, benché consapevole che abyssum abyssum invocat, provo ad articolare una contro-risposta: da una prospettiva che non è solo mia …
Crisi globale.
* Piano economico. Un errore grossolano è considerare questa crisi – che, in certi ambienti, viene chiamata, e fin dai primi anni 70, “la crisi irrisolta” – come una crisi solo finanziaria. La fonte della crisi in corso è una sola: il mercato non può assorbire la totalità del prodotto. Un tempo si sarebbe detto: crisi da sovraproduzione. Per sopperire ai mancati profitti (senza venduto non c’è guadagno), molte attività sono state spostate verso il settore finanziario. La Fiat rappresenta molto bene questo passaggio. Riporto un passo di un economista non omologato:
“In questi anni la leva finanziaria e creditizia, favorita da tassi eccezionalmente bassi – e in qualche caso (come negli Stati Uniti e in Giappone) addirittura negativi in termini reali, ossia inferiori all’inflazione – l’enorme esplosione del debito su scala mondiale (con asset finanziari che nel 2007 avevano superato il 350% del PIL mondiale) è servita a conseguire tre obiettivi: 1) ha permesso di costruire prodotti finanziari (quali le carte di credito, ma anche i mutui subprime) attraverso i quali i lavoratori, che guadagnavano meno di prima (per tenere alti i tassi di profitto), hanno potuto continuare a consumare come prima; 2) ha tenuto in piedi imprese decotte; 3) ha offerto una via di sfogo profittevole a capitali in fuga dall’impiego industriale (perché poco profittevole)(15). In altre parole: la finanza non è la malattia. È la droga che ha permesso di non avvertirne i sintomi. Con il risultato di cronicizzarla e di renderla più acuta. E alla fine la malattia, ossia la crisi da sovrapproduzione di capitale e di merci, è esplosa in tutta la sua violenza.”
Ciò vuol dire una cosa sola: il capitalismo non funziona ed è incorreggibile. Bisogna inventarsi qualcos’altro. Il discorso di Piras nega questa possibilità. La possibilità di addomesticare il capitalismo non esiste *nella realtà*. Mi pare che i tentativi fallimentari degli ultimi trent’anni siano chiari: la crisi – di cui si parla, anche mediaticamente, dal 1972! – non solo non è stata risolta, ma è peggiorata. Uno dei risultati evidenti di questo pegioramento (oltre al peggioramento delle condizioni di vita dei “proletari”) è la tendenza alla guerra. Le guerre si fanno proprio per rispondere alla crisi (posizionamento geo-politico, spazi di mercato, risorse, distruggi-e-poi-costruisci realizzando commesse, etc.). Dimenticare questo aspetto è cecità.
Piano politico. La Comunità Europea è nata fin da subito come una sorta di “imperialismo a guida tedesca”. La spinta all’unificazione c’è stata solamente per rispondere agli input della concorrenza con Usa, paesi asiatici, etc.. Per compiersi, questo processo ha bisogno di un’Europa anche politica, con un governo europeo, elezioni europee, etc.. Il Trattato di Lisbona, tra l’altro, contiene già forti indicazioni in tal senso. In ciò, il pensiero di Piras è perfettamente in linea con quella che è l’intenzionalità del capitalismo europeo. Chi spinge in questa direzione sono proprio le imprese presenti nel mercato mondiale (volkswagen, etc.). Una Grande Europa si contrappone meglio di un insieme disordinato di stati senza guida. Questo è un bene? No, perché l’obiettivo evidente fin da subito non è la cooperazione, bensì la guerra commerciale – che non tarderà a farsi anche militare. Le manovre economiche in corso nei paesi della Comunità – e quella di Monti andrà nella stessa direzione – puntano tutte a ritoccare, aggredendolo, il debito pubblico; il problema è che la crisi è acuita – non determinata, ma acuita – dal “debito privato verso creditori esteri”. Attaccare solo il debito pubblico non solo non risolve, ma peggiorerà la situazione (il nervosismo dei mercati dipende da questa sensazione di fallimento annunciato?). Al calo della domanda – non c’è scampo: se tocchi le pensioni, e quindi i salari, la domanza si contrae – corrisponderà ulteriore recessione … e via all’infinito … no, cioè, non all’infinito: fino alla prossima guerra. Questa situazione irreversibile impone l’invenzione di un’altro mondo, diverso dal capitalismo. Non c’è scampo.
Situazione italiana. Anche chi è contro il governo Monti (ma siamo in pochi, ormai) è pratico e non perde di vista le prospettive di emancipazione; e ben più di quanti lo applaudono. Su ciò, per lo meno, non prendiamoci in giro. La manovra di Monti è già evidente: contrazione del salario generale. Nessuna seria intenzione di aggredire i grandi patrimoni e l’evasione fiscale. La cosa che sfugge a Piras è che le scelte sono già delineate, e sono *tutte* di stampo neoliberista. Monti, d’altra parte, è stato scelto per questo. Tanti richiami alla realtà e poi la realtà sfugge allo sguardo. Che si stiano usando lenti sbagliate?
Ma tutto, come ho già detto, dipende dalla posizione che si assume. Io sono da un’altra parte.
NeGa
@mauro piras
Il punto non è di intonare o non intonare il de profundis del capitalismo, è che guardando le cose sforzandosi di essere obiettivi, la crisi non ha soluzione.
Ricordo che il complesso dei titoli che circolano nel mercato globale ha un valore facciale di più di otto volte il PIL mondiale, il che dovrebbe indurci a considerarli carta straccia, in quanto tecnicamente inesigibili: il problema sta tutto lì, le varie corporations, principalmente del mondo anglosassone, sono piene di questa cartaccia e, non volendo trovarsi una tale ricchezza nominale di colpo bruciata, si comportano in maniera sostanzialmente disperata. A me pare che sono proprio le grosse banche che, non trovando alcuna soluzione indolore, per il momento non trovano di meglio che tirare a campare il più a lungo possibile (così i dirigenti possono continuare a percepire i loro stipendi principeschi), e che quindi la passività degli stati, USA inclusi, a prendere il toro per le corna, finirà per avere uno sbocco tragico, probabilmente con lo scoppio di conflitti interstatali.
Io so bene come lei che i paesi BRICS, in base alla loro capacità produttiva, dovrebbero assumere un ruolo ben più importante sullo scenario internazionale, ma bisognava spiegarlo a Greenspan quando, a partire dalla fine degli anni novanta, inondò il mercato di liquidità proprio perchè gli USA non perdessero quote di ricchezza a livello globale. Su questo, sul perchè cioè c’è stata una tale esplosione quantitativa dei mercati finanziari, ha già scritto ng cose condivisibili, e non occorre tornarci.
La critica all’Europa ed alla sua struttura istituzionale del tutto inadeguata a fronteggiare gli eventi, seppure del tutto condivisibile, non dovrebbe nascondere il fatto fondamentale che la fonte della crisi non sta nell’Europa continentale, ma negli USA e nel Regno Unito, e che la cura che questi paesi ci propongono in maniera così insistente, creazione di moneta da parte di un organismo centrale come la BCE, costituisce nei fatti un aggravamente dei fattori di crisi, e può fornire solo un sollievo momentaneo.
Sono lieto che lei mostri un atteggiamento di dialogo perchè spero di avere finalmente trovato qualcuno che mi prospetti quale possa essere la soluzione della crisi. Io riesco ad immaginare soltanto un consenso di tutti gli stati a ridurre di una percentuale sostanziale il valore facciale dei titoli in circolazione, ma non mi pare di vedere consensi in questa direzione.
Passiamo ora alla crisi politica.
Sulla salute dei sistemi istituzionali, rischiamo di fare una discussione a vuoto, perchè ognuno può dire la sua senza che sia possibile scegliere tra le differenti ipotesi.
Non posso condividere il suo discorso in proposito.
Se si osserva che esiste una crisi funzionale (e del resto solo quella funzionale, cioè solo i suoi effetti possono essere osservati, mi pare ovvio), come fa ad essere così sicuro che non ci sia una crisi normativa? L’argomento pare fondato sul gradimento soggettivo da parte dei cittadini, visto che condividono il progetto democratico, allora non v’è crisi normativa. Non credo di potere condividere una tale argomentazione: posso bene credere di vivere in un sistema democratico, ma il fatto che io lo creda non cambia la natura del sistema.
La domanda corretta sarebbe se ai cittadini è dato intervenire sulle scelte fondamentali della società. E qui si palesa la contraddizione crescente tra liberalismo e democrazia.
Il discorso è alquanto complesso. Molto schematicamente, si tratta del problema del potere, e cioè di come i principi liberali, nel garantire quelle che si definivano le libertà borghesi, sostituiscano al potere istituzionale un potere di fatto dei pochi che hanno i mezzi per influenzare l’opinione pubblica. Parlo di un’influenza in senso lato, non specificamente sul voto, ma sullo stile di vita. Chiunque abbia mezzi finanziari per accedere ai grandi mezzi di comunicazione di massa, lo può fare, e attaverso il lobbying, può perfino influenzare il parlamento.
Si tratta insomma della retorica della libertà, per cui un cittadino che possa esprimere liberamente il proprio voto e scegliere il colore della maglietta che vuole indossare, si sente soddisfatto del proprio spazio di libertà, negando così a sè stesso che il suo sistema di pensiero è predeterminato da un contesto culturale effettivo creato da pochi ricchi e potenti.
La democrazia viene vanificata perchè le sedi del potere reale sono altrove, ben aldilà della possibilità di intervento dei comuni cittadini.
Ora, non basta più questo esercizio del potere sulla base del censo, ora ci troviamo a sancire direi formalmente, che i grandi operatori del mercato globale siano abilitati a determinare le scelte politiche di nazioni formalmente democratiche.
Ciò che più mi preoccupa non è neanche questa sospensione volontaria del parlamento dei propri poteri, ma il tono delle argomentazioni.
Ormai, sono mesi che i dirigenti del PD sostengono nei vari talk-show una tesi singolare, e cioè che la loro posizione politica non è di parte, è fatta nell’interesse generale. Essi, uscendo da sé stessi, dal loro essere membri di un partito (e quindi deliberatamente di parte), incarnano l’interesse generale.
Secondo me, essi non si rendono conto della gravità di una tale affermazione. E’ un tipo di argomentazione che usano i dittatori: essi si sentono portatori dell’interesse generale, ed è questo che legittima il loro potere assoluto.
L’alternativa in democrazia dovrebbe essere costituita dalla dialettica politica, ogni partito, in quanto portatore di una specifica visione dell’interesse generale, lotta contro un’altra ipotesi di interesse generale. In altre parole, l’interesse generale non può essere la premessa indiscutibile della pratica politica, ma dev’essere l’oggetto stesso della contesa politica.
Mi fermo qui perché mi sono già dilungato troppo, e non certo perché il discorso possa davvero concludersi qui: ci sarà altra occasione di continuarlo.
La mia grande perplessita’ sulle “cose”, cioe’ la politica, anche in questo sito, nasce da una considerazione di rappresentanza (a nome di chi parla colui che parla) e di rappresentativita’ (a nome di quale rilevante attributo parla colui che parla).
Ogni contributore al colonnino, dal Prof. Piras ai commentatori, non mette in chiaro il proprio rifarsi all’una o all’altra. Dubito che l’agora’, soprattutto in rete, abbia l’effettiva forza per incidere su qualcosa, a meno di farsi massa critica. Ogni discorso sulle “cose” rimane dunque monco perche’ non e’ seguito da alcuna azione, a differenza di quanto accade con le “parole” letterarie, che hanno storicamente tanto uno statuto di rappresentanza (come nel caso dei “competenti” che fanno il mestiere, alla stregua di un sindacato) quanto di rappresentativita’ (nel caso di chi ha “talento” in proprio e si fa opinion maker su base carismatica).
Il luogo fisico nel quale portare questi contributi sulle “cose”, a livello di cittadini comuni, dovrebbe dunque essere la sezione di un partito (in una logica di rappresentanza) o, in forma meno vincolata, una sala associativa preventivamente dichiarata (in una logica di rappresentativita’). In assenza, si tratta di atti sostanzialmente innocui, una specie di talk show all’incontrario al quale siedono sempre gli stessi invitati / commentatori ormai da anni.
Signorina Else, mi legga con più attenzione, per favore. La mia idea è che il governo Monti sia il prodotto dell’impasse della politica italiana più che la sua soluzione (la democrazia deformata che si avvita su se stessa…). In ciò concordo con Piras: le cause del male sono endogene al sistema politico, ben prima che esterne. Tanto è vero che di un governo di transizione, di tregua, e così via, si parlava già prima dell’attacco dei mercati al debito pubblico italiano. Faccio però notare che una cosa sarebbe stata la “nuova” maggioranza parlamentare che sarebbe potuta nascere il 14 dicembre 2010, e non nacque, un’altra cosa, ben diversa, sono le larghissime intese attuali, che comprendono il partito berlusconiano. Nel frattempo, infatti, oltre al ricatto dei mercati, è cambiato qualcosa nella (non) politica italiana: è in campo una forte operazione cattolica, o cattolico-liberale, sponsorizzata direttamente dal Vaticano, che mira a inglobare il Pd. E questo partito può facilmente essere inglobato, magari spaccandosi, perché è in se stesso un partito “spurio”, frutto della necessità di fronteggiare il populismo, e quindi esso stesso un prodotto della democrazia deformata. Dall’altro lato, il partito berlusconiano rischia molto di meno: o il rapporto con la Lega, se la sua permanenza in una maggioranza di larghissime intese dovesse durare troppo a lungo, o, com’è più probabile, solo la perdita di alcuni democristiani al suo interno, quelli che aderirebbero al progetto neomoderato.
Da una parte l’ottimismo critico (Mauro Piras) e dall’altro il pessimismo argomentato (ng e Cucinotta): a pelle mi troverei abbastanza in sintonia con i secondi, anche perché in generale ritengo davvero questa una fase storica di svolta, forse di cambio di paradigma (per lo meno politico), ma proprio per questo una fase in cui i protagonisti più importanti – e non penso che l’Italia (come paese, sistema economico e comunità politica) sia tra questi – si stanno giocando tutto, a livello planetario, e quindi metteranno in campo tutti i mezzi atti a conseguire i propri fini. Non so (e ovviamente non lo spero) se l’esito finale sarà per forza bellico, come paventano ng e Cucinotta: la storia porta a conforto di questa tesi molti esempi, più o meno vicini nel tempo, ma gli storici non sono indovini (e i più seri se ne guardano bene dall’esserlo): tanto diverse sono le “condizioni al contorno” (per esprimersi in linguaggio matematico) che pretendere di ottenere dalle nostre “equazioni” (per proseguire la metafora) un risposta anche solo verosimile è almeno ingenuo (al più è mera follia). Non si può però del tutto escluderlo! E non si può, a mio parere dare per scontato che capitalismo e democrazia continuino la loro (più o meno felice) convivenza: la Cina dimostra esattamente il contrario.
Detto ciò queste sono posizioni che però non esibiscono alcuna proposta positiva, nei termini di azione politica effettivamente realizzabile e questo è purtroppo il limite che pare caratterizzare molti discorsi fatti dalla sinistra – che è la parte politica a cui appartengo, detto così per presentarsi. Magari questo è frutto solo della mia ignoranza, e ng e Cucinotta delle proposte le hanno per davvero. Dopo di che anche l’appunto fatto da ng (‘il discorso di Piras è tutto interno alla gestibilità del capitalismo; magari con l’idea di “temperarlo”, però da considerarsi classicamente il migliore dei mondi possibile; con in più l’aggravante della impensabilità d’un diverso’) non mi pare irrilevante: è probabile che sia giunto il momento di mettersi davvero a pensare a questo ‘diverso’, ma rimane sempre il problema di cosa realisticamente concepire e, possibilmente, realizzare, come già ho detto. Io non ho nessuna difficoltà ad ammettere che non lo so… forse bisognerebbe (ri)mettere al centro della riflessione un diverso bilanciamento tra diritti e beni universali. Una cosa è sicura: questa situazione si dovrà risolvere, e può essere che si risolva con l’imposizione di un ‘diverso’ che non ci piacerà affatto.
Mauro Piras dice che la soluzione per uscire da questa crisi sistemica (relativamente al nostro angolo di mondo) e per rimettere in moto la politica (ma si è mai fermata veramente?), specie quella italiana ormai bloccata da molti anni, è quella che impone un ‘cambiamento di scala’: in ottica europea i problemi, dovuti sostanzialmente ai meccanismi distorti della globalizzazione, si possono affrontare meglio. Dipende molto da chi sarà al tavolo della regia. Anche qui gli appunti corrosivi di ng non sono completamente fuori luogo, anche se un po’ schematici: illudersi su un’Europa dei popoli piuttosto che dei mercati (o sarebbe meglio dire dei mercanti), in questa fase, lo ritengo abbastanza puerile. L’avversario – chiamiamo così il milieu apolitico tipico della globalizzazione transazionale – è già da molto tempo strutturato su una dimensione di quel tipo, ha armi raffinatissime di contrasto verso ogni politica sociale e soprattutto rifiuta la prassi argomentativa propria dell’agire politico. Ci vorrebbe un’azione di forza molto potente per piegarlo, ma è possibile che ciò succeda?
Per quanto riguarda il PD – e tralascio SEL, o gli altri raggruppamenti della ‘sinistra in tracce’ – non dico, perché lì progetti nel senso che dicevo prima non mi pare ne esistano: anzi per troppi anni qualcuno là dentro si è crogiolato con la convinzione che il mercato possedesse delle virtù taumaturgiche tali da curare tutti i mali della società, con il risultato di abiurare completamente l’idea di poter pensare ad alternative realizzabili, che fossero anche solo il vecchio sistema socialdemocratico che Mauro Piras in qualche modo stigmatizza perché ‘reso possibile dallo scambio ineguale con i paesi produttori di petrolio’, ma che comunque rese possibile un compromesso tra capitale e lavoro che oggi molti rimpiangono.
Credo che l’articolo di Mauro Piras contenga spunti molto interessanti (sono d’accordo con @Else). Il tono e la logica del suo ragionamento storico è anche per me la base da una comprensione storica (che non coincide con le descrizioni economiche o quelle delle scienze sociali, anche se ne deve includere i risultati) dovrebbe partire (magari per proporre diverse interpretazioni dei fenomeni storici in esame) – come modello, penso a uno storico come Donald Sassoon.
Non ho tempo purtroppo per partecipare a questa interessante discussione. Vorrei sottoporre alla vostra attenzione una intervista rilasciata da Saviano – molti di voi forse la conosceranno già.
Mi permetto una domanda. Premettendo che tutte le opinioni hanno diritto di cittadinanza, com’è possibile che su un blog convivano quest’articolo ed interventi di Bellofiore, ed altri ancora di Zizek?! (per non farne questione di preferenza, ho scelto tre interventi (ed autori) che non incontrano il mio gradimento).
Forse sarebbe ora che, proprio in ragione di un così ricorrente sconfinamento degli spazi di intervento culturale nel dibattito politico, chi prende parte a questa famosa muta collettiva verso l’impegno, provasse a scegliere in maniera un po’ più chiara aree e referenti, intenti ed interlocutori.
Qui la parola non è plurale, è una parola che si contraddice!
Non è utile al dibattito, né scientifico, né genericamente culturale, proporre interventi, posture critiche e scientifiche, senza mai abbozzare geografie del pensiero. Si può anche scegliere di non enunciarsi nella geografia, ma in quel caso si rende necessario almeno uno sforzo cartografico.
Capisco che dietro l’angolo si avverta una sorta di rischio del ritorno ai manifesti, alle parole d’ordine, alle dinamiche del collettivo che forse possono sembrare inadeguate rispetto ad una sorta di vertigine della sconfitta che alcuni avvertono, ma così si rischia di restare sempre al di qua del campo di gioco, sempre un passo prima pure della funzione critica e cartografica di alcune parti del contemporaneo.
Dico questo nella più autentica stima per molte delle persone che scrivono qui sopra e per il loro lavoro (qui e altrove).
Mi permetto di rispondere io a Bruno, al posto della redazione di “Le parole e le cose” (che magari è in vacanza alle Bahamas, mentre noi siamo qua a dibattere). Le riviste di un tempo, e anche i siti letterari o culturali di oggi, si dividono in quelli “di tendenza” e quelli “di dibattito”. Quelli di tendenza magari sono anticapitalistici, oppure sostengono le posizioni dell’avanguardia letteraria, o quelle di un certo scrittore, e così via., e si distinguono perché si occupano di anticapitalismo, etc. Quelli di dibattito sono problematici, pur senza essere ecumenici, vogliono porre delle questioni e magari sollevare dei dubbi; desiderano ascoltare più voci e costruire un dibattito sperabilmente a un certo livello (non quello dei “talk show”, per intenderci). È evidente che “Le parole e le cose” è un sito di questo secondo tipo. A me piace per questo: perché ci può scrivere uno come me, che non ha un’opinione troppo buona del governo Monti (anche comprendendone la “necessità”) e uno che la pensa in maniera diversa, argomentando la sua posizione.
@ Bruno Pr solleva una questione importante. Per l’essenziale ha già risposto @rino genovese. Vorrei però aggiungere due cose.
Penso che la mancanza di coerenza ideologica non sia sempre un disvalore, specie in politica. Pensi alla storia dei 100 anni del socialismo europeo, la cui grande forza mi sembra sia stata proprio il poco valore dato alla coerenza ideologica nel momento della deliberazione e della lotta politica. Ciò che avevano chiaro erano invece degli obiettivi storicamente identificabili e praticabili: la giornata lavorativa di otto ore, il suffragio universale, il riconoscimento dei diritti economici e sociali, la costruzione del welfare state, ecc. (vorrei rassicurare @Piras: non idealizzo quei 100 anni).
Da cittadino chiederei al governo Monti alcune cose come: una maggiore integrazione europea (convincere i tedeschi a far agire la BCE come prestatore di ultima istanza, un parlamento e un governo europei con maggiori poteri …), maggiore equità sociale con l’obiettivo della crescita (lotta all’evasione, patrimoniale), gestione responsabile dei conti pubblici, ecc…
Mi piacerebbe sollecitare @Mauro Piras su questi punti.
Vabbe’, mi tolgo la cravatta, per vedere se riesco a dire le cose più chiare.
In primo luogo, evitiamo il “prof.” Piras (come direbbe un mio amico di Roma: “ma professore dde che?”), è sufficiente piras, anche minuscolo.
Caro “fu GiuSco”, non ho capito bene la questione della rappresentatività, rappresentanza, ecc.: quando si discute tra pari non si chiede alle persone in nome di chi parlano o di quale ruolo, titolo, ecc. Io parlo per me stesso, come si fa di solito. Propongo degli argomenti perché penso che la discussione, in politica, serva, non sia del tutto inutile (altrimenti siamo d’accordo col reazionario Donoso Cortés, che stigmatizzava la “burguesia discutidora”). Se poi ci poniamo il problema del passaggio all’azione, è un altro paio di maniche: si risolve solo passando all’azione (io per me l’ho già risolto).
Torniamo al tema: il governo Monti non è il mio governo, io sono un elettore di centrosinistra, e mi piacerebbe un governo di centrosinistra capace di affrontare una politica redistributiva. E mi piacerebbe una sinistra capace di pensarla; ma il fatto che il PD sia deboluccio su questo non mi invita a votare velleitare sinistre antisistema che in realtà non hanno nessuna proposta per farla davvero, questa politica. Come diceva Venditti, “manca l’analisi” (l’elmetto lo lascio a voi): se la politica emancipativa vuole essere radicalmente critica, deve avere una teoria sociale forte, che sappia agganciare il suo progetto a forze reali. Questa per me è teoria critica. Altrimenti, qualsiasi teoria che denuncia con orrore l’oppressione ma non sa vedere le forze emancipative già agenti nella realtà si riduce alla “virtù e il corso del mondo”. Non fa per me. A me non piace stare in una angolo a guardare e piagnucolare. Mi piace avere la soddisfazione di fare qualcosa e di vedere che si può fare qualcosa. E soprattutto le analisi che mostrano la catastrofe ovunque per portare alla paralisi vanno contro il mio radicale kantismo (è così, è più forte di me): “se devi puoi”, ideuzza su cui riflettere.
Sono ricaduto nell’eccesso di teoria, chiedo scusa. Dicevo che il governo Monti non è il mio governo. Ma in questo momento dobbiamo mandarlo giù non (sol)tanto perché c’è la speculazione, ma soprattutto perché il sistema politico italiano è alla frutta. Questo è il senso del mio intervento, in finale. Quindi, visto che dobbiamo mandarlo giù, facciamo in modo che sia investito di un progetto politico serio, che sarebbe quello di costruire un sistema politico sensato. Per esempio con una sinistra “utopisticamente realista” (Rawls, lettore di Rousseau), che sappia pensare una politica di giustizia ed equità nel contesto attuale. Riconosco che sono forse troppo ottimista nello sperare che la nostra classe politica, di ogni banda, sia capace di tanto; accetto questa critica. Ma intanto la mia esortazione a darsi una mossa è rivolta anche alle energie che ognuno di noi può mobilitare nel suo contesto, in questo senso. Darsi una mossa per costruire, e credere in progetti di lunga durata. Se si pensa che ogni azione politica e sociale è avvelenata dall’alienazione che tutto circonda e penetra, allora si lascia passare ogni cosa.
Ritorno al discorso generale. Ovviamente, non sono così idiota da pensare che una politica emancipativa sia quella delle timide riforme di cui ho parlato qua e là, aggiustamento del sistema politico, problemi di bilancio, ecc. Due cose, però: 1) queste strutture rendono possibile una politica emancipativa, perché voi potete dire tutto quello che vi pare ma tutto quel debito sulle spalle impedisce di fare miglioramenti di qualsiasi genere; 2) la politica emancipativa (che già pone problemi di fondazione teorica, ma lascio da parte queste grane filosofiche) è anche quella che si pone, per esempio, domande terra terra di questo genere (di cui mi piace occuparmi): “perché il sistema scolastico italiano nel suo complesso da circa venti anni non promuove più mobilità sociale? perché è socialmente poco discriminante alle elementari e lo diventa in modo grave alle medie, lasciando in eredità alle superiori il disastro, semplicemente?”, oppure altre cose anche più terra terra: “come faccio a non dare i voti migliori sempre ai soliti figli di papà?”. Ecc.
Non voglio essere dismissing con ng e Cucinotta (le loro analisi economiche hanno molte cose di cui parlare, diverse su cui non sono competente, altre criticabili), ma giustamente ng ha detto che il problema è da dove si parla. Ecco, forse ho fatto capire meglio da dove parlo, e non mi sento meno di sinistra per questo. Non cado più nel giochino di credere che chi è più incendiario è più a sinistra di me, la cosa mi lascia piuttosto freddo.
Amitiés.
@ Piras
Non concordo con la sua analisi e mi permetto di rivolgerle le seguenti obiezioni, scusandomi del tono schematico e vagamente inquisitorio di questo mio intervento :
1. Lei si dichiara favorevole o ben disposto nei confronti del governo Monti. Si tratterebbe di una scelta «imposta dall’emergenza economica». Ma è da decenni che siamo apparentemente *solo* in emergenza economica. Questa innegabilmente c’è, ma l’economia – si sa – è sempre economia politica e mai neutra o oggettiva. Viene, se il termine ‘governare’ fosse troppo nobile di questi tempi, comunque politicamente gestita anche adesso che è “in crisi”, che alcuni prevedono di lunghissima durata. E a vantaggio di certe forze sociali e politiche e a svantaggio di altre. Come chiaramente ha riassunto Rossanda sul sito de “il manifesto” in un articolo dedidato a “La rotta d’Europa”:
«L’esplicitazione del conflitto sociale aveva fatto dell’Europa alla fine degli anni ’70 la regione del mondo meno squilibrata fra ricchi e poveri, il prodotto lordo ripartendosi per quasi tre quarti al lavoro e per un quarto a profitti e rendite. Nel 2000 la quota dei salari era scesa di dieci punti percentuali, al 65%, e da allora non si è ripresa. La crescita del reddito si è concentrata sempre più nelle mani del 10% più ricco e, tra i ricchi, nell’1% dei ricchissimi. Le classi medie si sono impoverite e sono aumentate le aree di povertà assoluta. Cui fanno sempre meno fronte le politiche dello stato, costretto a ridurre il sostegno ai non abbienti e ogni forma di welfare, e imporre una maggiore tassazione dei redditi bassi e medi, nella propensione di classe a non colpire i grandi redditi, travestita da speranza che essi si risolvano a reinvestirli nella produzione.
Questa spirale e l’ostinazione a non colpire né le rendite né le transazioni finanziarie ha condotto la Ue all’attuale caduta della crescita e all’indebitamento crescente degli stati. Se a questo si aggiunge il flusso di migranti, prodotti dalla speranza di trovar in Europa il lavoro che manca in altri continenti, segnatamente in Africa, si intende come i paesi più esposti al loro passaggio, come l’Italia e la Spagna, pratichino misure di impedimento al loro accesso e di espulsione, non di rado su base etnica (i rom) che contrastano con tutti i principi di diritti, umani e politici, di cui la Ue suole vantarsi. Da parte sua, la manodopera europea, colpita aspramente dai suoi governi, non vede con solidarietà i disgraziati che sbarcano sulle sue coste: la guerra tra poveri è dichiarata»,
2. Ne consegue per me un’ipotesi diversa dalla sua. Lei dice: «si possono recuperare margini di azione politica, progressivamente, se si interviene in fretta, si raddrizzano i conti e ci si sottrae alla speculazione finanziaria.». Eh, no! La speculazione finanziaria non è il vero o unico nemico. È il cavallo di Troia di strategie politiche di Stati o di lobby (interne/esterne agli Stati) che sono in posizione di maggior vantaggio (anche militare), come gli Usa ad es., che lei non nomina mai! Ad essi (e ad esse) si dovrebbe dire di no. E invece troppo spesso ci si inchina. Ultimo caso: la guerra in Libia. È, perciò, una mezza verità che «i mercati finanziari, che non solo non sono democratici, ma non sono neanche tanto razionali, hanno preso il sopravvento sulle istituzioni rappresentative italiane». Se, come lei giustamente scrive: «solo le grandi potenze di taglia diciamo “imperiale” (Stati Uniti, Cina, Russia) riescono a competere su questo mercato globale preservando una fetta significativa della loro sovranità», dovrebbe aggiungere che lo fanno ai danni di Stati più deboli, come ad es. Grecia, Spagna e Italia. E lo fanno anche dando sotto sotto l’imbeccata alla speculazione finanziaria o dichiarandosi ipocritamente inermi di fronte ad essa, come se fossero in un altro mondo e non conniventi. Che «i singoli stati europei non possono» fare quello che si permettono di fare Stati Uniti, Cina e Russia significa forse che devono per forza di cose rimanere più o meno sotto tutela (eufemisticamente “alleati”)? E alleati, sempre per forza di cose, esclusivamente degli USA? Perché conviene di più? O perché scostarsi da quella tutela sarebbe troppo rischioso? E per chi soprattutto? Queste sono domande che mi sembrano eluse dalla sua analisi tutta dedicata alla crisi politica italiana. Come se la si potesse spiegare parlando solo dell’Italia. Come se l’Italia non stesse (e come ci sta? e con quale rapporto di forza?) in un sistema europeo. E lo stesso sistema europeo non stesse (e come ci sta?) in un sistema mondiale (dove domina chi?). Come se le democrazie non stessero conducendo le cosiddette guerre “democratiche” o “umanitarie”. Su tutti questi aspetti politici lei stende un velo pietoso o mi pare rerticente.
3. Lei scrive: «L’anno scorso, a dicembre, avevamo due opzioni: un governo di destra che ricostruisse e allargasse il suo consenso e facesse delle riforme (di destra), oppure le elezioni e un centrosinistra che proponesse modi diversi di affrontare i problemi economici e finanziari». Mi spieghi cortesemente quando mai un qualsiasi governo di centro sinistra – mettiamo quello di Prodi & C. – abbia proposto o tentato di attuare «modi diversi di affrontare i problemi economici e finanziari». (Se per «diversi» – qui faccio una forzatura per lei inaccettabile, lo so – s’intende “alternativi” al sistema vigente (capitalistico).
4. Scrive pure:«La responsabilità è di chi non ha deciso, cioè della classe politica al governo e del blocco sociale che ha continuato a sostenerla troppo a lungo». Trovo parziale questa valutazione se non ci mette dentro anche la sinistra. Che ha fatto sempre una blandissima opposizione alla destra. O perché non sa più opporsi. O perché, avendo spezzato ogni legame con la tradizione socialista e comunista della Prima repubblica ed essendo divenuta liberale (una variante “tardiva” del liberalismo), teme che, opponendosi davvero e finendo – per così dire – ancora al governo, dovrebbe attuare provvedimenti simili o gli stessi della destra (altri non essendo in grado più nemmeno di pensarli!). E, perciò, adesso s’è acconciata a sostenere, assieme alla tanto detestata (a parole) destra, un Tecnico. Perché – in termini rozzi – “faccia il lavoro sporco” o – in termini più simpatici – tolga ad entrambi gli schieramenti, sempre più di quanto si creda fusi e confusi sociologicamente, ideologicamente, eticamente, tutti dichiarandosi ormai “democratici” e post-ideologici, le castagne dal fuoco.
P.s.
Nella sua replica alle obiezioni finora ricevute, lei distingue tra «i due piani, economico e politico», ma tale distinzione finisce per diventare una scissione. Lei tratta il problema della crisi del capitalismo in termini, che una volta si sarebbero detti «economicisti»; e quella del sistema politico in termini che si sarebbero detti politicisti. Giustamente (per me) sembra distanziarsi da quelli, che ad ogni crisi (grande o piccola) intonano il «de profundis del capitalismo» e tiene conto della sua capacità da Proteo. Giustamente accenna pure all’esistenza ormai di vari capitalismi (come da tempo sostiene anche G. La Grassa). E tuttavia, dall’economicismo non esce, se alla fine imputa esclusivamente all’economia globale la contrazione degli «spazi della politica democratica» o ai mercati la limitazione della «possibilità di fare politiche sociali». Non ne esce, perché non crede alla «crisi delle liberaldemocrazie». E anzi pensa che stia crescendo «la fiducia nel progetto democratico» ( quello stesso progetto democratico in nome del quale abbiamo continue “guerre democratiche”?). La «dinamica di inclusione democratica» può essere apparente (formale). Sta vedendo cosa succede a Il Cairo in queste ore? A me pare un atto di fede dichiarare che « i movimenti di contestazione dal basso fanno parte della logica delle democrazie liberali». Un occhio politico non liberale potrebbe vederci *solo e soprattutto* una disperata, coraggiosa, vitale rivolta, che però in assenza di un progetto alternativo al liberalismo, rischia di essere repressa o addomesticata. Certo, i modelli “alternativi” (socialismo, comunismo) sono falliti. Il che non rende per questo il capitalismo più “buono” o “sostenibile” da chi ne soffre sulla propria pelle lo staffile e le bombe.
@ Il fu GiusCo
Ma lei è mai entrato di questi tempi in qualche sezione di partito? Alcuni di noi sono a stento sfuggiti alle varie Aziende-Partito, che così male ci hanno “rappresentato”, e lei ci consiglia di rientrare in luoghi dove i «cittadini comuni» più che «incidere su qualcosa» o passare all’azione vengono catechizzati e mobilitati sotto le elezioni per propagandare i candidati imposti dal centro? Qui sul Web quelli che lei chiama talk show sono almeno meno noiosi e non è detto che non ci si possa riconoscere e, chissà, incontrarsi e organizzarsi meno virtualmente.
@ Genovese
Lei non conosce i letterati rimasti in giro di questi tempi dopo la strage delle illusioni degli anni Settanta! Appena sentono puzza di politica, si ritirano schifati nelle loro segrete stanze (ma poi votano i partiti che ne producono di pessima).
D’accordo con Alessio Baldini, sia sul valore di una certa non coerenza ideologica sia sulle richieste che, da cittadino, farebbe al governo Monti.
Per Abate. Purtroppo li conosco, ahimè! Per questo qua dobbiamo rivolgerci a un letterato diciamo ideale.
@ Piras
è strano; tu vuoi uscire dall’angolo della non-proposta per agganciarti a un “progetto” e a “forze reali” e poi, del tutto illusoriamente, e quindi per nulla “coi piedi per terra”, investi il governo Monti di qualcosa che non potrà mai ottenere. Questa, per me, è cecità politica. Ed è ben peggio che il (presunto) “velleitarismo” di “sinistre antisistema”; e sì, perché consegna il pensiero emancipativo nelle mani di chi, per struttura “interiore” (per natura, direi), l’emancipazione non può che vanificarla. Tu consegni l’emancipazione alla *forma* del costituito, e quindi la depotenzi e la conduci – e quel che è peggio, coscientemente – nel baratro della ripetizione di ciò che è. Tieniti pure il tuo “radicale kantismo”; io, da buon velleitario, me ne resto nei pressi di Marx. E continuo a distinguermi – nella prassi e nel pensiero – dall’accodamento – per quanto intellettualmente esperito, per quanto scientemente spiegato, per quanto ben argomentato, sempre di accodamento si tratta: un mettersi in fila dietro una politica che non solo non risolverà le questioni in ballo, ma anzi confermerà – non potrà che confermare! – le cause che ci hanno portato a questo punto. Il tuo è un racconto immaginario. L’analisi delle possibilità ci dice – e ce lo dice in maniera inequivocabile – che il governo Monti non potrà che funzionare da palliativo; il debito – pubblico e privato – non verrà risolto, la speculazione non verrà limitata, etc.. E l’emancipazione verrà bloccata ulteriormente. Doti il tuo discorso di un fondo filosofico; ho l’impressione che il tuo riferimento sia il solito Proudhon …
PS: chi sta avanzando riserve sul governo Monti è da tempo che si “mobilita nel suo contesto”; è da tempo che si muove credendo “in progetti di lunga durata”. Forse ti sfugge la situazione: ti sei tu, da te stesso, messo in compagnia di quelle forze che, in questi anni, hanno “remato contro” l’emancipazione. Ma ognuno si sceglie da sé la sua camera di tortura.
PS II: tutte le forze che sostengono il governo Monti, al tempo del “ricatto” di Pomigliano sostenevano che l’accettazione dell’accordo non avrebbe comportato ripercussioni fuori da quell’ambito territoriale; quelli che oggi avversano Monti dissero tutt’altro. Chi aveva ragione?
NeGa
@Alessio Baldini @rinogenovese
Ciò che dite in linea di principio è vero, e io lo condivido. Non a caso facevo appello alla nozione di pluralità. Anche il Manifesto, per dire, è uno spazio plurale. Vi scrivono molte persone di sensibilità molto diverse. Anche Repubblica, per dire, è uno spazio plurale. Vi scrivono molte persone di sensibilità molto diverse. Fatto sta che molti degli autori che scrivono su Repubblica non scriverebbero sul Manifesto, e viceversa. Tutto sta infatti nello stabilire delle soglie, immanenti, in re, oltre le quali la cooperazione, dentro il dibattito, di posture, interpretazioni, linee critiche diverse, smette di produrre un’eccedenza (di consapevolezza, di fecondità della discussione) e dà vita, al contrario, a una forma schizofrenica, contraddittoria, ad un rumore che non ha niente di formativo.
Io non dico che o si fa come Carmilla e Giap o non si può discutere, la cosa non mi sfiora nemmeno. Dico però che, per esempio, non mi pare che Le parole e le cose, così come altri spazi affini, sia ugualmente plurale (io direi, ripeto, contraddittorio e schizofrenico) riguardo a temi che insistono sulla sfera dell’arte. Lì, ne sono convinto, si sarebbe ben più accorti a non dare spazio e voce a cosa poco affini alla propria linea. E questo è giusto, fa parte della vita critica delle voci, che per quanto plurali devono riuscire ad articolarsi in una proposta, in un discorso. Capite che fra uno dei tre/quattro ultimi economisti di pura ascendenza marxista (Bellofiore), le posizioni, fra Deleuze e Agamben, di Zizek, e un coraggio riformista ed europeista da chiedere al governo Monti, non c’è dibattito, non c’è neanche alterità, c’è proprio oppisizione, cioè sono sguardi che insistono su posizioni opposte, talvolta articolate sui medesimi assi del discorso.
Non confonderei questo col dibattito dell’universo socialista, per due ordini di motivi: il primo è che quel dibattito si muoveva in un campo molto più stretto di quello che si articola facendo una cartografia dei tre interventi (Piras, Zizek, Bellofiore) che uso come esempio. In questo campo si condivideva, giusto per fare qualche accenno, un bacino di interlocutori umani di riferimento che era quasi lo stesso. Il grande dibattito del socialismo otto e novecentesco si svolgeva identificando un soggetto storico, una singolarità quasi comune che, con metodi e talvolta anche obiettivi diversi, doveva guadagnare metri in una strada quasi condivisa dentro il dibattito (quella del progresso sociale). Non vedo nulla di questa comunanza di interlocutori e direzionalità qui.
Il secondo è che la pluralità che noi, dopo molto tempo, riusciamo a riconoscere in un movimento della storia, che pure descriviamo in termini unitari, non ci giustifica assolutamente a compiere il moto opposto, cioè comportarci nel dibattito di oggi praticando apriori forme di pluralità (ammesso che lo siano, secondo me anche a distanza queste tre posizioni di cui sopra rimarrebbero comunque infinitamente distanti). Quei socialisti lì si scannavano, talvolta si bastonavano pure nelle piazze, altro che unità sempre e comunque. Ed è proprio quella dialettica collettiva, anche se talvolta rappresa in occasioni comuni, ad apparirci come moto unitario.
Sul tema, a me molto caro, della “pratica dell’obiettivo”, che si citava in riferimento ai socialisti, non vedo quale obiettivo si possa praticare con il PPE (avrei già riserve sul PSE, figurarsi) di cui Monti è stato storicamente figura di rappresentanza, con chi dichiarò che il meglio prodotto dal governo Berlusconi è la riforma Gelmini, e l’aver avallato il piano Marchionne, con un ministro degli esteri che sembra uscito dalla guerra fredda (alla faccia del pluricentrismo geopolitico) etc.etc.
C’è poi un altro tema, che attiene al campo della chimica delle idee, e che è quello del come sia possibile questa schizofrenia di cui sopra, come si sia formata oggi (non in generale) nel dibattito intellettuale. Ma è certamente questione più lunga e complessa.
Sono contento che nessuna obiezione viene sollevata nel merito delle tesi che ho esposto: insomma, vi ho convinto, almeno così devo supporre.
Interessante comunque questa esigenza di schierarsi che vedo si manifesta un po’ in tutti gli intervenuti. Peccato però che tutti gli schieramenti oggi identificabili non appaiano adeguati, e davvero non si capisce cosa ci possa essere di positivo nello schierarsi se si finisce in compagnie non raccomandabili…
Per parte mia, non è che non abbia proposte da avanzare, ma davvero qualcuno può pretendere che le esponga in un singolo commento? Visto che ci metto la faccia, curo un blog con una certa costanza, ho scritto un libro su tali argomenti, chiunque può documentarsi in proposito, se solo lo desidera.
Il primo passo rimane inevitabilmente una certa convergenza di opinioni, che, ancora inevitabilmente, non possono che partire da una critica alle teorie dominanti. Partiamo dalla condivisione di un punto di vista avverso alle teorie dominanti, e poi si vedrà. Alcuni potranno concludere che esse siano comunque il male minore, altri avanzare un certo tipo di proposta, altri un altro tipo di proposta: a dividersi, si fa sempre in tempo!
Non capisco tuttavia quale problema possa provocare in qualche lettore il fatto che io esponga delle mie tesi, quale tipo di disturbo possano esse generare: dove è finita la curiosità intellettuale nell’ambito della politica, siamo così mal ridotti che vogliamo soltanto sentirci riconfermare nelle tesi note ed arcinote?
Bella analisi e conclusioni condivisibili. Non condivido invece le critiche che ho letto, spesso condotte con toni fastidiosamente intransigenti. E se di imprecisioni si può parlare, a mio parere sono imprecisioni inevitabili, persino necessarie per tratteggiare un panorama vasto quale quello che affronti. Grazie per l’articolo!
Cerco di rispondere con più ordine alle obiezioni più importanti, ieri non avevo tempo.
Prima, una correzione: nel mio ultimo intervento avrei dovuto scrivere “realisticamente utopistica”, riferito alla posizione normativa rawlsiana che citavo, chiedo scusa per la svista (dovuta forse al mio spirito troppo moderato).
Caro Bruno PR,
ovviamente non pretendo di rispondere sulla linea editoriale del blog, di cui rispondono gli autori (io sono solo un ospite). Ma vorrei rispondere sulla sostanza: io credo che invece alla sinistra, in tutte le sue componenti, faccia bene leggere autori di diversa impostazione teorica, che da angolature diverse si pongono i problemi della giustizia sociale, della critica dell’economia di mercato, ecc. Quindi, per dire, io personalmente trovo naturale leggere Habermas, Rawls e Walzer, ma anche Zizek o Foucault, ecc. E se si tratta di riflessione in termini di teoria sociale, l’orizzonte si può anche allargare. Non difendo il mio contributo: essere confrontabile a Bellofiore o Zizek è un onore eccessivo. Ho sentito Bellofiore qui a Torino, e l’ho apprezzato enormemente, così come Luciano Gallino con cui ho discusso qualche settimana fa. Ciò non toglie che mi leggo anche Tito Boeri e altri economisti qui innominabili, per capire un po’ di cose. Credo che la sinistra abbia bisogno di fare queste letture “eclettiche”.
Quanto al “soggetto politico”: vero, la situazione rispetto al socialismo storico è ben diversa. Ma il problema del soggetto politico c’è, in questi termini: viviamo in democrazie rappresentative, in cui si può fare vincere una linea politica vincendo le elezioni. Se non si fanno dialogare le diverse anime della sinistra, le elezioni non si vincono mai. Io non esco da questo quadro, perché difendo lo stato liberaldemocratico di diritto come una conquista della civiltà politica (mi scuserete se non argomento qui perché).
Caro NeGa
(grazie per l’uso del tu, mi rilassa), alcuni punti su cui non ho risposto.
Che il capitalismo globale sia in crisi di sovraproduzione dall’inizio degli anni Settanta mi sembra un po’ forte, perché bisogna tenere conto delle aree del mondo in cui la domanda è cresciuta, della espansione di nuovi tipi di domanda anche nelle società più ricche, ecc.; però è vero che nella fase di crescita del capitalismo finanziario questo problema c’è, lo riconosco, e non lo approfondisco ulteriormente per mancanza di competenze. Non penso però che tutte le politiche economiche adottabili siano uguali, tanto si va sempre nella stessa direzione. Anche Luciano Gallino fa proposte concrete, che riguardano per esempio la creazione di istituzioni di controllo e di limitazione della concorrenza globale nel mercato del lavoro. Non credo che l’unica soluzione sia un improbabile rovesciamento del sistema.
L’Unione Europea è un “imperialismo a guida tedesca” se le opinioni pubbliche e le forze politiche dei paesi europei non promuovono un processo di unificazione politica che superi questa unificazione solo sistemica, che fermi questa deriva egemonica e monetarista allo stesso tempo.
Situazione politica italiana: sull’impostazione generale del governo Monti capisco bene che si possa avere l’orticaria; sui dettagli, dipende: sull’evasione fiscale e sull’imposta patrimoniale stiamo a vedere, intanto se si fanno è già qualcosa, rispetto al niente che ci è toccato finora.
E’ vero che forse è velleitario, da parte mia, investire il governo Monti del (timido) progetto di ricomporre il sistema politico italiano; persino questo sembra impossibile, con questa classe politica. Però ho già detto che non sono così studipo da investire questo governo del progetto di una politica di sinistra. Mi piacerebbe solo che si creassero le condizioni per proporre un progetto di sinistra, quando si potrà votare. Dopodiché, se questo governo per esempio concede la cittadinanza ai figli degli immigrati, lo ritengo un progresso importante.
Il Pd (parlo della posizione ufficiale della segreteria, non dei politici che non sanno tenere la bocca chiusa) e l’Idv, che sostengono il governo Monti, non hanno a suo tempo sostenuto Marchionne.
Caro Cucinotta,
hai ragione (posso usare il tu?), non ho risposto, perché ieri non avevo le energie, e perché su diverse cose non ho competenze per rispondere, lo riconosco. E hai ragione a dire che ieri ho fatto un intervento di presa di posizione, ma era per chiarirci; come è giusto rimandare ad altre sedi (siti, scritti, ecc.) per approfondire le proposte che si avanzano.
Provo ad affrontare alcune obiezioni sul merito; se ne lascio da parte qualcuna dico onestamente che è perché non ho le competenze per replicare.
La crisi è indubbiamente legata al sovradimensionamento della sfera finanziaria e all’eccesso di titoli, su questo seguo il ragionamento. Però adesso c’è anche da fronteggiare una grave crisi di liquidità, per la contrazione del credito. Mi sembra curioso che si proponga una politica di restrizione della circolazione in questo momento. E mi sembra invece accettabile la proposta di chi vorrebbe investire la Bce di compiti di prestatore in ultima istanza, per salvaguardare la circolazione. Altrimenti rischiamo di schiacciarci sulla posizione dei monetaristi ortodossi che adesso stanno bloccando, a partire dalla Germania, una vera gestione europea della crisi, che sarebbe l’unica via d’uscita.
Sulla politica. E’ vero, l’alternativa in politica dovrebbe essere il confronto tra visioni diverse dell’interesse generale, su questo sono d’accordo. Credo che il Pd quando pretende, ora, di parlare per l’interesse generale, lo faccia in difesa del governo “di transizione ecc.”, non in difesa del suo disegno politico. Poi, è vero, essendo un partito dall’identità politica debole, tende a confondere le due cose. In questo non lo difendo.
Ma vado alla cosa più importante, la distinzione tra funzionale e normativo riguardo alla situazione delle democrazie liberali. Come si può rendere meno evanescente e soggettivo il piano normativo? In questi termini: ci sono terreni in cui ci sono progressi nelle istituzioni democratiche, con creazione di diritti sempre più inclusivi, anche se a fatica e con conflitti, come è ovvio. Si guardi ai diritti civili (coppie di fatto, diritti “eticamente sensibili”, ecc.), ma non si guardi, per favore, all’Italia; io penso che in questo ci sia una logica della modernità politica, che mostra un progresso, e che l’Italia sia un paese che per il momento ha fallito sul fronte della modernità politica. Inoltre, a livello globale crescono le forze che rivendicano, come modello, la democrazia liberale; anche i movimenti nel mondo arabo vanno in questa direzione. Tutto ciò è detto semplicisticamente, me ne scuso, ma ho in mente cose di questo genere.
Però c’è un’obiezione più fondamentale: questa democrazia è solo formale. Rispondo: lo è se non si creano le condizioni sociali per renderla meno formale, cioè movimenti sociali, partiti politici, associazionismo, pluralismo dell’informazione, ecc., e in fondo anche una cultura condivisa che non la voglia perdere, questa democrazia dello stato di diritto e rappresentativo. Se la si butta via perché è solo formale, si butta via il poco che abbiamo.
Caro Abate Ennio,
provo a rispondere punto per punto.
1. Certo, l’economia è “politica”. Io non sto dicendo che la posizione del governo Monti è neutra. Sto dicendo che in Italia abbiamo un doppio malanno: un sistema politico fallimentare, e la crisi economica (aggravata dalla nostra quasi stagnazione precedente). Per questo siamo con le spalle al muro. Ripeto che dove i sistemi politici hanno un minimo di consistenza, è stato possibile confrontarsi sulla politica. L’analisi della Rossanda mi sembra giusta. Ma questa è l’occasione per rafforzare, a livello europeo, il controllo sulla finanza, invece di dire che tanto il sistema è marcio e basta: non a caso adesso si può parlare della tassa sulle transazioni finanziarie, cosa che sembrava una bestemmia dieci anni fa.
2. Ho proposto un esperimento mentale, che aveva questo senso: il male da combattere è la situazione finanziaria del nostro stato, a prescindere dalla speculazione finanziaria. Ecco perché continuo a difendere una politica in due tempi: prima raddrizzi la macchina, poi proponi qualcosa più di sinistra. Tra l’altro, ora non si può neanche lavorare sui due tempi, perché tutte le analisi dicono che la via d’uscita è rilanciare la crescita. Certo, Usa, Russia e Cina non ci fanno favori, né le multinazionali. Ma io la vedo così: le istituzioni statali sono state lo strumento di una volontà politica razionale contro le derive sistemiche interne del capitalismo, tra Ottocento e Novecento. Ora queste derive sono globali, quindi le istituzioni devono essere sovranazionali (regimi regionali, si veda Hauke Bunkhorst).
3. Per me la lotta all’evasione fiscale di Visco, e l’assunzione di 150.000 precari della scuola prevista dall’ultima manovra di Prodi sono diversi dallo sbraco sui controlli (su tutto, anche sulla sicurezza sul lavoro) di Berlusconi e co., e dal taglio di oltre 150.000 posti nella scuola in meno di tre anni. Ho citato solo due cose a caso. A meno di preferire la notte in cui tutte le vacche ecc.
4. Mettiamoci anche la sinistra, mi va bene. Ma attenzione: se per “liberali” si intendono idee di politica economica poco chiare e quindi che tendono a schiacciarsi sul liberismo, la critica va bene (ma cercherei comunque di distinguere le posizioni nel dettaglio: mi sembra ingeneroso, per esempio, considerare Cesare Damiano liberale in tal senso); se per “liberale” si intende che, dal punto di vista delle istituzioni politiche, lo stato liberaldemocratico, con stato sociale, è un orizzonte politico non rinunciabile (scusate l’italiano), allora io sono liberale, désolé.
Sul carattere solo formale delle democrazie liberali, ho già detto qualcosa in risposta a NeGa. Quello che succede adesso in Egitto mi sembra che confermi la mia idea: c’è una forte spinta per ottenere la democrazia, al punto che la gente si fa uccidere finché la giunta militare non si leva dai piedi, e ha già ottenuto una vittoria facendo cadere il governo. Anche qui in Europa non mi sembra che le rivoluzioni democratiche siano avvenute in poco tempo e con pochi conflitti.
Vengo a un nodo generale, che sta dietro alle posizioni a cui ho cercato di rispondere: il rapporto tra le due sinistre. Le due sinistre sono un problema già nel nome. Io le chiamerei la sinistra riformista e la sinistra rivoluzionaria, tutte le altre etichette sono inadeguate. Riformista e rivoluzionario invece esprimono l’essenza della cosa: la prima cerca di migliorare le condizioni di vita senza rovesciare le strutture, la seconda pensa che le strutture sono marce in sé e cerca di rovesciarle. Per questo io sono riformista: per essere rivoluzionari ci devono essere le condizioni, altrimenti si rischia di fare peggio, trascurando le cose minime che si possono fare. Le condizioni per fare la rivoluzione non ci sono, quindi.
Ora, anche se di fondo la contrapposizione è questa, io penso anche che naturalmente le democrazie moderne creino questa divisione (ma non di più: non capisco il proliferare di sigle, la “sinistra in tracce” di cui parla Alberto Ferrero), perché il sistema, come tutti i sistemi economici fin qui esistiti, è ingiusto, e starci dentro può rafforzare le ingiustizie, e giustamente la critica sociale si esprime quindi alla sinistra della sinistra “che ci sta dentro”. Tutto questo mi sta benissimo. Ma allora le istituzioni democratiche funzionano bene se c’è un rapporto di, come dire, “tensione creativa” tra le due sinistre. Criticare per superare delle soglie e trovare dei nuovi accordi. Altrimenti non si unisce l’elettorato, e si prendono le bastonate delle destre, che si sanno sempre unire. Criticare, distinguere, ma al momento giusto trovare il compromesso politico (non sto parlando del sostegno a Monti, ma del dopo). A meno che non si voglia scegliere davvero la via rivoluzionaria. Bon courage.
PS: chiedo scusa ad Alberto Ferrero e ad Alessio Baldini perché non riesco a rispondere adesso, per mancanza di tempo.
La discussione su un blog letterario/politico (più letterario che politico in verità), come questo di LPLC o di altri consimili, è diversa da quella di un blog politico o di quella di un partito, che hanno da scegliere presto e bene o hanno già scelto.
La sua utilità sta nella possibilità per chi interviene o semplicemente legge di accorgersi in concreto della varietà di posizioni oggi in circolazione. Di TUTTE, anche di quelle che Cucinotta ritiene “non raccomandabili”.
Poi, dopo l’ascolto e il confronto ( o già durante…), chi è meno informato e più incerto potrà scegliere meglio con chi schierarsi, avendo – si spera! – più elementi a disposizione rispetto a prima. E non ritengo neppure negativo che chi ha già delle convinzioni o delle critiche precise da fare le esponga da subito. Le critiche sono il sale della ricerca.
Chi poi ha già preso partito o non sopporta che “cento fiori fioriscano” o ritenesse sterile discutere con posizioni per lui squalificate o “non raccomandabili”, si può limitare ad indicare il link dove i curiosi potrebbero incontrare la “verità” o la sintesi unitaria. Che non può esserci in questa sede.
Non sono né un movimentista puro né un partitista di ferro. Ma il rompicapo Rosa Luxemburg-Lenin (per schematizzare) è sempre là, irrisolto. E perciò intervengo e discuto. Il momento della scelta tra “gruppo aperto” e “gruppo chiuso” (continuo a citare Elvio Fachinelli) , per me indispensabile, ciascuno oggi lo stabilisce da sé o insieme ai suoi amici o compagni.
@Ennio
Forse sarebbe il caso di ricordare che più intervenuti hanno chiesto agli altri di qualificarsi: prima ancora di dire, eravamo tenuti a spiegare da che parrocchia provenissimo.
Dopodichè, mi pare che il minimo che potessi fare, era sottolineare come le risposte che finora sono venute dalla politica non è che abbiano dato questo grande risultato (la compagnia poco raaccomandabile era una forma di metafora…), e che forse sarebbe stato meglio provare ad apprezzare ipotesi meno frequentate.
Mi spiace che Lei abbia dato alle mie parole un significato che non volevo: davvero, sarebbe paradossale un tentativo di discriminazione da parte di un singolo ai danni di tutti gli altri, non sono ancora approdato a un tale livello di follia!
@Piras
Lei afferma che c’è crisi di liquidità. Ecco il punto, a mio parere invece c’è un eccesso spaventoso di liquidità. Il credere che ci sia poca liquidità è dovuto ad un errore di prospettiva, quella rappresentata da chi ha prima creato tale liquidità e che adesso la detiene. Il sistema bancario ha immesso sul mercato una massa immane di derivati che ha scambiato per la massima parte al proprio interno.
Essendo essenzialmente titoli inesigibili perchè dietro non v’è nessun valore reale, le banche hanno il problema di farsele pagare, al più tardi alla loro scadenza. La liquidità che manca è questa, quella necessaria per far continuare all’infinito questa circolazione di titoli ormai del tutto senza senso: nel momento in cui un titolo non potesse essere pagato, crollerebbe il sistema bancario, ciò che stava per avvenire tre anni fa, e che colpevolmente gli USA hanno evitato pagando a piè di lista, condannadoci a salvataggi senza fine, fino a che le banconote stampate non saranno così tante da dare luogo a un’inflazione globale e radicale, con conseguenze geopolitiche imprevedibili.
L’unica strategia valida è quindi quella di tirarsi fuori da quella gabbia di matti che sono diventati i mercati finanzairi globalizzati. Il punto dirimente è proprio questo, se i mercati sono il nostro giudice che dobbiamo convincere, o se invece non costituiscano il vero problema che abbiamo di fronte a causa dei guai in cui banchieri irresponsabili hanno fatto precipitare il mondo.
Sulle questioni più specificamente politiche, l’obiezione che facevo al PD non è qualcosa che possa essere elusa, tutta l’operazione Monti è proprio il frutto di questa visione dell’interesse generale aprioristica, cosa che anche Napolitano non ha certo esitato ad esternare platealmente. Senza tale visione, noin esisteva argomentazione alternativa che potesse giustificare il governo Monti.
Un secondo punto: i diritti civili non possono essere utilizzati come un mezzo di scambio, do via libera al liberismo ma in cambio ti do le unioni di fatto, trovo singolare questo rimescolamento di questioni profondamente diverse: perchè richiamare qui i diritti civili? Sarebbe una questione che richiederebbe un dibattito infinito per conto suo.
Terzo punto: questa visione della democrazia sempre come equilibrio tra potenze in cui sparisce il ruolo di garante dello stato non la posso condividere.
Quando in Italia sbarcarono le associazioni dei consumatori, importate pari pari dagli USA, la prima cosa che pensai, e nel frattempo non è che abbia cambiato idea, è che non vi dovrebbe essere ragione in uno stato democratico perm la presenza di un difensore del consumatore, perchè lo stato dovrebbe essere con tutta evidenza il difensore di tutti i suoi cittadini. Delegare a un’associazione un tale ruolo, significa che sarai difeso solo se sei abbastanza forte da te da imporre l’attenzione di quella associazione, e che la difesa delle minoranze che dovrebbe costituire il tratto più distintivo delle democrazie viene a mancare.
Ringrazio comunque per l’attenzione.
Sì, evidentemente parliamo di due differenti tipi di democrazia…
Vedo che il filo di questa discussione si è interrotto, però ho due debiti da saldare e lo faccio qui.
Caro Alberto Ferrero,
ottimismo e pessimismo rischiano di essere categorie fuorvianti. Io cerco di dire che una teoria critica della società deve essere capace di individuare le forze reali che già agiscono nel suo senso; questa è la posizione di Marx e Horkheimer, per intenderci. Altrimenti la critica radicale rischia di scivolare nel moralismo e nell’impotenza.
Capitalismo e democrazia: la tensione tra i due c’è sempre stata, è quindi naturale che il sistema democratico debba fare argine alle derive del capitalismo. Tuttavia, sul piano funzionale, questo argine non può più essere trovato a livello nazionale. Ecco perché io sposto l’analisi a livello trans- e sovranazionale: perché l’integrazione sistemica, a questo livello, si è già realizzata. Bisogna arginarla con l’integrazione politica. E’ evidente che i poteri economici che controllano quella integrazione sistemica hanno interesse a guidarla in tal senso. Ma io dico questo: le forze politiche democratiche, le opinioni pubbliche, i movimenti sociali dovrebbero fare proprio il progetto del rafforzamento dei canali di legittimazione democratica a livello globale (e da noi europeo). Invece una parte della sinistra fa il gioco delle destre sia reazionarie che neoliberali (sistemiche) vedendo nell’integrazione politica sovranazionale solo il nemico, perché espressione del capitalismo.
“Pensare un modello alternativo di società”. L’economia capitalistica è uno dei sistemi sociali di cui è composto il sistema sociale complessivo. Come tutti i sistemi, viene da una storia che ha anche una logica interna. Anche se non è frutto dell’azione umana, non si può pensare di cambiarlo con la semplice volontà. Pensare un’alternativa significa capire queste dinamiche. Attualmente mi sembra che nessuna teoria riesca a farlo, se non come progetto volontaristico (quello che Marx chiamava socialismo non scientifico). Forse l’errore è stato pensare che fosse davvero possibile una rivoluzione politica che cambia radicalmente le strutture sociali. Tutto questo è detto molto schematicamente, me ne scuso, ma di nuovo non ho tempo. Concludo solo dicendo che per queste ragioni ritengo che “pensare un altro modello di società”, adesso, significhi avere un ideale di giustizia e di rapporti sociali giusti che serva costantemente da strumento della critica dei rapporti reali, per denunciare le forme di dominio, e cercare di combatterle e modificarle nel mondo che abbiamo da vivere qui e adesso. Ma fare questo significa anche tenere conto degli effetti non voluti delle azioni sociali, quindi adattare in parte le intenzioni di cambiamento alle costrizioni del sistema.
Sul PD, che dire? E’ un partito confuso, indubbiamente. Ma è semplicistico dire che si sia semplicemetne adattato, in tutte le sue componenti, al neoliberismo. Ci sono altre forze, che si possono alimentare; e se tutti quelli che si ritengono di sinistra lo abbandonano, allora alla fine diventerà davvero il partito del centro catto-liberista.
Per Alessio Baldini,
da cittadino anch’io faccio queste richieste al governo Monti. In realtà, chiedo ancora di più: chiedo che i partiti in questo momento adottino il progetto di ricostruire il sistema politico italiano. Purtroppo c’è da essere pessimisti, perché si muovono come degli irresponsabili senza rendersi conto che rischiamo davvero molto. E questo riguarda anche la politica europea. I limiti dei capi di governo europei li abbiamo sotto gli occhi. Su come si dovrebbe rispondere, ho detto all’inizio di questo commento, rispondendo a Ferrero.
Prendo spunto dalla vivace contrapposizione di opinioni che ho letto su questo thread, suscitate dall’articolo di Piras e, in altro ambito, dalla querelle sulle posizioni di Fassina del PD, così pesantemente contestate dal gruppo “Liberal” facente capo a Bianco, Ichino e altri, dopo che il responsabile economico del partito aveva criticato le richieste della UE all’Italia. Premetto che personalmente sono dalla parte di Fassina e molto semplicemente non mi piace per niente chi insiste con tesi del tipo che “prospettare soluzioni ispirate alle vecchie culture politiche del secolo passato, non è compatibile con il dovere di rappresentare il complesso delle posizioni assunte dal Pd”: mi domando (e non da oggi) con che coraggio queste persone continuino a pensarsi appartenere all’area di centro sinistra, nel senso che dovrebbero finalmente far mente locale e capire dove si situi (se esiste) la loro componente di sinistra! Ritengo le “soluzioni ispirate alle vecchie culture politiche del secolo passato” come il frutto più avanzato (migliorabili, certo, come tutte le cose) della cultura politica e democratica della modernità. Ma qui arriviamo al punto: sembrerebbe che a sinistra “grande è la confusione sotto il cielo, [ma] la situazione[ non] è [per niente] eccellente!”
Nel libricino di R. Casati “Prima lezione di filosofia” è brevemente discussa la diade negoziato vs. dibattito – con una illuminante precisazione di Noam Chomsky -: dal modo di argomentare negoziale (che il Casati sostiene essere proprio della filosofia) si arriva, almeno qualche volta, al riconoscimento di posizioni di sintesi o a elaborazioni più avanzate – o al riconoscimento di eventuali limiti e pecche nelle proprie tesi, a patto di ragionare razionalmente -; nel dibattito invece ognuno rimane sostanzialmente sulla propria linea del fronte, e lascia il giudizio a chi ascolta. Mi sembra che qui (negli interventi letti), come a sinistra in generale, si dibatta molto, ma si negozi molto meno. Sono ovviamente d’accordo che ci si debba dare certi presupposti concettuali comuni – forse le “geografie del pensiero” di cui parla Bruno PR? -, per cui i ragionamenti di Ichino & C., ad esempio, possono pure essere esaminati, così come tanti altri, ma non certo assunti come “strumenti di lavoro” se non per qualche particolare secondario (che io comunque non riesco a vedere): perché se ci si esime da ciò la confusione aumenta ulteriormente; dopo di che il confronto non dovrebbe fermarsi al dibattito appunto, ma cercare, almeno in linea di principio, di approdare a un vero negoziato da cui scaturisca una linea politica condivisa e ragionevole che guidi l’azione concreta. Diversamente si assiste allo spettacolo (vogliamo dire indecoroso?) del tutti contro tutti.
Non voglio sostenere la causa dell’ecumenismo politico (a sinistra) a tutti i costi, e la diversità di opinioni è giusto rispettarla, ma qui si fa fatica persino a riconoscersi vicendevolmente come facenti parte della stessa sponda politica! E viene da chiedersi, forse ingenuamente o ingenerosamente: si sta ragionando di pancia o di testa? Si sta tifando per una squadra di calcio, per conventicole più o meno caratterizzate le une rispetto alle altre e spesso in crisi di identità, o si ha la determinazione di negoziare una linea politica efficace e credibile a cui tutti possano aderire? Nessuno dei protagonisti ha meno responsabilità di altri, nello spettro che va dal colore riformista a quello rivoluzionario (per usare termini di Piras), anzi, laddove era possibile, si è potenziato il prisma per definire ancora meglio i dettagli – il che significa, fuori di metafora, dividersi ulteriormente. Tanto per fare un esempio mi è arrivata oggi una comunicazione relativa alla fondazione di un nuovo raggruppamento chiamato “Partito del Lavoro”, costituito da ex appartenenti alla Federazione della Sinistra…
L’atteggiamento negoziale non è da confondersi, secondo me, con la ricerca della sintesi a tutti costi tra posizioni altrimenti inconciliabili – per quanto, a ben vedere, spesso frutto più di parole d’ordine e slogan che di una ragionata linea politica -: si dovrebbe cercare di argomentare razionalmente ogni tesi e vedere dove ci sono convergenze, poi riconoscere i punti di contrasto per arrivare ad un compromesso “di azione” il più condiviso possibile, magari dandosi obiettivi e tempi… ma sul metodo in realtà non so dire di più, anche perché la tradizione (e si è citata quella socialista) ci ha consegnato un retaggio storico fatto più di bastonate tra “compagni” che di confronto incruento tra posizioni diverse, e quindi non ci si può nemmeno appellare molto all’esperienza passata.
Dico tutto questo non perché aspiri ad una posizione super partes (che non ho neanche se volessi), né per intellettualistico cerchiobottismo, ma perché qui il rischio è quello – e mi si passi l’espressione poco elegante – di farsi trovare con le mutande in mano!
Intervengo in questo serio dibattito per porre solo una domanda, la rivolgo a tutti ma principalmente a Mauro Piras perché è una persona gentile che cerca sempre di rispondere e chiarire, così nel caso non mi rispondesse capirei di avere posto una domanda inutile: nei vostri discorsi non considerate mai ciò che è accaduto in Libia e ora in Siria e presto in altri paesi. Ci sono connessioni? C’è un progetto politico o finanziario che non concerne solo i paesi capitalistici? Ho a riguardo una mia personale opinione, ma non sufficiente a divenire idea, ossia non capace di sostenersi con valide cognizioni economiche e politiche, per questo vorrei ascoltare una vostra considerazione in merito. Grazie.
@Piras
Grazie delle risposte pacate. E tuttavia la reticenza, imposta – credo – dalla sua fede liberale, si insinua in esse (come – lo riconosco in anticipo – reticenze d’altro segno possono esserci nelle mie riflessioni).
Una – mi ha anticipato Bertoldo – riguarda l’infausto connubio guerre-democrazie. Non si può sorvolare su tutte le guerre *permanenti* in corso o in arrivo. Ultima per il momento quella in Libia, benedetta costituzionalmente dallo stesso Napolitano e approvata da tutto il parlamento, tanto per capire come viene oggi difesa in Italia « questa democrazia dello stato di diritto e rappresentativo» e chi la «butta via», pur blaterando che non è «solo formale». Ma più in generale nella sua analisi pesa il silenzio sul vero Artifex imperiale di queste guerre, proprio quel democratico Obama alla guida dei democraticissimi USA. Eppure avevo fatto domande precise:
« Che «i singoli stati europei non possono» fare quello che si permettono di fare Stati Uniti, Cina e Russia significa forse che devono per forza di cose rimanere più o meno sotto tutela (eufemisticamente “alleati”)? E alleati, sempre per forza di cose, esclusivamente degli USA? Perché conviene di più? O perché scostarsi da quella tutela sarebbe troppo rischioso? E per chi soprattutto? Queste sono domande che mi sembrano eluse dalla sua analisi tutta dedicata alla crisi politica italiana».
Su questo a me pare non possiamo tutti noi, che troppo impropriamente oggi potremmo essere definiti o definirci riformisti o rivoluzionari (termini davvero ottocenteschi) – tacere. Dovremmo almeno misurarci onestamente.
Lei dice:« io sono riformista: per essere rivoluzionari ci devono essere le condizioni, altrimenti si rischia di fare peggio, trascurando le cose minime che si possono fare. Le condizioni per fare la rivoluzione non ci sono, quindi».
Non le risponderò mai (romanticamente) che le condizioni ci sono sempre o si creano. Dico, invece, che le «cose minime», che a lei stanno a cuore, non si possono più fare, perché è in atto proprio lo smantellamento dello Stato sociale (minimo) che abbiamo assaggiato in Italia attorno agli anni Sessanta. Aggiungo che quelle istituzioni statali, che nella sua visione (per me idealistica) sarebbero state tra Ottocento e Novecento «lo strumento di una volontà politica razionale contro le derive sistemiche interne del capitalismo», ci hanno regalato due guerre mondiali. E che le attuali “derive globali” non saranno mai fronteggiate da istituzioni sovranazionali sognate e inesistenti (parla l’Europa con le sue divisioni e gelosie), ma sono fronteggiate dai Vasi di ferro ( come minimo Usa,Russia e Cina) che stanno sgretolando i Vasi di coccio.
Accontentarsi in questo contesto internazionale di “guerre permanenti”, che non so cosa prepareranno in futuro ai nostri figli e nipoti, dei risultati della lotta all’evasione fiscale di Visco o dell’assunzione di 150.OOO precari e sbandierarli come dirimenti rispetto alle scelte dell’ex governo Berlusconi o della concessione della cittadinanza ai figli degli immigrati, più che «un progresso» mi pare un distrarsi. È come sbracciarsi a fare le piccole pulizie nel cortile di casa, mentre è già arrivato un nubifragio politico, che sta spazzando i reali punti di resistenza o altri argini che realisticamente potrebbero essere approntati, se non ci si illudesse sulla possibilità di piccole riforme o della bontà di«una politica in due tempi: prima raddrizzi la macchina, poi proponi qualcosa più di sinistra». O non ci si attardasse a strattonare un elettorato ormai frastornato e depoliticizzato (non più popolo ma tifoseria, per giunta televisiva) per non prendere «le bastonate delle destre», disgregate quanto le (cosiddette per me) sinistre.
Perché entrambi gli schieramenti -mini-guelfi e mini-ghibellini di un’Italia alla deriva – ci hanno fatto perdere tempo in due decenni e più con questo tiro alla fune per attiare l’Elettorato, spostandolo si e no di qualche millimetro ora da una parte ora dall’altra. E ci hanno fornito aspirine contro il cancro che ci rodeva.
Detto questo non posso concludere dicendo: al posto delle aspirine provate con la rivoluzione. Perché le rivoluzioni sono cose serie, non s’improvvisano e non si fanno per sola volontà anche di un manipolo di coraggiosi.
Dico solo attrezziamoci a guardare in faccia la realtà, che ci hanno occultato. Questa è forse la “minima cosa” che non dobbiamo trascurare. E al momento richiede anche più coraggio che « scegliere davvero la via rivoluzionaria».
Per Mauro Piras
volevo farle una domanda semplice semplice; ma in caso di crollo dell’euro che cos’è che accadrà? spariranno di colpo gli euro? torneranno le antiche monete? chi aveva cinque euro messi da parte con sacrificio per la vecchiaia si ritroverà con mezzo tallero? che cosa è di verosimile che accadrebbe?
perdoni questa mia domanda semplice semplice, ma le sarei davvero grato di una risposta, e penso non solo io; oggi pomeriggio mi ha fermato un anziano che conosco, era intimorito da tutto quanto, poi mi ha fatto queste stesse domande che le ho fatto appena sopra; ma non ho saputo minimamente rispondergli.
Grazie di una sua risposta
Adelelmo Ruggieri
Caro Roberto Bertoldo,
io non ho mai citato gli eventi in Libia e in Siria, perché ho cercato di limitarmi solo alla situazione politico-finanziaria italiana, e al suo rapporto con la crisi europea del debito. La sua domanda è ovviamente molto importante, nel contesto di un’analisi generale più “geopolitica”. Confesso che non sono pronto sul dossier. Per quel che ne capisco, c’è una dinamica democratica in corso nella sponda sud del Mediterraneo, e nel Vicino Oriente. Io, per esempio, ritengo che la vittoria del partito islamico moderato alle elezioni in Tunisia non sia negativa: intanto, è positivo che la metà degli elettori abbia votato partiti laici, che tra l’altro hanno perso perché non hanno saputo unirsi, contrariamente ai partiti islamici; e poi, questo islam che si sta affermando adesso, sull’onda delle rivoluzioni democratiche, è un tentativo di accomodamento tra istanze politiche moderne e religione tradizionale, e per questo forse riuscirà a dare una larga base sociale alla modernità politica, certo con dei compromessi (esattamente come è successo per esempio in Italia con la DC, o come sta succedendo in Turchia con Erdogan). I processi in corso nei paesi arabi sono molto diversi: in Tunisia la rivoluzione sta ottendendo dei risultati; in Egitto è stata in larga parte espropriata dall’esercito, e per questo la rivolta violenta è ripresa, il che dimostra che la dinamica rivoluzionaria democratica è forte, visto che masse intere si mobilitano per rovesciare la giunta militare, e vedremo che succederà; in Siria la situazione è tragica, a quanto pare l’opposizione al regime non si trasforma in un movimento armato, come sarebbe logico, ed è molto grave che l’Europa non si muova per sostenerla realmente; in Libia, per varie ragioni (non tutte democratiche, diciamo), l’opposizione si è trasformata rapidamente in esercito rivoluzionario, per quanto improvvisato, e quindi è scoppiata una vera guerra interna. In questa sono intervenute le potenze occidentali. Io non credo che questo sia legato a un progetto finanziario internazionale, bensì più banalmente a un intreccio di interessi economici e politici, soprattutto della Francia. Non riesco a dire molto di più, non era certo mia intenzione iniziare qui una lunga discussione sulla guerra nella politica contemporanea, e se lo facessi adesso improvviserei.
Caro Ennio Abate,
sulla guerra rimando alla mia breve (e insoddisfacente, mi rendo conto) risposta qui sopra.
Sulla potenza americana. Io in effetti ho fatto una constatazione realista (e in questo caso un po’ pessimista): nel quadro attuale, i piccoli stati europei subiscono una forte privazione di sovranità, mentre dominano potenze di taglia imperiale come USA, Cina, Russia. Data questa premessa, mi sembra che possiamo tutelare un maggiore margine di azione per una certa cultura politica europea, che non vuole essere schiacciata da nessuna di queste potenze, se rafforziamo politicamente la UE, spostando la sovranità a questo livello. Ovviamente, non sarà né sovranità statale, né sovranità federale come quella USA. Ma qualcosa di più forte di adesso deve essere. Altrimenti, in effetti, siamo costretti a essere sotto tutela. Poi, forse è vero che a decidere saranno sempre solo i “vasi di ferro”, come dice lei, cioè le grandi potenze “imperiali”, e che l’idea di istituzioni democratiche sovranazionale è condannata a rimanere un sogno. Qui a Torino c’è Pier Paolo Portinaro che con le sue analisi lucide muove sempre questa critica. Questo è il grande dibattito, in effetti.
Riformismo-rivoluzione. Io continuo a pensare che delle “cose minime” (e a volte non così minime) si possono fare, perché se è vero che lo stato sociale europeo è in crisi, mi sembra esagerato dire che è smantellato, visto che abbiamo in tutti i paesi sussidi di disoccupazione, servizi sociali, ecc. Tutte queste cose sono più difficili da garantire, adesso rispetto a trenta anni fa, ma sono molto più forti e presenti di quanto non lo fossero ottanta anni fa, dopo la crisi del ’29. Da noi in Italia sono molto più deboli che in altri paesi europei, perché abbiamo uno Stato sfasciato, sprecone e inefficiente, troppo indebitato, e perché continuiamo a non fare quello che si può fare, come per esempio sostituire la cassa integrazione con un sussidio di disoccupazione universale, o introdurre un salario minimo (tutte cose “minime” che si possono fare e che fanno vivere meno peggio qualcuno).
Una considerazione finale. Il quadro generale che lei dipinge solleva un problema di filosofia pratica. Cerco di formularlo: se la coscienza, osservando da un punto di vista morale universale il mondo, diventa consapevole di tutti i mali del mondo, ritiene irrilevanti i doveri morali immediati. Questi infatti sbiadiscono, di fronte ai mali più gravi. Mi spiego con un esempio: i doveri morali che ho ogni giorno nei confronti dei miei cari o dei miei studenti sono niente di fronte alla consapevolezza che, in questo esatto momento, dei bambini muoiono per malnutrizione, e questo sarebbe eliminabile con lo spostamento solo dell’1% del PIL dei paesi ricchi. Ma mi rendo conto che non si riesce a fare nulla, in questo senso. Che io ieri come sempre ho riempito il carrello della spesa di tante cose, e il mondo continua ad andare in malora sempre uguale. Altroché giustizia ed eguaglianza. Bene, il problema è questo: se io accetto questa lucidità, mando in malora anche i miei doveri morali prossimi. Ma questo è giusto? Secondo me no, per tante ragioni che non sto a spiegare qui, solo per non continuare a sproloquiare. In sintesi, non è giusto, perché si farebbe del male sulla base di una visione astratta. E’ giusto, invece, rispondere sempre ai doveri morali prossimi. E tra questi c’è anche il dovere di cambiare quello che si può cambiare nel proprio contesto limitato. Certo, rispetto alle guerre in corso, il posto dei precari della scuola non è granché; ma quando li hai di fronte in assemblea, quei precari, hai il dovere di fare quello che puoi per migliorare questa situazione.
Caro Adelelmo Ruggieri,
premetto che non sono un economista, le mie risposte sono date da una prospettiva di teoria politica. Se l’Italia uscisse dall’euro, la zona euro probabilmente crollerebbe, perché si tratta di un paese di taglia troppo grossa. Speriamo che non succeda, sarebbe un passaggio traumatico. Certo, sul breve periodo si potrebbe riprendere una politica di svalutazione per favorire le esportazioni italiane, ma allora l’economia italiana continuerebbe a vivacchiare con pochi investimenti, poche innovazioni e pochi gruppi industriali di grossa taglia, esattamente la via che ha intrapreso negli anni novanta, con la svalutazione della lira, e da cui non è stata capace di uscire con il passaggio all’euro. Poiché la competizione è su scala globale, alla lunga questa debolezza si paga.
Quanto al valore delle monete che abbiamo in tasca, credo che in effetti diminuirebbe: noi dipendiamo dalle importazioni per l’energia, il petrolio, ecc., quindi con una moneta nazionale più debole li pagheremmo di più. Anche supponendo un ritorno corretto dall’euro alla lira (il che non è scontato), la lira sarebbe ben più debole dell’euro, e il potere d’acquisto diminuirebbe per molti beni.
Insomma: il ritorno alla lira è pura demagogia, o cecità di imprenditori che vogliono vivacchiare con la svalutazione. Sarebbe un gran casino, ha ragione lei, come il signore che ha incontrato, ad essere preoccupato. Ecco perché delle riforme strutturali per salvare la zona euro sono urgenti. Ecco perché continuo a dire che siamo con le spalle al muro.
Caro Piras, d’accordo con quanto scrivi rispondendo a Ruggieri: ma non trovi che il populismo nostrano (leghista-berlusconiano, o anche soltanto leghista) troverà un’autostrada propagandistica aperta davanti a sé nel prossimo futuro? Prendersela con l’euro, come già si è fatto per il passato (quando la sua introduzione non controllata proprio dal governo berlusconiano produsse un aumento perverso dei prezzi), è uno sport facilissimo. Anziché puntare a una maggiore integrazione europea, al federalismo, alle istituzioni statali sovranazionali, si punta allo sfascio dell’Europa allo scopo di tornare, anche illusoriamente, al vecchio meccanismo della svalutazione della lira. Per la Grecia una soluzione del genere è già stata prospettata. Sul crollo dell’euro in generale, poi, vorrei dire a Ruggieri e al suo amico anziano di non essere troppo spaventati dalle pseudonotizie messe in giro ad arte magari dalla stessa speculazione internazionale, pur senza pensare, per questo, a un complotto della finanza mondiale.
@ Mauro Piras
La ringrazio per la risposta.
A differenza di Rino Genovese, io invece penso ad un complotto della finanza mondiale, del resto è da settant’anni che se ne parla e gli sviluppi del rapporto mafia-politica-economia-finanza a livello internazionale sono abbastanza visibili. Gli interessi finanziari riescono a gestire ogni attività, dalla ricerca agli scarichi industriali. La società capitalistica fondata sull’ammaestramento mediatico dimostra sempre più le sue crepe, la cultura è in grado nonostante tutto di sviluppare una certa resistenza quando i bisogni materiali non intasano il cervello di preoccupazioni vitali. Svilire lo Stato a favore dell’imprenditoria privata, corrodere i risparmi, ipotecare le case (sarà lo sport finanziario del prossimo futuro) significa rendere il maggior numero possibile di persone impossibilitate a reagire ai soprusi per non vedersi privati di un briciolo di serenità familiare. La nuova schiavitù proletaria e piccolo-borghese andrà ad aggiungersi/sostituirsi alla vecchia schiavitù della gleba. L’impoverimento del mondo occidentale e i suoi stretti legami con i poveri del terzo mondo creerà un clima di scontri economico-razziali e religiosi che favorirà il controllo di tutte le regioni del pianeta. La produzione non avrà più bisogno di mercati di qualità se non per una limitata sfera sociale, per la quale lavoreranno schiavi solerti e proni. Come avviene da decenni nella Moda, ci lustreremo gli occhi non più con gli abiti che sfilano sulle passerelle televisive ma con qualche tozzo di pane bianco pubblicizzato dai cartelloni stradali. Lo so che mi sto facendo prendere la mano dalla fantasia di certa filmografia americana, ma temo che questa visione apocalittica non sia così lontana dall’avverarsi almeno in parte. Ovviamente, anche lasciando stare le esagerazioni, non ho competenze per valutare validamente la parte più credibile di questo scenario, per esempio non so quanto possa convenire la ricchezza in un mare di povertà. Per lungo tempo la storia ci ha proposto castelli come oasi di pace per pochi intimi, ma in una società capitalistica forse questo isolamento è contraddittorio perché poco produttivo.
Caro Genovese,
certo, il populismo rischia di avere la strada spianata, mi rendo ben conto di questo pericolo. E certo se le politiche dei governi europei sono volte solo all’assestamento di bilancio, il rischio è altissimo. Se invece si punta realmente sulla crescita e anche su misure di equità sociale, le cose possono essere in parte corrette. Ecco perché io penso che sia più importante cercare di imporre un’agenda politica a questo governo (concretamente: che sindacati e partiti di sinistra premano perché le misure di assestamento siano accompagnate sempre da misure di crescita e di redistribuzione), e non invece delegittimarlo. Se lo si delegittima (“il governo della finanza”, ecc.) si alimenta indirettamente il populismo da sinistra. E’ importante vedere le differenze, e spingere nel loro senso, invece di fare la superficiale equazione neoliberismo di Monti=neoliberismo di Berlusconi. Un esempio: la scelta di Corrado Passero allo sviluppo è stata infelice, per tutti i problemi di conflitto di interessi che ha sollevato; però l’altro ieri si è rivelata utile, perché forse solo il peso di uno come lui, unito alla volontà politica di mediare i conflitti, che questo governo ha, poteva imporre alla Fiat una trattativa seria con la Fiom, e ricomporre l’unità sindacale. Questo è un progresso, per quanto minimo. Così come è un progresso una politica che diminuisca la tassazione sul lavoro dipendente e sulle imprese, grazie alle entrate ottenute negli altri ambiti (per esempio anche con una riforma delle pensioni intelligente).
Insomma, io dico solo questo: giudicare la linea politica con attenzione, nel dettaglio. Le equazioni facili rafforzano il populismo. Un altro modo per combattere il populismo è sostenere l’azione del governo su un punto che trova il consenso di tutti, ma la resistenza passiva della classe politica: la riduzione dei costi della politica e degli sprechi dell’amministrazione statale. Questo può essere fatto, ora, se il governo è sostenuto dall’opinione pubblica e dai partiti che credono veramente a queste cose; se invece Idv e Sel delegittimano il governo, non si fa neanche questo. Allora sì che il populismo si ingrassa.
@ Piras
Lei è davvero un interlocutore paziente e credo utile continuare a ragionare con lei anche se da sponde diverse. Riprendo alcuni punti:
1. Democrazia nelle “primavere arabe”
La « dinamica democratica in corso nella sponda sud del Mediterraneo, e nel Vicino Oriente» è
più ambigua e incerta di quato crediamo. E non così indirizzata verso la democrazia, almeno quella che intendiamo noi che qui stiamo discutendo.
Mi pare che lo dica con ottimi argomenti (e non casualmente con sguardo non solo “italiano”) Danilo Zolo in questo scritto pubblicato su Iride, n. 2, agosto 2011 e riportato qui:
http://www.juragentium.unifi.it/topics/wlgo/it/quale.htm:
«Se è vero che la “democrazia” è l’obiettivo fondamentale delle nuove generazioni tunisine ed egiziane, allora non si può chiudere questa riflessione senza tentare di capire se oggi esiste un rapporto positivo fra i paesi islamici dell’Africa settentrionale e le potenze occidentali che controllano manu militari il Mediterraneo e si considerano per eccellenza “democratiche” e portatrici di democrazia.
Non si può infatti ignorare che le autorità politiche che nei prossimi mesi prenderanno il posto dei regimi autoritari sconfitti in Tunisia e in Egitto non potranno non avere un rapporto molto stretto con le potenze occidentali, soprattutto con gli Stati Uniti e i loro alleati, quali la Francia, l’Inghilterra e l’Italia. E non si può dunque ignorare che il futuro della Tunisia e dell’Egitto è strettamente legato al destino della Libia, devastata e insanguinata da una guerra senza fine. E se è vero che la Libia è ormai un paese che dipende dalle potenze occidentali e che sarà a lungo gestito dalla NATO – come è avvenuto in Kosovo, in Afghanistan e in parte anche in Iraq -, allora il destino del popolo tunisino e di quello egiziano è facilmente prevedibile. Le potenze occidentali e i loro governi esalteranno trionfalmente il successo della “democrazia” a vantaggio dei paesi arabi del Mediterraneo, ma si tratterà di una democrazia molto lontana da quella coraggiosamente voluta dalle giovani generazioni tunisine ed egiziane.
“Democrazia” avrà sostanzialmente il significato che gli Stati Uniti hanno attribuito a questo termine quando hanno deciso di porre sotto il proprio controllo militare il Mediterraneo, il Medio oriente e l’Asia centro-meridonale, moltiplicando le loro centinaia di basi militari. Hanno iniziato con l’invio di 500mila soldati in Medio oriente e la vittoriosa guerra del Golfo del 1991. E hanno proseguito con le guerre dei Balcani degli anni novanta, con l’aggressione all’Afghanistan e all’Iraq nei primi anni del Duemila, e hanno infine concluso, almeno per ora, con la sconfitta di Muammar Gheddafi e l’occupazione di fatto della Libia.»
2. Opzione sovranazionale o nazionale
Nel quadro attuale i piccoli stati europei tutelerebbero meglio il loro margine d’azione, « se rafforziamo politicamente la UE, spostando la sovranità a questo livello». Lei però non tiene conto a sufficienza (e mi sono permesso di parlare di reticenza) che siamo (direi dalla fine della Seconda guerra mondiale) *già sotto tutela” e precisamente degli USA ed è PROPRIO QUESTA FORTISSIMA TUTELA che impedisce di accrescere anche di poco, sia pur nel senso a lei caro dei “piccoli passi” o delle “riforme”, il loro margine d’azione.
Non si poteva nel caso della guerra in Libia scostarsi come ha fatto la Germania della Merkl? Impossibile! È intervenuto in prima persona lo stesso presidente Napolitano a scapito – e non lo penso da solo – della Costituzione e dello Stato di diritto, sempre a lei cari. Per cui non mi pare folle (forse minoritario, embrionale, utopistico) il discorso che ho cercato soltanto di portare all’attenzione di LPLC del “Movimento Popolare di Liberazione” e che Stefano D’Andrea, da nessuno ripreso, ha cercato di difendere. La sua «idea di istituzioni democratiche sovranazionali» mi pare quantomeno altrettanto poco realistica, se la tutela o le tutele suddette sono tanto pesanti.
3. Riformismo/rivoluzione e doveri morali
«Mi sembra esagerato dire che [lo Stato sociale] è smantellato, visto che abbiamo in tutti i paesi sussidi di disoccupazione, servizi sociali, ecc.». Non voglio fare la Cassandra. Ma aspetti di vedere il governo Monti in azione e poi, se i commentatori di questo post non si disperderanno, ne riparleremo.
Non in termini di doveri e di morale avevo posto il problema dell’attenzione alle questioni generali e a quelle quotidiane, ma in termini politici, anche se purtroppo in assenza di una vera forza politica capace di ricollegare i due piani.
Da isolati (quali siamo, credo) rischiamo di fare la fine dell’asino di Buridano, di non saper scegliere cosa affrontare: il problema dei morti per malnutrizione o quello dei precari della scuola? I doveri morali prossimi o i fortiniani «destini generali»? Anch’io mi rendo conto, come lei, che non si riesce a fare nulla né in generale e spesso neppure nel locale; e, come lei, riempirò il carrello della spesa di poche o tante cose, finché me lo permetteranno, mentre «il mondo continua ad andare in malora sempre uguale».
Tuttoavia, è proprio questa scissione, questo aut-aut imposto che deve saltare innanzitutto nel nostro modo di pensare al mondo. Ci hanno imposto, infatti, dei paraocchi impedendoci di vedere la relazione che esiste, ad es., tra guerra in Libia e emigrazione e disoccupazione e crescente precarietà della nostra vita sociale. Certo, se ci fosse una visione politica che tornasse unitaria e correggesse questo strabismo politico (indotto!). O noi vogliamo affidare le nostre residue speranze al governo Monti o a Draghi?
Ha scritto Manlio Dinucci (il manifesto, 16 novembre 2011) :
« Dopo aver contribuito a provocare la crisi finanziaria, che dagli Stati uniti ha investito anche l’Europa, la Goldman Sachs ha speculato sulla crisi europea. Tre mesi fa, il 16 agosto, ha inviato ai suoi più importanti clienti un rapporto riservato di 54 pagine, avvertendoli dell’imminente aggravarsi della crisi nell’area dell’euro e dando loro precise istruzioni su come fare soldi con la crisi. La stessa tecnica usata con la crisi dei mutui: mentre pubblicamente presentava le «salsicce finanziarie» come investimenti della massima affidabilità, segretamente la banca consigliava ai suoi più importanti clienti di disfarsene al più presto.»
Se ci affidiamo a costoro , mi sa che astratti resteranno sia i suoi «doveri morali prossimi» che i miei inviti a considerare quanto accade nel cortile di casa alla luce della bufera globale.
per Roberto Bertoldo- non penso che le sue visioni siano poi così lontane dall’avverarsi; anzi, in tutta evidenza, molta parte di loro appare già in corso; ma è proprio per questo si legge con il massimo interesse una analisi che cerca di non lasciarsi dominare dagli eventi, come questa di Mauro Piras
per Rino Genovese- distiguere le notizie vere dalle pseudo notizie non è poi che sia così semplice; figurarsi per un anziano che ha sgobbato mezzo secolo e ora assiste a questa catena di sant’antonio pressochè planetaria
un cordiale saluto
Adelelmo Ruggieri
“Ausser diesem Stern, dachte ich, ist nichts” (Bertolt Brecht).
Caro Ennio Abate,
ha ragione, non è inutile continuare a ragionare pur da posizioni lontane. Però adesso stiamo rischiando di avvitarci più o meno negli stessi argomenti, da una parte e dall’altra. Inoltre, purtroppo, nei prossimi giorni non avrò più molto tempo. Ma, sempre come dice lei, avremo occasione di riparlare di queste cose.
Un caro saluto
mp