di Francesco Pecoraro
Ragazzi arabi con poca istruzione, senza soldi e senza lavoro o con un lavoro di merda, ragazzi schizofrenizzati dal conflitto tra cultura di provenienza e cultura di approdo, dove pure sono nati e di cui parlano perfettamente la lingua, cultura di cui hanno studiato almeno gli elementi essenziali, ma senza riuscire ad assimilarli e senza farsene assimilare (perché?), fino al colpo di coda dell’estraneità di ritorno, al rigurgito dell’appartenenza e del dettato religioso, dunque fino al Rigetto. Ragazzi senza futuro, incagliati in un presente per loro immutabile, ragazzi incapaci di compiere il passo necessario alla mescolanza con Europa, che pure (ma solo a certe condizioni) può completamente accogliere, ragazzi senza visione dell’avvenire, ragazzi con barbe islamiche, ragazzi di cui non frega a nessuno sono disposti a morire pur di fare strage di altri ragazzi come loro, ma diversi perché istruiti, sofisticati, sostanzialmente integrati, completamente consenzienti al sistema e tuttavia ornati di deboli orpelli oppositivi. Ragazzi europei belli levigati creativi, super-qualificati, con buone prospettive di lavoro e quasi sicuramente un futuro, ragazzi con dottorato alla Sorbona e barbe e baffi e capelli da hipster, che si muovono disinvolti attraverso le frontiere ormai virtuali d’Europa, ragazzi che coltivano liberamente i loro rapporti, che non hanno regole sessuali, ragazze prive di alcun senso di minorità, libere, che ti guardano dritto negli occhi, ragazzi protetti dall’Occidente, di cui sono la crema e probabilmente i futuri dominanti. Ragazzi scelti con cura per queste loro caratteristiche, poi aggrediti e ferocemente uccisi come un branco di gnu.
Per quanto la mente atea occidentale sia strutturalmente incapace, non dico di comprendere, ma anche solo di figurarsi in larga approssimazione la mente islamista, nelle sue motivazioni e nel suo immaginario, dalle foto dei volti della strage del Bataclan salta agli occhi la differenza di classe (in altre parole di prospettive di vita, di aspettative concrete) tra gli uccisori e gli uccisi. Non solo l’abisso di emancipazione tra gli uni e gli altri, ma un fondamentale iato di estrazione sociale. E non solo. Le foto dei morti ci parlano di un’antropologia giovanile occidentale europea e cosmopolita che si muove e si trova a suo agio in un mondo ormai completamente anglofono, di cui assorbe senza problemi il valore dei non-valori. Al contrario dei loro uccisori, che sembrano pervasi da un dettato antico, assoluto, inderogabile, talmente costrittivo che te ne puoi liberare solo con la morte. La morte non come fine della vita, non come sparizione nel nulla dei ragazzi uccisi, ma come liberazione dalla costrizione religiosa e inizio della vera vita dei ragazzi uccisori.
Stretto da un Occidente che ti accoglie e allo stesso tempo ti relega e ti respinge, e, sull’altro lato, dall’alternativa di una rivalsa identitaria, tutta interiore, che ti conduce dritta allo schiacciamento dell’ego e ti sottopone a una pressione totalmente pervasiva, finisci per sognare l’annullamento nella morte, nel martirio, nella rinascita in un paradiso arcaico promesso da un libro altrettanto arcaico. Questo è ciò che riescono a produrre i miei tentativi di immedesimazione. Ma cosa veramente si annida nella mente posseduta in modo così decisivo dal meme islamista? E dove si situa il varco, il punto debole, attraverso cui quel sistema ideologico, così estraneo e diverso da ciò che si insegna nelle scuole europee, riesce a penetrare?
La mia non sradicabile cultura novecentesca mi porta a supporre che la differenza di classe, generando odio «naturale», giochi un ruolo decisivo nella scelta delle vittime, oltre che del lasciarsi «cadere» nell’avvitamento islamista. Ogni forma di disagio economico e di costrizione ai margini, dunque di sofferenza sociale, genera una forma più o meno sorda di odio e, se incontra un sistema ideologico capace di accoglierlo, di organizzarlo e finalizzarlo – sempre in senso variamente rivendicativo, sempre in direzione dell’emancipazione, del riscatto della condizione di partenza, che può avvenire attraverso il crimine, o l’azione politica, o il credo religioso – allora quell’odio può farsi spietatamente operativo. Come abbiamo visto.
Credo che la visione fondamentalista abbia la capacità di apparire, a chi si sente in vario modo respinto dal corpo sociale cui consciamente o inconsciamente vorrebbe appartenere, come una suprema affascinante semplificazione. Alla base c’è il sogno – che per gli occidentali è un incubo – di una società chiara, in cui la sharia regola ogni aspetto della vita. Al contrario delle società occidentali, non sono richieste facoltà di giudizio morale, ma solo pratico, perché il giudizio morale è già stato emesso secoli fa. In pratica è l’utopia del «tutto è scritto», perché tutto è già accaduto. Niente di nuovo può esistere al di fuori del già detto, del già giudicato e tutto il nuovo che la società occidentale produce ogni giorno non conta: è solo uno degli strumenti per riaffermare il dettato arcaico. L’acqua moralmente torbida, piena di correnti, in cui noi nuotiamo noi occidentali diventa all’improvviso meravigliosamente limpida. Non solo: la morte come martirio diventa il supremo riscatto di una vita di cui non si accetta la fondamentale mancanza di scopo.
Ma è proprio l’accettazione più o meno implicita della mancanza di scopo della vita a caratterizzare la tarda società occidentale, sempre più secolarizzata e consumista, in cui si punta invece all’eliminazione della malattia, del dolore fisico e della morte. È la società prodotta da una forma di capitalismo molto aggressivo e pericoloso per l’individuo, in cui vige lo scopo segreto di spogliare lo stato di ogni responsabilità etica e materiale, per caricarla finalmente e in toto sulle spalle dell’individuo che o è stordito da un eccesso di abbondanza o è disperato da un eccesso di povertà, o è in bilico tra le due condizioni. Se nasci ben dentro una cultura di questo tipo, com’è per le vittime del Bataclan, i suoi attuali fondamenti ti sembreranno normali e per quanto tu ti possa dotare di strumenti critici, difficilmente sfuggirai al consenso di fondo generato dalla promessa implicita che tu ce la farai, che questo mondo è per te, che ti sta aspettando per portarti in trionfo.
Ma negli anfratti, neanche tanto segreti, di una realtà nella quale sei fondamentalmente a tuo agio, c’è chi non ti vede come un essere umano, ma solo come un cane infedele, che appartiene a un mondo la cui complessità atea è da respingere radicalmente in favore della purezza dell’utopia islamista, e perciò può scaricarti addosso, senza problemi, interi caricatori di kalashnikov.
[Immagine:
]
Intervento molto bello, come sempre, grazie.
A conferma della radice sociale del fondamentalismo: “[…] il problema non è l’integrazione religiosa in Occidente, non è lo scontro fra laicità e religione. […] Il problema è nella giustizia sociale. Una società multietnica si costruisce giorno per giorno, non solo stando uniti nel dramma […] Sia i fondamentalisti sia i nazionalisti hanno interesse a eludere il problema sociale e a buttarla sullo scontro religioso” (Tariq Ramadan, intervista al “Corriere della sera”, 19 novembre).
Tuttavia, il profilo sociale di Abaaoud (il quarto di questa serie di foto, uno degli ideatori dell’azione), contraddice in parte questa lettura: i suoi genitori erano benestanti, ormai integrati nella classe media belga, lo hanno mandato a studiare in una scuola cattolica per ricchi. Sembra di capire che c’è un percorso di integrazione che fallisce nel passaggio da una generazione all’altra. Ma non per ragioni strettamente socio-economiche. Quindi il problema del “Rigetto” va inteso in senso anche culturale, come mancato riconoscimento di identità diverse: al fallimento della giustizia sociale si sovrappone il fallimento delle politiche di integrazione, tanto nel modello “assimilazionista” francese quanto in quello pluralista provato in Germania e nei paesi di lingua inglese (il primo però sembra fallire di più, e questo dovrebbe preoccupare tutti quelli che invece lo rilanciano come soluzione, di fronte a questa crisi).
Ma certo, ha ragione Pecoraro, c’è un problema più radicale, che genera antropologie opposte: “la fondamentale mancanza di scopo” è l’effetto di una patologia della modernità occidentale, sia nella versione “secolarizzata e consumista” sia nella scelta della “morte come martirio”. Il fondamentalismo però non è arcaico, ma è moderno: come ha osservato Hauke Brunkhorst, è anch’esso un effetto dell’autonomizzarsi dei sistemi sociali, di cui la politica perde il controllo. In questo caso, la religione si sgancia dal resto del mondo sociale, perché non è più il suo vero fattore di integrazione. E si scaglia contro la società stessa. Questo accade anche dove, fuori dal mondo capitalistico, cerca di imporsi, ora, come unico fattore di coesione sociale: la violenza dei divieti che deve imporre denuncia la sua impotenza su questo terreno.
Concordo con Mauro: intervento molto bello.
riassumendo: la vita dei giovani occidentali è gravata da una terribile colpa di classe, non individuale ma storica. Individualisti, consumatori e libertini, i giovani cosmopoliti sono i nuovi aristocratici dell’ordine globalizzato, pochi soldi ma tanto capitale culturale, una visione immanentista e creativa della vita, e soprattutto tanta, insopportabile consapevolezza di sé. Tutto sommato, si capisce perché gli attentatori abbiano sterminato questi figli gaudenti del capitalismo, e nel loro gesto dovremmo riconoscere l’incarnazione del nostro stesso senso di colpa per essere nati occidentali, privilegiati e liberi. PENITENZIAGITE!
Mi chiedo quale abisso di disumanità possa consentire a qualcuno di sedersi davanti a un mucchietto di fotografie e, magari tra un caffè e una telefonata, risolversi ad accomunare studenti, aspiranti rocchettari, camerieri cileni, aspiranti violoncelliste algerine, impiegati cinquantenni della provincia francese e nonne nella categoria “ragazzi europei belli levigati creativi, super-qualificati, con buone prospettive di lavoro e quasi sicuramente un futuro, ragazzi con dottorato alla Sorbona e barbe e baffi e capelli da hipster, che si muovono disinvolti attraverso le frontiere ormai virtuali d’Europa, ragazzi che coltivano liberamente i loro rapporti, che non hanno regole sessuali, ragazze prive di alcun senso di minorità, libere, che ti guardano dritto negli occhi, ragazzi protetti dall’Occidente, di cui sono la crema e probabilmente i futuri dominanti”.
Agghiacciante.
Un articolo molto bello, come anche quello di Piras di qualche giorno fa. Grazie.
@Michela
Questo è l’elenco dei morti:
http://www.lemonde.fr/attaques-a-paris/article/2015/11/15/guillaume-quentin-marie-les-victimes-des-attentats-du-13-novembre_4810428_4809495.html
La maggioranza delle vittime rientra nella descrizione di Pecoraro.
Ma nanche per sogno! La differenza di classe non c’entra niente, e basta poi con questa sciocchezza delle differenti antropologie. la gente povera arriva per diventare ricca, perché ama il benessere e schifa la povertà. Gente con difficoltà economica e di vita ce n’è a pacchi sia in oriente che in occidente eppure non mi pare che si mettano tutti ad ammazzare gli altri. La questione è meramente psicologica, al massimo sociale inteso come rapporti sociali, legami sociali, che fanno sì che uno si senta parte di un gruppo buono e non faccia cazzate. Ma per il resto, data una qualsiasi ideologia x di morte, troverà persone mentalmente disturbate a seguirla. Per caso negli anni ’70 i vari terroristi nostrani erano tutti malandati? Curcio e company non andavano all’università? I ragazzi che oggi militano in Casapound come li spiegate? Oggi le persone disturbate trovano il jihad come sfogo, così come ci sono persone disturbate che diventano vegan (lo dico da vegan) ed entrano a far parte di certi gruppi che un giorno potrebbero ammazzare qualcuno, uno scienziato che compie ricerca medica per esempio, così come ci sono persone disturbate che fanno parte delle milizie anti-abortiste. Il disturbo mentale si può curare, ma è statistico, tocca un piccola percentuale di persone a caso. Le ideologie di merda forse sono più trattabili.
Dicono.
L’ISIS vuole attentare al nostro stile di vita, non glielo permetteremo.
Vediamo cosa ci prepariamo a difendere a spada tratta.
Tutti penserebbero che difendiamo innazitutto le nostre costituzioni democratiche.
No, quelle non le difendiamo, ce ne faremo una ragione dice un commentatore su un blog, se dobbiamo rinunciare alle forme di garanzia che prevedono la separazione dei poteri. Che adesso un funzionario qualsiasi del governo possa sostituirsi al giudice nell’autorizzare limitazioni delle libertà personali, come avverrà in Francia dietro proposta di quel pericoloso inetto di Hollande, dobbiamo accettarlo, dobbiamo evitare le stragi terroristiche.
Allora, vediamo cos’altro difendiamo.
Difenderemo almeno le sovranità nazionali basate su costituzioni democratiche, difenderemo quelle organizzazioni collettive che da sempre sono servite a difendere i deboli dai forti prepotenti.
No, quelle non le difendiamo, dobbiamo cedere sovranità all’Europa, siamo inadeguate come singole nazioni, uniamoci a difendere i capitalisti che ci stanno succhiando il sangue.
Cosa dobbiamo difendere allora?
Forse la nostra dipendenza dagli oggetti, forse la rapina che facciamo delle risorse del pianeta che non ce la fanno più a rinnovarsi al ritmo del nostro consumo, l’individualismo più minuto, inutile e in fondo becero, per cui quei meschini privilegi che la nostra società ci concede le difendiamo con le unghie e con i denti, anche se difendendo ciò, finiamo col difendere i nostri aguzzini.
Certo, questo gli aguzzini ci permettono di mantenerlo, sono generosi loro…
Sulla base delle foto pubblicate dai giornali, il cui colpo d’occhio dà in effetti un’impressione generale di giovinezza, questo pezzo opera una polarizzazione letterariamente efficace, ma, mi sembra giusto notarlo, poco corrispondente al vero. Innanzitutto, cosa s’intende per “ragazzi”? Le persone sotto i trent’anni erano circa un quarto delle vittime. Un altro quarto è compreso da persone fra i 40 e 60. La metà fra i 30 e 40, molti dei quali padri e madri di famiglia. Rari i “super-qualificati”, rarissimi i “futuri dominanti”. La maggior parte erano persone originarie della provincia, con un profilo professionale già definito, di fascia media. Insomma, apparentemente, gente che si era adattata al mondo in cui viveva senza beneficiare di particolari privilegi o protezioni. La descrizione che ne fa Pecoraro corrisponde forse al fantasma nutrito dagli attentatori, ma certamente anche a quello di chi, intendiamoci, non del tutto a torto (lo “iato di estrazione sociale” sussiste), vuole leggere quanto è successo dalla prospettiva tradizionale della lotta di classe.
DI JOHN PILGER
counterpunch.org
Nel trasmettere gli ordini del presidente Richard Nixon per un “massiccio” bombardamento della Cambogia nel 1969, Henry Kissinger disse: “Tutto ciò che vola su tutto ciò che si muove”. Mentre Barack Obama promuove la sua settima guerra al mondo musulmano da quando gli è stato assegnato il Premio Nobel per la Pace, e Francois Hollande promette un attacco “senza pietà” sulle macerie della Siria, l’isteria e le menzogne orchestrate fanno quasi venire la nostalgia per l’onestà omicida di Kissinger.
Come testimone delle conseguenze umane dei brutali bombardamenti aerei – tra cui la decapitazione delle vittime, con le loro parti interne sparse sugli alberi e sui campi – non mi sorprende che ancora una volta si denigrino la memoria e la storia. Un esempio significativo è stata l’ascesa al potere di Pol Pot e dei suoi Khmer Rossi, che ha molto in comune con l’odierno Stato Islamico (ISIS) in Iraq e in Siria. Anche loro erano spietati medievalisti che hanno iniziato come una piccola setta. Anche loro erano il prodotto di un disastro di fabbricazione americana, quella volta in Asia.
Secondo Pol Pot, il suo movimento consisteva in “meno di 5.000 guerriglieri male armati e insicuri circa la loro strategia, tattica, lealtà e guida”. Una volta che i bombardieri B-52 di Nixon e Kissinger iniziarono la loro “Operazione Menu”, il peggior demonio dell’occidente non poteva credere alla sua fortuna. Dal 1969 al 1973 gli americani fecero piovere sulle campagne della Cambogia l’equivalente di cinque atomiche della forza di quella che colpì Hiroshima. Spianarono villaggio dopo villaggio, tornando a bombardarne le macerie e i cadaveri. La carneficina lasciò giganti collane di crateri, ancora oggi visibili dall’alto. Il terrore era inconcepibile. Un ex ufficiale dei Khmer Rossi descriveva come i sopravvissuti “girovagavano raggelati e muti per tre o quattro giorni. Terrorizzati e semi impazziti, erano pronti a credere a tutto ciò che gli si diceva… Questo è quel che ha reso così facile ai Khmer Rossi portarsi la gente dalla propria parte”. Una commissione d’indagine governativa finlandese ha stimato che 600.000 cambogiani morirono nella guerra civile che ne conseguì, e descrissero i bombardamenti come “la prima fase di un decennio di genocidio”. Ciò che Nixon e Kissinger cominciarono, Pol Pot, il loro beneficiario, completò. Sotto le loro bombe, i Khmer Rossi crebbero fino ad un formidabile esercito di 200.000 unità.
L’ISIS ha un passato e presente simili. Con i criteri usati dalla maggior parte degli studiosi, l’invasione dell’Iraq da parte di Bush e Blair nel 2003 ha causato almeno 700.000 vittime – in un paese che non aveva storia di jihadismo. I curdi avevano ottenuto concessioni politiche e territoriali; sunniti e sciiti avevano classi e differenze settarie, ma erano in pace; i matrimoni misti erano comuni. Tre anni prima dell’invasione, ho guidato tutta la lunghezza dell’Iraq senza paura. Nel tragitto ho incontrato gente fiera, soprattutto di essere irachena, erede di una civiltà che a loro pareva una presenza fisica.
Bush e Blair hanno fatto a pezzi tutto questo. L’Iraq odierno è un nido di jihadisti. Al Qaeda – come i “jihadisti” di Pol Pot – ha colto l’opportunità fornita dall’assalto di ‘Shock and Awe’ e dalla guerra civile che ne seguì. La “ribelle” Siria ha offerto loro benefici ancora maggiori. Con la CIA e gli stati del Golfo che offrono logistica e denaro per il traffico d’armi attraverso la Turchia, l’arrivo di reclute straniere era inevitabile. Un ex ambasciatore britannico, Oliver Miles, scrisse: “Il governo [di Cameron] sembra seguire l’esempio di Tony Blair, che ha ignorato di continuo il parere del Foreign Office, di MI5 e MI6, che la nostra politica in Medio Oriente – e in particolare le nostre guerre in Medio Oriente – è stata il principale movente nel reclutamento di musulmani in Gran Bretagna per il terrorismo locale”.
L’ISIS è la progenie di coloro che a Washington, Londra e Parigi, nel cospirare per distruggere l’Iraq, la Siria e la Libia, hanno commesso un enorme crimine contro l’umanità. Come Pol Pot e i Khmer Rossi, l’ISIS costituisce la mutazione di un terrore di stato occidentale elargito da un’avida élite imperiale che non si preoccupa delle conseguenze di azioni intraprese e incurante di distanza e cultura. Della loro colpevolezza non si parla nelle “nostre” società, il che ci rende complici di coloro che sopprimono questa verità cruciale.
Sono passati 23 anni da che un olocausto ha travolto l’Iraq, subito dopo la prima guerra del Golfo, quando Stati Uniti e Gran Bretagna sequestrarono il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e imposero “sanzioni” punitive contro la popolazione irachena – paradossalmente rafforzando l’autorità nazionale di Saddam Hussein. È stato come un assedio medievale. Quasi tutto ciò che sostiene una nazione moderna è stato, in gergo, “bloccato” – dal cloro per l’acqua potabile alle matite per la scuola, ai ricambi per le macchine per i raggi X, agli antidolorifici comuni, ai farmaci per combattere tumori fino ad allora sconosciuti, trasportati dal vento nella polvere dei campi di battaglia del sud contaminati con uranio impoverito. Poco prima di Natale del 1999, il Dipartimento del Commercio e dell’Industria di Londra limitò le esportazioni di vaccini destinati a proteggere i bambini iracheni contro la difterite e la febbre gialla. Kim Howells, Sottosegretario di Stato del governo Blair, spiegò il perché. “I vaccini per i bambini”, ha detto, “potrebbero essere utilizzati in armi di distruzione di massa”. Il governo britannico la fece franca con tale affronto perché i resoconti mediatici sull’Iraq – in gran parte manipolati dal Ministero degli Esteri – davano la colpa di tutto a Saddam Hussein.
Sotto il finto programma “umanitario” Olio per Cibo, 100 dollari americani con cui avrebbero dovuto vivere per un anno, furono assegnati ad ogni iracheno. Quella cifra doveva coprire le infrastrutture e i servizi essenziali dell’intera società, come l’energia elettrica e l’acqua. “Immagina”, mi disse il Segretario Generale delle Nazioni Unite, Hans von Sponeck, “stanziare quella cifra irrilevante per far fronte alla mancanza di acqua pulita, e al fatto che la maggior parte dei malati non possono permettersi le cure, e al trauma puro e semplice di tirare avanti giorno dopo giorno, e riuscirai a intravedere un incubo. E non ti sbagli a pensare che questo sia intenzionale. In passato non ho voluto usare la parola genocidio, ma adesso è inevitabile.” Disgustato, von Sponeck si dimise da Coordinatore Umanitario dell’ONU in Iraq. Anche il suo predecessore, Denis Halliday, un altrettanto distinto funzionario ONU, aveva rassegnato le dimissioni. “Sono stato incaricato”, disse Halliday, “di attuare una politica che collima con la definizione di genocidio: una politica intenzionale che ha effettivamente ucciso oltre un milione di individui, bambini e adulti”.
Uno studio dell’Unicef ha reso noto che tra il 1991 e il 1998, all’apice delle sanzioni, ci sono stati 500.000 morti “in eccesso” di bambini iracheni di età inferiore ai cinque anni. Un reporter televisivo americano confrontò Madeleine Albright, allora ambasciatore degli Stati Uniti all’ONU, chiedendole: “Questo prezzo vale la pena?” Albright rispose: “Pensiamo che il prezzo valga la pena.”
Carne Ross, ufficiale britannico responsabile per le sanzioni, noto come “Mr. Iraq”, nel 2007 disse ad un comitato di selezione parlamentare, “[I governi degli Stati Uniti e del Regno Unito] hanno a tutti gli effetti negato all’intera popolazione i mezzi per la sopravvivenza.” Quando intervistai Carne Ross tre anni più tardi, era consumato dal rammarico e dal pentimento. “Mi vergogno”, disse. Oggi è una delle rare persone che dice la verità su come i governi ingannano e come i media compiacenti giochino un ruolo fondamentale nella diffusione e mantenerimento dell’inganno. “Davamo in pasto [ai giornalisti] fatti inventati di intelligence edulcorata”, continuò, “oppure li tenevamo fuori del tutto”. L’anno scorso, un titolo non atipico del Guardian recitava: “Di fronte all’orrore dell’ISIS dobbiamo agire.” Il ‘”dobbiamo agire” è un fantasma risorto, un avvertimento della soppressione della memoria informata, dei fatti, delle lezioni imparate, dei rimpianti o delle vergogne. L’autore di questo articolo era Peter Hain, l’ex Ministro degli Esteri responsabile per l’Iraq sotto Blair. Quando nel 1998 Denis Halliday espose l’entità delle sofferenze in Iraq, per il quale il governo Blair ne condivideva la responsabilità primaria, Hain inveì contro di lui sul programma Newsnight della BBC chiamandolo “sostenitore di Saddam”. Nel 2003, Hain ha caldeggiato la decisione di Blair di invadere un già prostrato Iraq sulla base di bugie lampanti. Nel corso di una successiva conferenza del partito laburista, ha trattato l’invasione come se fosse una “questione marginale”.
Ed ecco che Hain chiede “bombardamenti aerei, droni, equipaggiamento militare e altre forme di sostegno” per coloro che “subiscono un genocidio” in Iraq e in Siria. Questo promuoverà “l’imperativo di una soluzione politica”. Il giorno in cui l’articolo di Hain apparve, Denis Halliday e Hans von Sponeck si trovavano per caso a Londra e vennero a farmi visita. Non erano scossi dalla devastante ipocrisia di un politico, ma rimpiangevano la continua, quasi inspiegabile assenza di una intelligence diplomatica nel negoziare una parvenza di tregua. In tutto il mondo, dall’Irlanda del Nord al Nepal, tutti quelli che consideravano gli uni gli altri terroristi ed eretici si confrontavano comunque ad un tavolo di trattativa. Perché non adesso in Iraq e in Siria? Al contrario, c’è un’insulsa, quasi sociopatica verbosità da parte di Cameron, Hollande, Obama e della loro “coalizione dei volenterosi”, mentre prescrivono più violenza recapitata da 30.000 piedi su luoghi in cui il sangue di precedenti vicissitudini non è mai asciugato. Essi sembrano apprezzare la loro violenza e stupidità così tanto che vogliono rovesciare il loro unico e potenzialmente prezioso alleato, il governo Siriano.
Tutto ciò non è una novità, come dimostra il seguente file (svelato) di intelligence britannico-statunitense: “Al fine di facilitare l’azione delle forze di liberazione [sic]… uno sforzo particolare dovrebbe essere fatto per eliminare alcuni individui chiave [e] continuare con i disordini interni in Siria. La CIA è pronta, e il SIS (MI6) tenterà di causare piccoli sabotaggi e colpi di mano [sic], e incidenti all’interno della Siria, lavorando con alcuni contatti con persone … un necessario grado di paura … [inscenare] scontri di frontiera e di confine [per] fornire un pretesto per un intervento… la CIA e il SIS dovrebbero usare … competenze in entrambi i campi psicologico e di azione per aumentare la tensione.”
Questo è stato scritto nel 1957, ma potrebbe essere stato scritto ieri. Nel mondo imperiale, essenzialmente nulla cambia. Nel 2013, l’ex ministro degli Esteri francese Roland Dumas ha svelato che “due anni prima della primavera araba”, gli fu detto a Londra che era stata progettata una guerra contro la Siria. “Sto per dirti una cosa”, disse in un’intervista al canale televisivo francese LPC: “ero in Inghilterra per affari due anni prima delle violenze in Siria. Ho incontrato alti funzionari britannici, che mi hanno confessato che stavano preparando qualcosa in Siria … La Gran Bretagna stava organizzando un’invasione di ribelli in Siria. Mi hanno perfino chiesto, anche se non ero più ministro degli esteri, se mi sarebbe piaciuto partecipare… Questa operazione viene da lontano. È stata preparata, progettata e pianificata.”
Gli unici oppositori efficaci dell’ISIS sono considerati demoni dell’ovest – la Siria, l’Iran, Hezbollah ed ora la Russia. L’ostacolo è la Turchia, un “alleato” e un membro della Nato, che ha complottato con la CIA, MI6 e i medievalisti del Golfo per convogliare il sostegno ai siriani “ribelli”, compresi quelli che ora si fanno chiamare ISIS. Sostenere la Turchia nella sua ambizione di lunga data per il predominio regionale rovesciando il governo di Assad richiede una spinosa guerra convenzionale e il raccapricciante smembramento dello stato più etnicamente diversificato del Medio Oriente.
Una tregua – per quanto difficile da negoziare ed ottenere – è l’unico modo per uscire da questo labirinto; altrimenti si ripeteranno le atrocità di Parigi e Beirut. Insieme ad una tregua, gli autori principali e responsabili delle violenze in Medio Oriente – gli americani e gli europei – devono loro stessi “de-radicalizzarsi” e dimostrare buona fede alle alienate comunità musulmane di tutto il mondo, comprese quelle a casa. Ci dovrebbe essere una cessazione immediata di tutte le spedizioni di materiale bellico verso Israele e il riconoscimento dello Stato di Palestina. La questione della Palestina è la ferita aperta più infetta della regione, spesso usata come giustificazione per la crescita dell’estremismo islamico. Osama bin Laden lo aveva detto chiaramente. La Palestina offre anche speranza. Rendiamo giustizia ai palestinesi e inizieremo a cambiare il mondo intorno a loro.
Più di 40 anni fa, il bombardamento della Cambogia di Nixon e Kissinger provocò un mare di sofferenze da cui quel Paese non si è mai più ripreso. Lo stesso si può dire per il crimine di Blair e Bush in Iraq, e dei crimini della Nato e della “coalizione” in Libia e Siria. Con un tempismo impeccabile, è appena uscito l’ultimo tomo auto-celebrativo di Henry Kissinger dal titolo satirico di “Ordine Mondiale”. In una servile recensione, Kissinger è descritto come la “figura-chiave nel modellare un ordine mondiale che è rimasto stabile per un quarto di secolo”. Andatelo a dire alla gente in Cambogia, Vietnam, Laos, Cile, Timor Est e a tutte le altre vittime della sua “astuzia diplomatica”. Solo quando “noi” riconosceremo i criminali di guerra in mezzo a noi e smetteremo di negare noi stessi la verità, il sangue comincerà ad asciugare.
John Pilger
Fonte: http://www.counterpunch.org
Secondo me, l’intervento di Pecoraro è discutibile in molti punti e, soprattutto, nell’impostazione di fondo.
Le prime parole del post descrivono i terroristi della notte parigina come “ragazzi arabi con poca istruzione, senza soldi e senza lavoro o con un lavoro di merda”. Ma non è così. Mauro Piras nel suo commento ci fa notare che “il profilo sociale di Abaaoud (il quarto di questa serie di foto, uno degli ideatori dell’azione) contraddice in parte questa lettura: i suoi genitori erano benestanti, ormai integrati nella classe media belga, lo hanno mandato a studiare in una scuola cattolica per ricchi”. E poi aggiunge: “sembra di capire che c’è un percorso di integrazione che fallisce nel passaggio da una generazione all’altra. Ma non per ragioni strettamente socio-economiche”. Le ragioni strettamente socio-economiche di cui parla Piras sono quelle su cui Pecoraro ha impostato il suo intervento, da cui cito: “la differenza di classe, generando odio ‘naturale’, gioca un ruolo decisivo nella scelta delle vittime, oltre che del lasciarsi ‘cadere’ nell’avvitamento islamista. Ogni forma di disagio economico e di costrizione ai margini, dunque di sofferenza sociale, genera una forma più o meno sorda di odio”. Proviamo a parlare un po’ anche di seconde e terze generazioni non integrate, e quindi proviamo a parlare anche di immaginario, di alterità. Di identità essenzialista, delle identità essenzialiste di noi occidentali. Il marxismo di Pecoraro, per esempio, è un essenzialismo, che non fa i conti con i processi materiali, sociologici della realtà, come mostra la collocazione sociale di Abaaoud. Se usi il marxismo come una clava introducendo cioè distinzioni rozze, schematiche, produci un’analisi che non è in sintonia con la realtà di cui parli ma forse solo con un tuo bisogno generazionale di nostalgia, con un fondamentalismo della tua identità. Secondo essenzialismo: le vittime dei terroristi sarebbero “ragazzi europei belli levigati creativi, (…) con buone prospettive di lavoro e quasi sicuramente un futuro, (…) ragazzi che coltivano liberamente i loro rapporti, che non hanno regole sessuali, ragazze prive di alcun senso di minorità, libere, che ti guardano dritto negli occhi”. Forse Pecoraro non ha mai sentito parlare di recessione, di lavori precari, di contratti a termine. Lui no, ma i giovani europei sì. Invece siccome l’analisi di Pecoraro prevede una equivalenza per cui giovane europeo = benestante, felice, ecco ipotizzato un futuro da classe dominante per tutte queste giovani vittime. E poi c’è lo stereotipo della libertà sessuale: tutti giovani disinibiti al Bataclan e nei ristoranti attaccati dai terroristi! Ma non è così: avere una vita individuata non equivale ad avere una vita nichilista; avere una vita libera può essere ben diverso dal “non avere regole”; avere ricevuto una eredità di diritti civili non significa che questa eredità sia garantita (i conflitti interni alle democrazie occidentali sulle biotiche, sull’aborto, sui matrimoni gay lo dimostrano) o che si possa acquisire e tramandare in un modo solo, con una sola modalità libertina. Attenzione a questi essenzialismi, già teorizzati d’altronde sempre più ossessivamente da Houellebecq (e non solo dall’ultimo indifendibile Huoellebecq, ma da sempre): perché se leggiamo l’etica dell’Occidente come unica, assoluta e radicale nel perseguire piacere, lussuria e accumulo dei beni concorriamo immediatamente nel generare l’essenzialismo di un mondo arabo altrettanto radicale e compatto nel suo integralismo e nel suo fondamentalismo. E’ proprio quello che fa Pecoraro quando scrive: “la mente atea occidentale è strutturalmente incapace, non dico di comprendere, ma anche solo di figurarsi in larga approssimazione la mente islamista, nelle sue motivazioni e nel suo immaginario”. Va detto, prima di tutto, che quella dei terroristi non è “una mente islamista”, ma una mente fondamentalista! Facciamo attenzione alle parole… Esistono inoltre innumerevoli islamismi; esiste una complessità enorme del mondo arabo; è esistito infine tra gli anni Sessanta e Settanta un mondo arabo più laico del nostro… E poi: non c’è questa contrapposizione tra atei europei e credenti islamici, non c’è nella realtà e quindi non creiamola con le parole. Non esiste un’etica dell’Occidente: esistono, per fortuna, le etiche. E non solo quella marxista e liberale (altra contrapposizione, altro essenzialismo), ma anche forme più complesse e miste, orientate dalla relazione con l’altro: quella di un certo femminismo per esempio (ma Pecoraro ne ha mai sentito parlare?). Non ci sono solo ragioni economiche, ma qualcosa di più: che l’economia intrecciata e/o disgiunta e/o aggirata dall’immaginario.
@ Carlo
La lista che segnali è una lista parziale pubblicata due giorni dopo l’attentato, e comunque, se non ti limiti a scorrerla, neanche in quella la maggior parte delle vittime corrisponde all’immagine suggerita da Pecoraro, lungi da lì. Comunque, da quello che si sa oggi: ingegneri, tecnici del suono e dell’immagine, insegnanti, impiegati, informatici. Di un’età compresa fra i trenta 30 e i 40 anni, molti di loro sposati con figli. Il profilo più generale è questo. Non mi sembra corrispondere in pieno ai “ragazzi” evocati da Pecoraro.
Concordo con chi trova questo articolo infondato (su un sito che, altrimenti, ha articoli molto interessanti e condivisibili). Mi pare che Pecoraro – me lo consenta, e mi perdoni per il giudizio tranciante – faccia solo della (cattiva) letteratura, senza riguardo né per gli uccisori né per gli uccisi, cioè si rifugi in una facile fisiognomica lombrosiana, e in una ancora più facile fisiognomica sociale (loro incolti e poveri, noi colti e ricchi, loro con una fede noi senza valori), che non spiega nulla delle vittime ed ancor meno degli assassini. Certo, gli obiettivi sono stati scelti in un’ottica attentamente psico-sociale, la strategia terroristica si rivolge in ultima analisi (ma non solo) verso il ceto medio intellettuale globale – ma questo aspetto confuta ulteriormente l’assunto di base dell’articolo: è proprio perché quel mondo lo conoscono, io credo, che quei fondamentalisti (proprio quelli e non altri, non per esempio quelli che stanno tenendo in ostaggio gli ospiti di un albergo di Bamako) hanno scelto proprio quegli obiettivi parigini.
E poi: si rileggano le pagine di Weber sullo spirito delle sette, lì c’è già tutto.
La nostra società ha poco o nullo senso da offrire, e su questo non ci piove. Che la motivazione fondamentale dei jihadisti sia l’invidia sociale e la mancata integrazione economica, lo trovo una sottovalutazione fenomenale e un abbaglio himalayano. (Se poi per assurdo lo fosse davvero, peggio che andar di notte, perchè non è mai esistita, non esiste e mai esisterà una società senza importanti differenze di reddito e di possibilità, e dunque il serbatoio dei jihadisti sarebbe inesauribile).
Che i jihadisti siano degli sradicati che reagiscono con il fanatismo religioso e guerriero al loro sradicamento, pare evidente. L’azione parigina in quanto tale è però perfettamente razionale: è una azione di guerra asimmetrica, du faible au fort. I raid aerei sulla Siria, per quanto “intelligenti” e “mirati”, tirano SEMPRE anche nel mucchio dei civili innocenti. Lo Stato islamico non ha l’aviazione e reagisce così, tirando nel mucchio dei civili innocenti nostri, per far capire che effetto fa. Il che non li giustifica, anzitutto perchè qui non c’è niente da giustificare, c’è da capire un nemico con il quale non si può negoziare, e da reagire di conseguenza.
A giudicare dai commenti diffusi sui media, evidentemente il messaggio non arriva forte e chiaro. Possiamo star certi che non si periteranno di ripeterlo, con tanta pazienza.
Vorrei chiedere a Pecoraro di applicare questo schema di lettura alla socio-antropologia degli attentati dell’ISIS a Beirut del 12 novembre (solo un giorno prima di Parigi): che fine fanno i suoi hipster barbuti, benestanti, creativi, nichilisti, le sue ragazze che guardano negli occhi e sono dedite alla libertà sessuale etc etc?
Ma sulla base di quale criterio di giudizio si può scrivere che la vita di milioni di persone manca di scopo ? Qual è il sapere che vi permette di giudicare la vita di milioni di persone di cui non sapete nulla ?
Sono righe piene di pregiudizi, di superficialità, di arroganza, di luoghi comuni, di superstizioni da beghina del quindicesimo secolo. Ed è stupefacente tutto questo esca dalla penna di un romanziere.
Molte le questioni che sollevate. Per rispondere a tutte mi servirebbe molto tempo. Posso solo dire che il mio è un tentativo di lettura solo di questo particolare evento. Quanto alla mancanza di scopo delle nostre vite, non ho dubbi: in sparizione (per fortuna) il senso religioso e sparito ogni credo politico, cosa resta se non andare al supermercato al lavoro al cinema a cena fuori, scopare, fare figli comprare casa, competere con i propri simili per la spartizione delle risorse disponbili, fare le scarpe ai propri competitori, andare in vacanza, farsi una relazione extra coniugale, curarsi le malattie, guardare la tv e alla fine schiattare a 90 anni? Il punto è che tutto questo non lo considero negativo, ma il fine ultimo della storia che, quando non è noia come adesso, è tragedia. Meglio la noia.
@ Francesco Pecoraro
Ognuno ha i suoi gusti. Ma se lei preferisce la noia e qualcun altro la tragedia, secondo lei a chi tocca cambiarli?
“ Venerdì 20 novembre 2015 – « Un’altra giornata drammatica », dice quello del tg. Che è uno che non si annoia mai. “.
Tra noia e tragedia, se permettete, io sceglierei vita che significa un’esistenza a più sfaccettature.
Ci sta un po’ di noia, ed anche un po’ di tragedia, ma anche ogni tanto serenità, un equilibrio naturale tra rilassamento e lotta per la sopravvivenza, ci sta tutto, ed anzi una molteplicità di ingredienti migliora il risultato complessivo.
No, non la vedo proprio questa ineluttabile scelta tra queste due uniche alternative della noia e della tragedia, un po’ di immaginazione in più, per favore.
Gentile Francesco Pecoraro,
mi dispiace che lei si annoi in tempo di pace, ma la verità è che molti di noi non si annoiano per nulla e non si riconoscono nelle sue riflessioni.
C’è un errore fondamentale in quello che lei scrive: non è la fine della storia a porre il problema del senso della vita: è la condizione umana. Da circa duemila anni, non certo solo dalla fine del comunismo, gli occidentali si interrogano su come trovarlo a prescindere da una prospettiva religiosa. Abbiamo inventato persino una disciplina che se ne occupa – l’etica – e tra le soluzioni emerse nel corso del tempo – molte difese proprio da scrittori come lei – ci sono l’amore, l’amicizia, l’educazione dei figli, l’arte, il gioco, il lavoro come vocazione, l’insegnamento, la politica, lo studio, la contemplazione…
Io credo che anche nella nostra forma di vita da lei tanto disprezzata si aprano prospettive di senso più che rispettabili, e che molti individui aspirino con sincerità a forme intersoggettive di bene che trascendono il loro interesse particolare e il loro edonismo: facendo il medico, il giudice, il politico, l’insegnante, il padre… Nessuna di queste attività è di per sé complice del capitalismo, mentre il fatto che sia dia una pluralità di beni, e che l’individuo occidentale possa scegliere liberamente quali perseguire, è certamente un portato della modernità (che ha un valore sempre ambivalente, ma che non coincide col capitalismo). Quanto all’andare al supermercato e comprarsi la casa casa, forse per alcuni sono fini in sé, ma per la maggior parte degli esseri umani sono per lo più strumenti in vista di fini superiori.
Insomma, a me sembra che quello che lei denuncia sia un problema personale – forse il dramma della sua generazione – ma non una questione epocale.
caro Francesco Pecoraro
io provo per lei com passione
non capisco la vita ma intuisco l’amore
la mia vita
..è partito l’invio :)
desideravo solo mandarle un bacio :)
la funambola
Il limite fondamentale dell’articolo di Pegoraro è che, a parte alcune notazioni condivisibili e consonanti con le osservazioni antropologiche da me svolte in un altro intervento, è sostanzialmente tributario dello schema interpretativo della “guerra di civiltà” (categoria ambigua in quanto oscillante fra una dimensione descrittiva ed una dimensione valutativa). E’ tuttavia indiscutibile che le barbare stragi compiute da gruppi armati di fanatici jihadisti in Francia stiano alimentando un clima di intolleranza e contribuendo a diffondere idee reazionarie e xenofobe in tutta Europa. Il fatto che i capi di governo delle potenze imperialiste condannino con proclami altisonanti questi attentati è solo una maschera di ributtante ipocrisia, poiché questi cinici rappresentanti del grande capitale sono gli stessi che hanno sostenuto e armato le bande islamo-fasciste in Afghanistan, in Siria, in Libia e in Iraq, usandole come pretesti per legittimare nuovi interventi “umanitari” diretti a perseguire i loro disegni di saccheggio delle risorse presenti in tali paesi e di nuova spartizione del Medio Oriente e del mondo. Sono gli stessi che con le loro politiche neoliberiste e di austerità sopprimono i diritti e le libertà democratiche conquistate dai lavoratori con decenni di lotte e sacrifici, che tentano di soffocare la libertà di stampa e di espressione, nonché di distruggere la cultura e l’istruzione umanistica e scientifica. Sono gli stessi che mettono in piedi Stati sempre più autoritari e polizieschi, che rafforzano la militarizzazione della società, che varano leggi emergenziali e securitarie, che reprimono e criminalizzano le lotte e le proteste degli sfruttati e degli oppressi. Sono gli stessi che tollerano il razzismo, la xenofobia e il fascismo, che teorizzano e coltivano il progetto di una “guerra di civiltà” in cui i popoli si scannino fra di loro e il potere dell’oligarchia finanziaria sia mantenuto e rafforzato.
È ora che emerga tutta la verità sull’utilizzazione del terrorismo islamo-fascista da parte degli imperialisti e dei governi reazionari loro alleati. Al Qaeda è stata messa in piedi, addestrata e armata dalla CIA in Afghanistan.
Ha sempre svolto un ruolo di sicario, colpendo la lotta nazionale progressista dei popoli arabi e imponendo loro il terrore. I criminali jihadisti che si fanno chiamare ISIS, così come Al-Qaeda e Al-Nusra, hanno la stessa origine e scopo: aiutare l’imperialismo occidentale e il sionismo, in alleanza con i regimi più reazionari del Medio Oriente. Le potenze che appoggiano e finanziano i gruppi terroristici sono chiaramente individuabili: Arabia Saudita, Qatar, Kuwait, Turchia e Israele (tutti alleati degli USA). Anche l’imperialismo italiano, vassallo degli USA, ha contribuito in diversi modi ad alimentare queste bande, in particolare fornendo assistenza ai gruppi islamo-fascisti in Libia e in Siria. In altri termini, l’ISIS e Al-Qaeda sono arnesi utili alla borghesia internazionale e all’imperialismo, che appoggiano la reazione, particolarmente quella di stampo neo-medievale, e la convertono in base fondamentale della loro dominazione, usando la religione non più come oppio dei popoli (questo è l’uso della religione che prevale in Occidente), bensì come cocaina delle masse. Tali gruppi sono armi puntate contro tutte le forze rivoluzionarie, laiche, progressiste e democratiche del Vicino Oriente, dell’Africa e dell’Asia, che combattono la politica dell’imperialismo e delle forze reazionarie.
In sostanza, queste forze reazionarie e terroriste, come il mostro di Frankenstein, sono sfuggite al controllo degli apprendisti-stregoni dell’imperialismo euro-americano, che le ha create, e perseguono propri obiettivi di potere, configurandosi come un nuovo polo imperialista (è questo dato che sfugge alla griglia interpretativa miserabilista adottata da Pegoraro), disturbando i piani di questa o quella potenza, di questo o quel gruppo di briganti finanziari in lotta fra loro, amplificando e acutizzando la tendenza alla guerra. Ecco perché l’insegnamento più importante che si ricava dalle stragi di Parigi è che la lotta contro il fondamentalismo islamico, così come la lotta contro il fascismo e la reazione, è parte integrante della lotta contro l’imperialismo che li genera costantemente e nei periodi di crisi economica come quello attuale se ne serve per deviare la lotta delle masse contro il capitalismo e farla impantanare nella “guerra di civiltà”.
Molto bene, ringrazio molto Francesco Pecoraro – che nel frattempo ho scoperto essere uno scrittore, anche piuttosto osannato e premiato – perché mi permette, con grande lucidità e senza tanta noia, di decidere cosa non leggere mai: Francesco Pecoraro, appunto,
“ Venerdì 20 novembre 2015, sera – La banalità del Mali. “.
beh, soprattutto questi ragazzi sono tutti eterosessuali.
Errata corrige: in poche parole, un articolo profondamente reazionario, la reazione tipica dei nichilisti di sinistra, che sotto sotto qualche bomba aspirerebbero a metterla sotto il culo di qualche hipster
L’intervento più bello che ho letto sul 13 novembre. Grazie.
Aggiungo: alcune delle critiche che leggo nei commenti mi sembrano fondate su un equivoco. Quello di Pecoraro è “un tentativo di immedesimazione”, non certo un tentativo di giustificazione. A me pare chiaro.
Quante domande senza risposte, tutte queste notazioni socio-economiche, antropologiche, quante teorie complottistiche in nuce, quanti lodevoli eppure fallibili tentativi di immedesimazione, quanti finchè (ne ho scritto altrove), quanta noia
Tragicamente vero
A me invece pare più una questione di sé negati, la chiave psichiatrica mi pare quella che meglio può dare una prima risposta, veloce, dove altre risposte non vedo. Le proibizioni, strumento pervasivo delle religioni, tanto più di quella islamica, pongono delle domande che possono avere solo risposte che sono convulsioni psichiche. Non sono uno specialista, per cui forse il mio linguaggio, la confusione del mio linguaggio, non può dare conto che della mia confusione nel tentare di dare questa mia risposta. Ovviamente a maggior ragione quando sui sé negati si installano frustrazioni di insuccesso (segno che l’islamista pararadicale toccato dal desiderio non raggiunto del successo è già occidentalizzato), comincia la crisi che sfocia nell’ultimo strumento che sembra rimasto. Il sacrificio di un sé che in realtà non è più un sacrificio ma che è una punizione verso quel sé parzialmente occidentalizzato. Poi non è ovviamente tutto così lineare, ma mi pare un punto di partenza su cui ragionare ( il rapporto della religione con la modernità occidentale ).
Sempre per quanto detto dal sig. Pecoraro: di persone senza futuro e senza lavoro, o con lavori di merda sempre è stato fatto il mondo, insieme a persone che stanno meglio di loro. Questo genera latrocini, furti, rapine e quant’altro. Alì Babà e un po’ di ladroni sono trasversali alla storia dell’umanità. Ma questa è tutta gente che in definitiva fa quello che fa per stare un po’ meglio (materialmente). Io non sto dalla loro parte, beninteso, e non li scuso e non li giustifico.
Credo principalmente nel lavoro e nella cultura. Invece questi elaborano un gigantesco e delirante piano per distruggere la nostra civiltà e imporre la loro follia.
Se le ricchezze di cui dispone l’Isis ammontano a quanto dicono, e cioè più di un miliardo, mi pare che, per quanto mal conseguite, basterebbero ampiamente a riscattare la condizione economica di quei “poveri ragazzi” e di molti altri. Invece, giù a comprare armi per uccidere noi, occidentali belli levigati e, attenzione, a continuare a fargli fare la loro vita di merda. E già, con la pancia piena non si combatte.
Si offenderà il sig. Pecoraro se nello stesso mazzo metto quello che professano questi, quello che aveva professato il nazismo, e quello che hanno professato tutte le altre ideologie che nella storia hanno causato stragi di persone che non c’entravano per niente?
Sono la stessa cosa, e cioè il lato oscuro dell’umanità. Possiamo chiamarlo il Male? Loro non vogliono parlare con noi, neppure per convertirci alla loro ideologia. Vogliono solo distruggere per fondare il loro delirante impero (di pochi che guidano molti, ovviamente, e questi sempre sotto a continuare la loro vita di merda).
La mia limitatezza non mi consente neppure di approvare tentativi di immedesimazione con coloro che ho enumerato sopra; riesco solo a provare ripugnanza, pietà per le vittime, e rivalutare la dignità del silenzio.
E se per caso quella sera al Bataclan non avesse suonato una band finto-metallara (chi non avesse ancora capito che gli “Eagles of Metal Death” si chiamano così per una scelta parodistica, può ascoltare i brani proposti su questo sito da Gianluigi Simonetti) ma un gruppo di heavy metal autentico? O ci fosse stato un concerto di rap/hip hop? Dove sarebbe finita la “generazione Bataclan” tanto commentata? La generazione costituita da persone giovani ma non giovanissime, sofisticate, istruite, di quella “coolness” che in italiano si traduce con “fighetta”?
Se mi concedete questo piccolo esperimento mentale basato sulla verosimiglianza (il cartellone prossimo della sala di concerti), i terroristi avrebbero ammazzato ragazzi molto simili per cultura e classe sociale a quelli che erano stati prima dell’adesione al jihadi, e magari simili ancora adesso; dal momento che svariate testimonianze ci dicono che nella conversione dei jihadisti, nei loro nuovi stili di vita, il kalashnikov conta molto più del corano.
Ma lasciamo perdere la storia fatta con i se, visto che se ne può anche fare a meno. Siia il ritratto critico (o ideosincratico) di Pecoraro sia gli elogi luttuosi della “generazione Bataclan” assumono la strage al concerto come paradigma degli eventi. Cosa comprensibile, dato il numero alto di vittime e le modalità terribili della loro esecuzione. Però guardando meglio agli altri attentati emergono delle distinzioni sociologiche. “La Belle Equipe” dev’essere un bar frequentato da gente molto diversa dagli estimatori degli EoMD, un pubblico autenticamente popolare, e molti hanno scritto che “Le Carillon”, gestito da sempre da una famiglia algerina, era un posto che resisteva immutabile alla gentrificazione, con prezzi molto bassi per Parigi. Se a questo aggiungiamo il fallimento di un azione DENTRO lo stadio, progetto di cui probabilmente gli attentatori avevano messo in conto la difficile esecuzione, ma che hanno pur sempre cercato di realizzare, si rafforza l’impressione che sia incidentale che abbiano colpito maggiormente persone appartenenti a uno strato superiore a quello della loro appartenenza.
Certo che i biglietti per una partita costano, così come costano quelli per un concerto, ma sappiamo che allo stadio non ci vanno in prevalenza i ricchi.
Dalla parte degli assassini, invece, seguendo l’impostazione dell’articolo che vuole mettere a fuoco un conflitto sociale e non solo quello identitario e reattivo alla discriminazione, mi viene da rilevare che l’estrazione sembrerebbe tanto banlieusarde, ossia sottoproletaria, quanto piccolo borghese; due fasce di cui i vecchi comunisti hanno da sempre diffidato e che furono infatti il terreno più fertile per il reclutamento degli aderenti al nazismo. L’odio di classe declinato come risentimento invidioso, aspirazione all’ascesa sociale in un corpo collettivo sì “mistico”, utopico ecc, ma che tuttavia concede a chi si arruola presto una posizione di potere illimitato sul gregge dei fedeli da dominare. Pare sia questo ciò che i foreign fighters sperimentano quando arrivano in posti come Raqqa.
Non c’è dubbio che oggi l’Is rappresenti un progetto rivoluzionario ma dotato di un preciso contenuto ideologico. Un uomo come Pecoraro, mi domando, avrebbe avuto, o avrebbe ancora, la stessa disponilibità a immedesimarsi in un neofascista dei vecchi tempi? In un militante odierno di Casa Pound? O quella proiezione funziona solo a partire da un ambivalente sentimento occidentale verso chi occidentale non ci sembra, e proprio per questo ci appare carico di élan vital, forza bruta e fede cieca che a “noi” è invece venuta a mancare? E queste non sono proiezioni che in fondo negano a dei ragazzi d’origine araba o musulmana la dignità di essere considerati come soggetti alla pari, sebbene questo significhi vederli alla stessa stregua di qualsiasi fascista, integralista o reazionario di quelli “nostri”, ossia come chi sta dall’altra parte della barricata, qualsiasi disagio sociale e odio di classe lo abbia spinto?
Correggo: si chiamano “Eagles of Death Metal” :-)
Un giro di valzer me lo faccio anche io: posto che @Helena Janeczek ha messo bene in forma una parte di quel che penso, reagisco comunque al fastidio verso un pezzo il cui difetto peggiore è l’affettazione, rimandando a
http://www.persee.fr/doc/ahess_0395-2649_1970_num_25_3_422254_t1_0765_0000_4
(un po’ datato, ma buono per cominciare);
e aggiungo, con un simpatico twist,
https://www.youtube.com/watch?v=GkfnxBOiPKQ
(le vie della mimesis sono infinite).
Buon sabato.
Ecco, Helena Janeczek é una delle ragioni per cui leggo Le Parole e le Cose. Per la sua domanda retorica alla fine del suo bell’intervento, circa la possibilità di immedesimazione con un neofascista dei vecchi tempi, l’esempio c’è già ed é affascinante (lo consiglierei perfino a Pecoraro, se non sapessi che è inutile): Ferdinando Camon, Occidente (del 1975, appunto).
All’indomani delle stragi di Parigi LPLC ha reagito nel modo più intellettualmente onesto (e elegante): con il silenzio. Poi ha pubblicato un pezzo utilmente equilibrato di Mauro Piras. Per un blog letterario (è ancora un blog letterario?) poteva bastare. Non mi sarei perciò aspettato di leggere nella stessa sede anche il pezzo di Francesco Pecoraro: che è più che una caduta di stile, per un sito che voglia parlare di letteratura e realtà, senza confondere grossolanamente l’una con l’altra.
Infatti è un pezzo che ci dice molte cose su Pecoraro (che è uno scrittore a tratti notevole: e dunque ogni suo pezzo, quand’anche sgradevole, è a suo modo interessante per un critico letterario che eventualmente si occupi della sua opera); forse ci dice qualcosa anche su una generazione – quella dei nati nell’immediato dopoguerra – e sul suo presunto “marxismo” (teoricamente inconsistente e addirittura parodico, se questi sono i frutti); ma in nulla contribuisce all’analisi di quel che è successo a Parigi.
Presentarlo come divagazione (stavo per scrivere: delirio) ‘en artiste’ sarebbe stato di cattivo gusto, ma accettabile. Presentarlo sic et simpliciter come analisi di una tragedia storica mi pare non faccia onore a noi letterati che frequentiamo questo sito.
L’essenzialismo violento di chi parla – senza ironia, senza sfumature, senza il minimo accenno alle innumerevoli distinzioni, psicologiche, antropologiche, sociologiche, ideologiche, interne ai due presunti ‘blocchi’ – di “mente occidentale” e “mente islamista”, non può essere preso sul serio. La fisiognomica da obitorio è raccapricciante (oltre che sociologicamente del tutto errata, come giustamente alcuni commenti hanno sottolineato). L’accenno alla liberazione sessuale e all’emancipazione delle donne in occidente (di una parte delle donne, in realtà: purtroppo) è inaccettabilmente ambiguo. La pervicace volontà di amalgamare l’intera cultura occidentale (di nuovo: come se ce ne fosse una sola, compatta) al proprio cinismo nichilista è tentazione ricorrente in molti intellettuali declassati (diciamo dal secondo ottocento dei vari Drumond ai giorni nostri, con corsi e ricorsi storici: nulla di nuovo): di solito, è tutto sommato innocua; qui, come già varie altre volte in passato, mi pare che oltrepassi il segno e sia potenzialmente pericolosa.
Partendo da presupposti ideologici opposti (forse più in apparenza che in realtà), Pecoraro dice nella sostanza le stesse cose che dice Houellebecq (le cui esternazioni, anche in quest’occasione virulente, LPLC si è giustamente ben guardato dal riportare, sebbene l’autore abbia scritto, ormai molti anni fa, due romanzi importanti – tutto sommato più belli e più importanti de “La vita in tempo di pace”).
Ho tardato a intervenire perché, per quanto mi riguarda, non ho analisi e spiegazioni da contrapporre alle certezze socio-antropologiche di Pecoraro – se non superficiali o aporetiche; e quindi, come ha fatto LPLC il 13 (e forse avrebbe fatto bene a fare anche ieri), avrei preferito tacere.
Volevo però, per un verso, esprimere disagio. E per un altro dire che almeno un merito il saggio di Pecoraro ce l’ha avuto: quello di suscitare molte reazioni critiche intelligenti. In particolare, quelle di Tiziana De Rogatis e di Barbara Carnevali: le condivido in pieno, e ringrazio le autrici.
Non capisco il livore di certi messaggi (e ancora meno gli attacchi personali all’autore) verso un intervento che, pur con le dovute messe a fuoco, mi sembra invece un assai valido aiuto ad osservare il fenomeno Daesh da una differente angolatura, certamente non l’unica, che è quella del rancore vendicativo (chiaramente non di matrice proletaria secondo certe letture vetero-marxiste qui evocate) che fa tutt’uno con l’eclissi identitaria di soggetti che attraverso l’adesione ad una visione totalizzante e donatrice di un senso, per quanto perverso, giungono all’evidente proposito di messa a morte di qualsiasi cultura basata sulle differenze.
Errata corrige: Drumont ovviamente, non Drumond. Edouard Drumont, l’antisemita.
Buonasera,
è la prima volta che intervengo su questo sito e avrei preferito farlo in circostanze più felici.
Personalmente non condivido l’opinione di Pierluigi Pellini nel preferire il silenzio di fronte a tragedie come quella del 13 novembre da parte dell’ambiente letterario: l’interdipendenza tra la realtà e il suo racconto rappresenta infatti ai miei occhi uno dei punti nodali su cui diventa possibile dispiegare nella maniera più efficace gli strumenti di una critica della realtà stessa.
Nello specifico della tragedia in questione e degli argomenti sollevati nell’articolo di Pecoraro, sono convinto che un’attenta disamina degli immaginari, dei sogni e dei sentimenti (tutti argomenti squisitamente letterari) che stanno dietro ai volti dei carnefici potrebbe rappresentare un interessante punto di partenza verso la comprensione delle cause e delle motivazioni.
Una spiegazione esclusivamente sociologica, quale quella proposta nell’articolo, serve solo a metà e si ritrova presto azzoppata qualora si ritrovi di fronte alle tenebre che stanno nascoste dietro quegli sguardi, tanto più considerando l’estrema complessità del contesto e del periodo storico nei termini di influenza delle rappresentazioni sociali sulle identità e sulle psicologie individuali.
Il nichilismo antropologico, la sete di sangue, la volontà di martirio sono fenomeni complessi che non possono essere letti – pena una pericolosa banalizzazione – soltanto in termini di invidia sociale.
Sul resto dell’articolo, il punto più interessante mi pare la considerazione sulla scelta del martirio quale forma di reazione alla presunta mancanza di scopo insito nello stile di vita occidentale, anche se avrei voluto leggere una riflessione più approfondita sull’argomento, citando magari il carattere di semplificazione che sta sotteso a qualsiasi concezione religiosa dell’esistenza, invece della solita tiritera sulla volontà di (auto)distruzione quale risposta ad una crisi di valori che è propria di tutto l’occidente capitalista etc.
Del resto, Pecoraro è notoriamente uno che taglia con l’accetta.
In questo senso, mi dispiace dirlo, ma le sue considerazioni riguardanti le vittime del massacro sembrano essere il frutto di una tale miopia che, provenendo da una mente oltremodo brillante come la sua, sanno un po’ di malafede nel migliore dei casi, di intenzionale volontà provocatoria nel peggiore.
Se così fosse, caro Peco, vorrei soltanto dire che noi che abitualmente frequentiamo il Bataclan o il Carillon pur non essendo privilegiati, né istruiti, né levigati e senza alcun dottorato alla Sorbonne da spendere lungo la strada verso qualche posizione di potere, ora come ora non abbiamo bisogno di questo.
Un saluto.
Utilizzare il termine “Hipster” per descrivere i giovani atei-consumisti-occidentali-futura classe dominante francamente mi sembra rappresenti un’ossessione verso una sottocultura (o anticultura) occidentale oppure un inutile occhiolino alla cultura pop – come l’inserzione di una serigrafia di Warhol all’interno di un collage che ha per tema la guerra. Ma tralasciando questa mia polemica, vorrei comunque far notare all’autore dell’articolo che un dottorato alla Sorbana non garantisce un futuro, che la futura classe dominante non è quella delle confuse “aspirazioni creative”, che non lavoriamo tutti per una start-up. Vorrei far quindi notare all’autore dell’articolo che forse questa “crema” non è altro che una massa da sfruttare in senso consumista senza alcuna remora e poi abbandonare senza pensione, questo nutrito gruppo di creativi non è altro che la prima linea di un possibile fronte di guerra. Quindi, no, non provo alcun senso di colpa.
Per cortesia, meno richiami pop e complessi da occidentale ricco e fortunato. Ciò non significherebbe certamente negare un problema socio-economico e una differenza generale di capitale economico e di capitale culturale tra le due categorie di giovani, ma almeno permetterà un’analisi più sfumata e meno manichea del fenomeno. Questa analisi potrebbe ad esempio partire dal considerare non tanto il fallimento integrativo promosso dallo stato, ma quello promosso dai partiti politici: se il giovane arabo di banlieue si radicalizza o conclude le sue serate fumando erba seduto su una panchina in un vuoto comunicativo e avvolto dalla peggiore musica rap emessa dal suo irrinunciabile i-phone, il giovane bianco di banlieue, spesso, vota FN, spesso conclude le sue serate nelle più squallide discoteche consumendo i sussidi della Caf in alcol. Spesso, entrambi, siedono assieme allo Stade de France.
Invito tutti a leggere con attenzione questo articolo:
http://www.dedefensa.org/article/je-veux-rentrer-en-syrie
Una ragazza siriana che si è rifugiata in Olanda dice all’intervistatore tv: “Nous fuyons notre pays à cause de la situation, et maintenant nous vivons dans une prison. Peut-être que nous devrions rentrer dans notre pays”.[…]
Dans un autre entretien donné à la télévision néerlandaise DenHaag TV le lendemain, la même jeune femme continue de se plaindre des conditions d’accueil en disant aux journalistes “Je veux rentrer dans mon pays”. La journaliste [qui l’interroge], qui semble choquée, lui demande : “Vous-êtes sérieuse ? Car il y a une guerre, pas vrai ?”, mais la réfugiée reprend : “Ici, ce n’est pas une vie. Là-bas, nous savons qu’il y a une guerre, mais ici il n’y a pas de vie. Vous êtes assis en prison. C’est la même situation, sauf qu’en Syrie vous pouvez vraiment vivre.”
Chi le risponde a distanza è Philippe Grasset, che oggi vive in Belgio, ma è stato liceale francese ad Algeri, al tempo della guerra d’indipendenza guidata dal FLN.
In poche righe, dice una verità vissuta che vale più di tutta la montagna di carte e dibattiti che si è riversata su di noi dopo venerdì 13.
“ Giovedì 3 maggio 2007 – Il progetto Erasmus, ovvero: i giovani sono matti – avranno tutto il tempo per accorgersene, avranno tutto il tempo per invecchiare. “.
Che cattiva questa società tardocapitalista dove le parole ( e le cose ) sono così complicate , dove ogni umano è agito e quindi abbastanza colpevole del suo (S)stato.
Che azioni contro ” l ‘ Occidente ” siano viste come forma di reazione al al nostro Essere è una delle forme più eclatanti di razzismo , per cui l ‘ Altro non possiede progetto né idee autonome.
L ‘ ” Altro ” come un nostro prodotto , acritico come Mr Klein .
Articolo davvero orrendo e ipocrita. Non sono d’accordo sull’apologia del silenzio di fronte alle tragedie, ma è da irresponsabili in questi momenti pesantissimi per *noi* e *loro* sfoggiare il nichilismo della propria «non sradicabile cultura novecentesca». Che è poi è un niccianesimo volgarizzato, razzista e travestito da classismo. Dove i servi sarebbero i ragazzi arabi e i signori i «ragazzi europei belli levigati creativi, super-qualificati ecc». Intervengo solo per dire che, siccome Pecoraro si permette di parlare di «differenza di classe», chi pensasse a Marx si sbaglierebbe di grosso. Marx spese una vita per scrivere «Il Capitale» e dare fondamenta scientifiche alla sua visione della lotta tra le classi. Pecoraro, forse perché s’annoia o non ha mai tempo per approfondire le cose (« per rispondere a tutte [le questioni sollevate nei commenti] mi servirebbe molto tempo»), psicologizza e sociologizza a tutto spiano. E si diverte pure a prenderci in giro.
Apprezzo i molti ed articolati analitici commenti ad un più ampio dibattito sociologico sull’origine del fenomeno terroristico, cose fatte il sabato pomeriggio o di notte e a tutte le ore, da addetti ai lavori dell’analisi socio-politica, come cose derivate da una psicologia di massa (su un sito letterario poi un po’ questo mi turba, opps vedo letteratura e realtà) e so che anche al “jihadista” della porta accanto di tutti questi e del mio non gliene può…. di meno, dico solo molto banalmente che la soluzione al di là di qualsiasi discussione ed interpretazione è e sarebbe l’amore che tutti contiene e avvolge..mediterò questa mia moderazione e se necessario farò ammenda, abbracci
Vorrei reagire premettendo che sono francese e che vivo a Parigi (senza per questo considerarmi come appartenente alla fascia « dominante » di una società i cui confini sociologici non mi sembrano così evidenti), e che di conseguenza gli attentati del 13 novembre si sono imposti a me sotto una diversa angolatura.
L’articolo del signor Pecoraro mi mette a disagio per varie ragioni, la prima essendo quella del « (perché?) » (l.4). Perché, infatti, puntare sulla difficoltà che incontra effettivamente la società francese così come la maggioranza delle società europee a integrare queste terze, a volte quarte generazioni, senza avere il fair-play di richiamare che varie politiche pubbliche (la cui efficacia è sicuramente discutibile) sono state adoperate da anni? Se fossi insegnante o educatrice in periferia, se avessi passato anni, come sindachessa di una di queste città, a provare a condurre politiche territoriali per favoreggiare l’integrazione di tutta la popolazione, come fa la sinistra francese da anni (rinnovamento del centro città di Saint Denis, tentativi di politiche della città diverse a Montreuil, vita associativa fortissima a Nanterre, tutte città povere e in difficoltà della periferia, nelle quali ci sono diversi tentativi di miglioramento delle condizioni di vita e di integrazione della popolazione), mi sarei forse sentita insultata da questo « (perché?) » quasi ironico, che sta lì sospeso con un amaro gusto di mezza accusa.
La seconda ragione del mio malessere è il nichilismo dell’autore, e la sua descrizione di società occidentali nelle quali le vite sono « senza scopo ». Sarebbe la ragione della svolta radicale di questi giovani. Probabilmente, in una certa misura, l’incapacità da parte di questi giovani a rispondere alla domanda « perché sono nato », gioca un ruolo fondamentale. Ma questo problema dello scopo dell’esistenza è di una navrante banalità: equivale a sfondare una porta aperta. Credo che sia la ragione per la quale oggi la gente si impegna nelle associazioni, mette su famiglia, fa arte, musica, letteratura. Questo argomento mi sembra del tutto inoperante, se guardiamo un attimo alla moltiplicazione delle vocazioni (pseudo) artistiche dei giovani che tramite internet, cercano di eseguirle, o al numero di ragazzi che, gratuitamente, danno due o tre ore del proprio tempo per accompagnare i più poveri, o alla gente che cerca semplicemente di condurre un’esistenza degna (il ché, per quanto sembri perbenista e ridicolo di fronte alla visione postmoderna dell’esistenza, è uno scopo).
La terza ragione del mio imbarazzo di fronte al testo proviene dal fatto che mi sembra essere molto spregiativo nei confronti degli cosiddetti « uccisori ». In effetti, i « tentativi di immedesimazione » dell’autore producono uno schema binario e manicheo: da una parte la « crema » dell’Occidente, ossia i « futuri dominanti », sui quali non tornerò perché non potrei parlarne così bene come lo ha fatto Helena Janeczek; dall’altra, gli « uccisori », « ragazzi arabi », « ragazzi senza futuro, incagliati in un presente per loro immutabile », « senza educazione ». Questi ragazzi, posti di fronte a una violenza sociale di cui qui nessuno nega la realtà, a leggere e rileggere l’articolo, sarebbero portati quasi naturalmente al radicalismo religioso e al desiderio di morte in martiri. Ma se questo presupposto fosse vero, allora rileverebbero tutti di un tragico determinismo sociale, e non sarebbero per niente in grado di fare uso del loro libero arbitrio, ammettendo che esista.
Magari in Italia non sono arrivate le informazioni seguenti: magari il signor Pecoraro non ha saputo del libro di Abdelghani Merah (« Mon frère, ce terroriste », Calmann-Lévy, 2012) che ha rifiutato il determinismo sociale, magari non ha visto le immagini del fratello di Salah Abdeslam che metteva discretamente candele alla finestra per piangere anche lui sulle innocenti vittime del 13 novembre, magari, Pecoraro non sa che Yassin Salhi, che decapitò il padrone a giugno, ha 35 anni, una moglie e tre figli, e non era particolarmente povero.
E come spiegare la presenza e il percorso di Abdelhamid Abaaoud, figlio di emigrati marocchini integrati nel ceto medio belga, mandato un anno in una scuola cattolica di buona reputazione? Il suo profilo sociologico non corrisponde alla « realtà » messa in rilievo dall’articolo. Come spiegare che tra i francesi che partono in Siria, ci sia una proporzione non trascurabile di giovani, bianchi, integrati, di educazione cattolica, occidentale, provenienti dal ceto medio (http://www.lemonde.fr/les-decodeurs/article/2014/11/19/qui-sont-les-francais-sur-la-piste-du-djihad_4524774_4355770.html), giovani con strutture familiari sane, che non sono in situazione di difficoltà sociali, e anche famiglie intere? Ridurre gli autori delle stragi del 13 novembre alla loro provenienza sociale mi sembra pericoloso. Mi sembra una negazione delle loro facoltà di scelta (come spiegare i 213 ritorni in Francia di ragazzi evocati nel giugno 2015 dal giornale Le Figaro?), di giudizio. Non sono, questi « uccisori », privi di libero arbitrio e di facoltà di giudizio. Non si diventa assassini solo in ragione di condizioni sociologiche. L’errore fondamentale di questo articolo, quello che mi getta nell’imbarazzo e nel tormento, è il fatto di ridurre gli eventi del 13 novembre a una mera spiegazione sociologica e antropologica che fa il gioco dell’oscurantismo: l’uomo è dotato di ragione, è dotato di libero arbitrio, e a maggior ragione in Occidente e in Francia, è dotato di una libertà di coscienza, di culto, e di scelte di condotta della propria esistenza. Ammettere che almeno in parte, questi ragazzi abbiano scelto di perpetrare queste stragi mi sembra essenziale, e non vuol dire ridurli allo stato di mostri, ma accettare il fatto che l’azione umana, anche la più incomprensibile non si riduca a determinismi psicologici e sociologici.
Sarebbe forse tempo per tutti di rileggere il canto di Ulisse.
Scrive Francesco Pecoraro: “Le foto dei morti ci parlano di un’antropologia giovanile occidentale europea e cosmopolita che si muove e si trova a suo agio in un mondo ormai completamente anglofono, di cui assorbe senza problemi il valore dei non-valori. Al contrario dei loro uccisori, che sembrano pervasi da un dettato antico, assoluto, inderogabile, talmente costrittivo che te ne puoi liberare solo con la morte”.
Non è la prima volta che incontro una riflessione che, aspirando a dare un contributo interpretativo globale sulle sorti del mondo, si basa su fotografie; è un errore epistemologico e di metodo che nulla aggiunge alla verità, semmai la mistifica ulteriormente. Prima di assumere una fotografia come ‘pezzo inconfutabile di mondo’ bisognerebbe sapere una quantità di cose che in questo articolo non mi pare siano considerate, giusto per fare un esempio: chi ha fatto quella foto, in quale momento, con quale fine etc.. Le fotografie sono indici, per essere lette hanno bisogno di molte informazioni sui loro referenti, altrimenti possono voler dire tutto e niente, inducendo a deduzioni sommarie o del tutto sbagliate. Vanno benissimo per trame romanzesche, ma richiedono cautela quando si tratta di ragionare sulla realtà delle cose o sul destino dell’umanità. Per questo mi sembra importate riportare l’avvertenza di Susan Sontang: “Le fotografie, che in quanto tali non posso spiegare niente, sono inviti inesauribili alla deduzione, alla speculazione, alla fantasia. La fotografia porta in sé ciò che noi sappiamo del mondo, accettandolo quale la macchina lo registra. Ma è l’esatto opposto della comprensione, che parte dal non accettare il mondo quale esso appare. Il limite della conoscenza fotografica del mondo è che, se può spronare le coscienze, non può mai essere alla lunga conoscenza politica o etica. La conoscenza raggiunta attraverso le fotografie sarà sempre una forma di sentimentalismo, cinico o umanistico … Il bisogno di vedere confermata la realtà e intensificata l’esperienza mediante le fotografie è una forma di consumismo estetico al quale ora tutti sono dediti. Le società industriali trasformano tutti in spettatori.” (Sulla fotografia. Realtà e immagine nella nostra società)
Se vogliamo veramente capire e poter agire di conseguenza, cominciamo col toglierci dalla posizione di spettatori, passivi e un po’ annoiati; d’altronde è un dubbio privilegio, appannaggio di pensionati e detentori di posto fisso.
“ Senza data [1983] – Magari tu non lo sai ma quello che fotografi sono fotografie costruzioni visive opere di architettura manufatti artistici gente che vuole essere fotografata. Troppo più forte più sapiente più premeditato di te l’oggetto. Povero turista povero bischero. “.
Approssimativamente:
1. L’Islam non separa il credo personale dalla sfera dell’azione politica. Allah è al centro dell’esistenza, come Dio lo era anche in Occidente fino all’Umanesimo.
2. Noi conosciamo il terrorismo anarchico, quello classista, quello nazionalista ma quello religioso ci sfugge, ci lascia interdetti (dobbiamo risalire ai tempi delle eresie per averne idea).
3. L’analisi sociologica marxiana è inadeguata a capire il fenomeno del terrorismo islamico.
4. Si deve partire dalla considerazione dell’alta coscienza di sé e della propria passata grandezza che ha il popolo arabo per misurarne tutto lo sconforto per le condizioni in cui versa oggi. (trascuriamo il Qatar. la Saudia, gli Emirati che rappresentano una minoranza privilegiata).
5. Considerare la tendenza culturale che hanno di non praticare l’autocritica.
6. Il nazionalismo arabo dei Nasser, Saddam, Arafat ha perso ogni credibilità avendo sempre subito sconfitte.
7. Quando gli arabi hanno vinto? Ai tempi dei primi califfi: Abu Bakr, Omar ecc. con la fede e l’ardore nel cuore.
8. Che fare oggi? si devono essere chiesti i più frustrati. Ricalcare le imprese di quell’epopea gloriosa basandosi alla lettera sul Corano e gli Hadith del Profeta.
9. Costituire un califfato oggi. E’ pazzesco?
10. Sì, perché?
Sommessamente.
Per prima cosa mi viene da dire che ha ragione Pellini. Questo pezzo ci dice molte cose interessanti di Pecoraro, il cui romanzo anche io ho molto apprezzato, ma chiude la descrizione in una dialettica tagliata con l’accetta e riduce l’Occidente al suo nichilismo.
Tuttavia. Da un punto di vista strettamente sociologico e psicologico, mi pare che la questione sia davvero tutta interna all’Occidente (perciò nulla di strano che sia Pecoraro che i commentatori che lo criticano di fatto abbiano parlato più di “noi”, direi soprattutto della questione di fondo se la nostra western way of life sia un bell’esperimento di libertà o la fine della storia).
Ci penso e ripenso da giorni. Le biografie degli attentatori ci dicono che essi non sono dei marginali in senso marxista, socioeconomico. Ma mi pare evidente che siano dei marginali, dei derelitti, da un punto di vista spirituale. Avevano un’angoscia cui rispondere e hanno colmato il vuoto con un pieno che Pecoraro, così ossessionato dal nichilismo occidentale, descrive molto bene. Potremmo anche dire che questo vuoto lo ha prodotto la “nostra civiltà”. Ma la “nostra civiltà” ha prodotto parecchie altre belle cose. Per cui, diffidiamo comprensibilmente di tutti i discorsi giustamente definiti “essenzialisti” da Tiziana de Rogatis.
Eppure, eppure, eppure, quel vuoto sta lì a interrogarci. Avrei parecchie obiezioni da fare all’affermazione che sia la nostra vita in tempo di pace che lo “produce”. Forse però questa way of life lo “rivela” in un modo molto intenso. E alla fin fine chi si volta a vedere il nulla alle sue spalle è più facilmente un tizio o una tizia che nella “nostra civilità” ci sta di traverso, di sbieco, solo con un piede dentro, soprattutto da un punto di vista della, diciamo malamente, struttura psichica profonda.
Io ci sto bene nella libertà, perché mi hanno insegnato (genitori, insegnanti, amici, amanti) a farmene carico, a gestirla, a scegliermela. Ma capisco che sia molto difficile farlo per qualcun altro. Specie quando la libertà si distingue a fatica dalla liberà di consumare.
Spero di riuscire a spiegarmi con un esempio. Ho visto video musicali per anni durante l’adolescenza. Poi un lungo silenzio e disinteresse. Ora mi capita, ogni tanto, di esservi immerso per ore per cause del tutto contingenti (consiglio MTV dance per l’esperimento). Avete mai provato a stare immersi tutto un giorno dentro un flusso di musica, immagini, pubblicità, ritmi sincopati? (Petrarca, agostinianamente, la chiamava pestis phantasmatum, un morbo di fenomeni e apparenze che ti aggrediscono dal mondo e che ti spodestano dalla tua interiorità). Fate l’esperimento, poi dite se non vi si potrebbe applicare la categoria di “alienati”. Fine del silenzio e degli spazi di pensiero, senza i quali della libertà si fa poco.
Ecco, io immagino lo spirito dei terroristi come un luogo abitato da un misto di angoscia, musica martellante, immagini mai mediate e mai rielaborate (Piazza pulita ha trasmesso un bel documentario sui video di propaganda dell’Isis costruiti apposta per attirare ragazzi musulmani di seconda, terza, quarta generazione del tutto occidentalizzati nell’immaginario: sono i nostri reality show e i nostri videogiochi, e credete a uno che ci ha giocato ai videogiochi, quei video erano dannatamente affascinanti. E pensate alla terrorista che, ok, non è mai stata dentro la vasca coperta solo della schiuma – è un bufala – ma fumava spinelli, vestiva da cow boy, era libera e disinibita con gli uomini. Poi si fa fotografare con il burka). Insomma, vuoti riempiti di falso pieno o cattivo infinito (rileggere Siti per capire quel che voglio dire).
Ma dicevo: quegli attentati possono forse essere letti e compresi inter nos da un punto di vista strettamente sociologico e psicologico. Perché mi pare che da un punto di vista geopolitico la western way of life e gli annessi e connessi siano solo un minuscolo simulacro e un fatto fantasmatico dentro un fottuto casino che ha il suo epicentro in Medioriente e che ha assai poco a che fare con la libertà, la religione, il consumismo, il nichilismo, ecc… e molto di più con le ragioni per le quali Erdogan ha abbattuto oggi un aereo russo. E poi ha a che fare con i curdi, e i sunniti e gli sciiti, e Khamenei che condanna i fatti di Parigi (dico, Khamenei), e l’area mediorientale strategica dai Sumeri in giù, e il petrolio, e le armi vendute dall’Occidente, e la frustrazione rabbiosa degli arabi, e Israele e i palestinesi. Eccetera.
Sembra che anche stavolta solo gli storici, ex post, quando ormai sarà inutile, ci sapranno spiegare il gliommero di concause che sta dietro la “terza guerra mondiale a pezzetti”.
Così i nostri nipoti potranno studiarlo sui libri di scuola per dirsi che lo studiano per non ripetere l’errore, perché historia magistra vitae. Eccetera.
perché il feroce Saladino non ha niente da offrire in tempo di pace, né pane né rose. Perciò è condannato alla guerra permanente, la provoca, la istituisce, la vende come Jihad. Strategia scoperta e destinata al ripudio dal suo interno. Solo guai a lasciarsi trascinare in bello.
@ Daniele Lo Vetere.
“Le déracinement est de loin la plus dangereuse maladie des sociétés humaines, car il se multiplie lui-même. Des êtres vraiment déracinés n’ont guère que deux comportements possibles : ou ils tombent dans une inertie de l’âme presque équivalente à la mort, comme la plupart des esclaves au temps de l’Empire romain, ou ils se jettent dans une activité tendant toujours à déraciner, souvent par les méthodes les plus violentes, ceux qui ne le sont pas encore ou ne le sont qu’en partie.”
Simone Weil, L’enracinement. Prélude à une déclaration des devoirs envers l’être humain (1949)
si scarica gratuitamente qui: http://classiques.uqac.ca/classiques/weil_simone/enracinement/enracinement.html
http://www.tamoudre.org/le-djihadisme-est-une-revolte-generationnelle-et-nihiliste/touaregs/societe/
Questo post e’ gia’ stato confutato in modo definitivo, per errori concettuali ed empirici. Vorrei solo riformularele le critiche rivolte all’argomento centrale usato in questo post, per offrire un altro punto di vista.
Vorrei far notare che questo argomento non e’ di tipo morale, cioe’ non riguarda la gistizia sociale o il modo in cui una persona debba trattare le altre persone, ma e’ un argomento di tipo etico, cioe’ riguarda il modo in cui si debba condurre una vita dotata di senso. Si sostiene che la forma di vita occidentale non offra alcun orizzonte dove condurre “vite dotate di scopo” – che io leggo come “vite dotate di significato” o “vite orientato di senso”. Questo argomento etico ei ripetuto da Pecoraro nella sua nella rispota: “Quanto alla mancanza di scopo delle nostre vite, non ho dubbi”. L’argomento non e’ valido e va rifiutato, sia ragioni sia empiriche sia concettuali.
Qui puo’ risultare utile la distinzione fra “il significato della vita” e “il significato nella vita”.
“Il significato della vita” e’ per definizione totale e unitario. Si puo’ quindi accedere al “significato della vita” solo dal punto di vita di chi vede la vita umana o addiritura ogni vita umana (o almeno ogni vita umana occidentale) nella sua interezza. E questo punto di vita e’ per definizione inaccessibile alle creature finite. I credenti di una religione rivelata come il Cristianesimo possono immaginare che questo significato ci sia e che sia nella mente di Dio. Chi non crede potra’ invece pensare che non esista. Ma non fa nessuna differenza, perche’ ne’ credenti ne’ non credenti hanno accesso al punto di vista di Dio – nemmeno i santi e nemmeno il figlio di Dio, per restare al Cristinanesimo, hanno accesso al significato della loro vita mentre la vivono.
Credere in una rilegione rivelata e’ uno dei tanti modi di fare esperienza del “significato nella vita” – e di nuovo, non fa alcuna differenza che lo si pensi dipendente da un “significato della vita” che ci trascende, perche’ non vi abbiamo accesso per definizione. Ancora una volta, e’ una questione sia empirica sia concettuale. Infatti tutti facciamo esperienza del “significato nella vita”, perche’ e’ cio’ che fa della vita umana quello che e’, nel bene e nel male – e’ un fatto empirico e concettuale. Gli esseri umani incontrano continuamente il significato nella vita: nell’uso del linguaggio, nei loro comportamenti, nelle istituzioni.
Ci sono degli esseri umani che non fanno piu’ esperienza del significato nella loro vita. Per questo si possono uccidere, ad esempio. Ed e’ questo che sconcerta di un terrorista suicida: non solo ha compiuto il male morale uccidendo altri ingiustamente, ma negato ogni significato nella vita.
E come ha detto Bernard Williams, non c’e’ modo di dialogare con chi e’ al di fuori della dimensione etica e morale. Semplicemente non possiamo capirlo. Si potranno spiegare cause sociologiche o psicologiche perche’ questi individui abbiamo deciso di uccidere ingiustamente e uccidersi. Di certo, si tratta di scelte prive di significato per noi, come per chiunque altro.
Mi rendo conto adesso dei refusi e me ne scuso.
“Questo post è gia’ stato confutato in modo definitivo, per errori concettuali ed empirici”.
Molti commenti sopra le righe sono stati scritti in reazione al post di Pecoraro, ma questo di Baldini probabilmente li batte tutti.
Capisco la voglia di caccia alle streghe che può scattare quando si toccano certi tasti. Ma davvero non vedo come un pezzo come questo, discutibile quanto si vuole, possa essere confutato, tantomeno “in modo definitivo”. Non è un saggio sulla jihad, non è un trattato di geopolitica, non è una dissertazione sugli hipster (tutte cose che abbiamo pubblicato a suo tempo e che loro sì si prestavano, o si prestano, a essere confutate). In questo senso è molto strano che Pellini ci accusi di presentare Uccisori e uccisi “sic et simpliciter come analisi di una tragedia storica”. Noi non presentiamo un bel nulla; Pecoraro si presenta da solo, e si presenta, inequivocabilmente, come uno scrittore (uno scrittore vero, aggiungo io; uno scrittore vero in mezzo a tanti scrittori finti). Soprattutto, si presenta da solo il suo brano: “un tentativo di immedesimazione” da parte di un romanziere “di non sradicabile cultura novecentesca”. Immedesimazione, cioè identificazione, cioè letteratura (ognuno deciderà se buona o cattiva): letteratura, come anche la temperatura stilistica della pagina chiaramente afferma. Per fortuna qualcuno (Filippo, Giovanni G. e altri) se n’è accorto: Uccisori e uccisi non è un editoriale di “Repubblica”, è uno scontro (o un incontro?) tra fantasmi personalissimi e privati – dove l’odio per l’Occidente di chi scrive tenta di immedesimarsi, appunto, in altre e più eclatanti forme di odio per l’Occidente. E’, sostanzialmente, un’immedesimazione in un altro-se stesso – e ai miei occhi è interessante per questo. In ogni caso, chi vuole equilibrio può trovarlo in Piras; qui il motore di tutto è proprio l’assenza di equilibrio.
Ora, questa pagina di Pecoraro può essere accettata o rifiutata in blocco. Ma non può essere “confutata”; non le si può rispondere con una lezione di etica liberale; non le si può opporre che in realtà la vita è bella – non più di quanto non lo si possa fare con una pagina di Céline, o di Bernhard, o di Houellebecq (e tra parentesi lascia perplessi il fatto che in diversi nei commenti accostino Pecoraro a Houellebecq in chiave svalutativa; come se Houellebecq fosse l’ultimo degli stronzi, e non quello scrittore vero che evidentemente è). Il che naturalmente non vuol dire Pecoraro sia Céline, ma soltanto che appartiene alla stessa famiglia allargata. Non c’è bisogno di essere d’accordo con questa pagina di Pecoraro; c’è bisogno di leggerla come la pagina di uno scrittore.
Poi, un ”non mi piace” ci può certamente stare. Anche un vaffanculo. E’ una pagina provocatoria e (secondo me volutamente) ambigua. Ma come mai in tanti hanno sentito il bisogno di salire in cattedra e buttarla sulla sociologia o sulla morale? Forse perché il pezzo di Pecoraro è pieno di errori materiali. Ma lo è veramente? Scrive, ad esempio, Tiziana De Rogatis:
“Le prime parole del post descrivono i terroristi della notte parigina come «ragazzi arabi con poca istruzione, senza soldi e senza lavoro o con un lavoro di merda». Ma non è così”.
Invece è così. Abaaoud a parte – che del resto è il coordinatore del 13 novembre, non semplice carne da cannone – i profili di tutti gli altri jihadisti franco-belgi che si sono distinti in questi ultimi mesi o anni in Europa sono compatibili con la lettura di Pecoraro. Vengono dalla povertà estrema, dalla marginalità più assoluta, dalla scolarità assente o difficile i fratelli Kouachi (Charlie Hebdo), Amedy Koulibaly (Hyper Cacher), Ayoub El Khazzan (attentato fallito al Thalys) e Mohammed Merah (Stragi di Tolosa e Montauban). Discorso simile per Mostefai e Amimour (borghesia piccolissima, vagamente criminale). Quanto a quelli di Molenbeek – dagli assassini di Massoud, nel 2001, agli stragisti Bafil Hadfi e Abdeslam primo e secondo – ricordiamo per essere sintetici che in quel sobborgo di Bruxelles il 57% degli abitanti vive sotto la soglia di povertà.
Una volta chiarite queste cose, si può certamente ammettere che una lettura esclusivamente di classe di quanto è accaduto resta una lettura parziale e idiosincratica. Ma probabilmente non è questo che fa reagire così professoralmente lettori che sanno bene cos’è la letteratura. Forse il problema non sta nelle approssimazioni di Pecoraro, che sono funzionali a una polarizzazione psicologica e stilistica (apprezzabile o meno), non a una rappresentazione fedele dei fatti, o una misura etica. Forse ciò che brucia sta altrove. Dove?
Secondo me – ma è solo un’ipotesi – in una frase buttata lì. Questa:
“…altri ragazzi come loro, ma diversi perché istruiti, sofisticati, sostanzialmente integrati, completamente consenzienti al sistema e tuttavia ornati di deboli orpelli oppositivi”
…Che è una frase da scrittore vero. E che ci inchioda.
@ Simonetti
il tuo commento mi lascia un po’ perplesso. Non è che la letteratura si prende in blocco, o ha uno status particolare secondo cui giudicarla. La letteratura come tutto viene giudicata. Houellebecq è un eccellente scrittore, ma quando viene intervistato dice un fracco di stronzate. Saranno letterarie, ma sempre stronzate sono. Pecoraro è un eccellente scrittore, ma in questo pezzo ha fatto cattiva retorica. Che sia letteratura non lo esime dalla verifica delle parole. Quello che dice è sbagliato, in certi punti. Si può confutare eccome. A me ha fatto parecchio imbufalire perché ogni volta che succedono questi fatti si tira in ballo la differenza di classe, e mi sono sinceramente rotto. Mi sono rotto non tanto perché è sbagliato, quello si confuta e basta, ma per il portato ideologico, che a una certa, un po’ come gli assoli di chitarra anni ’70, rompe. Come scrivevo sopra di gente povera ce n’è in giro, meno di quella che si pensa comunque, nel mondo capitalistico, tanto per dire, eppure a fare stragi sono solo gruppi che credono a certe cose (o anche persone come Breivik, oppure ragazzi statunitensi, che vivono in un mondo con armi automatiche a disposizioni e continui esempi di come usarle, visto che in questi giorni si è parlato di Girard). Di ragazzi italiani che si trovano a galleggiare senza sapere bene che fare ce ne sono molti. Di ragazzi disagiati che si suicidano pure. Così come in Francia. Però si suicidano e basta, non vanno in giro ad ammazzare altre persone. Al massimo emigrano e vanno a fare i camerieri altrove. E anche moltissimi musulmani disagiati trovano sconcertanti eventi, dunque questa presunta mente atea occidentale non c’entra una beata. Da qui l’insofferenza per questo testo.
Inoltre, ma qui non c’è da arrabbiarsi, la mimesi letteraria non funziona. Non ha funzionato in questo testo, per mancanze dell’autore, e non può funzionare con questo approccio. Questi uccisori non sono speciali, non hanno una mente speciale, non sono questo dannato altro da sé che continuiamo a ripetere come un mantra e che è soltanto uno dei modi raffazzonati che abbiamo messo in piedi per parlare di noi. L’unica differenza è l’ambiente e le origini che li hanno fatti cadere in questa merda.
Quello che mi fa incazzare è che Pecoraro odia l’occidente molto più degli uccisori, che per motivi del tutto contingenti si sono ritrovati a credere a delle scemenze del genere. Quello che dovrebbe fare Pecoraro è cominciare a contestare il suo odio, cosa che a suo tempo non fece Pasolini, pubblicando un gran film sbagliato come fu Salò.
Così come mi sono rotto di sentire sciocchezze sul mondo consumistico (le stronzate blaterate da Marcuse in poi) e sul capitalismo aggressivo e pericoloso per l’individuo, così pericoloso che in tutto il mondo la gente muore in media più tardi, la mortalità infantile diminuisce, la povertà estrema diminuisce, il livello di istruzione delle donne aumenta, gli scrittori possono scrivere in panciolle eccetera.
Infine vorrei che spiegassi perché la frase che citi come ipotesi ci inchiodi. Grazie
@ Gianluigi Simonetti io credo che il fatto di lanciare il sasso e poi dire “è solo uno scrittore” sia una vigliaccata; quando Céline scrisse le “Bagatelle” la critica letteraria dell’epoca si affrettò nel classificarlo come “uno scherzo”: sappiamo tutti com’è andata a finire.
Quanto alla frase da scrittore vero, magari inchioda lei: per quanto mi riguarda, negli anni in cui ho vissuto a Parigi sono stato un assiduo frequentatore dei locali che sono stati attaccati e nella definizione di Pecoraro non mi ci riconosco neanche un po’.
Il punto però non è tanto questo, quanto il fatto che in questo preciso istante NON ABBIAMO BISOGNO DI QUESTE COSE: stiamo vivendo un momento drammatico, in cui a chiunque di noi è richiesto uno sforzo immane per mantenere l’equilibrio e rimanere lucido.
Non mi sembra proprio il momento per le tirate retoriche sulla decadenza dei costumi occidentali, sulla debolezza della nostra civiltà etc – a meno che non si stia parlando sul serio: qualora fosse così, invece di invocare il diritto alla provocazione da parte dei letterati, sarebbe il caso di parlar chiaro e di assumersi le proprie responsabilità.
http://www.euronomade.info/?p=6133
Ringrazio Simonetti per aver fatto giustizia di tante cose che ho letto nei commenti. Anche a me ha dato molto fastidio questa volontà di fare i professori a tutti i costi dicendo, per giunta, cose approssimative o sbagliate. Tiziana de Rogatis, per esempio: “va detto, prima di tutto, che quella dei terroristi non è “una mente islamista”, ma una mente fondamentalista! Facciamo attenzione alle parole…”. No, “islamista” ha proprio il significato che gli attribuisce Pecoraro:
http://www.treccani.it/vocabolario/islamista/
Un po’ di umiltà non guasterebbe.
Ecco Pecoraro, il testo che linki è emblematico della presunzione, dell’onnipotenza intellettuale (questa forse sì, occidentale). Capire il male per combatterlo, il male creato da noi. Come se fosse una faccenda medica, la malattia da studiare e la relativa cura, quando si tratta di organismi viventi con la volontà di uccidere, per cui capirli o meno non fa differenza. E questo egocentrismo, e il bello è che lo si contesta agli altri, per cui dipende tutto da noi, belli ricchi e cattivi…
Ammappalo, Simonetti… Quasi quasi mi convince!
Lei può criticare il tono del mio commento e gli argomenti che ho usato – non riporto dati – , ma non credo possa scrivere che sia un post “sopra le righe”: ho cercato di argomentare nel modo più chiaro possibile, senza fare allusioni o usare ironia e sarcasmo. Le sarei grato se le potesse indicarmi cosa c’è scritto “sopra le righe”.
Un punto è di sicuro poco chiaro. Gli errori di fatto a cui mi riferivo non riguardano l’origine sociale dei terroristi. Per evitare equivoci: sono d’accordo con lei, quando scrive che ci sono anche delle cause sociologiche della diffusione del terrorismo, anche se non solo le sole – come lei stesso ricorda.
Gli errori empirici e concettuali riguardano l’argomento etico usato da Pecoraro, che è quello centrale nel suo ragionamento. Ho cercato in breve di chiarire perché argomenti come i seguenti sono costruiti male e non hanno alcuna base empirica:”è proprio l’accettazione più o men o implicita della mancanza di scopo della vita a caratterizzare la tarda società occidentale”; “[q]uanto alla mancanza di scopo delle nostre vite, non ho dubbi”.
Nessuno le chiede di trovare utile o legittimo un discorso morale, ma le ricordo che è stato Pecoraro a costruire il suo articolo su un argomento etico. Su questo davvero non la seguo.
L’ultimo punto importante che lei solleva riguarda il genere letterario di questo articolo. Lei ricorda che Pecoraro è un romanziere, ne ricorda la genealogia letteraria e ne dà un giudizio estetico, articolandolo con alcuni accenni allo stile e strategie di scrittura.
Il punto è però che questo non è stato presentato dall’autore o da chi lo ha pubblicato come un testo letterario, ma come un commento a ciò che era accaduto e come un discorso morale sulla “società occidentale”.
Forse ha ragione lei, si tratta di una sorta di autofiction che nasconde il proprio statuto finzionale o ibrido. Se fosse un racconto letterario, andrebbe in effetti letto come tale, come lei stesso ricorda. Allora sarebbe un testo interessante per ogni studiosa o studioso che in futuro voglia studiare l’opera di Pecoraro.
Il commento precedente era rivolto @ Gianluigi Simonetti. Mi scuso ancora per il refuso.
@ Simonetti
Potresti spiegare perché secondo te quella frase ci inchioda? E a cosa?
Su Pecoraro: ha scritto un grande romanzo a dispetto di ciò che pensa e non grazie a ciò che pensa. Cosa che in questo articolo (letteratura o meno che esso sia) secondo me non accade.
Su Houellebecq scrittore vero se ne potrebbe parlare a lungo, a cominciare dalla tua definizione: cosa significa essere uno “scrittore vero?” A me per esempio sembra spesso (non sempre) uno scrittore bravo, che è cosa diversa e più precisa.
Sulla questione etico/morale: non si tratta di rispondere a Pecoraro che “la vita è bella” ma di contestare un apriori tutto suo e cioè che “la vita non ha senso.” Questa affermazione è empiricamente sbagliata perché la vita ha senso: il senso che gli dai tu.
Bisogna distinguere fra revanscismo e reclutazione, visione da fascinazione, lungo termine da circostanza.
Applicarsi solo ai secondi termini è certamente interessante, scatena le analisi sociologiche, ma non sfiora minimamente le ragioni del terrorismo islamico. Il quale sa benissimo che può pescare a strascico dalle periferie, dal bisogno di appartenenza e di fremiti per una causa.
Scopro oggi che non esistono gli intellettuali, ma solo due generi di persone: gli Scrittori (che possono dire quel che gli pare perché il loro pensiero si situa in un ordine al di là della ragione, oltre che del bene e del male), e i non scrittori (la cui funzione è di mettere “like” agli Scrittori).
La faccenda invece è di ruoli o, meglio, di generi letterari: uno scrittore è tale quando scrive letteratura; quando prende la parola su un giornale o un blog per intervenire sull’attualità (ovvero la “realtà” che compare nel titolo di questo sito), senza che il suo testo segnali in nessun modo la sua natura letteraria, è un intellettuale; e per farsi prendere sul serio deve accettare le regole minime della discussione pubblica, le quali raramente danno luogo a confutazioni ultime, ma certo a discussioni articolate e appassionate. (dove sarebbe la caccia alle streghe?)
Magari oggi leggendo gli articoli di Céline sugli ebrei o di Pasolini sull’aborto possiamo interpretarli come parte della loro opera letteraria, ma al tempo quegli articoli sono stati letti, e giustamente, come interventi pubblici, e hanno suscitato tutto il casino che meritavano. Idem per Houellebecq, che oltretutto nessuno qui in Francia prende sul serio quando smette di scrivere romanzi e parla di politica.
D’altra parte, chi scrive lo sa benissimo; ma sulle questioni di sostanza preferisce sempre procedere tra l’ironico e il cinico, aggirando le questioni di senso (non parlo intenzionalmente di morale perché è ormai una parola screditata e ridicola): in fondo è tutto gioco, letteratura, fantasma, compreso parlare di rivoluzione, di morti ammazzati, di fine della storia e tramonto dell’occidente…. Un tempo questo modo di pensare si chiamava postmoderno. Personalmente non ho nulla contro, ma basta chiamarlo con il suo nome.
ps. se continuate ad annoiarvi in tempo di pace, mentre noi aspettiamo di leggere il prossimo romanzo di Pecoraro sul Bataclan, compratevi un Risiko.
Il commento di Simonetti di presta a due critiche:
– anzitutto, quello di Pecoraro non e’ un testo letterario, e’ un testo che non chiama in causa la nostra facolta’ di giudizio estetico ma ci invita a ragionare con mezzi altri. O forse nessuno di noi l’ha capito e stiamo leggendo in anteprima un frammento del suo nuovo romanzo? Se non e’ un pezzo letterario non vedo per quale ragione non sia ammissibile una critica del suo essenzialismo violento e del suo gesto totalitario di dare voce a un ‘noi occidentale’ nel quale molte delle persone intervenute non si riconoscono minimamente. Come anche altri, io non mi sento affatto inchiodata da quella frase di Pecoraro, che non mi pare la frase di uno scrittore vero ma di un predicatore che tenta di includerci tutti a forza nelle sue fantasie nichiliste.
– se anche quello di Pecoraro fosse un testo letterario, non capisco ancora come quella di Alessio Baldini risulterebbe una critica sopra le righe e inaccettabile. La letteratura e’ una zona franca all’interno della quale noi poveri lettori dobbiamo zittire la nostra ragione pratica e smettere di negoziare con quello che siamo per evitare accuse di moralismo e professoralita’?
PS: scusatemi per gli apostrofi al posto degli accenti, scrivo da una tastiera non italiana
@Carnevali
No, non è una questione di generi letterari, ma di voce. Uno scrittore (specialmente uno scrittore vero) è certamente un intellettuale; ma non tutti gli intellettuali sono scrittori. Quando interviene in uno spazio pubblico, uno scrittore – se è veramente uno scrittore, e se non decide lui di spogliarsi dei suoi panni – usa in tutto o in parte gli strumenti di conoscenza della letteratura: è quello il modo in cui può dare, se ci riesce, un contributo intellettuale, non certo improvvisandosi islamologo o filosofo o trendsetter. Proprio gli esempi che proponi lo dimostrano nel migliore dei modi: Pasolini che scrive sul “Corriere” è un intellettuale, ma anche, sempre, uno scrittore (nel suo caso anche esplicitamente: “…Sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede…”): per questo “ha fatto casino”; per questo ha fondato, o rifondato, un genere. Per questo, tutto sommato, aveva ragione lui. Anche quando aveva torto.
Per questo, anche, come sai, risulta perbenistico distinguere troppo nettamente, nel caso dei veri scrittori, gli interventi pubblici en artiste dall’opera letteraria vera e propria. Ovvio che su entrambi i piani li si può aggredire anche selvaggiamente, ma sempre sapendo che lo scrittore, quando interviene da scrittore, parla sempre dall’interno del suo genere, non del nostro. Per fortuna, dico io, perché se questo gli toglie alcune libertà (ad esempio quella di essere preso sul serio; o di usare le parole in modo sciatto; o di accontentarsi di parlare per non dire nulla), altre gliene regala (ad esempio quella di non pensarla come l’opinione pubblica; quella di usare in modo personale e incoerente un argomento etico; quella di essere autoritario e violento). Uno scrittore è un intellettuale, ma non è un bravo cittadino, specie se è un vero scrittore. Non dice quello di cui abbiamo bisogno noi – per rispondere anche a Demichelis – ma quel di cui ha bisogno lui.
Ovviamente, e chiudo, intervenire da scrittore non significa sparare cazzate in libertà. E infatti la cosa che tu dici (“ possono dire quel che gli pare perché il loro pensiero si situa in un ordine al di là della ragione, oltre che del bene e del male”), semplicemente non è vera. E’ una caricatura. Pecoraro nel suo pezzo ha detto da scrittore cose perfettamente ragionevoli, anche se non necessariamente condivisibili, e certamente discutibili. Discutetele pure. Ciò che è veramente irragionevole – oltre a contestargli “errori” materiali che errori magari poi non sono – è trattarlo da filosofo morale, o da giornalista, o da trendsetter; cioè delegittimarlo in quanto scrittore.
@Savettieri
“Quello di Pecoraro non e’ un testo letterario, e’ un testo che non chiama in causa la nostra facolta’ di giudizio estetico ma ci invita a ragionare con mezzi altri. O forse nessuno di noi l’ha capito?”
Qualcuno di voi l’ha capito. E’ la prova ulteriore che una dimensione letteraria in questa voce c’è.
“La letteratura e’ una zona franca all’interno della quale noi poveri lettori dobbiamo zittire la nostra ragione pratica e smettere di negoziare con quello che siamo per evitare accuse di moralismo e professoralita’?”
Ecco una bellissima definizione della letteratura. Sì, per uno scrittore vero è più o meno così. Sarebbe bello se lo fosse anche per qualche lettore.
E’ un peccato che la cultura novecentesca di Francesco Pecoraro non sia eradicabile, almeno laddove essa pare ridursi sostanzialmente a qualche vieto stereotipo.
E non tanto perché lo induce a un’uscita infelice come questo articolo, ma perché è presumibilmente la stessa molla che lo ha indotto a partorire quell’increscioso episodio del riccone impotente che ha trasformato un ottimo romanzo in un buon romanzo.
@ Pecoraro
grazie per aver condiviso questa bella riflessione
http://www.euronomade.info/?p=6133
Mi soffermerei sul fatto che la possibilità di parlare di sé è una delle maggiori conquiste della nostra civiltà, e che piuttosto che guardarla esclusivamente come ad un privilegio riservato a pochi, sarebbe forse più utile cercare di considerarla alla stregua di un valore da difendere, condividere e insegnare.
Magari la penso così solo perché non frequentando – per ragioni igieniche – i social network, non sono al corrente rispetto alla valanga narcisistico/identificatoria di cui parla l’autrice.
Ma quanti di quei ragazzetti disperati che hanno ucciso e si sono uccisi nel nome di un ideale distorto avrebbero potuto fare altro nella vita se solo avessero avuto degli strumenti efficaci per poter raccontare se stessi e – soprattutto – qualcuno disposto ad ascoltarli?
Credo che da questo punto dovrebbe partire un’ulteriore riflessione nel merito delle responsabilità di cui parla l’autrice alla fine della sua lettera.
Perché se nelle emergenze risulta facile sparare nel mucchio, ben più faticoso è trovare il coraggio di riconoscere le proprie colpe e tentare comunque di fare qualcosa.
Capisco però che quando ci si annoia di tutto, ivi compreso lo stare ad ascoltare gli altri, l’impresa arrivi a rasentare l’impossibile.
Un gran peccato, davvero.
@ Simonetti
Che vuol dire che aveva ragione anche quando aveva torto?
@ Simonetti
per carità, non stavo certo contestando il diritto di Pecoraro a dire le cose a modo suo; era solo per rispondergli che noi lettori che siamo stati chiamati in causa dalle sue parole – non certo, si badi bene, dalla nostra presupposta vanità – non sappiamo davvero cosa farcene dei suoi brutali ragionamenti.
Ciò di cui adesso abbiamo bisogno è di affilare le armi della critica, di tenere gli occhi aperti, di rimanere vigili.
Continuino pure a cantare le belle sirene della décadence: noi giriamo la prua verso altri lidi e togliamo il disturbo.
Caro @Simonetti,
grazie per averci argutamente rivelato la vera ragione del fastidio che suscita in tante persone questo testo: ci mette con le spalle al muro, noi che potevamo essere al Bataclan! Ci sentiamo presi in causa, noi con le nostre belle barbe curate!
Mi scusi la franchezza (qui sono tutti molto educati), ma che modo efficace di mandare tutto in vacca! Com’è semplice, com’è superficiale, com’è comodo arroccarsi dietro l’etichetta del Vero Scrittore! Se fossi Pecoraro mi sentirei anche un po’ in imbarazzo, per questa sua levata di scudi così sopra le righe (questa sì).
Io ho come la sensazione che il mondo di oggi faccia così schifo anche perché esiste gente che invecchia male, che ha un livello di empatia nullo, un livello di analisi sotto lo zero, che fa di tutta l’erba un fascio, che non si prende le proprie responsabilità.
Prima di mettere il Nostro nella stessa famiglia di Céline, le ricordo che Céline ha odiato tutti senza distinzione, ma andava a curare gratis i poracci nelle banlieu.
Sono sicura che avesse davvero pochissimo tempo per annoiarsi, lui.
@Simonetti
Ti ponevo tre domande. Chi inchioda quella frase da te espunta? A cosa ci inchioda? Che significa per te la definizione – un po’ da Amici – di “scrittore vero”?
Te ne pongo un’altra: quali sarebbero i mezzi altri che testimoniano la dimensione letteraria di questa voce?
Se non rispondi presumerò (nel migliore dei casi) che scendere dalla cattedra fosse per te troppo faticoso. Del resto non saresti il primo su questo blog.
Grazie
@ Simonetti
Scusami ma non ho capito bene la prima delle tue osservazioni in risposta al mio commento: il pezzo di Pecoraro è un frammento di un suo nuovo romanzo? Perché citandomi hai tagliato un pezzo di quello che avevo scritto e dunque: che cosa alcuni di noi hanno capito? E in che modo questo mostra che siamo davanti a una voce letteraria?
Per quanto riguarda la seconda parte della tua risposta, preciso che al posto di ‘zona franca’ avrei potuto usare la parola ‘Kindergarten’ o ‘comfort zone’ e forse avrei espresso meglio il mio pensiero. Non riesco proprio a vedere né provocazione né ambiguità in questo pezzo, che mi pare invece balbettante e pacificato nel suo ricorso allo schema di classe e al nichilismo epocale che è l’altra faccia di un egocentrismo culturale smisurato (da cui il paternalismo incapace di dare dignità di agenti agli attentatori, ridotti unicamente a ‘prodotto’ del sistema).
Forse, però, il problema è che divergiamo radicalmente su una questione essenziale: provocazione e ambiguità – che, ripeto, qui io non riesco a vedere in nessuna forma – in letteratura costringono eccome chi legge a negoziare anche dolorosamente con quello che si è. Se no non vedo per quale altra ragione dovremmo prendere sul serio i libri.
Ho l’impressione che F. Pecoraro, preso dall’impeto della ‘narrazione’ – oggi questo stile va molto di moda: non serve più rispettare i ‘fatti’ – certi ‘fatti’, ovviamente – ma si privilegiano i racconti sui medesimi, poco importa se viene ‘tradita’ la realtà storica, chi ci sarà più a testimoniare? -, ‘svolazzi’ con molta leggerezza e facilità facendo affermazioni corrive (certo, lui ha poco tempo) su temi che meriterebbero invece tutt’altra attenzione.
Ne seleziono due.
a) Già affibbiare alla ‘mente’ così, tout court, una attribuzione di ‘atea’ unita allo specifico di ‘occidentale’ e, soprattutto, definendola STRUTTURALMENTE incapace di….*figurarsi […] la mente islamista, nelle sue motivazioni e nel suo immaginario*, è di una presunzione tale che mi ha fatto afferrare ai braccioli della poltrona, mettere gli occhiali, rileggere bene… per non sentirmi catapultata in una specie di oscurantismo, altro che appartenere alla cultura novecentesca, con tutto quello che si è studiato sulla mente, sul suo funzionamento e sui suoi processi!
Se abbiamo raggiunto un livello evolutivo tale che ci ha portato a ‘scegliere’ se permanere in una posizione di dipendenza assoluta nei confronti di una qualche divinità (trascendente o immanente) o emanciparci da essa, ciò è avvenuto a seguito di un processo di pensiero (e non di una determinazione strutturale) per cui la complessità dei nostri fantasmi più arcaici, legati alla vita e alla morte, ha avuto modo di essere conosciuta e, con vicende alterne, elaborata e IN PARTE superata.
Questo processo ci permette di capire meglio ‘oggi’ la composizione di alcune formazioni precedenti (come diceva Marx in “Introduzione alla critica dell’economia politica”, 1857 : “L’anatomia dell’uomo è la chiave per capire l’anatomia della scimmia”), o, anche, di come l’elemento sociale possa illuminare quello individuale.
Questo ci fa anche dire che le nostre modalità ancestrali, la nostra ‘barbarie’ interna, non scompaiono nel nostro processo maturativo, ma continuano ad esserci più o meno controllate o più o meno dissimulate. Magari ne prendiamo le distanze così come facciamo con la gestione dell’aggressività spesso confusa con la violenza. Siamo orrendamente stupiti che persista la ‘barbarie’ del corpo-a-corpo, mentre la violenza che colpisce indiscriminatamente a largo raggio attraverso i bombardamenti (non a caso chiamati ‘chirurgici’, o guerre umanitarie) ci colpisce emotivamente molto meno, o in modo più mediato, perché veniamo ‘distratti’ da principi quali ‘giusto’, ‘legittimo’, ecc. ecc..
Senza dubbio F. Pecoraro avrà inteso parlare, più che di ‘mente’, di ‘mentalità’, di ‘cultura’, e quindi di un portato che travalica il percorso soggettivo per intricarsi con quello sociale. Ma il senso non cambia molto se resta l’immagine di una profonda negazione relazionale tra sé e l’altro da sé di cui vengono ‘a priori’ definiti ‘inimmaginabili’ i processi mentali, come se si trattasse di figure che non appartengono alla stessa specie umana (né più né meno di come era vissuta la donna nei tempi bui).
b) Quanto al passaggio: *La mia non sradicabile cultura novecentesca mi porta a supporre che la differenza di classe, generando odio «naturale»…*, mi chiedo da quale punto della lettura di Marx si evinca questo ‘portato’ emotivo.
Marx non parlava di nessuna ‘naturalità’ nella sua analisi, e nemmeno di ‘odio’, in quanto non si riferiva al conflitto tra ricchi e poveri, tra signori e servi – il tutto letto in un’ottica ‘umanistica’ di sfruttamento’ – , ma individuava un conflitto specifico, un antagonismo storicamente determinato tra gli interessi di due classi sociali tra loro contrapposte, borghesia e proletariato. E, all’epoca, lui individuava il motore di questa contrapposizione nella proprietà o non proprietà dei mezzi di produzione. Da questa lotta tra INTERESSI contrapposti, il proletariato (in quanto classe omogenea) avrebbe portato ad una rivoluzione sociale trasformando la stessa struttura dei rapporti di produzione e di potere attraverso il passaggio da uno Stato borghese ad uno Stato proletario.
Il fatto che nulla di tutto questo si sia realizzato, che oggi parlare di ‘classi’ (intese in senso marxiano) sia ormai superato dagli eventi, ciò che possiamo fare è recuperare l’analisi ‘more scientifico’, e non ricorrere a mozioni extra-analitiche, come i ‘sentimenti’. Non nego la presenza e l’importanza delle emozioni, ma se le facciamo diventare (o permettiamo loro di essere) il motore della storia senza una ‘guida’, ho fondati dubbi che si possa uscire da questa melmosa impasse.
Capisco che Pecoraro, nel parlare di ‘odio’ possa appoggiarsi ad un illustre e validissimo poeta (*), ma confondere certi ‘vaneggiamenti’ con delle analisi è quanto di peggio ci possa capitare. Preferirei che ci si muovesse sulla base di analisi ragionate e non soltanto su conati di odio (che poi facilmente si trasformano in compiacenza in determinati momenti: esempio emblematico la partecipazione massiccia della ‘classe operaia’ ai funerali di Gianni Agnelli nel 2003. Fosse stato almeno un ‘nemico’ di grande levatura, capirei il riconoscimento dell’avversario… ma così…).
Oltretutto non è difficile capire – come peraltro riconosce Pecoraro stesso (però senza modificare il suo presupposto di base legato all’odio di classe equiparato, forzatamente secondo me, ad *ogni forma di disagio economico e di costrizione ai margini, dunque di sofferenza sociale, [che] genera una forma più o meno sorda di odio e, se incontra un sistema ideologico capace di accoglierlo, di organizzarlo e finalizzarlo) – che esso odio può sfociare in modo *spietatamente operativo* … *attraverso il crimine, o l’azione politica, o il credo religioso*. E allora l’escalation è perniciosa.
(*) C’è un breve scritto del 2007 del poeta Edoardo Sanguineti intitolato Restauriamo l’Odio di Classe:
«Bisogna restaurare l’odio di classe. Perché loro ci odiano, dobbiamo ricambiare. Loro sono i capitalisti, noi siamo i proletari del mondo d’oggi: non più gli operai di Marx o i contadini di Mao, ma “tutti coloro che lavorano per un capitalista, chi in qualche modo sta dove c’è un capitalista che sfrutta il suo lavoro”. A me sta a cuore un punto. Vedo che oggi si rinuncia a parlare di proletariato. Credo invece che non c’è nulla da vergognarsi a riproporre la questione. È il segreto di pulcinella: il proletariato esiste. È un male che la coscienza di classe sia lasciata alla destra mentre la sinistra via via si sproletarizza. Bisogna invece restaurare l’odio di classe, perché loro ci odiano e noi dobbiamo ricambiare. Loro fanno la lotta di classe, perché chi lavora non deve farla proprio in una fase in cui la merce dell’uomo è la più deprezzata e svenduta in assoluto? Recuperare la coscienza di una classe del proletariato di oggi, è essenziale. È importante riaffermare l’esistenza del proletariato. Oggi i proletari sono pure gli ingegneri, i laureati, i lavoratori precari, i pensionati. Poi c’è il sottoproletariato, che ha problemi di sopravvivenza e al quale la destra propone con successo un libro dei sogni».
R.S.
@brbra
“Prima di mettere il Nostro nella stessa famiglia di Céline, le ricordo che Céline ha odiato tutti senza distinzione, ma andava a curare gratis i poracci nelle banlieu”.
Prima di dedicarsi al romanzo, Pecoraro ha fatto l’architetto al comune di Roma. Che è un po’ come curare i poveri nelle banlieues.
A proposito, visto che siamo finiti a parlare di buone azioni, devo farle notare che non è molto coerente impartirci lezioni morali commentando un thread con diversi nomi dallo stesso IP. La invito a moralizzarci sotto un solo nome.
@Savettieri
Alcuni di voi hanno capito che il pezzo di Pecoraro si basa su una “polarizzazione letteraria”. Alcuni l’hanno trovata efficace, altri no. Tu hai ottimi argomenti per stroncarla, e io non ho motivo di farti cambiare idea; noto soltanto che ci metti una foga che sfiora la crisi di panico.
@FF vs PPP
Voglio dire che indipendentemente dalla qualità dei suoi singoli interventi, che ovviamente è variabile, e su cui ognuno può avere un’idea personale, era però valida letterariamente, e di sicuro impatto sui lettori, l’impostazione della ‘voce’: cioè la scelta di parlare di tutto, e in sedi diverse, dalla prospettiva e con lo stile di un poeta.
@Macioci
Molto banalmente per scrittore vero intendo uno scrittore di talento, che ha qualcosa da dire e i mezzi formali per dirlo. Che sa costruire delle strutture efficaci complesse, ma sa anche quando lasciarsi andare (e Pecoraro si fa leggere particolarmente bene in chiave di ritorno del represso, molte delle sue pagine migliori – e non dico che questa lo sia – nascono da uno sfogo). Di solito anche se non sempre un vero romanziere si muove bene nell’inautentico, nelle passioni basse, nelle sconfitte. E’ il caso di Pecoraro (ed è il contrario di “Amici”).
Non posso fare un’analisi stilistica del suo brano, non ne ho il tempo e comunque non è questo il punto: lo stile di Pecoraro può benissimo non piacere ed è normale che a molti non piaccia. A me premeva solo sottolineare che è un romanziere e non un giornalista, e che per questo bisogna lasciargli il guinzaglio lungo. Quanto alla frase che ho isolato, mi colpisce perché descrive bene una contraddizione mia e di molte delle persone che mi circondano, e che riguarda un rapporto irrisolto con l’Occidente (il che, sia detto en passant, è il vero tema della pagina di Pecoraro). Noto che diversi lettori, nei commenti, asseriscono di non riconoscersi in quella frase. Alla loro innocenza non ho nulla da opporre se non un cordialissimo beati voi. Del resto si sa, “Il Terrore sono gli altri”.
Non ho altro da aggiungere, anzi ho parlato anche troppo, quindi esco dal thread. Non volevo produrre una difesa d’ufficio del post, solo suggerire un angolo di lettura che secondo me (e a guardar bene anche secondo il testo) è il più corretto. Tutto qui.
“e Pecoraro si fa leggere particolarmente bene in chiave di ritorno del represso, molte delle sue pagine migliori – e non dico che questa lo sia – nascono da uno sfogo” (Simonetti)
Ritorno del represso? Sfogo?
Quale?
L’odio contro gli immigrati (nel caso antiarabo e antislamico) è oggi, qui in Europa, *represso*?
Non mi pare a leggere anche soltanto certi giornali. Lo *sfogo* di Pecoraro somiglia comunque troppo a tanti altri *sfoghi*, che non rientrano affatto nella categoria del *represso*. Anzi sono formalizzati in politiche più o meno rozze o raffinate di “respingimento” e (vedremo presto) di guerra.
Il rimando all’autorità di Francesco Orlando nobilita un po’ troppo *questo*scritto.
Infine uno scrittore “vero”, quando «ci inchioda», non trascrive mica quello che dice allo psicanalista. Sceglie con cura i chiodi. Non è il caso di *questo* scritto.
Per chi sa leggere i testi – e la storia – è perlomeno dal 1886 (data di pubblicazione del Dottor Jekyll e Mister Hyde) che l’Occidente fa i conti scientemente con la propria Ombra. Per non parlare de I demoni (1873). Lì c’è già moltissimo. Tutti gli scrittori più illuminati, e in special modo i poeti, ci hanno avvertito che una stagione all’inferno stava arrivando; ed eccola puntuale. Dopo il ‘900 dobbiamo attenderci un altro secolo molto movimentato; siamo solo agli inizi. Per cui la frase di Pecoraro, per quanto mi riguarda, non inchioda nulla che non fosse già irto di chiodi.
Pensare che il Terrore siano gli altri è più che ingenuo, è grave. Casomai, a fronte di una progressiva occidentalizzazione del mondo, occorrerebbe domandarsi come affrontare il problema “globale”, oltre al piagnisteo nichilista; e qui secondo me il discorso si fa iniziatico, one by one. E’ una questione di scelte personali che poi diventano collettive, anzi che da personali si fanno via via collettive. Perché va bene continuare a dire che la vita non ha senso (salvo poi ballare sulle macerie di quel non senso e scriverne con estetico distacco), ma poi delle due l’una: o ti uccidi o il senso provi a darglielo tu. Io al nichilismo glamour preferisco quello radicale, alla Leopardi, alla Nietzsche, ben più vivi dei loro tanti epigoni; leggerli è, paradossalmente, corroborante. Ti fortifica. Oggi anche l’impiegata delle poste (lo dico senza nessuno snobismo) “sente” con le viscere che il mondo, strutturato così com’è, non ha senso. Non serve Isaia per comprenderlo. Basta ascoltare un tg o Ballarò. Venire a leggerlo su Le parole e le cose mi pare un po’ uno spreco, ecco. Perciò chiedevo cosa vi fosse di tanto importante in una frase, in fondo, banale.
Su Pecoraro scrittore ribadisco: ha prodotto, con La vita in tempo di pace, un romanzo poderoso, uno dei più belli pubblicati in Italia negli ultimi anni; e secondo me lo ha fatto quasi a dispetto del suo pensiero “razionale”, per dir così. Che poi è ciò che agli scrittori ispirati riesce.
Simonetti e’ riuscito a censurarmi un commento da Vero Scrittore ma io non sono abilitato, devo prima prendere la patente all’Universita’ di Topo Gigio.
@GiuseppeC
Non è stato Gianluigi Simonetti a censurare il suo commento: sono state le regole di questo sito. Se lo riformula senza usare termini offensivi, il suo commento verrà approvato (gm).
Sono occidentale (preferisco “italiano”, o “europeo”, ma non faccio il difficile), ho anche io una mente, non sono ateo. Ho saputo solo seguendo questi commenti che F. Pecoraro è uno scrittore. Approfitto di questo pdv un po’ insolito per dire in breve le mie impressioni.
Impressione 1. Leggendo il suo articolo, non mi sono accorto che Pecoraro è uno scrittore. Mi sono accorto che sa scrivere, ma non ho sentito il decollo che di solito mi segnala la voce personale di uno scrittore. Non sono infallibile, può essere sordità mia.
Impressione 2. Il contenuto dell’articolo non mi ha detto niente di nuovo. L’Autore pare condividere l’economicismo nichilista corrente, e individua come principale clivage politico e antropologico tra i terroristi e le loro vittime il risentimento sociale. Nel contesto della sua ideologia, mi pare logico.
Impressione 3. E’ logico, ma è anche troppo poco.
Impressione 4. Alla mia mente occidentale ma non atea sembrerebbe più proficuo interrogare il tema “sradicamento”. Se interessa sapere che ne penso in breve, si può vedere che cosa ho scritto qui, in occasione dell’attentato contro “Charlie Hebdo”: http://www.leparoleelecose.it/?p=17353. Vero che per parlare di sradicamento bisogna esser persuasi che gli uomini hanno radici, che è bene che le abbiano e le curino e conservino: il che evidentemente contrasta con la persuasione di P. che la vita non abbia nè possa avere scopo.
Impressione 5. P. parla della “mancanza di scopo” della vita. Per l’occidentale ateo, la vita non ha scopo e sostanzialmente gli va bene così perchè pensa di potercela fare, cioè di poter avere successo sociale; anche per l’islamista la vita non ha scopo (perchè non può averlo per nessuno) ma siccome non ce la può fare si inventa che uno scopo ce l’abbia, e che questo scopo sia l’utopia fanatica che conduce a uccidere e a morire. Sintesi: si può tollerare la mancanza di scopo della vita solo se si hanno i soldi, o almeno se si spera di averli in futuro. Mah.
Impressione 6. La cosa più interessante implicita nel testo di P. mi pare questa: che dalla sua descrizione, risultano sradicati sia le vittime occidentali e atee, sia i terroristi mussulmani fanatici. Manca un’analisi di questo fatto tutt’altro che irrilevante. P. sembra dar per scontato che esser persuasi della mancanza di scopo della vita sia una condizione insuperabile, un benchmark della civiltà umana. Siamo sicuri? Non fa il minimo problema che la vita non abbia scopo? Non suscita interrogazioni, dubbi, angosce, non solo in merito alle conseguenze sociali di questa latitanza dei fini, ma in merito alle personalissime conseguenze esistenziali di un nichilismo così pacifico (finchè non arriva qualche nichilista lumpen col kalashnikov)? Per fare un esempio banale: soldi o non soldi, come si fa a mettere al mondo dei figli se si pensa sul serio che la vita non ha scopo? E se noi “occidentali atei” fossimo sviati non meno dei “terroristi religiosi”?
Impressione 7. In sostanza, in questo scritto P. mi sembra sincero e anche appassionato, ma poco disposto a uscir da se stesso per comprendere chi è diverso da lui (in questo caso i terroristi, ma volendo, anche i tanti altri non terroristi, occidentali e no, che non sono come lui persuasi che la vita non ha scopo).
E siamo ormai prossimi ai novanta commenti, apparentemente incomprensibili sulla base del loro contenuto, visto che in gran parte stroncano senza pietà un testo a cui tuttavia non disdegnano di offrire la propria attenzione.
La spiegazione secondo me sta nel fatto che pure in forme non condivisibili, in maniera distorta, Pecoraro segnala una crisi dell’occidente, ma non una crisi qualsiasi, quanto una vera e propria crisi epocale.
Non si può negare che i foreign fighters che provengono dai paesi occidentali siano la dimostrazione del fallimento nell’integrazione di ragazzi che pure sono anche nati in occidente.
Questi attentati mettono in tutta evidenza la incapacità della nostra società a continuare ad essere attrattiva, seduttiva, come lo è stata per tanto tempo precedentemente, e che ha perso seduzione anche per chi non ha un luogo di provenienza dei propri genitori o nonni situato in un altrove.
Di fronte a ciò, dire che nulla deve cambiare appare in sè un’affermazione stupida, un chiudere gli occhi di fronte alla necessità invece di cambiare affrontando i nodi fondamentali della civiltà occidentale, ma nel contesto delle decisioni politiche assunte in Francia, appare falso, perchè non si tentenna neanche nel mettere in mora la stessa costituzione repubblicana per pretese esigenze di sicurezza.
Ciò che questo potere europeo dominante che include e fa combaciare popolari e socialdemocratici intende dire quando dice che nulla deve cambiare, è quanto tentavo di esprimere qui, in un mio precedente intervento, quando dicevo cosa davvero finiamo col difendere quando non impariamo dall’esperienza:
“Forse la nostra dipendenza dagli oggetti, forse la rapina che facciamo delle risorse del pianeta che non ce la fanno più a rinnovarsi al ritmo del nostro consumo, l’individualismo più minuto, inutile e in fondo becero, per cui quei meschini privilegi che la nostra società ci concede li difendiamo con le unghie e con i denti, anche se difendendo ciò, finiamo col difendere i nostri aguzzini.”
Bisogna insomma tranquillizzarsi che tutto va bene madama la marchesa, e bisogna spegnere le nostre più o meno segrete inquietudini sull’impossibilità di continuare su questa strada che l’occidente impone a tutto il mondo, sperando che il ribadire determinati concetti, li renda validi.
“ 26 luglio 1984 – Per quanto Maometto evitasse di andare alla Montagna prendesse tempo si dicesse che non c’era tutta questa fretta rimandasse l’impegno con i più vari pretesti adducesse scuse non di rado ridicole ci dormisse sopra indugiasse nicchiasse temporeggiasse procrastinasse persino sine die differisse magari alle calende greche puntasse i piedi resistesse con ogni mezzo negasse omettesse bluffasse mentisse insomma di andarci se ne guardasse bene un bel giorno senza preavviso ma anche questo è opinabile buongiorno! chi è? venne lei in persona grande e grossa e alta e agna da lui. Povero Étto. “.