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[Trent’anni fa moriva Elsa Morante. Riproponiamo tre articoli pubblicati su Le parole e le cose tra il 2012, nel centenario della nascita, e in occasione dell’uscita dell’epistolario].

Elena Porciani, Uscire dalla camera dei cliché. La critica su Elsa Morante nel centenario dell’autrice

Il 18 agosto 2012 è ricorso il centenario della nascita di Elsa Morante e vari eventi stanno scandendo dall’inizio dell’anno la ricorrenza. Se un’anticipazione si è avuta nel febbraio del 2011 con il Seminario MOD di Perugia dedicato alla Storia, di cui sono in dirittura di arrivo gli atti curati da Siriana Sgavicchia, quest’anno le celebrazioni si sono aperte a fine maggio all’Universitad Complutense di Madrid con il convegno organizzato da Elisa Martinez Garrido e Flavia Cartoni, cui seguiranno altri quattro in programma in autunno a Washington, Amsterdam, Roma e Varsavia – e la geografia delle sedi conferma la fortuna critica internazionale dell’autrice. Non sono mancate le iniziative editoriali: uno speciale di «Nuovi Argomenti» affidato a cinque voci femminili della narrativa italiana, il corposo numero monografico del «Giannone», diviso in testimonianze e saggi, una sezione di «Studium» in corso di stampa. Soprattutto c’è grande attesa per l’edizione dell’epistolario a cura di Daniele Morante, che uscirà a ottobre per Einaudi, e si vocifera di un volume di fotografie curato da Patrizia Cavalli. Si segnala poi la biografia letteraria di Graziella Bernabò La fiaba estrema. Elsa Morante tra vita e scrittura, mentre è in preparazione il profilo critico di Giovanna Rosa che uscirà presso Il Mulino. Infine, dalla metà di ottobre fino a dicembre avrà luogo alla Biblioteca Nazionale Centrale di Roma la mostra curata da Giuliana Zagra Santi, Sultani e Gran Capitani in camera mia. Inediti e ritrovati dall’Archivio di Elsa Morante con le nuove acquisizioni donate da Carlo Cecchi e Daniele Morante nel 2007.

Di fronte a questa indubbia vivacità di iniziative e pubblicazioni non è possibile non esprimere l’auspicio che, al di là delle giuste celebrazioni e del dovuto omaggio a una delle massime voci romanzesche del Novecento, il centenario sia anche l’occasione per riflettere sulla storia della ricezione dell’autrice e per stilare una dichiarazione di intenti critici. Al riguardo sembra urgente colmare, in primo luogo, la scollatura che si avverte tra i risultati della critica e la fruizione ‘comune’ di Elsa Morante, affidata a volumi i cui apparati, per quanto preziosi e prodotti da una penna di rara finezza interpretativa come quella di Cesare Garboli, non possono più costituire quell’aggiornato viatico di cui chi si avvicina a Morante ha bisogno per affacciarsi sull’universo poietico della scrittrice. Si rischia, anzi, il paradosso che se in vita Morante ebbe a soffrire, a torto o ragione, della contiguità letteraria del marito Moravia, in morte possa pendere su di lei l’ombra affettuosa del critico toscano; ne fornisce una dimostrazione proprio lo speciale di «Nuovi Argomenti» dove Garboli sostanzialmente è l’unico studioso citato da redattori e contributrici che, invece, non fanno pressoché parola dei pur non pochi studi apparsi negli ultimi due decenni. Eppure, perlomeno dal 1990, anno in cui, oltre al secondo Meridiano, uscì il volume collettaneo della scuola pisana Per Elisa. Scritti su “Menzogna e sortilegio” – con contributi, tra gli altri, di Lucio Lugnani, Emanuela Scarano e Marco Bardini –, si è sviluppata tutta una critica morantista che, dopo i pioneristici studi apparsi con la scrittrice ancora in vita, si è programmaticamente concentrata sui testi lasciando da parte sia le polemiche contingenti divenute nel frattempo inattuali sia le testimonianze degli amici e discepoli, importanti ma a rischio di (comprensibile) parzialità emotiva. Sia chiaro: i saggi e la cura di Garboli sono stati e continuano a essere fondamentali nella storia della critica morantiana, però alcuni giudizi – che «questo Autore, letterariamente, non si sa da dove venga», l’«originalità tardiva» nonostante la precocità degli esordi, la divisione della sua attività in una «beata fase» che si estende sino al Mondo salvato dai ragazzini e in una fase più tarda segnata dalla pesanteur –, devono essere ripensati alla luce della stessa metamorfica ricchezza culturale dell’opera di Morante, palpabile sia quando la si osservi nel rapporto con gli autori prediletti sia quando ci si volga alla dinamica interna della sua «metastasi» tematica – e si deve l’efficace metafora a Giuseppe Nava, che la utilizzò nel suo intervento al seminale convegno organizzato nel 1994, sempre a Pisa, da Concetta D’Angeli e Giacomo Magrini.

Prima di procedere oltre nella definizione di quelle che mi sembrano le più impellenti questioni, vorrei introdurre, non senza una punta di scherzosità – del resto, come si legge nella Storia, «È uno scherzo / uno scherzo / tutto uno scherzo!» –, una distinzione, tra morantisti e morantiani, che qualche utilità mi sembra possedere nel rendere conto delle sorti critiche di Elsa Morante. Una definizione di “morantiano”, al di là dell’aggettivo riferito a cosa/qualità inerente l’autrice, potrebbe essere: uomo o donna ammaliato/a da Elsa Morante, vuoi per un’amicizia giovanile vuoi per il sortilegio della sua scrittura – e già si intuisce perché una simile definizione non sia esente dalla ‘malattia’ stessa: perché di Elsa Morante effettivamente ci si ammala/ammalia e grazie a lei si ascende al Paradiso degli F.P. (Felici Pochi), che poi così P. non sono, ma sempre meno degli I.M. (Infelici Molti) che sul pianeta Terra non la amano o non la conoscono, «troppo tristi troppo tristi tristi TRISTI» (dalla Canzone degli F.P. e degli I.M.). L’unica cura possibile di fronte al morantianesimo sembra essere il morantismo: il morantiano o la morantiana dovrebbe cercare di essere anche morantista, secondo un trasmutarsi dell’esperienza personale nel metodo, in uno sforzo di oggettività critica di fronte ai testi. Direi quasi, con una dialettica basso/alto presente nella scrittrice sin dagli esordi, un elevarsi delle viscere straziate e conturbate nell’aerea grazia della letterarietà, simile alla capacità del lavoro onirico, riconosciuta dalla stessa autrice, di alleggerire la pesantezza dei ‘sogni processi’: «Un dieci con lode, autore dei sogni» si legge nelle Lettere ad Antonio, note anche come Diario 1938 – ed è questo un testo che è quanto mai importante considerare non un mero diario di sogni, ma una sorta di vademecum della concezione morantiana, al tempo in fieri, della scrittura e, di conseguenza, come un testo che faccia da modello per chi di Elsa Morante vuole scrivere. O, detto altrimenti, ricordarsi che per la Velivola della deliziosa autofinzione Giardino d’infanzia (1939-40) l’uomo favoloso che l’avrebbe rapita e domata era nientemeno che Lindbergh, non certo il miserrimo compagno di scuola che le scriveva «Puella, ego amo te». Questo per dire che se per la giovane Elsa l’amore andava di pari passo con il desiderio di essere domata dall’eroe dei cieli, si può supporre che l’autrice celebrata nel centenario non si accontenterebbe di essere oggetto di una fanhood letteraria. Così, felici i morantiani e le morantiane, ma non meno felici i morantisti e le morantiste che, per quanto stregati/e e innamorati/e, lottano strenuamente con i suoi testi.

Ciò (morantianamente) premesso, qual è lo scopo di questa lotta? Rispondere significa, a mio avviso, enunciare i propositi critici (da morantisti) che il centenario richiede. Direi, quindi, per parafrasare la frase finale dell’Introduzione di Menzogna e sortilegio, che lo scopo complessivo è di uscire dalla camera dei cliché. Che, al di là del suo talento letterario, Elsa Morante fosse, nel bene e nel male, nelle fedeltà e nelle intransigenze, nell’allegria e nella sofferenza, una donna straordinaria – e felici davvero coloro che hanno potuto conoscerla – è talmente fuori discussione che quasi non sembra avere più senso ribadirlo. Voglio dire, di fronte alla stramba situazione familiare dei Morante, alla decisione di andare a vivere da sola a diciotto anni, al matrimonio con Moravia, all’amore ormai reso noto ai quattro venti per Visconti, alla morte dell’amato Bill Morrow, alla malattia senile – e nessuna rivelazione è stato risparmiata, bisogna dire, a un’autrice che alle sue eccentricità private ben poca visibilità pubblica aveva riservato –, nessuno nega la rilevanza di tali dati biografici nella costruzione delle sue opere, così come non difficile è rilevare l’incidenza di alcune costanti psicologiche, come ha fatto Alessandra Ginzburg a proposito del rapporto con la madre. Tuttavia, nel rispetto peraltro di procedure ormai consolidate nella critica di ispirazione biografica o psicoanalitica, si tratta di non trasformare le categorie esistenziali in categorie stilistiche e di considerare il materiale di vita non in rapporto diretto o im-mediato con l’opera, ma all’interno di quello spazio autobiografico in cui matura – ed è quasi lapalissiano ricordarlo – il repertorio tematico di un autore. Così, se i dati biografici ricapitolati sono significativi, lo sono nel momento in cui entrano nei testi e vengono sottoposti a un trattamento letterario: «nei romanzi di Elsa, neppure tanto trasfigurate, ci sono lei e le persone della sua vita e le situazioni tra lei e queste persone. […] il realismo che faceva talmente orrore ad Elsa prendeva la sua rivincita in una capacità sorprendente di rappresentazione del reale quotidiano e autobiografico» ricordava Moravia, come riporta Graziella Bernabò, ed è un’osservazione che, opportunamente filtrata, ci aiuta a comprendere come, ad esempio, in Useppe si possa riconoscere anche una lenta elaborazione del lutto per Bill Morrow. Tanto più rilevante, quindi, all’interno di un simile spazio autobiografico il corpus dei troppo a lungo trascurati testi giovanili, vero e proprio palinsesto dell’opera a venire che quanti intendono occuparsi delle opere maggiori dovrebbero conoscere non solo ‘ad orecchio’.

Se un primo obiettivo critico consiste nel fornire il giusto ruolo – che non è indifferente, ma non può essere prevaricante – agli aspetti biografici, un secondo stereotipo di cui liberarsi riguarda la presunta irriflessività della scrittura morantiana. Ormai quasi vent’anni fa in un contributo compreso in uno dei primi volumi dedicati all’opera morantiana – Per Elsa Morante nella collana di «Linea d’ombra» – Alfonso Berardinelli elencava tre categorie di avversari di Morante: «il fronte […] avanguardistico in senso lato», «un fronte politico, prima prevalentemente populista e poi prevalentemente super-marxista» e «il fronte, infine, definibile “degli scienziati della letteratura”». Ecco, a mio avviso, una disanima del genere rischia di essere, oltre che rivelante delle posizioni del critico, anch’essa stereotipata; fatto salvo il sostanziale anarchismo antiborghese dell’autrice, la sfida è di dimostrare che se l’opera di Morante non può essere certo ricondotta allo sperimentalismo, specie di marca neoavanguardista, non è però meno priva di un’acuta sensibilità metaletteraria. Elsa Morante è una scrittrice fornita di un sapere non sistematico, ma non per questo meno lucido, meno fornito di intrinseca coerenza autoriale: i suoi testi sono labirinti nei quali le scienze letterarie, se tentano di affrontarli con formule o scorciatoie, ottengono solo di smarrirsi, ma che non per questo necessitano di un minore impianto teorico e metodologico. Le opposizioni tematiche all’insegna del doppio, i riusi melodrammatici del tragico, il gioco reciproco tra novel e romance, il sistema dei personaggi affidato alle tre matrici di Achille, Don Chisciotte e Amleto, la dialettica di maschile e femminile, le variazioni sulla parodia, la riduzione narrativa delle suggestioni filosofiche e psicoanalitiche: per studiare Elsa Morante serve una solida consapevolezza teorico-letteraria e metacritica, pena la banalizzazione delle sue scelte diegetiche e delle sue trame, persino dei suoi vezzeggiativi.

E qui si tocca il terzo cliché di cui liberarsi, cioè che Elsa Morante sia una scrittrice apparsa quasi per miracolo nel panorama delle lettere italiane, laddove per capirla è necessaria una chiave comparatistica-intertestuale che la inserisca nelle vicende del romanzo europeo, a partire dal Don Chisciotte e da Madame Bovary, ma senza tralasciare il modernismo e il fantastico psicologico novecentesco – e non sarà un caso che il convegno di Washington si proponga di indagare il rapporto tra la scrittura morantiana e le arti mentre quello di Varsavia si concentrerà sulle tracce dell’intertestualità. A ben vedere, è stato anche a causa di questa dimensione internazionale, su cui, al momento della composizione di Menzogna e sortilegio, si innestava il desiderio di scrivere «l’ultimo romanzo possibile» (dall’intervista del 1968 a Michel David), che Morante può essere risultata indigesta a certa italianistica: non solo perché il suo respiro metaletterario non è riconducibile al mainstream critico dello sperimentalismo, ma perché è un’autrice i cui romanzi, se ci si limita al contesto italiano, sembrano fare storia a sé, scorbutici e insofferenti della mediocrità – e si perdoni qui l’accenno di morantianesimo. Invece, di contro all’idea di un’autrice isolata tanto nell’ispirazione che nella gestione di se stessa, vari studiosi e studiose si sono pazientemente applicati a riconoscere fonti e modelli dietro i travestimenti della morantizzazione dei generi: il Familienroman, il romanzo di formazione, il romanzo storico, ciascuno nei tre primi romanzi e poi tutti insieme rimescolati in Aracoeli. Così, ad esempio, Donatella Diamanti ha rilevato la presenza di Leopardi, Dostoevskij e Baudelaire in Menzogna e sortilegio, Stefania Lucamante ha seguito le tracce di Proust, Concetta D’Angeli ha investigato l’influenza di Simone Weil, così come Claude Cazalé Berard che ha letto Morante anche in parallelo con Pirandello, Saba e Nelly Sachs, per non parlare della densissima monografia di Marco Bardini che ha ripercorso anche itinerari freudiani ed esistenzialisti. In questa direzione sarà rilevante soprattutto riferirsi al riuso morantiano, più che dei generi, dei modi narrativi, ripresi anche attraverso la parodia, come ha mostrato Lucia Dell’Aia. In particolar modo, risulta significativo il rapporto tra l’universo romanzesco e il modello tragico, che trova una speciale realizzazione nella Serata a Colono, ma si dipana nel corso delle opere in nome di una teatralizzazione del narrativo su cui possono esercitarsi anche indagini body oriented, queer e persino transgender, come già accaduto a proposito di Aracoeli nel convegno berlinese del 2008 organizzato da Manuele Gragnolati. Sotto il segno di Dioniso, al quale contrapponeva lo sforzo apollineo della forma, l’opera di Elsa Morante si rivela così un campo fertile anche per gli studi culturali, come può mostrare, a partire da un recentissimo saggio di Massimo Fusillo, la possibilità di prendere in esame la ricorrenza degli oggetti-feticcio nella sua opera. E c’è da dire che di fronte a questi nuovi itinerari di ricerca sorge il sospetto che si possa coinvolgere la figura di Morante anche in un discorso sul complesso e non privo di contraddizioni passaggio in Italia dal modernismo al postmodernismo.

Come fare per raggiungere questi obiettivi critici? Anzitutto, si tratterà di concentrarsi sempre più sui testi, come già avviato negli anni novanta dalla scuola pisana nonché da Giovanna Rosa e Hanna Serkowska, anche alla luce dei materiali adesso consultabili presso la Biblioteca Nazionale di Roma dopo le donazioni degli eredi. I manoscritti e i materiali vari, ordinati con precisione dall’autrice stessa, tra cui spiccano i quaderni dove è stratificata la redazione dei romanzi, già da tempo sono esplorati dai/dalle morantisti/e, non di rado giovani laureandi/e o dottorandi/e che con entusiasmo si sono avventurati/e, per dirla con spirito morantiano, nell’Estero genetico che circonda i libri licenziati dalla scrittrice; più che costruire titaniche edizioni critiche si tratterà, però, di capire il gioco delle varianti, di trovare appunti o riferimenti che possano costituire fari per la rotta delle interpretazioni e bussole per orientarsi nei labirinti dei testi definitivi. Soprattutto – ed è questo l’orizzonte di attualità nel quale si dovrà inserire ogni ricerca –, si tratterà di capire quale possa essere il valore modellizzante della prosa di Elsa Morante nella scrittura contemporanea: è un’autrice che, al pari di altri giganti novecenteschi, ci fa l’effetto di un amatissimo dinosauro estinto oppure si può riconoscere una qualche funzione-Morante ancora attiva e vitale? Ai critici militanti l’ardua sentenza, ma sembra difficile, anche alla luce dei nuovi possibili percorsi interpretativi cui si è accennato, trascurare la finezza rappresentativa dei caratteri e degli ambienti; in più, da Elsa Morante proviene una lezione di equilibrio tra coscienza metaletteraria e affabulazione romanzesca che sia i virtuosi della sperimentazione che i gigioni dell’ultraleggibilità non farebbero male, in questi tempi di post-postmodernismo o ipermodernismo che dir si voglia, a tener presente.

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Elisa Donzelli, La giovane Morante

Il 2012 è anche un centenario femminile e l’Italia dovrebbe bearsene. Oltre a Giorgio Caproni e a Giovanni Macchia, nel 1912 sono nate Joyce Lussu (scrittrice-partigiana traduttrice di Nazim Hikmet), Antonia Pozzi (poetessa legata al gruppo milanese di Antonio Banfi) ed Elsa Morante. Della scrittrice romana negli ultimi mesi si è parlato in un convegno tenutosi a Madrid e soprattutto attraverso coloro che l’hanno conosciuta per davvero, testimoni preziosi di incontri fatali spesso decisivi per le proprie sorti letterarie. Molte sono state le letture radiofoniche e crescono le iniziative previste per l’autunno, in testa a tutte quelle organizzate dalla Biblioteca nazionale di Roma tra cui una Mostra a ottobre e un seminario di studi a dicembre. Ma un centenario che porti con orgoglio i suoi anni non dovrebbe trascurare gli esordi di uno scrittore. Perché, prima di conquistarselo questo podio secolare, un autore – che in questo caso è poi la nostra più ‘straordinaria’ narratrice – ha dovuto scontare il peso della sua giovinezza.

C’è una Elsa Morante degli anni Trenta e dei primi anni Quaranta che ha fatto parlare di sé molto più di quanto non facciano le sue liti con Alberto Moravia o le reazioni leggendarie che suscitava nel mondo della letteratura. È la Elsa dei venti e trent’anni, prima della guerra e prima che, a guerra finita, nascesse la Repubblica votata dalle donne. Prima insomma della grande virata al romanzo con quel libro visionario e ottocentesco, uscito nel 1948, che è Menzogna e sortilegio e che György Lukács definirà “il più grande romanzo italiano moderno”.

Su questa Elsa – che è quella dei racconti e delle fantasie per bambini in parte confluiti nel Gioco segreto del 1941, nelle Bellissime avventure di Caterì dalla trecciolina del 1942 e in misura minore nello Scialle andaluso del 1963 – aveva lavorato soprattutto Cesare Garboli. Sin da ragazzina di racconti la Morante ne aveva scritti a ritmi serrati “con una media di uno ogni venticinque giorni per nove anni filati”. Di tutta quella gran produzione qualcosa aveva ripreso in volume e qualcos’altro – che lei stessa giudicava “decisamente brutto” – lo aveva rifiutato. Una quindicina di anni dopo la morte della scrittrice, Garboli aveva raggruppato alcune di quelle primissime prove considerandole “antefatti essenziali” per comprendere una delle intelligenze e delle personalità letterarie più acute del Novecento. Erano nati così, nel 2002, i Racconti dimenticati: “un atto dovuto” all’amica e al pubblico “differenziato” e “indecifrabile” dei lettori nuovi. Preoccupato per il destino dei suoi scritti, il critico viareggino sapeva che l’immagine di Elsa – quella stregata delle fotografie immerse tra i gatti – avrebbe continuato a suscitare un ventaglio incredibile di attenzioni da parte di intellettuali, artisti e cantanti pronti a considerarla al vertice di ogni incantevole e incantata vocazione femminile.

Adesso la voce vera di Elsa Morante potremo continuare ad ascoltarla in autunno quando Einaudi celebrerà la scrittrice mandando in libreria gli epistolari inediti intitolati L’amata. Lettere di e a Elsa Morante, frutto dell’amorevole cura di Daniele Morante (leggeremo le lettere con Moravia, con Pasolini, con Giacomo Debenedetti ma anche quelle private con gli amori e gli amici). Prodigi degli scrittori veri che cent’anni non li dimostrano affatto se da qualche parte nascondono ancora segni tangibili della propria vitalità letteraria.

Tanto vale allora ricordare ai lettori che quanto Elsa Morante aveva scritto non è ancora del tutto esaurito visto che – accanto a quelli selezionati da Garboli e accanto alle lettere di prossima uscita –  una trentina di racconti restano dispersi su giornali e riviste degli anni Trenta.

Da piccola Elsa non aveva frequentato le scuole elementari ed era la prima di quattro fratelli – Aldo, Marcello e Maria (un primo fratello Mario era morto in fasce) – figli naturali della maestra ebrea Irma Poggibonsi e di Francesco Lo Monaco ma figli anagrafici di Irma e di Augusto Morante. Già al ginnasio andava scrivendo storie da raccontare ai fratelli minori (considerati all’epoca “gli unici lettori suoi”) che tra il 1933 e il 1942 sarebbe riuscita a pubblicare sui settimanali “I diritti della scuola”, “Il corriere dei piccoli”, “Oggi” e “Meridiano di Roma” firmandosi spesso Antonio Carrera. Pagine che al regime piaceva chiamare ‘femminili’, lette da molti italiani e da pochi di quelli che l’avrebbero potuta notare. Del suo talento di narratrice si erano accorti Giacomo Debenedetti e Alberto Savinio ma era stata Natalia Ginzburg a ricevere il manoscritto di Menzogna e sortilegio e a portarlo all’Einaudi. Con quattro grandi romanzi, una raccolta di poesie, la particolarissima commedia Il mondo salvato dai ragazzini, i saggi raccolti in Pro e contro la bomba atomica e i più ‘meritevoli’ racconti, Elsa Morante avrebbe raggiunto l’attenzione del grande pubblico. Col tempo la critica si sarebbe occupata del suo stralunato rapporto con la maternità, del mito di Narciso e dell’ossessione per le figure doppie destinate ad affetti infelici. Ma un episodio antico nella vita di Elsa contiene l’idea che in lei, sin da giovanissima, maturava della letteratura. Ce ne parla tra le righe un racconto uscito nel 1939 sul settimanale “Oggi” intitolato Nostro fratello Antonio e ripreso da Garboli nei Racconti dimenticati: “A dire di nostra madre, tutti noi fratelli fin dal giorno della nascita mostrammo le nostre virtù straordinarie […]. Ma il più straordinario, la meraviglia di tutti era nostro fratello Antonio […]. Appena venuto alla luce, […] senza neppur aver spiegato le ragioni del suo contegno, chiuse gli occhiettini e morì […] sapevamo (e chi mai potrà più levarcelo dalla mente?) che il nostro fratello Antonio, mentre noi peccavamo e scontavamo sulla terra, ci preparava, con le sue mani regali, l’aurea casa del perdono in Paradiso”. Oggi sappiamo anche che nello stesso periodo Elsa andava scrivendo un diario di sogni e paure intitolato Lettere ad Antonio e che nei mesi successivi all’8 settembre del ’43, rifugiata a Sant’Agata di Fondi con Moravia, portava con sé una copia dei Fratelli Karamàzov finita in mille pezzi per fronteggiare l’indigenza della guerra. Quel ‘fratello mancato’ lo avrebbe ricordato per l’ultima volta nel 1945 in una poesia dedicata al fantasma di Narciso e confluita nella raccolta Alibi: “Come un fratello maggiore, fanciullo al pari / e materno in cuore, indago su te / i segni della notte”.

Con il 1948 il passaggio al romanzo avrebbe consacrato il tempo dei figli unici: Elisa, la narratrice di Menzogna e sortilegio nata dall’unione infelice di Anna e Francesco il cui solo interlocutore è il gatto Alvaro; il bambino dell’Isola di Arturo, destinato ad avere una matrigna pressoché coetanea – che in tutto e per tutto avrebbe potuto essere sua sorella (o la sua sposa) – e a scoprire che i viaggi del padre lontano da Procida altro non erano che avventure omosessuali; Nino, il primogenito della Storia che avrà un fratellastro nato dalla violenza di un soldato tedesco sulla madre Ida; e infine Manuele, figlio illegittimo di una misteriosa ragazza andalusa nell’ultimo romanzo Aracoeli.

Non così per i racconti giovanili che, pieni di incantesimo “waltdisneyano” (come Giorgio Caproni amava definirli) e ancora affezionati alla fiaba dei fratelli Grimm, moltiplicano a dismisura la struttura parentale: nonne e nonni, padri e madri, mariti e mogli che generano figli pieni di fratelli e di sorelle. Lo si capisce scorrendo i titoli salvati da Garboli: I gemelli, Il fratello maggiore, Le due sorelle, Il fratello minore, Nostro fratello Antonio. E lo stesso vale per alcuni dei racconti ancora dispersi, anch’essi dai titoli ‘doppi’ dedicati a personaggi-fratelli: Giorno di compere (storia delle due sorelle povere Rosetta e Germana), La bella vita della vecchia Susanna (e della sorella Ida), Festa da ballo (vita delle sorelle Carla e Laura), La leggenda di San Celestino (che era povero con tanti fratelli), Infanzia di Gesù (e della sua amicizia con una bambina coetanea), Leggenda di Pasqua (o anche leggenda dei due fratelli Gianni e Mattia).

Tra i dispersi c’è anche il racconto lungo Qualcuno bussa alla porta uscito in 29 puntate su “I diritti della scuola” tra il ’35 e il ’36, il finale era stato ripreso sul “Messaggero” nel 1986. È una storia dall’intreccio complesso che inizia sulla terra ferma e finisce in un’isola: il contrario dell’Isola di Arturo. All’inizio di questo testo si parla di due sorelle, Paola e Mirtilla, le cui vite sono destinate a dividersi: “Le due ragazze erano cresciute insieme in una campagna simile al paese delle fate: ma non apparteneva a loro”. Poi Mirtilla parte per inseguire l’amore di un uomo e scompare dal racconto così come Paola. Noi lettori intanto seguiamo la storia di Lucia, una bambina abbandonata in fasce che crescerà con una musica che le rimbomba nelle orecchie. Al termine del racconto, come sotto ipnosi, Lucia entra in un’isola stregata dove incontra la vecchia zingara Mirtilla, una delle sorelle del primo capitolo e forse la madre che originariamente aveva perduto: “Buon giorno – dice quell’isola alle anime giovani che vi approdano – Eccoti a me, dunque. Sapevo che saresti venuta. Non siamo sorelle, noi due? […] E la mia acqua che ride, trema e urla non è simile ai tuoi capricci e ai tuoi sogni?”. Qualcuno bussa alla porta è ancora dentro l’infanzia e nasce prima che il protagonista dell’Isola di Arturo abbandoni il nido partendo da Procida.

Dopo la guerra prenderanno forma i grandi romanzi con i protagonisti del disincanto: Elisa, Arturo, Nino, Useppe, Manuele, Manuel e Aracoeli. Prima che tutti loro nascessero però c’era stato Antonio. Antonio, il fratello per eccellenza: tra gli esseri il più diverso perché il più simile a noi, quell’individuo che – nato dalla stessa unione – noi stessi avremmo potuto essere e che non siamo, attraverso il quale ci definiamo per rivalità e per confronto, per assenza e per unione e che, così facendo, diventa puntualmente il nostro doppio nel mondo. È Antonio l’idea più sfuggente e ‘meravigliosa’ della letteratura. E sfuggenti e meravigliosi sono i racconti che la scrittrice romana si era lasciata alle spalle: fratelli ‘minori’ di quei quattro romanzi che l’avrebbero resa famosa.

Chissà se oggi Elsa ce li farebbe rileggere, proprio non l’abbiamo perdonata per averli nascosti.

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Niccolò Scaffai, Elsa Morante e il suo epistolario

Che cosa cerchiamo nelle lettere di uno scrittore? Chi se ne occupa per mestiere cerca qualcosa che lo aiuti a perfezionare la conoscenza delle opere: una circostanza, la figura reale che ha ispirato un personaggio, la soluzione di un mistero interpretativo. La maggior parte dei lettori però non è interessata a questo: non cerca una soluzione, cerca l’autore – la sua vita, la sua voce, il suo carattere. Può farlo per curiosità, per verificare se il profilo che ne ha ricavato dagli scritti (il cosiddetto autore implicito) corrisponde alla persona ‘vera’; oppure per passione, per capire quel che l’autore ha provato e vissuto, e misurare i suoi sentimenti sui propri. Quando interviene questa pretesa di condivisione, le lettere cessano di essere solo un documento utile in funzione di un testo diverso (un romanzo, una poesia) e diventano interessanti di per sé, come frammenti di un’esperienza che è realmente stata e che perciò poteva, potrebbe essere anche la nostra.

È a questo che viene da pensare una volta chiuso il volume che raccoglie l’anomalo epistolario dell’autrice di Menzogna e sortilegio: L’amata. Lettere di e a Elsa Morante, a cura di Daniele Morante con la collaborazione di Giuliana Zagra, Torino, Einaudi, pp. XXI-686, euro 30,00. Il libro sollecita infatti tanto la ricerca dell’utile quanto la condivisione dell’interessante, concedendo però un grado ben diverso di soddisfazione alle due attività: minima per quanto riguarda il profitto filologico, massima per ciò che concerne la partecipazioneesistenziale. Una simile divergenza – occorre dirlo, anche se dispiace perché il libro era atteso e la passione di chi l’ha curato è fuor di dubbio – dipende dall’arbitrarietà della selezione e dalla macchinosità dell’allestimento.

A fronte di un archivio privato composto da ben 5500 documenti epistolari di varia natura, L’amata dà conto di circa 600 lettere; un corpus ristretto, ritagliato senza aver concluso non dico l’ardua recensio delle lettere di Elsa custodite dai possibili destinatari, ma anche solo il repertorio e l’esame completo delle carte a disposizione. Per di più, dichiara Daniele Morante nell’Introduzione, dal libro è stata intenzionalmente stralciata «tutta la corrispondenza familiare nonché quella di interesse prettamente filologico o letterario-editoriale, che potrà interessare di preferenza altri ricercatori». È evidente che non esiste un criterio, se non soggettivo e rischiosamente empirico, per isolare ed escludere «l’interesse letterario-editoriale» dall’epistolario di uno scrittore (accogliendone comunque le lettere scambiate con altri autori e con editori: Calvino, Ginzburg, Bollati). Sennonché, al netto delle critiche, quel criterio esiste, ed è di natura sentimentale. Fedele alla linea promessa dal titolo, il volume include infatti le lettere di e ai corrispondenti che hanno amatoElsa e che hanno affermato quell’amore, declinandolo in forma di amicizia, ammirazione, nostalgia, persino rabbia. Certo, il taglio sentimentale impedisce di apprezzare l’intreccio di ragioni personali e letterarie che avrà unito Elsa ad alcuni dei corrispondenti qui convocati (compreso Moravia, comunque titolare della corrispondenza più numerosa).

Quel che abbiamo tra le mani è dunque una raccolta molto parziale, divisa in quattro capitoli cronologici (fino al 1940; 1941-1957; 1958-1974; 1975-1985), ciascuno dei quali include missive varie, ‘letture’ (cioè lettere relative all’opera maggiore pubblicata da Elsa Morante nel periodo considerato: Menzogna e sortilegio e L’isola di Arturo nel secondo capitolo, Il mondo salvato dai ragazzini e La Storia nel terzo, Aracoeli nel quarto) e brevi carteggi divisi per corrispondenti: Moravia appunto, e poi Giacomo e Renata Debenedetti («De Benedetti» nell’Indice finale!), Luchino Visconti, Natalia Ginzburg, Calvino, Pasolini, Leonetti, fino a Goffredo Fofi e Adriano Sofri.

Parlavo prima di divergenza. Perché una divergenza si produca, devono esistere almeno due linee, due sponde: di quella negativa – l’insufficienza filologico-editoriale, cui si sommano la negligenza dell’annotazione e l’incertezza di molte datazioni – si è detto. Ma la linea positiva non è meno consistente e giustifica l’operazione, perché in fondo le parole di e per Elsa bastano a sé stesse, o almeno bastano al lettore che qui le scopre per la prima volta. L’esperienza, il respiro dell’autrice non deludono chi ne va in cerca tra queste pagine, trovandovi una profonda somiglianza emotiva e psicologica tra la persona empirica – la Morante che ha scritto o a cui sono indirizzate le lettere – e i protagonisti delle sue opere. È impossibile, per esempio, non pensare alla passione imperiosa e sadicamente infantile tra Anna e il cugino Edoardo di Menzogna e sortilegio leggendo il carteggio tra Elsa Morante e il misterioso Richard T. M, giovane di origine inglese che amò, riamato, la (futura) scrittrice tra gli anni Trenta e i Quaranta. Lettere, quelle di Richard, in cui il registro vezzeggiativo («mio amorino, cara, viola mia, uccellino mio, sono le tre di notte ma io non posso dormire perché nel mio letto grande il tuo posto è vuoto») cederà il passo alle frasi più disperate e terribili: «I Tedeschi hanno pulito il mondo di tanta gente […] e vi furono masacri e ruine e speravo te morta in qualche Campo di Concentrazione». Quando Richard scrive queste parole, in un italiano suggestivo, è già il 1948 e l’amata «Elsie», conosciuta quasi quindici anni prima, è ormai la «Signora Moravia».

Il primo romanzo – gremito di lettere e di scrittura – e il secondo (L’isola di Arturo) tornano alla memoria anche leggendo le lettere di un’Elsa più matura, mondanamente isolata nella sontuosa infelicità altoborghese di una casa romana o di un ritiro a Capri, a Positano, in Engadina. Come Elisa, la narratrice di Menzogna e sortilegio, si presenta nelle vesti di una bambina adulta che nutre il suo savio delirio nel chiuso di una stanza, così Elsa è capace di pensieri di ingenua, disarmante verità, comunicati anche agli interlocutori meno accessibili con la semplicità profonda di una fanciulla. A Tommaso Landolfi, per esempio, scrive (novembre 1958): «Dunque, caro Landolfi, a rivederci (si dice sempre a rivederci così tanto per dire). Del resto, poi, forse ha ragione Lei: rivedersi non serve proprio a niente, giacché tanto anche in quel caso si parla di niente. Fino ad oggi, le conversazioni più rilevanti che ho avute, le ho avute con la mia gatta Pamela».

È con quella stessa sincerità che può rivolgersi anche all’«Amatissimo Calvino», rimproverandogli la «poca ispirazione» e la «stanchezza» del Bianco veliero, romanzo fallito – fu respinto anche da Vittorini – che lo scrittore in effetti non pubblicherà. In cambio della sua affettuosa franchezza, Elsa riceve la confidenza degli amici (scontandola con l’incomprensione di un Moravia che, da lontano, guarda a lei come un adulto guarda, ora condiscendente ora costernato, ai capricci di un bambino). Ma riceve soprattutto la simpatia di altri «ragazzini» (tali per anagrafe o per indole), che dopo l’uscita della Storia vedono in Elsa un riferimento morale, o addirittura un idolo cui indirizzare lettere cariche di auspici e promesse, quasi laici ex voto: «So già in anticipo che mi risponderà – scrive da Savona, nel gennaio del ’75, la sedicenne Stefania Ponteprimo, al termine di una lettera sfrontata ed entusiasta – perché lei è grande, stupenda e non si scorda del popolo che la ama». Non conosciamo la risposta di Elsa (la sua cartolina a Stefania non è qui pubblicata), ma sappiamo che ha risposto, e questo basta.

***

[Immagine: Un disegno di Elsa Morante (dbr)]

1 thought on “Per Elsa Morante

  1. Non ci sono che solitudini, dopo il furto dei corpi.
    Là non esistono indirizzi, né nomi, né ore.
    Nessun segno per conoscersi. Tutto l’infinito eterno
    Non è che un cielo vuoto bianco, ruota sonnambula
    Dove si fugge assenti uno dall’altro alla cieca.

    (E. Morante, Addio in Il mondo salvato dai ragazzini)

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