di Giorgio Falco
Spiccano da decenni, nel cielo delle tangenziali, degli svincoli, così connaturati ai nostri parabrezza da essere parte di noi: teloni con le scritte Domenica Aperto o Domenica Sempre Aperto. Difficile dire quale delle due espressioni sia più invasiva. Domenica Aperto vorrebbe sembrare un’informazione, un annuncio neutro, che denota una sorta di naturalezza – provvisoria, da ciclo settimanale – dell’apertura festiva. Dentro Domenica Sempre Aperto percepisco, con l’avverbio messo in mezzo, l’intervento dell’uomo, l’ansia da prestazione cadenzata su ritmi che esulano il calendario stesso. Sempre è indiscutibile, ma come tutti i poteri autoritari, dovendo sottolinearsi con la forza, rivela una crepa già in origine, una mancanza di fiducia verso sé. Domenica Aperto è ambiguo, assegna la teorica possibilità di chiusura della domenica seguente a quella di apertura. Domenica Aperto gioca con l’eccezionalità dell’evento, è la domenica ancora domenica. Domenica Sempre Aperto non ha voglia di giocare, non è nemmeno più domenica. Il prossimo Sempre – l’apertura ventiquattro ore al giorno, in Italia – è già realtà adottata da centinaia di supermercati. È solo una sperimentazione. L’esito finale dipenderà, più che dalle lotte di lavoratori e sindacati, dalla volontà dei consumatori di resistere o di farsi colonizzare del tutto.
I teloni che inneggiano alla domenica lavorativa mi sono ritornati in mente leggendo il saggio di Jonathan Crary, 24/7 Il capitalismo all’assalto del sonno, uscito per Einaudi. Crary, storico d’arte che insegna alla Columbia University, inizia il proprio libro con la performance del passero dalla corona bianca. L’uccello emigra dall’Alaska e arriva a svernare sulla costa occidentale messicana dopo aver volato per sette giorni, in uno stato di veglia continua. Una resistenza di questo tipo interessa, oltre che agli ornitologi, anche ai ricercatori del Pentagono. Come è possibile che un uccello così esile possa stare sveglio, cibarsi e volare per una settimana di fila, mentre i marines palestrati e vitaminizzati russano ogni notte come poppanti? Lo scopo è avere un soldato vigile per almeno sette giorni di fila. C’è da chiedersi cosa significhi questo stato di veglia, quale sia la consapevolezza del mondo circostante dopo sette giorni insonni. L’obiettivo finale sarebbe una quindicina di giorni, la soglia di resistenza dei topolini da laboratorio, prima che muoiano. Non a caso la privazione del sonno è una forma di tortura. E come spesso capita, dopo l’applicazione in ambito militare e bellico, la performance del volatile potrebbe essere da esempio in campo lavorativo.
Un esperimento finito malissimo in tal senso risale al 2013. Moritz Erhardt, un ragazzo tedesco di ventuno anni, è morto alle sei di mattina, dopo un turno – e un periodo – lavorativo con giornate medie di venti ore presso la sede londinese della Bank of America. I giornali italiani avevano subito rassicurato il lettore: lo stagista era, forse, ammalato di epilessia. E questo per evidenziare come il sistema possa avere qualche esagerazione, d’accordo, ma complessivamente è un organismo sano: è sempre il singolo ad avere problemi. Il capitale fagocita, quando serve, tutto il tempo della vita e, con la Rete, abbatte la differenza tra tempo lavorativo e tempo libero; vive sempre l’emergenza e il controllo, non a caso alcuni segmenti aziendali si chiamano Front Line e War Room. Ma l’emergenza non credo significhi solo vivere un presente asfittico, la trappola del presente continuo. Tra le tante moine del capitale per mostrarsi affidabile, c’è quella di pianificare settimanalmente le proprie attività: in alcune grandi aziende italiane è richiesto, il venerdì pomeriggio, di compilare il cosiddetto planning settimanale. Quella griglia di Excel è un foglio presenza del futuro prossimo, che non prevede la malattia, un futuro minimo slegato da qualsiasi impegno o iniziativa a medio e lungo termine. È la materializzazione del 24/7, “che rinnega ogni legame con il tessuto di ritmi e scansioni periodiche dell’esistenza umana”, ma che tuttavia non rinuncia alla scadenza dei sette giorni. “È l’annuncio di un tempo senza divenire”, una settimana che non invecchia, benché contribuisca alla consunzione del pianeta, e questo poiché il concetto di 24/7 è privo di vita, “totalmente inerte”. Ridimensionata l’importanza del possesso degli oggetti, resta forte la dipendenza dai servizi: “immagini, procedure, sostanze chimiche”. Il libro di Crary non è, come vorrebbero i disincantati un manuale catastrofista da sbertucciare al tepore delle nostre piccole vite. Crary allarga il discorso del 24/7 al cinema, all’arte, e lo fa ricordando Solaris e La jetée. “Quando è avvenuta la fine dello sguardo?” si chiede Godard in Eloge de l’amour. Per risollevare le sorti della Chiesa e delle società occidentali, non serve il Giubileo. Meglio ammettere di avere un problema e formare brigate di preti atletici. I sacerdoti si liberano dell’abito talare, lo usano per oscurare le telecamere di sorveglianza. Poi, come tanti Diabolik, staccano i teloni dai tetti dei centri commerciali. C’è il rischio che questa performance – di cui non si avrà testimonianza filmata, né archiviazione – venga riproposta in una Biennale d’Arte, più che all’Angelus domenicale. Ma Domenica Aperto avrebbe un peso non solo simbolico, e noi, quasi felici, potremmo credere che l’immagine del telone nel cielo d’Italia sia davvero, per il capitalismo, un’immagine completamente inutile.
[Immagine: Lee Friedlander, At Work (1985) (gf)].
“ 27 marzo 1984 – Bonnard, spiegano, trasforma il tempo in spazio, mediante la luce. Come fare per compiere l’operazione inversa: mutare lo spazio in tempo? Mediante il buio? (Ad esempio nel sonno, nel sogno) “.
Anche Franco Fortini, nella poesia testamentaria che chiude l’ultima raccolta del 1994, dal titolo alchemico di “Composita solvantur”, aveva chiaramente individuato il nemico nella “cupiditas”, la voragine senza fine e senza fondo che è il capitalismo: produzione per la produzione doppiata dal consumo per il consumo. Ecco perché a chi intende battersi contro “l’assalto del capitalismo al sonno”, ossia contro l’integrale colonizzazione della vita umana da parte della forma-merce e del plusvalore, non resterà altra alternativa se non quella di Klockov.
«E questo è il sonno…» Come lo amavano, il niente,
quelle giovani carni! Era il ‘domani’,
era dell’‘avvenire’ il disperato gesto…
Al mio custode immaginario ancora osavo
pochi anni fa, fatuo vecchio, pregare
di risvegliarmi nella santa viva selva.
Nessun vendicatore sorgerà,
l’ossa non parleranno e
non fiorirà il deserto.
Diritte le zampette in posa di pietà,
manto color focaccia i ghiri gentili dei boschi
lo implorano ancora levando alla luna
le griffe preumane. Sanno
che ogni notte s’abbatte la civetta affaccendata e zitta.
Tutta la creazione…
Carcerate nei regni dei graniti, tradite
a gemere fra argille e marne sperano
in uno sgorgo le vene delle acque.
Tutta la creazione…
Ma voi che altro di più non volete
se non sparire
e disfarvi, fermatevi.
Di bene un attimo ci fu. Una volta per sempre ci mosse.
Non per l’onore degli antichi dèi,
né per il nostro ma difendeteci.
Tutto ormai è un urlo solo.
Anche questo silenzio e il sonno prossimo.
Volokolàmskaja Chaussée, novembre 1941.
«Non possiamo più, – ci disse, – ritirarci.
Abbiamo Mosca alle spalle». Si chiamava
Klockov.
Rivolgo col bastone le foglie dei viali.
Quei due ragazzi mesti scalciano una bottiglia.
Proteggete le nostre verità.
“ Lunedì 24 luglio 2000 – Poi mi trovo sul tavolo la rivista del Centro Franco Fortini – non si chiama, come mi avevano detto «Quodlibet» (quello è l’editore) ma «L’ospite ingrato») -, e la sfoglio. E sfogliandola mi imbatto in una poesia di Fortini che mi pare di conoscere bene: « E questo è il sonno » – « Edera nera, nostra corona », mi pare continui così, ma non ricordo altro, sarà che ho sonno, ho sempre avuto sonno, anche un quarto di secolo fa, quando leggevo Fortini, quando leggevo « E questo è il sonno ». Non dico di avere più sonno di Fortini, questo no, ma fra compagni di sonno, un po’ ci si intende. (E intanto Repubblica continua a svegliare l’Italia) “.
@ adriano barra
Fà la nina, fa’ la nana
nei braseti de la mama.
La tua mama xè qua,
el papa el tornerà.
Fa’ la nina, fa’ la nana
nei braseti de la mama.
E se lu no ‘I tornarà
la tua mama pianzarà,
ma ‘I bambino no ‘I vedarà
perche nana lu ‘I farà.