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di Guglielmo Pianigiani

Alzi la mano chi avrebbe potuto immaginare un titolo come la Giovanna d’Arco per l’apertura della Scala 2015, questa sera. Non è difficile rispondere: nessuno. Vorrei, dunque, interrogarmi sul perché della scarsa considerazione verso quest’opera e sui motivi che possono, invece, farne intravedere alcune potenzialità.

La Giovanna d’Arco mancava alla Scala dal 1865. La prima si era avuta il 15 febbraio del 1845, con il libretto affidato a Temistocle Solera che aveva rimaneggiato e alterato la fonte schilleriana (La pulcella d’Orléans). L’opera segnò la rottura di Verdi con l’impresario Merelli e la Scala, soprattutto in relazione a problemi della messinscena e, da quel momento, nessun’altra sua opera vi ebbe la Prima fino all’Otello. Nell’operazione di condensazione e spostamento, tipica delle riduzioni librettistiche, la vicenda ne risulta stravolta e avviata in una direzione del tutto particolare. Il baricentro si sposta verso una dimensione fortemente visionaria e onirica, tralascia i motivi storici e militari (del tutto marginali) per concentrarsi sull’interiorità di Giovanna, di cui assume il punto di vista emotivo e drammaturgico. Resiste la spinta patriottica (sia pure interna al conflitto franco-inglese) e l’idea del sacrificio in nome di valori superiori. Le strutture drammaturgiche sono quelle già collaudate dal giovane Verdi fra Nabucco, Ernani, I Lombardi, gesto compatibile con il brevissimo periodo in cui l’opera fu scritta (circa un mese). Dal Nabucco e dai Lombardi derivano i tratti di monumentalità e la funzione etico-ontologica dei cori; da Ernani proviene il tema della maledizione (lì Silva, qui gli angeli e Giacomo) che dal primo Atto si riverbera lungo tutta l’opera e ne condiziona l’esito tragico. Il dato sperimentale si incarna nella tipologia dei cori, punctum dolens dell’opera, eppure forza centripeta di tutto il meccanismo scenico-drammatico. Con sensibilità romantica e in anticipo sul recupero shakespeariano di Macbeth (1847), Verdi-Solera puntano tutto sul contrasto fra il coro dei demoni e degli angeli, i primi per tentare Giovanna ai piacere della vita terrena, i secondi per spronarla alla salvezza della Francia oltre ogni sentimento umano («Guai se terreno affetto/ accoglierai nel cor», I, 5). Il peso dei cori è tale da configurarsi quale motivo conduttore, vero e proprio leitmotiv circolante in molte sezioni dell’opera. Nel caso degli Spiriti Malvagi, l’effetto previsto mira alla volgarità triviale, di profilo basso, sia sul piano testuale che musicale. Affidati a strofette di quaternari, i versi dei demoni si qualificano per una banalità abissale («Quand’agli anta/ l’ora canta,/ pur ti vanta/ di virtù»), sbilanciati per eccesso di superficialità, e resi dal compositore con un temino di valzer, lontano ancora anni luce dall’elegante sensualità di Traviata. Sembrano avvicinarsi di più alle strofe (in quaternari sdruccioli) delle streghe di Macbeth, ai riti blasfemi e satanici delle loro danze macabre («Tre volte miagola/ la gatta in fregola»). Alle creature infernali si contrappongono gli Spiriti Eletti, nel consueto arpeggiare delle arpe, in un ben ritmato andamento prodotto dai settenari sdruccioli e piani («Sorgi! I celesti accolsero/ la generosa brama!…»). Non si può non registrare un forte squilibrio fra intenzionalità comunicativa e mezzi impiegati: se in Macbeth le streghe attingeranno un’atmosfera brutale e maligna, qui gli spiriti infernali insistono sul gioco di un’ironia al limite del ridicolo.

Tuttavia, la Giovanna d’Arco guarda anche al futuro verdiano e ne anticipa felici soluzioni. Si tratta di un’opera che in modo davvero sorprendente contiene una costellazione di situazioni tipiche, disseminate – poi – in molti capolavori di Verdi. A breve raggio, è da sottolineare il rapporto con Rigoletto (1851) e Trovatore (1853). Con il primo condivide il nucleo socio-antropologico di Dio, Famiglia e Madre (figura anche in Giovanna freudianamente assente), quali valori costitutivi del soggetto e numi tutelari del suo destino. Con il secondo la prossimità è di tipo musicale, essendo il Terzetto che chiude il Prologo (Atto I nella versione scaligera) tra Giovanna, Carlo e Giacomo un assaggio del corrispettivo fra Leonora, Manrico e il Conte di Luna. Identiche le voci (soprano, tenore, baritono), la posizione scenica, similare il piglio energico e irruente che stringe in un nodo drammaturgico tre volontà lacerate e distanti. https://www.youtube.com/watch?v=KqJwV-QmTH8, da 39’ 47’’  a 44’ 07’’}.

Alla base di tutto, del resto, vige il principio della triangolazione affettiva, vero caposaldo del melodramma italiano, qui declinato nelle modalità che saranno ancora una volta di Rigoletto, ma anche di Simon Boccanegra (1857) e perfino di Aida (1871). Né può mancare il consueto rapporto padre-figlia, groviglio di fraintendimenti e crocevia di sofferenze, quanto di tardive riconciliazioni. Di Aida, inoltre, anticipa la scena dell’interrogazione (Radamés e sacerdoti), quando il padre Giacomo e il re Carlo chiedono a Giovanna conferme delle sua purezza e Giovanna per tre volte tace. Sono rintracciabili anche finezze nell’orchestrazione di cui Verdi farà tesoro per realizzazioni future. Nella modalità in cui l’orchestra accompagna l’ultima aria di Carlo, «Quale più fido amico», sentiamo risuonare il clima introverso di Filippo II (Don Carlos, 1867) e addirittura di Desdemona (Otello, 1887): il corno inglese e il violoncello contrappuntano il canto con un alone di tristezza e di desolata malinconia.  (https://www.youtube.com/watch?v=KqJwV-QmTH8, da 1 52’ 16’’ a 1 55’ 20’’)

Sul piano della vocalità è il ruolo della protagonista e riservare le maggiori sorprese. La sensazione è quella di tenere lontana la voce dai rischi di un’accentuata “quadratura”. Su suggestione belliniana e per intrinseca predisposizione, Verdi traccia linee vocali fiorite, secondo il suo stile giovanile, ma che puntano a oltrepassare o a mascherare lo schema antecedente-conseguente, un’eccessiva regolarità del periodo (per quello che gli è possibile nel 1845). Si veda il suo «O fatidica foresta», il recitativo e romanza in cui Giovanna appare combattuta fra il dovere militare e il ritorno alla pace della vita precedente, rinnegando il sentimento per Carlo. (https://www.youtube.com/watch?v=KqJwV-QmTH8, da 56’ 06’’ a 1 01’ 00)

Nelle sue parole risalta il totale smarrimento di una condizione in bilico fra la compiuta salvezza della Francia e l’abbandono all’amore, minacciato dalla maledizione angelica («Svania la mente! Le mie fibre or scuote/ un senso, un turbamento,/ che interrogar pavento»). La forma veicola la sostanza: l’esteriorizzazione dello psichico sposta l’attenzione sulla condizione di Giovanna e pervade tutto il suo agire. In questo modo anche la lotta contro gli Inglesi, le visioni, lo spirito di crociata oggettualizzato nella spada e nell’elmo, divengono il prodotto di una mente delirante, la conseguenza di un’investitura religiosa foriera comunque di morte, ammantata di fanatismo.

[Emmanuel Fremiet, Giovanna d’Arco (gm)]

4 thoughts on “Giano bifronte: Giovanna d’Arco alla Scala

  1. Sarà interessante vedere la Giovanna d’Arco, così come è sempre interessante vedere (o ascoltare) opere non di repertorio di grandi (in questo caso sommi) compositori. Personalmente credo che si tratti di un’opera piuttosto debole (certo, come diceva Richard Strauss, in ogni opera di Verdi – anche in quelle francamente inascoltabili per intero – c’è sempre il lampo di genio), con alcuni momenti e temi interessanti (sottolineati nell’articolo), ma priva di quella grandezza nella concezione unitaria del dramma che rende grande Verdi. Il fatto che ci siano alcuni punti in comune colle opere successive non fa che risaltare il vero punto debole di quest’opera (come di Attila, I due Foscari ecc.): considerata nel suo insieme (volendo esagerare, considerata in quanto “dramma musicale”) risulta essere di un grigiore plumbeo, cioè, detta più semplicemente, più che essere fatta male è noiosa, e molto.

  2. Non parlerei di noia e, comunque, non la collegherei all’aspetto “plumbeo” dell’opera. Cupa e inesorabile è ancor di più I due Foscari, dell’anno precedente; lo sarà – a suo modo – il Simon Boccanegra, per non parlare di Don Carlos.
    Quello che manca è semmai l’aggancio a melodie orecchiabili che ne attestino la memorabilità e, soprattutto, l’adesione a una drammaturgia del tutto condivisa. Solera è voluto entrare nell’animo della protagonista, mostrarne le intime contraddizioni, ma tralasciando le spinte storico-politiche e il gioco con il potere. Si è voluto fare un’opera visionaria, un teatro nella mente di Giovanna, che solo il Macbeth del ’47 riuscirà a far intravedere, e in modo ancora altalenante. L’accesso alla soggettività dei protagonisti dovrà passare attraverso Macbeth, Luisa Miller, Rigoletto, e solo allora il realismo psicologico di Verdi attesterà gli enormi passi compiuti.

  3. Ha ragione, il mio commento ha voluto semplificare un po’ troppo! Grazie per la risposta, che contiene vari spunti interessanti!

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