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di Federico Bertoni

Non amo affatto Michel Houellebecq, mi irrita da morire. Segno forse che è un vero scrittore, perché lo scopo primario della sua scrittura sembra proprio quello di irritare il lettore (e ancor più la lettrice). Ma c’è un dettaglio che mi ha colpito molto in Sottomissione, a parte gli astuti e tendenziosi richiami alla situazione che sta sgretolando il nostro (?) mondo. Qualunque cosa accada, nota a più riprese Houellebecq, l’Amministrazione non ti lascia in pace: ti bracca, ti raggiunge ovunque. Può esserci il panico, la rivoluzione, la guerra civile o lo stato di emergenza, ma a un certo punto torni a casa e trovi una bolletta delle tasse o una multa non pagata. Mi viene anche in mente, su un registro molto diverso, un capitolo esilarante del Pensatore solitario di Ermanno Cavazzoni, in cui si descrivono le peripezie di un ipotetico eremita dei nostri giorni, che prima di potersi dare a una vita di sacrosanta solitudine e ascetiche meditazioni nel deserto dovrebbe fare i conti con Equitalia, il commercialista, la tassa dei rifiuti, l’avvocato dell’ex-moglie e via dicendo.

Figurarsi uno come me, che non pensa (più) a fare il rivoluzionario o l’eremita ma ha un posto ben integrato nel sistema universitario del nostro Paese, e che vorrebbe solo studiare e insegnare in santa pace, pretese ormai velleitarie e antisociali in un mondo che regolamenta anche il dissenso e che pretende di misurare tutto, dal numero di citazioni di un articolo scientifico al tempo quotidiano degli studenti (qualcuno ha mai seriamente riflettuto sul fatto che i Crediti Formativi Universitari, i Cfu, risultano dalla somma tra le ore di “lezione frontale” e le ore di “studio individuale”, come se fosse possibile conteggiarlo e uniformarlo? Perché nessuno ha chiamato la neuro quando una qualche commissione di “saggi” ha escogitato questa trovata?). Mai come in questi casi, del resto, si avverte uno scarto più grottesco tra le parole e le cose, tra procedimenti di definizione e controllo sempre più formalizzati (che poi finiscono nei grafici e nelle percentuali, e soprattutto negli articoli dei giornali) e un’esperienza concreta che svanisce come un rivolo d’acqua tra le crepe dei nostri corpi, le ore di fatica sui libri, i dialoghi con gli studenti, le lezioni preparate con cura, le tesi corrette virgola per virgola, tutta roba troppo umana e volatile per essere contabilizzata dagli indicatori, e che quindi non esiste.

Ecco: per l’Amministrazione noi giochiamo un po’ la parte del piccione nel tiro al piccione. Se avete un’idea generica dell’università, toglietevi dalla testa l’immagine dello scienziato pazzo chiuso in laboratorio o in biblioteca e perfino del barone che veleggia in corridoio con il codazzo di allievi, come il dottor Tersilli. Ecco quello che ti può capitare in una giornata-tipo.

Apri il computer la mattina e commetti l’errore fatale di controllare la posta: trovi l’ennesimo, sempre più minatorio messaggio dell’Area della Ricerca – corredato da un richiamo del direttore del Dipartimento – che ti ricapitola modalità e tempistica della prossima Vqr (Valutazione della Qualità della Ricerca), operazione che dovrai compiere dopo esserti registrato nell’apposita banca dati – che naturalmente sostituisce le precedenti – ed esserti dotato del codice Orcid (questo, giuro, non so cosa significa). La prima cosa che borbotti è: vi supplico, una moratoria sugli acronimi! Poi, con un mezzo sorriso, ricordi quella volta in cui si doveva ribattezzare il dipartimento nato dalla fusione dei due precedenti, in seguito all’applicazione della Legge Gelmini, e uno dei nomi ipotizzati produceva l’acronimo “Ficam” – nell’Italia berlusconiana sarebbe stato un trionfo. Quindi ti muore il sorriso sulle labbra perché sai che queste procedure di valutazione, mascherate dietro la retorica del “merito” e dell’”eccellenza”, servono solo a legittimare i tagli finanziari, condizionano pesantemente la libertà di ricerca, aumentano le sperequazioni tra le varie università (e poi tra le regioni del paese, e infine tra i singoli cittadini, in barba alla Costituzione) e soprattutto fanno tutte queste schifezze senza avere alcuna effettiva attendibilità.

Mezz’ora dopo arriva un messaggio dalla redazione di una rivista, ovviamente di “classe A”, che in quanto tale pratica con zelo fanatico la peer-review: ogni articolo da pubblicare deve passare al vaglio di due esperti che lo giudicano in forma anonima, riportando la valutazione in macchinose schede con criteri tipo “originalità” o “completezza bibliografica” (ma che significa? Che se scrivi – o valuti – un articolo su Proust devi conoscere la bibliografia completa su Proust, per cui non basterebbero due vite?). Qui poi il caso è delicato: devi fare da arbitro tra due giudizi opposti: uno dei revisori pensa che l’articolo sia buono, pubblicabile con pochi emendamenti, mentre l’altro pensa che l’autore sia una capra, lo strapazza con sadica ferocia (ma che t’ha fatto la vita!?) e gli consiglia sprezzantemente di leggersi quattro lustri di riviste specializzate e almeno una trentina di contributi imprescindibili. Fai un gran sospiro, pensi che questi sono pazzi e che anche il ragionevole esercizio della peer-review, ormai sport nazionale degli accademici, ci sta sfuggendo di mano. Ma cosa non si farebbe pur di giocare in serie A?

Un’altra mezz’ora e un altro messaggio dalla redazione di una rivista online, anche questa di classe A: ricordi quel saggio che hai pubblicato due anni fa? Bene, ci serve l’abstract. Ci serve in italiano e in inglese, perché dobbiamo accreditarci presso varie banche dati internazionali. E non dimenticarti le keywords. E poi, scusaci, potresti piantarla di scrivere in italiano? (Questo non lo dicono, ma un po’ me lo immagino). Potresti piantarla di scrivere questi saggi scimmiottando ancora Barthes o Debenedetti? Sei veramente antico. Ormai si scrivono solo papers, con un bell’abstract all’inizio, esposizione chiara della tesi, illustrazione, conclusioni, quod erat demonstrandum. Ti metti al lavoro e intanto pensi a quanto detesti gli abstract, il gergo pseudo-scientifico, i papers di critica letteraria costruiti come pseudo-dimostrazioni di teoremi matematici: “In this paper I will point out…”. E ti dici che in questo mondo uno come Lukács è ormai un marziano, quando descriveva la forma del saggio come un percorso di esplorazione e scoperta, una tensione verso una meta non ricercata, “come Saul, il quale era partito per cercare le asine di suo padre e trovò un regno”.

Il tempo che butti a scrivere l’abstract è fatale. Quando hai finito trovi una colonna di cinque messaggi no-reply di altrettante università in cui lo studente Pinco Pallino ha fatto l’application, segnalandoti come referee per inviare una lettera di presentazione, ovviamente in inglese. Di nuovo chini il capo paziente, vai a spulciare nella cartella del computer in cui hai salvato qualche centinaio di lettere simili, fai un po’ di pastiches e collages e alla fine spedisci, o meglio fai l’upload, dopo avere risposto a varie domande sulla maturità emozionale o sulle capacità di leadership dello studente. Più che altro ti rammarichi di non essere un bravo informatico, perché in tal caso metteresti a punto un software per generare automaticamente lettere di presentazione, ormai lavoro da catena di montaggio, prodotto da industria pesante, immettendo solo nome e cognome dello studente, date, titolo della tesi ecc.

Quando arriva la bozza di un progetto di ricerca del network internazionale in cui non ricordavi di essere stato incluso, 78 pagine fitte fitte (in inglese) con tabelle e citazioni di ranking internazionali per chiedere il finanziamento di un libro e di un paio di convegni, beh, a quel punto scendi al bar sotto casa e ti ubriachi…

Ora, che cos’hanno in comune queste cose, a parte la patetica irrilevanza per il resto del genere umano? Intanto una falsa pretesa di scientificità, come se la crisi dei paradigmi epistemologici in tutti i campi del sapere fosse compensata da un’istanza neopositivista che, in mancanza d’altro, colonizza le pratiche gestionali e organizzative della ricerca. Tutti gli episodi che ho descritto, rigorosamente veri, coniugano un massimo di giudizio soggettivo e inverificabile con un massimo di (finta) oggettività, come se la tragica imperfezione della conoscenza umana potesse essere riscattata dai numeri, dalle percentuali, dai criteri formalizzati o dal gergo anglicizzante (ho appena saputo che d’ora in poi il coordinatore dei progetti di ricerca si chiamerà principal investigator, che è obiettivamente tutta un’altra cosa). Effetto tanto più grottesco, e imbroglio tanto più grande, nell’area dei saperi umanistici, dove la finzione di oggettività è moltiplicata dallo statuto ancora più aleatorio degli strumenti, dei paradigmi e degli stessi oggetti di indagine. Ma possibile che dopo almeno un secolo di slittamenti epistemologici, dubbi sistematici e principi di indeterminazione siamo ancora qui a misurare il sapere con squadra e compasso? E tutto per dimostrare all’Anvur e al ministro di turno che siamo efficienti, produttivi, meritevoli della sacrosanta “quota premiale”?

Il vero problema, infatti, non è tanto epistemologico quanto politico e ideologico. Gli accidenti (in tutti i sensi) della mia vita quotidiana sono minuscoli epifenomeni di un’università che ha seppellito il vecchio modello humboldtiano fondato sul binomio didattica-ricerca e che si è trasformata in una consumer oriented corporation, con un sistema di governo oligarchico e una tecnocrazia capillare che ha avocato a sé i mezzi e i fini, fondata su criteri e parametri come l’immagine, la qualità (nel senso di quality assurance), la competizione, l’attrattività, la soddisfazione del cliente, gli indici di produttività, i premi di produzione e via dicendo. È un sistema di potere miniaturizzato e diffuso, tanto stupido quanto efficace, non riconducibile a singole teste pensanti (?) ma disseminato in una microfisica di pratiche quotidiane di cui siamo al tempo stesso attori, vittime e complici. E come sempre, quanto più piccole e insignificanti sono le pratiche (in fondo che ci vuole a scrivere un abstract o una lettera di raccomandazione?) tanto più lo slittamento è fluido, l’assuefazione inavvertita, l’ottusità interiorizzata come una seconda natura. E intanto la bêtise diventa la forma stessa del nostro pensiero.

Flaubert ce l’ha insegnato – ed è la più grande scoperta del XIX secolo, secondo Milan Kundera. La bêtise non ha dentro né fuori: è mimetica e astuta: si traveste e si contamina con l’intelligenza (la stupidità intelligente descritta da Robert Musil), e dopo un po’ non la riconosciamo più. Sta nel gergo, nella parola d’ordine, nella citazione di seconda mano, nel sapere meccanico e riproducibile, nella regola applicata a testa bassa, nel luogo comune da cui siamo parlati. La bêtise è la parodia del sapere, il suo involucro, la sua scorza esteriore. È la grancassa di chi ostenta la verità e ne fa un’arma di consenso politico e sociale. La sua tattica di base è pervertire le parole, mutarne il senso, farne segni vuoti senza referente (eccellenza, merito, valutazione…), ricodificare un dizionario di luoghi comuni con cui astrarre e semplificare l’infinita complessità del reale, rendendolo duttile, operabile, infinitamente convertibile, manipolabile a volontà secondo gli interessi del momento. Per questo il vero eroe di Madame Bovary è Monsieur Homais, il farmacista, l’unico che alla fine trionfa in questo romanzo feroce che non descrive tanto le disavventure di una romantica delusa (mai luogo comune fu tanto astuto e beffardo, povero Flaubert!), quanto le avventure e il successo travolgente della bêtise borghese, di cui Emma è al tempo stesso vittima e incarnazione. Non a caso, l’ultima parola del libro è per Homais: “Depuis la mort de Bovary, trois médecins se sont succédé à Yonville sans pouvoir y réussir, tant M. Homais les a tout de suite battus en brèche. Il fait une clientèle d’enfer; l’autorité le ménage et l’opinion publique le protège. Il vient de recevoir la croix d’honneur”.

Lo dico con la morte nel cuore, ma se guardo l’università che mi sta intorno la constatazione è inevitabile: il Professor Homais ha vinto. Ha stravinto. Scommetto che il ministero gli conferirà la prossima “quota premiale”.

[Immagine: Charlie Brooker, Black Mirror (gm)].

92 thoughts on “Microfisica della bêtise. Come distruggere l’università e vivere felici

  1. Un articolo davvero eccellente, che fotografa perfettamente lo stato dell’università. Aggiungerei solo che, nella mia esperienza, la situazione in UK è ancora peggiore. (Meno nelle grandi università americane, in quelle medio-basse non so). Ad esempio, e tralasciando l’abuso grottesco degli acronimi (sono stato in UK tre anni e ancora mi chiedo il significato di almeno un centinaio di sigle che vedevo ogni giorno): le ore di ‘studio individuale’ degli studenti devono essere indicate dal docente per ogni corso e la dicitura, nei bandi di concorso, “capacity to enhance customer satisfaction’ (e a quel punto ti chiedi: ma devo fare ricerca o vendere prosciutti? Sono il clown di un circo?) è ormai diffusa e accettata come perfettamente normale. Anzi: la ‘capacità di aumentare la soddisfazione del cliente’, insieme a quella di attrarre fondi esterni (ovvero: lavori non per fare ricerca ma per farti pagare da altre istituzioni lo stipendio che dovrebbe invece darti l’università) sono gli unici criteri per ottenere un posto.
    La domanda a questo punto mi sembra sia: dove è ancora possibile fare ricerca? E ancora: l’università così come la abbiamo sempre pensata è ormai un luogo obsoleto e impensabile? Infine: è possibile cambiare la situazione?

  2. C’è da ripartire da zero, praticamente. Disobbedienza civile alle pratiche VQR. Difendere per lo meno la libertà negli interstizi rimasti. Non farsi abbindolare dagli Anvuriani – ma neanche da certe nostalgie del passato che leggo a volte ad es. sul Manifesto, o certo scientismo un po’ subdolo su roars.it .

  3. Posso usare solo un aggettivo per qualificare l’articolo: magnifico!
    Voglio quindi innazitutto ringraziare l’autore e la redazione che c’hanno fatto questo prezioso regalo.

    Capisco il registro umoristico che rende l’articolo più godibile, ma per chi come me è dentro questo sistema e sta vivendo sulla propria pelle il lungo e profondo processo di trasformazione del mondo universitario, da ridere non c’è davvero nulla.
    Coltivo da tempo il progetto che non so se mai poi attuerò di scrivere un libro, ed il titolo per questa impresa sarebbe “L’uccisione dell’università: peccato, era sopravvissuta per novecento anni”, volendo sottolineare come la generale rivoluzione a cui assistiamo ai nostri giorni in genere in completa inconsapevolezza, ha un riscontro molto importante nel mondo accademico, dove è proprio lo stesso concetto di università che è crollato. Nella sua furia omogeneizzatrice, le potenti lame utilizzate all’uopo hanno già, è inutile farsi illusioni, distrutto un modello preciso che rendeva queste istituzioni uniche come depositarie di attività didattiche e scientifiche sue proprie. Si può insegnare con varie modalità, si può fare ricerca anche con varie e differenti modalità, lo si è sempre fatto, visto che entrambi questi tipi di attività non sono certo mai state confinate al solo ambito acacdemico, ma lì vi era uno statuto suo proprio che ne garantiva una loro specificità.
    Il principio base stava nella libertà di insegnamento e di ricerca, che oggi sembra stranamente essere letto come arbitrio al servizio di persone pigre ed ignoranti.
    Eppure, si trattava di un modello autoconsistente, in quanto riservava il suo buon funzionamento ad un controllo preliminare, cioè alla selezione iniziale, e in corso d’opera a un meccanismo di controllo interno, poco formalizzato, ma in realtà molto efficace perchè basato su meccanismi derivati dalal socialità insita in noi esseri umani e che sta infine a fondamento di ogni possibile convivenza sociale.
    Anche il giudizio “peer to peer” che al collega che ha scritto l’articolo, appare criticabile, secondo me è un meccanismo efficace. A me che lavoro nel campo delle scienze sperimentali, è un meccanismo ben noto perchè da sempre utilizzato dalle riviste scientifiche e che mi permette, devo dire ancora oggi, di esprimere il mio giudizio nella maniera che preferisco e con tutta la franchezza richiesta: direi che oggi queste vestigia sono l’elemento forse più positivo in un panorama complessivamente desolante.
    Oggi, dimenticate l’immagine del ricercatore pazzoide, asociale, sempre sprofondato nei suoi fogli con su scritti simboli di difficle decodificazione, questo tipo di ricercatore, che pure nel passato ha contribuito in maniera determinante allo sviluppo della conoscenza, non ci può più essere, perchè non è la figura del ricercatore che si cerca, ma quella del manager che infesta ormai l’intera società e quindi non risparmia neanche l’università.
    Ciò che bisogna avere chiaro è che manager e ricercatore scientifico sono due figure assolutamente incompatibili tra loro, che un’attività finalizzata al successo, sotto forma innazitutto di finanziamento adeguato e la ricerca che possiede da sè il proprio oggetto d’indagine liberamente scelto, sono cose intrinsecamente incompatibili.
    Farò un unico esempio perchè la avstità dell’argomento richiederebbe ben altro contesto.
    La fonte quasi esclusiva dei finanziamenti pubblici sono ormai i progetti in sede UE. Come sceglie la UE su quale argomento porre i finanziamenti? La commissione UE sceglie alcune linee strategiche facendosele dettare in sostanza dal mondo industriale. Non solo, la UE ha da tempo scelto la strada delle eccellenze, cioè concentra la quasi totalità dei finanziamenti su pochi centri di ricerca e quindi anche su poche università che hanno avuto la ventura di ricevere simile appellativo. C’è il piccolo problema che si dovrebbe stabilire come si ottiene l’eccellenza, ed alla fine si scopre che una scelta politica, e l’altro problema di cosa fare di tutti gli altri ricercatori, che pure ricevono mensilmente il loro stipendio e che si obbliga nei fatti a non svolgere sin in fondo i loro compiti, quelli che pure dovrebbero giustificare il loro stesso rapporto di lavoro.
    Insomma, all’università si subisce l’onda distruttrice di una feroce competitività ormai fine a sè stessa e l’onda privatizzatrice, avendo messo università rigorosamente pubbliche al solo ed esclusivo servizo di interessi privati.

    Il male è lo stesso di ciò che osserviamo nel resto della società, ma qui ha un suo specifico effetto particolarmente dannoso, tanto che tra la situazione che è andata avanti per quasi un millennio e quella attuale, è rimasto l’esilissimo legame del nome in comune, nulla di più.

  4. Bravo Federico Bertoni. Bel pezzo tragicomico. Sono d’accordo con Giovanni Scotto: non rinunciamo all’intelligenza.

  5. neo positivismo: e pensare che, di tutto l’ottocento, il positivismo era la cosa più esecrabile!

  6. Molte grazie, Federico Bertoni. Il suo articolo riesce a far sorridere su una situazione disastrosa.
    Se dovessi descrivere lo stato attuale dell’università mi verrebbero in mente soltanto le famose parole di Apocalypse Now: l’orrore, l’orrore!
    Homais a stravinto, ha ragione Bertoni. Come avevano previsto anche Fruttero e Lucentini, descrivendo la società di massa, in un articolo raccolto in “La prevalenza del cretino”, Homais ha proprio vinto. In cima alla gerarchia universitaria non ci sono i decani, ma un olimpo di divinità di Cfu (ICTS o altri nomi). Chi vive, nei vari modi possibili, l’università, è costretto a bruciare incenso sugli altari di questi dei. Quindi, docenti e studenti, chi più chi meno, è costretto a comportarsi da cretino, è costretto ad acconsentire alle leggi di Homais, proprio nel luogo in cui si dovrebbe cercare di evitare di pensare come Homais.
    Mi associo a chi tenta di non rinunciare all’intelligenza.
    Come si può non rinunciare? Per esempio, chi si occupa di critica testuale cerchi di non smettere di sforzarsi di “applicare il buon senso” nelle proprie ricerche (con “applicare il buon senso” mi riferisco ad un noto articolo di A. E. Housman, datato ma ancora del tutto valido, “The Application of Thought to Textual Criticism”: http://rosetta.reltech.org/TC/extras/Housman-Thought.html).
    Ringrazio anche i commentatori di questo post per le loro opinioni arricchenti e per le loro proposte.

  7. articolo liberatorio! grazie! :) stavo appunto riflettendo su questi temi proprio adesso fra me e me! e comunque vorrei aggiungere che tutto quello che vi è descritto non riguarda solo la vita universitaria, dove è terribile, ovvio, ma la vita di noi tutti, ormai e purtroppo… “che si è trasformata in una consumer oriented corporation, con un sistema di governo oligarchico e una tecnocrazia capillare che ha avocato a sé i mezzi e i fini, fondata su criteri e parametri come l’immagine, la qualità (nel senso di quality assurance), la competizione, l’attrattività, la soddisfazione del cliente, gli indici di produttività, i premi di produzione e via dicendo. È un sistema di potere miniaturizzato e diffuso, tanto stupido quanto efficace, non riconducibile a singole teste pensanti (?) ma disseminato in una microfisica di pratiche quotidiane di cui siamo al tempo stesso attori, vittime e complici.”

  8. “ 16 giugno 1994 – Le Sise sono due: c’è la Società italiana di Scienza dell’Alimentazione (S. I. S. A.) e la Società Italiana per lo Studio dell’Arteriosclerosi (S. I. S. A.). Beati gli scienziati. “.

  9. Al contrario di altri lettori ho trovato questo intervento triste, scoraggiante e persino un po’ offensivo.

    Capisco le ragioni di chi scrive ma non c’è nulla di divertente né di particolarmente edificante nel mettere in scena un professore universitario che si lamenta di dover scrivere e leggere in inglese, di dover aiutare i propri studenti, di dover collaborare con le altre università del mondo. Si rischia, in questo modo, di produrre l’effetto contrario di quello che si vorrebbe ottenere.

    Ripeto: capisco il fastidio, ma agli occhi di un lettore non universitario, questo intervento è incomprensibile. Come giustificare l’attitudine di chi pur godendo del privilegio immenso di avere un posto di lavoro a vita si lamenta pubblicamente dell’obbligo di dover rendere conto del proprio operato. Perché mai dovrebbe essere normale essere pagati con denaro pubblico per limitarsi a leggere e a scrivere quando si vuole? E perché mai lo Stato dovrebbe pagare delle prebende e dei vitalizi a chi pretende di insegnare alla popolazione e non sa scrivere in inglese, non ha è mai uscito dalla propria città e fa fatica a dire chiaramente e brevemente quello che pensa e quello che vuole? Cosa c’è di male nel voler internazionalizzare la ricerca o nel pretendere da chi la fa la capacità di enumerare chiaramente e brevemente i risultati raggiunti? Perché mai dover dare fiducia a presunti sapienti che continuano a ripetere che in realtà quello che vogliono dire è troppo complicato per essere riassunto in due frasi e che il loro sapere non serve a niente? E quante volte, poi, critici letterari, filosofi, storici hanno usato un jargon insopportabile incomprensibile? Quanto gergo, quante parole in libertà, quante supercazzole ha promosso e coltivato la tolleranza stilistica che era concessa al professore universitario medio?

    Il problema non sono i geni, i giganti, il problema è la media, che però rappresenta la verta identità dell’università italiana. Mi spiace, ma l’obbligo di valutazione e di produzione è l’unico strumento utile (anche se per ora imperfetto) per combattere quello che ha distrutto l’università italiana: le mafie, i potentati locali e le centinaia di bradipi che hanno vivacchiato per decenni pubblicando un saggio ogni trent’anni, passando il tempo in altre città o in altre nazioni, bevendo caffè, giocando a ramino, frequentando le biblioteche (e le facoltà) una volta all’anno, e dalle dieci alle undici. Quando l’ho frequentata da studente, l’università italiana era popolata da questa fauna.

    Il rischio è quello di combattere una battaglia già persa. Quanto questo tipo di interventi comunica è, soprattutto, un senso di profondo risentimento. I docenti universitari hanno goduto per decenni di un prestigio culturale e sociale e di tutti i privilegi che ne conseguivano) che oggi non hanno più ragione di essere, perché il mondo che li sorreggeva è ormai finito e fortunatamente finito. Rifiutarsi di accettare che la forma di circolazione delle conoscenze è cambiata e che questo cambiamento ha molti vantaggi, continuare a usare argomenti critici costruiti due secoli fa’, per un mondo che non esiste più, difendere un’idea di intellettuale che parla di cose oscure in modo oscuro significa solo, agli occhi del mondo, risuscitare il mito dell’azzeccagarbugli. E questo è, credo, quello che nessuno di noi, tanto meno l’autore dell’intervento, vuole fare.

    Il mondo è cambiato profondamente, è normale che l’università provi ad adeguarsi. Ed è altrettanto ovvio che ci siano ancora molti elementi da correggere ed aggiustare. È ridicolo prendersela contro l’ingiunzione a parlare la lingua del mondo accademico internazionale e ad aprirsi a quello che esiste al di là dalle mura del proprio villaggio.

    L’università è potuta nascere nel medioevo e ha potuto adottare una prospettiva universalistica solo perché ha imposto l’uso di una lingua veicolare internazionale, il latino, che ha reso possibile l’immediata diffusione internazionale del sapere e soprattutto la massiccia circolazione di idee, studenti e professori. L’inglese è, molto banalmente, il latino di oggi. Che senso ha combattere qualcosa che è iscritto nel DNA dell’università sin dalle sue origini? E cosa c’è di male nel pretendere che la scienza parli una lingua compresa da tutti?

    Infine: non ho letto da nessuna parte il divieto esplicito di scrivere saggi come Lukacs. E non ho mai sentito parlare di casi di studiosi la cui carriera sia stata interrotta o danneggiata dal fatto di aver scritto saggi à la Lukacs. Perché usare il registro dei giornali scandalistici quando si parla dell’istituzione per cui si lavora e che tutti noi amiamo? Perché lanciare accuse a caso?

  10. @Emanuele Coccia (e a Federico Bertoni):

    Anche io ho provato un moto di irritazione, leggendo l’articolo di Federico Bertoni. Innanzitutto perché quello che Bertoni racconta è tutto vero. E, a proposito, vorrei dire a Emanuele Coccia che ho visto GRAFICI per illustrare la tratta dei revisori; e poi ho visto anche quanto siano inutili, dato che spesso il revisore sa di chi è il testo che sta leggendo (e no, non è un’accusa a caso: mi creda). Li ho giudicati esplicitamente una follia e sono stato linciato per questo.
    Mi sono sentito dire che un mio saggio non va bene, perché l’introduzione è scritta in modo «troppo italiano», cioè appunto senza «I will point out» e l’abstract all’inizio. Quindi ecco, anche su questo, sappia che è un dato di realtà e non un’accusa a caso. Lukacs oggi non avrebbe speranze (ma neanche Auerbach: non c’è mica l’abstract! E poi tutte le argomentazioni sono disordinate, non seguono nessuno dei criteri delle riviste accademiche di fascia A).

    Altre cose non posso dirle perché non sono Federico Bertoni, che in fondo può rifiutarsi di farle: può anche rifiutare di fare il principal investigator per qualche povero disperato che tenta di andare all’estero e gli ha chiesto aiuto. Se io e quelli della mia età rinunciamo a queste cose, rinunciamo a quell’1% di possibilità lavorative che abbiamo. Ma no, non credo che tutto questo aiuti l’internazionalizzazione della ricerca. Per quel che ho visto, serve solo a modificare e aggiornare strumenti per esercitare potere in modo del tutto arbitrario.

    Questa è solo una testimonianza anonima, vale in quanto tale. Ma è vera.

  11. Grazie! Il processo inizia dalla primaria e continua alle superiori. Siamo prigionieri del doppio vincolo di Bateson e, in un panorama schizoide, dobbiamo giustificare quotidianamente l’inaccettabile. Nulla salus extra ecclesiam?
    Di mestiere faccio il Dirigente Scolastico ..

  12. Interessante articolo, ma… per me in qualche modo sbaglia. Sbaglia perché sembra volersi arroccare in una concezione romantica di accademia, bei tempi andati in cui si poteva fare didattica libera e ricerca libera eccetera eccetera. L’università sta cambiando, e non per forza la direzione che sta prendendo piace anche a me. Non mi piacciono gli anglicismi messi lì tanto per far scena, non mi piace il riportar tutto ad un’idea nemmeno tanto chiara di efficienza e “imprenditorialità”, eccetera.

    Però… però altri aspetti sì, mi piacciono. Per esempio: se lo scopo è quello di far ricerca, la si faccia e la si pubblichi, e – piaccia o no – l’inglese serve, perché è il modo più rapido per raggiungere tutti. Poi: gli studiosi di lettere devono iniziare a capire che, per sopravvivere, non possono più permettersi di scrivere solo saggi critici – magari in italiano. Per quanto anche potenzialmente illuminanti (e in tal senso, per quanto mi riguarda, più che degni d’essere tenuti in considerazione) si tratta di lavori con una bassa ‘spendibilità’. Se poi il discorso si risolve in “commento critico del poeta misconosciuto X”, diventa ancora più difficile motivare il suo valore – e io stesso faccio più fatica a vederlo.

    L’introduzione di un certo qual “metodo scientifico” non è più un’opzione. È il modo più rapido per ottenere applicabilità della ricerca ad ambiti contemporanei, e quindi non morire per carenza di fondi. Esiste la linguistica che si lega con le neuroscienze, esistono sicuramente tanti altri rami. Bisogna un po’ darsi una mossa, altrimenti davvero le “humanities” chiuderanno. Indipendentemente dal fatto che i loro studiosi scrivano accorati appelli dalla loro bella turris eburnea.

    Ah, per inciso, qui non ho citato i docenti (e ce ne sono) che di pubblicazioni di ricerca hanno *zero*. Sono come insegnanti di liceo che, però, insegnano all’università. Eh, capirai.

  13. Grazie. Articolo bellissimo e vero in ogni sua parte. Ve lo dice un addottorato che ogni giorno si confronta con questa follia, con le peer review di persone che hanno letto il tuo saggio in cinque minuti, perché avevano altro da fare (e li capisco), con le domande di borse sempre false, modellate sulle attese neopositivistiche, economicistiche di chi ti giudicherà senza sapere nulla di quello che giudica.

  14. Aggiunta: anche la mia è una testimonianza anonima. E non può essere diversamente. Uno nella mia posizione non può criticare questo sistema con nome e cognome. Mi farebbero fuori in due minuti.

  15. Grazie per questo articolo, dispiace solo che qualcuno non arrivi a capire che la montagna di parole inglesi non è esecrabile di per sé, ma in quanto è la copertura fashion del degrado sostanziale delle cose di cui una Università dovrebbe occuparsi: insegnamento e ricerca.
    Sarebbe ora però di cominciare a immaginare qualche forma di resistenza seria: se non per noi, per i nostri figli.

  16. Applausi mesti. A scuola, diversamente che all’università, ancora c’è qualche sacca di inefficienza in cui riusciamo a lavorare decentemente. Solo che qualcuno, specie dall’interno, grida che è una sacca d’inefficienza, e presto pialleranno anche quella e noi con essa.
    Il livello di nevrastenia raggiunto e raggiungibile in futuro è sempre più alto.
    E c’è pure chi fa ironia sulle nostalgie romantiche.
    Solidarietà, caro Bertoni, solidarietà mesta (o disperata?), e grazie, per quel che vale.

  17. Ah. Complimenti a Simonetti per l’immagine di copertina. Sto cercando un aggettivo per definirla e mi vengono in mente solo superlativi enfatici.

  18. Io sono un lettore NON universitario. Faccio parte di quel mondo che ormai tanti (troppi) vagheggiano come il definitivo Eldorado: l’impresa privata, competitiva, che deve “stare dove sta il mercato”, dove si parla inglese anche per dire che si deve andare in bagno e dove ci si deve districare giornalmente in una selva di acronimi (di parole inglesi, of course). Un mondo che secondo qualche noto personaggio è costituito dagli eroi del nostro tempo. Un mondo sempre più blandito dai politici (non importa di quale collocazione), da qualche educatore “up-to-date” (di scuole superiori o di università) perché è lì che si deve andare, perché bisogna essere con le imprese e per le imprese (specialmente private)…
    Faccio questa premessa perché mi pare che tutto questo discorso giri poi attorno alla solita questione, oggi molto di moda, di bollare compulsivamente come vecchio e inadeguato tutto ciò che non è aziendalismo e rifiuta di piegarsi alla cosiddetta (in)cultura d’impresa – che non è altro che un modo diverso per declinare l’idea di una società militarizzata, dove morire comunque si deve, ma per il profitto e non per la patria. Mi sembrano due mondi (università vs. impresa) francamente molto distanti. La questione dell’inglese come lingua franca comunque ritengo sia marginale (le cosiddette scienze dure parlano da molti anni ormai solo in inglese) di fronte a questa sfida costituita dalla mercificazione – e dalle sue logiche coercitive – del lavoro accademico.

  19. @U. L.

    Nessuno mette in dubbio la verità della sua testimonianza. Ma non è la sola. E accanto alla sua ci sono decine e decine di casi in cui l’introduzione del Peer Review ha permesso, da decenni, l’innalzamento oggettivo della qualità media degli articoli.

    Più generalmente è difficile negare che sia un progresso il fatto che il criterio ultimo per esser pubblicati sia l’analisi di due lettori che per quanto possano essere frettolosi, almeno provano a formulare argomenti oggettivi, piuttosto che il fatto di essere allievo, amico, amante, figlio o cugino del direttore della rivista o di suo figlio, del suo allievo, del suo amico, della sua amante, o di suo cugino.
    In tutto il mondo le riviste funzionano così da decenni e non mi sembra che siano peggiori di quelle italiane.

    Sul resto, capisco che l’invito a cambiare il proprio stile e a dichiarare scopi e risultati in modo chiaro possa ferire il narcisismo e l’idea che le proprie parole siano immodificabili perché et verborum ordo mysterium est, ma mi riesce difficile capire perché dovrei considerarlo come un fatto scandaloso o come una causa del decadimento della vita universitaria. E poi cambiare la situazione è molto semplice: basta creare una rivista di fascia A che provi a diffondere nuovi criteri stilistici. Mi sembra che sia molto più importante, sano e concreto provare a inventarsi cose di questo tipo che fare satira o lamentarsi come dei disperati.

    Sulla presunta ‘impossibilità’ di un Lukacs oggi, le ricordo solo che proprio uno dei fondatori di questo sito ha scritto uno libro magistrale anche perché molto lukacsiano e che da Lukacs ha preso persino il titolo, un libro che è stato pubblicato da una casa editrice molto prestigiosa e molto ‘accademica’, ed è stato letto, recepito e accolto con entusiasmo in moltissime università, in Italia, in Europa, negli Stati Uniti.
    Viceversa ci sono nel passato stati autori di libri à la Auerbach o à la Lukacs che hanno fatto molta fatica ad entrare all’università negli anni ottanta e novanta (il caso più conosciuto in filosofia è quello di Agamben) perché l’unico modo per farlo era essere amico, amante, cugino, fratello o allievo di uno dei tanti magnati che gestiva il mercato accademico. I problemi spesso sono molto più antichi e molto più complessi degli effetti dell’ultima riforma governativa.

  20. “Figurarsi uno come me, che non pensa (più) a fare il rivoluzionario o l’eremita ma ha un posto ben integrato nel sistema universitario del nostro Paese, e che vorrebbe solo studiare e insegnare in santa pace.”
    Così l’ottativo di Federico Bertoni. Sennonché la vita soddisfatta, nel capitalismo, non è mai esente dal filisteismo e dalla volgarità, anche quando (e forse soprattutto quando) si esprime come insoddisfatta aspirazione ad una vita soddisfatta. Perciò, non vedo una grande differenza tra le molteplici reincarnazioni dell’ottuso positivismo del farmacista Homais ed una variante piccolo-borghese e post-moderna dell’utopia pickwickiana, che mi sembra costituire lo sbocco più naturale, oserei dire eupeptico, del modesto ‘cahier de doléances’, qui esposto con accademica sprezzatura, circa la destruttturazione neoliberista dell’università, circa il vittimismo imbelle di chi la subisce, nonché circa l’insipienza e l’eterocefalia di chi la governa. Preciso che queste mie glosse hanno un carattere metacritico, quindi non sono rivolte alla descrizione della “bestia trionfante”, che Bertoni ci fornisce e che posso in parte anche condividere, ma alla postura da disforico integrato che egli non si è peritato di assumere. Signori, se non vogliamo restare nel cerchio magico della microfisica della ‘bêtise’ (e nella gabbia di acciaio della macrofisica del plusvalore), cambiamo allora la scala dell’analisi e dell’intervento e torniamo a parlare dei rapporti di proprietà e della via da seguire per rovesciarli!

  21. Scusate se ho tardato a rispondere, ma ero rimasto bloccato nella mia turris eburnea senza connessione internet. Il tono dell’articolo è volutamente umoristico, un po’ paradossale e provocatorio, e inviterei a non prendere troppo sul serio le battute. Sciocchezze a parte (in effetti c’è poco da ridere), ringrazio dei commenti e dei moltissimi “mi piace”. Ringrazio anche gli autori di commenti negativi o critici, che mi permettono di precisare alcune cose di fondo, al di là dei dettagli su cui sarebbe troppo complicato insistere (se non dicendo che gli episodi descritti in modo caricaturale valgono come sintomo: sono tutti esempi di potenziali “buone pratiche”, a partire dalla peer review, applicate in modo miope, distorto e spesso ideologicamente orientato). Tengo a dire soprattutto che non rimpiango affatto la “vecchia” università, anche perché non saprei bene cosa rimpiangere (ho iniziato a insegnare quando è entrata in vigore la riforma del 3+2). So invece molto bene cosa non mi piace in “questa” università, effetto di un progetto politico classista, reazionario e stolidamente economicista, che sgretola in modo più o meno esplicito almeno tre articoli della Costituzione (3, 33 e 34). Nulla a che fare con quello che dovrebbe essere, secondo me, un luogo di elaborazione e trasmissione della conoscenza, del sapere critico e anche del dissenso, luogo che non sta in un passato più o meno “romantico” ma in un progetto politico alternativo che dovremmo volere e perseguire nel presente (già, ecco il nome: utopia), provando ad essere, possibilmente, più dei soliti dieci o quindici sfigati. Il mio problema non è leggere e scrivere quando voglio. E se mi lamento delle lettere di presentazione non è ovviamente per il fatto di aiutare gli studenti, ma per l’ennesimo sistema potenzialmente virtuoso che sta diventando meccanico e autoreferenziale, e di cui loro sono le prime vittime. Quello che vorrei far capire, e che molti insegnanti di ogni ordine e grado potrebbero condividere, è che la deriva tecnocratica e aziendalista ostacola proprio gli obiettivi primari per cui veniamo pagati con denaro pubblico: studiare con intelligenza e passione, far progredire la conoscenza e condividerla con gli studenti. Tutto il resto sono chiacchiere, e soprattutto armi improprie. Agli ideologi e ai tecnocrati della valutazione non importa assolutamente nulla che un docente sia capace e apprezzato dai suoi studenti. Conta solo esibire numeri, parametri e indicatori astratti, facendone uno strumento di governo e di ripartizione dei finanziamenti. Conta solo il contenitore, non il contenuto. La riprova è che la didattica, nelle procedure di valutazione, ha un peso pressoché inesistente, con il risultato che docenti e ricercatori saranno sempre più indotti a sottovalutare l’insegnamento e a pubblicare furiosamente (solo su riviste di Classe A, tra le quali – parlo per il mio settore – mancano alcune delle più importanti riviste internazionali, elemento che basterebbe da solo a screditare tutta la baracca). Spiace anche a me, ma “l’obbligo di valutazione e di produzione” non sta affatto combattendo mafie, potentati locali e poveri bradipi intontiti: sta diventando un ulteriore strumento di potere, usato in una logica di rapporti di forza sempre più spietati. Quando combattevamo (inutilmente) la Legge Gelmini, uno dei paralogismi più in voga era questo: siete contrari a questa legge? Bene, allora volete difendere la vecchia università dei baroni e dei privilegi. E noi a sgolarci che quella legge, presentata genialmente come “riforma antibaronale” (chapeau!), in realtà concentrava il potere al vertice e rendeva i baroni molto, ma molto più potenti. E così il potere di ricatto è aumentato, il dissenso criminalizzato, la libertà di espressione una velleità narcisista di poche schegge impazzite (in questo mi sento davvero un privilegiato, come confermano drammaticamente le testimonianze dei commentatori anonimi). Qualcuno si è accorto che i movimenti studenteschi sono pressoché scomparsi o ridotti a piccole frange residuali, sempre più frammentate e litigiose? Ma questa è un’altra storia, molto più grave, che riguarda la coscienza politica di tutto il Paese. Sull’inglese non commento, se non con un apprezzamento particolare all’intervento geniale di “PhD”, anche perché ho scritto davvero troppo. Good night, and good luck…

  22. Un Titolato Universitario contribuì ad una conferenza nel mondo della scuola nei primi anni 2000, sostenendo la tesi, condivisa da gran parte del mondo accademico, che questa società sarebbe passata alla storia come La Società della Conoscenza. Timidamente intervenni sostenendo che questa Società sarebbe passata alla Storia come Società del Troppo.
    Intravedo ora un ‘postulato’: ‘La Società della Troppa Conoscenza’.

  23. Bravo Coccia, sottoscrivo ogni parola del suo commento.
    Aggiungo solo due cose.
    1) Finché intellettuali, studiosi e docenti di ogni ordine e grado disprezzeranno l’amministrazine della vita quotidiana si condanneranno a essere degli alienati, e a rafforzare l’ingiustizia sociale che condannano nelle loro rivoluzioni di carta.
    2) “La clarté est la bonne foi des philosophes [e di ogni studioso]” (Vauvenargues).

  24. Io proprio non capisco come si possa sostenere a mente lucida che il pezzo di Bertoni sia frutto di un arroccamento narcisistico, o dipenda dalla volontà di difendere a oltranza privilegi indifendibili. Le cose che scrive Eros Barone posso ancora capirle, se non condividerle. Ma il disprezzo dell’amministrazione della vita quotidiana (?) (con tanto di accigliato richiamo alla clarté), suvvia, non c’è in nessun modo.

  25. @Coccia
    Concordo con il suo commento, ma faccio fatica a vedere un Agamben che scrive abstract, usa “I wil point out”, e descrive l’impatto della sua ricerca in termini quantitativi, magari con una timeline delle scoperte/illuminazioni attese nei prossimi 36 mesi….

  26. @Beppe

    Giusto. E già che ci siamo ricordiamoci anche che Agamben scrive da qualche anno, non senza qualche orgoglio mi pare, sui risvolti di copertina dei suoi libri: “si è dimesso dall’insegnamento nell’università italiana”.

  27. Sottoscrivo ogni parola dell’articolo; ormai si impiega più tempo a quantificare i prodotti della ricerca che a fare ricerca (VQR, CVR etc). In oltre, della didattica non interessa niente a nessuno visto che le progressioni di carriere ed assunzioni si basano sulla valutazione della ricerca, senza chiedere nulla sull’attività didattica

  28. @Piras
    Grazie, e grazie per la bellissima citazione di Vauvenargues.

    @Beppe @Francucci @Bertoni
    Il mondo in cui Agamben si è formato non esiste più. La frattura culturale che ci separa dagli attuali sessantenni o settantenni è enorme e non ha senso volerla ricucire.

    Una studiosa o uno studioso di trent’anni oggi che lavora o vorrebbe lavorare all’università di solito ha già studiato e lavorato in almeno quattro paesi su almeno due continenti, scritto e pubblicato libri e/o articoli in almeno tre lingue, partecipato a un numero impensabile di convegni internazionali. E normalmente queste persone hanno pubblicato tre o quattro volte di più dei professori di prima fascia attuali.

    Questa generazione non ha nessun problema a scrivere “I will point out”. Questi sono i nuovi costumi, che lo si voglia o meno: il desiderio di essere chiari e brevi, di pubblicare su riviste che praticano il peer review, scrivere in inglese, partecipare a progetti internazionali, è per loro qualcosa di ovvio e istintivo.

    Questa è la realtà; la si può accettare o meno, ma esistono centinaia di colleghi di questo tipo, ovunque, che lavorano o vorrebbero lavorare all’università. Ed è un fatto che l’università di domani e dopodomani appartiene e apparterrà a loro.

    Di fronte a questa realtà il discorso di Bertoni rischia di suonare come reazionario semplicemente perché presenta i costumi e le abitudini di questi studiosi e colleghi come esigenze di un Grande Fratello. E non capisco come si possa a mente lucida condannare queste persone come inadeguate o ‘nemici’

  29. @Emanuele Coccia
    Non vedo, nell’articolo, nessuna traccia di ostilità nei confronti degli studiosi trentenni che scrivono “i will point out”, non mi pare questo il punto. E’ la seconda e ultima volta che intervengo per “interpretare” quanto ha scritto Bertoni; continuerà lui se ne ha voglia.
    Per parte mia posso affermare, basandomi sull’esperienza diretta proprio come lei, che molti studiosi men che trentenni (sto parlando in prevalenza di cosiddetti italianisti) non percepiscono come ovvio e istintivo né scrivere abstract in inglese né usare “i will point out”, e rimangono increduli e infastiditi quanto me di fronte, ad esempio, alle schede per le lettere di presentazione inviate dagli atenei statunitensi per i loro Phd, nelle quali si chiede di specificare se il candidato X è nell’1% degli studenti migliori dell’università di provenienza, o nel 5%, o nel 10% e via dicendo; e viene richiesto non tanto un profilo onesto e accurato del candidato, quanto piuttosto il motivo per cui, a giudizio del docente, saprà svolgere il suo lavoro in modo fantastico e meglio di chiunque altro, rivelandosi vincente e performativo oltre ogni dire. No, non tutti sono stati assimilati e plasmati, non ancora. Spero non vorrà considerare tutti costoro come inadeguati o nemici.
    Per ciò che riguarda l’iperpubblicazione, io sono ancora sulla linea di quella lì che di sé diceva: ha scritto poco, vorrebbe aver scritto di meno.

  30. @cassie ramone
    E’ Cristina Campo. Questa frase è l’unica che sottoscrivo pienamente della sua opera :-)

  31. @Coccia

    Se è così come lo descrive, non ci vedo nulla di male, anzi lo auspico di tutto cuore. Sarebbe salutare anche nei confronti di un eccesso di supercazzola e oscurantismo linguistico che mi sembrano dilaganti OGGI nel panorama filosofico e intellettuale nostrano, almeno a livello pubblico, pieno di Zizek, Lacan, Negri e via dicendo.

  32. Condivido pienamente l’analisi di Federico Bertoni; l’ansia ingenerata dalle varie richieste assurde, con la conseguente sensazione dolorosa di non essere più all’altezza del “nuovo”, hanno contribuito a farmi scegliere la strada delle dimissioni (due anni fa). Ma giovane non sono e non ero, e ho pensato – credo in parte a ragione – di essere invecchiata e che i giovani si sarebbero raccapezzati meglio di me. La mia era una, forse presuntuosa, sensazione di solitudine ideologica (in senso lato).
    Citerei Houellebecq anche per un’altra ragione: nel suo romanzo si assiste, in definitiva, alla capacità plastica della media borghesia (fra questi gli accademici) di adattarsi a una (forse blanda) dittatura.
    Vorrei anche aggiungere che questo sistema impazzito ha ingenerato fretta (con la necessità di obliare con altrettanta rapidità), scortesia e aggressività. Non ho mai avuto i comportamenti di una “baronessa”, ma negli ultimi tempi gli studenti, che puntavano i piedi per essere promossi o laureati pur che fosse, erano in continuo aumento; e ci si mettevano pure i genitori.
    Ultima cosa, i concorsi, che non hanno introdotto nessun correttivo deontologico e che perpetuano l’endogamia (almeno secondo la mia esperienza).

  33. Ci tengo a sottolineare il fatto che chi scrive ha avuto in qualche modo la possibilità di formarsi in modo decente; io, che oggi frequento l’università, mi sento quotidianamente preso in giro. I maggiormente danneggiati sono gli studenti, e di conseguenza i loro futuri studenti, ovvero la collettività. Ecco, volevo ricordare che non si tratta di una questione privata.

  34. Qualcuno tiene conto anche di un altro fattore, e cioè che stiamo parlando dell’Università di massa?

  35. Grazie Prof Bertone il suo articolo mi ha alleggerito l animo oppresso dalla betise della sanità coniugata con la bete dei suoi direttori e direttorini delle sue procedure che uccidono il lavoro e il valore dell uomo e il rispetto della sua sofferenza. Provo simpatia per l attitudine fiduciosa del Sig Coccia a vedere il buono in tale sistema ma non dovrebbe scambiare per nostalgia uno sguardo attento verso la dimensione della storia che talora l aver qualche anno in piu consente , ( non per ragioni anagrafiche ma biografiche, per aver vissuto gli anni della formazione in un tempo altro da quello di oggi che regalava ai giovani passioni, valori e futuro ) senza essere necessariamente depasse, e banalizzare una attenzione per le implicazioni antropologiche che nei contesti quali l Università la sanità la scuola ecc. stanno prepotentemente ponendo domande, grazie alle quali ogni mattina io e qualcun altro scegliamo scomodamente di non essere zombies.
    Vorrei incontrare anche lei in questo circolo.

  36. Grazie per questo articolo. Spiega anche molto bene perché una parte della critica migliore si faccia ormai fuori dalle orbite accademiche. La vittoria di Monsieur Homais mi ricorda molto quella di Don Abbondio di cui parlava Sciascia.

  37. Università di massa dovrebbe comportare la condivisione delle idee con molti non la compressione delle stesse, portando il cervello all’ammasso.

  38. Caro Brogi, l’Universita’ di massa va organizzata, amministrata, governata… e se non sanno farlo coloro che ci lavorano dentro, in cosa possono sperare gli studenti? Francamente dall’esterno sembra piuttosto sconcertante che i docenti universitari si siano resi vittime del sistema.

  39. Personalmente, dal mezzo delle rovine dell’Università francese, non posso che condividere, arcicondividere e potrei molto aggiungere nel registro dell’osceno. Ma sorge spontanea una domanda: se le reazioni di chi trova che tutto questo “è la realtà piaccia o non piaccia” (ebbene, dico io, questa cosiddetta realtà non solo non mi piace ma mi fa schifo mi rivolta e la considero un pervertimento assoluto di quello che vorrei fosse l’università, reazionario o no me ne impippo) sono, come sembrerebbe su questo forum, minoritarie, come mai gli altri si accontentano di applaudire? Come mai non si cerca di passare a una forma di reazione prima di essere annichiliti del tutto? Atomismo, individualismo etc, ma come è possibile che tutta questa indignazione di fatto collettiva non emerga? A meno che, in effetti, la “realtà” non piaccia invece ai più, e invece questo forum non rappresenti una minoranza, una piccola e sconfitta minoranza, che non osa più neanche aprire bocca se non al riparo dei “social” (altra splendida invenzione di questa “realtà”)

  40. L’articolo di Federico Bertoni è eccellente, anche se l’affermazione non stupirà troppo chi lo conosce.
    Per quanto mi riguarda, il suo ritratto dell’attuale realtà universitaria avrebbe potuto essere anche assai più nero e affumicato.
    Mi sento tuttavia di (tentare di) esprimere un dubbio. Se si parla di uccisione dell’università humboldtiana (quella peraltro dei “professori culi di pietra” già detestata da Nietzsche, se mal non ricordo), e si dipinge – non ripeterò quanto giustamente – al nero l’assassino, il discorso implica – il fascino della vittima? – che tale università fosse ottima e addirittura “naturale” (dopotutto aveva novecento anni, perbacco!), mentre, ovviamente, era un Maelstrom di difetti ed era innaturalissima, tanto quanto può esserlo, la più culturale delle istituzioni.
    Lontanissimo quanto più non si potrebbe da ogni apologia e da ogni anche pallido giustificazionismo degli assassini, suppongo che tale università trovò la sua giustificazione nel fatto che, seppe, in modalità che immaginiamo diversissime (note agli storici dell’università), volta a volta coniugarsi con un mondo specifico, dal Medio Evo alla metà del Novecento.
    Tale istituzione, ricca di difetti almeno quanto di pregi (ma non credo che sia necessaria una profondissima conoscenza dell’uomo, per ipotizzare una larga prevalenza dei primi), ora, in quanto tale è morta: per quanto riguarda quanto meno la sua parte umanistica, ne sopravvive solo uno strano guscio istituzional-finanziario che nulla ha a che vedere con quel che vi accade dentro.
    Temo che tale morte, avvenuta peraltro già da più dei fatidici tre giorni di Lazzaro, tragga origine da cause che superano gli istericamente attivissimi e spesso insopportabili Homais di parecchi parsec. Mirabile dunque resta il ritratto bertoniano della giornata tipo del professore (del fu-professore, ora come chiamarlo?): i vilain restano vilain, beninteso, ma temo che la trasformazione del mondo sia la principale responsabile di cotanto omicidio.
    Eppure, se si potessero rinchiudere gli Homais in un loro giardinetto recintato, nei quali lasciarli ai loro balocchi VQR (seguono mille altre sigle), temo che il cadavere dell’università assassinata saprebbe muover nel mio seno forse più sollievo che rimpianti (il sollievo vincerebbe comunque ai punti, pugilisticamente parlando).
    Del resto, com’è noto, la be^tise non è mai nell’altro, nonostante le guerre dei romantici: il filisteo è parte di noi, che, a questo punto, per baudelaireggiare in allegria, potremmo pure albergare, tra aracnoide e bozzo metafisico, il cosiddetto “genio”, ovvero quel poverissimo e nevrotico cristo che cerca di lasciarsi dietro (con risultati spesso miserrimi) la sua be^te, in serate molto ma molto men divertenti di quelle dei romantici, anche se, hélas, più veridiche, in cui il combattimento è intrapsichico e non intersoggettivo.

    Per Beppe: Lacan nella “supercazzola”? E poi qualcuno dice che i nuovi media non son divertenti?

  41. “ Sabato 14 novembre 1998 – Ieri ho visto un giovanotto precocemente canuto, con tutta l’aria di uno che insegna all’università, che parlava con uno che aveva tutta l’aria di essere un suo collega dell’università di cose che avevano tutta l’aria di essere cose dell’università. Quello che ho notato è che aveva una bellissima giacca blu, di un blu particolare, di una stoffa particolare che non saprei descrivere, ma che ho riconosciuto subito. Perché il punto è questo: quella giacca era del tutto identica a una giacca che avevo io trent’anni fa, quando andavo all’università, e la cosa non mi è sembrata normale. Se fosse solo un problema di giacche, ho pensato, trent’anni sarebbero trascorsi invano, anzi non sarebbero trascorsi per niente. Si potrebbe credere di essere ancora a trent’anni fa, io potrei illudermi di avere trent’anni di meno. Oggi, che è il mio compleanno, festeggerei la mia giovinezza di ventiquattrenne, e forse riceverei in regalo una bellissima giacca blu. E invece no. Anche se le giacche continuano a piacermi, anche quel blu particolare, anche quella stoffa particolare, anche se continuo a non saperli descrivere, anche se, nonostante non ci sia più nessuno che me le regali, è comunque ancora possibile che me le regali da solo, ormai so che non è un problema di giacche e che non lo è mai stato. Forse è tutto un problema di tempo, ma non sono sicuro neanche di questo. Bisognerebbe almeno saperlo descrivere. “.

  42. forse tutto nasce da un’equivoco…. cioè che le macchine siano solo quelle con rotelle, schede, metallo o altro materiale, si potrebbe pensare alle macchine anche come sistemi, mi spiego meglio, si dice spesso “la macchina della giustizia, la macchina della burocrazia, ecc…” macchine create per l’uomo, sembrerebbe che non sia piu’ così,non è più l’uomo a decidere ma la macchinosità per lui, come un essere completamente autonomo, da quì la possibile vittoria delle macchine-macchinosità sull’uomo, dico possibile perchè la guerra è in corso con esito (spero) incerto, sono stati gli uomini a creare le macchine e loro potrebbero invertire il processo, in effetti molti secoli fà un uomo diceva “il sabato è stato creato per l’uomo non l’uomo per il sabato” a tutto questo l’università non fa differenza, è diventata una macchina-macchinosità autonoma che pare non serva più l’uomo. bha!! sarà questa nebbia padana e persistente che mi confonde , nella nebbia si possono vedere cose che non sono.

  43. Ecco, Sangirardi, lei dice una cosa giusta: oltre il lamento c’è la lotta, o qualcosa di simile ad una resistenza/opposizione attiva? Ripeto: possibile che i docenti universitari, una potentissima casta in questo Paese, si siano resi così vittime di un sistema così sbagliato? Qualcosa non torna. Ha visto benissimo Coccia.

  44. Grazie ancora dei commenti e del grande interesse che l’articolo sta suscitando. Sto ricevendo anche privatamente numerosi messaggi di apprezzamento, segno che il problema è molto sentito e tocca corde sensibili. Quanto al dibattito qui, da qualche parte ci deve essere un problema di “clarté”: mai detto né pensato che alcuni studiosi siano “inadeguati” o addirittura “nemici” (???). Credo anche che sia necessario esorcizzare i fantasmi del passato e disinnescare questa trappola (para)logica che temo di avere alimentato con l’accenno al modello humboldtiano, mannaggia a me (ma era solo per una rapida e grossolana storicizzazione): critichi il presente? Allora sei reazionario e nostalgico del passato. Quel mondo e quell’università non ci sono più, se Dio vuole (e anch’io, Ferdinando, ne provo un grande sollievo): non certo per colpa di questi maneggioni dell’Anvur ma perché siamo cambiati noi, sono cambiati gli studenti, le tecnologie, le enciclopedie, gli orizzonti condivisi, le modalità di relazione, i modelli di sapere e molte altre cose. Punto. Dopo avere storicizzato quanto basta, dobbiamo guardare il presente e il futuro. E io, qui, ora, Italia 2015, vedo una serie di dispositivi tecnocratici che saranno anche very cool a livello internazionale ma che vengono e verranno utilizzati sempre più come strumenti di potere e di distribuzione del denaro pubblico, sulla base di criteri quanto meno opinabili, ma spacciati per oggettivi. Finché gli strumenti di valutazione non saranno assolutamente attendibili, trasparenti e a prova di bomba, è criminale utilizzarli per azioni che determineranno il destino di persone, strutture e soprattutto generazioni di studenti. Se la realtà è questa, e non c’è alcun dubbio che lo sia, voglio poter dire che non mi va bene e spero ancora di poterla combattere, se non cambiarla. La questione posta da Giuseppe Sangirardi è cruciale, non solo per il “che fare?” ma anche per il timore di “aprire bocca” che sta sgretolando quel nesso tra parola e politica di cui parlava Aristotele qualche millennio fa, e che sta desertificando tutte le articolazioni della nostra forma di vita, non solo la scuola e l’università (chiedete a chi lavora nel paradiso dell’azienda). Questo è il punto, strettamente politico. Tutte le altre etichette e parti in commedia (apocalittici e integrati, nostalgici ed euforici, accademici ammuffiti e giovani rampanti) mi sembrano prive di qualunque interesse, e soprattutto di qualunque valore euristico rispetto alla famosa “realtà”.

  45. Aggiungo una segnalazione bibliografica: Bill Readings, “The University in Ruins” (Harvard University Press), che colpisce soprattutto in termini di profezia postuma, perché descrive processi che hanno interessato il Nordamerica circa vent’anni fa (il libro è uscito postumo nel 1996, dopo la morte dell’autore in un incidente aereo) e che da qualche anno si stanno verificando tali e quali qui da noi. Chissà che ogni tanto, oltre a scimmiottarli, non convenga anche imparare dagli errori degli altri? (Nota bene: le “rovine” del titolo non implicano alcun rimpianto veteroumanistico per il castello crollato. Già allora Readings cercava un modo diverso per abitare quelle rovine, senza rimpiangerle con impotente nostalgia né diventare socio in affari di quelli che stavano costruendo un castello di plastica, scalando le classifiche delle agenzie di rating per aumentare il prezzo del biglietto e del merchandising).

  46. Bellissimo intervento di cui condivido quasi ogni parola. Per chiarire la mia posizione devo sottolineare che sono entrato in università da poco, che sono un ricercatore post-gelminiano (quindi a tempo determinato) e mi sento fortunato e orgoglioso, soprattutto pesando ai miei colleghi altrettanto bravi che non riescono a entrare all’università. Questo per dire che non sono un nostalgico della vecchia università, ma semplicemente molto critico verso la deriva neoliberista e aziendalista che il cambiamento ha preso. Giusto due settimane fa sono intervenuto durante un consiglio di dipartimento per criticare una proposta di distribuzione dei fondi che andava in questa direzione.
    Riguardo al commento di Emanuele Coccia: capisco la tua posizione ma, dire che il mondo è cambiato e dobbiamo adattarci, è un semplice segno di resa. Checché ne pensino gli ideologi neoliberisti i cambiamenti possono anche peggiorare le cose, nell’università come nel più ampio mondo del lavoro. A questo proposito, non credo che un posto a tempo indeterminato (che non è il mio caso, ribadisco) sia un privilegio: ho sempre pensato che la sicurezza sia un diritto che tra l’altro favorisce anche la ricerca e la riflessione.
    Concentrarsi sempre sui difetti storici dell’università come il baronaggio o sui pochi che non scrivono né fanno ricerca è una distorsione ideologica, che trascura tutti coloro che invece si dedicano con amore e impegno allo studio, alla didattica e alla scrittura.

  47. Fatta la premessa (mai come in questo caso indispensabile) che Bertoni e io non siamo fratelli né coniugi né cugini, neanche di ventesimo grado, esprimo anch’io totale condivisione e apprezzamento per il post. Circa alcune delle critiche: certo, chi non conosce Bertoni non può sapere quanto si impegna, oltre che nella didattica e nella ricerca, anche nell’amministrazione della vita quotidiana; ma il suo post basta a dimostrare che non sta attaccando affatto le cose giustamente difese da Coccia, l’importanza dell’inglese, l’obbligo di produzione e valutazione ecc., ma certi modi di gestirli distorti: altri commenti e quelli di Bertoni stesso lo hanno già chiarito e quindi non mi dilungo in merito. Aggiungo solo un paio di considerazioni a margine.
    Circa la peer review: io sono tra quelli che ci credono; ne ho sempre sostenuto l’importanza all’interno della rivista che insieme a altri dirigo; non mi sottraggo se mi viene chiesta; proprio perciò mi permetto di dire che per gestirla bene ci vuole davvero la mano di Dio. Il che non significa che vada abolita, anzi; ma non c’è niente di male a riflettere un po’ in merito. I problemi che la intralciano sono tanti, in merito ho collezionato ormai una discreta aneddotica, su cui non sto a dilungarmi. Mi limito a una situazione delicata e abbastanza ricorrente: a me è capitato più volte di giudicare impubblicabili o da rivedere radicalmente articoli o saggi compresi in miscellanee; e di sentirmi rispondere dai curatori (attenzione: di università sia italiane che estere) che insomma, che si trattava di giovani, che avevano bisogno di pubblicare presto e molto, che era meglio essere indulgenti. Coccia sottolinea che molti trentenni hanno una produzione superiore a quella di molti ordinari; se è sempre di buona qualità va benissimo, ma se non è così non va bene per niente; io se leggo “I will point out” non ho niente da obiettare, proseguo incuriosita; solo che a questa formula standard tengono dietro le cose più varie; quando si tratta di una raffica di sciocchezze, penso di avere il dovere di dirlo, e non sempre è facile.
    Vorrei poi dire a U.L., a Gianni, a Zeno Cosini, giustamente indignati (solo quello che si firma Zeno mi sembra uno studente particolarmente sfortunato: io sarò parziale ma a mio parere di ottimi docenti un giro ce ne sono ancora tanti) che in effetti potrebbero anche firmare con i loro nomi e cognomi, non avrebbero secondo me nulla da temere. Per una ragione però per niente confortante: ormai sparare a zero sull’università, italiana almeno, è diventato un classico; lo fanno tutti, compresi moltissimi professori universitari, e a volte proprio i più potenti; ma il problema è che parecchi di loro se ne fanno un alibi per non provare a cambiare le cose, per non prendersi responsabilità. Non è più il tempo in cui gli attacchi di Salvemini o Croce facevano scalpore: i docenti di qui vengono accusati sempre, dovunque e da chiunque intanto di avere avuto un posto grazie a chissà quali loschi maneggi, poi di essere parassiti che fanno di tutto per non lavorare, infine, quando appunto di lavorare si stanno sforzando, quando c’è di mezzo un loro intervento, un loro saggio, appunto una loro peer-review, di fare gli accademici (la parola ormai equivale a un insulto) se sono uomini e di fare le maestrine se sono donne.
    E fin qui d’accordo: cioè d’accordo per modo di dire, perché per i tanti che lavorano parecchio questo atteggiamento non è facile da reggere; ma insomma pazienza. Il problema è che la lagnanza indiscriminata impedisce la protesta vera di cui giustamente Bertoni, Sangirardi, Caprara hanno appena ricordato l’importanza (e che richiederebbe però una mobilitazione collettiva); e forse perciò dietro questa lagnanza si rifugiano anche molti universitari, che non hanno alcun problema a denigrare e a veder denigrata la propria categoria, sono di larghe vedute, tornano a essere curiosamente seri e suscettibili solo se c’è di mezzo il lavoro loro.
    Gianni, secondo me se lei uscisse dall’anonimato, non la farebbero fuori per niente: le direbbero cordialmente che bravo, certo, ha ragione, che schifo questa accademia, disgraziati quelli che ci devono insegnare, sventurati quelli che ci studiano, meglio andare in Lapponia, meglio andare in Patagonia; il guaio è che però parecchi si limiterebbero a questo, facendo dell’atteggiamento apocalittico un modo per non considerare il suo lavoro e non prendersi a cuore il suo futuro.

  48. @Francucci
    Scusi ma lei se li ricorda i giudizi comparativi dei concorsi italiani ? Il loro stile oracolare, da pizzino accademico, la loro falsa generosità che trasformava tutti i candidati in studiosi eccezionali e maturi ? Poi però, per ragioni misteriose, poi il prescelto era sempre l’allievo, il figlio, il cugino del docente in carica ? Era l’oggetto di sberleffo in tutto il mondo. Preferisce davvero il metodo italiano? A me un mondo in cui si giudica in questo modo fa molto più paura delle schede per le lettere di presentazione delle università statunitensi.

    @Federico Bertoni
    La concentrazione di potere e l’ingiustizia nella distribuzione di posti e denaro è un problema molto antico e strutturale nelle università italiane: se il suo obbiettivo era questo non capisco più perché ha scritto una satira sulla modernizzazione e l’internazionalizzazione delle pratiche accademiche.
    Ad ogni modo concordo con il suo ultimo giudizio. Mi sembra solo che non sia facilissimo capire quali siano i mezzi e le procedure per rendere possibile in Italia una valutazione oggettiva della ricerca nelle scienze umane strappandola alle solite lobbies e soprattutto per favorire una internazionalizzazione reale di un sistema accademico che, ormai quasi unico in Europa, ha una quota di docenti non nazionali pari allo zero. Se qualcuno ha idee concrete e precise di come migliorare un sistema marcio da almeno cinque generazioni, le proponga. Fare satira di questo tipo, mi sembra, serve solo a moltiplicare la disperazione, e non è proprio quello di cui l’università ha bisogno in questo momento.

    @Carlo Capello
    Non sono in guerra, nessuno mi ha puntato una pistola addosso, non ho nemici, non bisogno né di resistere né di arrendermi a nessuno. Credo che l’università e le stesse scienze umane abbiano bisogno di un ripensamento radicale dei loro metodi, della loro forma, del loro stesso senso. E ho l’impressione che parlare e lamentarsi delle riforme universitarie, dell’obbligo a scrivere abstract e progetti di ricerca sia soprattutto un modo per nascondere o nascondersi problemi più profondi.

    Una annotazione generale. Finché la critica al presente verrà fatta con categorie abusate e senza senso come quelle espresse con le espressioni ‘mercificazione’, ‘vendita’, ‘tecnocrazia’ ecc., il risultato sarà solo quello dell’automarginalizzazione di cui parla @Sangirardi. Il moralismo è sempre inutile. Quando si rivolge poi a una fetta normale e del tutto ordinaria della vita quotidiana o a una serie di pratiche umane e troppo umane diventa ridicolo. Considerare il denaro o la vendita, l’acquisto e la fabbricazione di cose come l’emblema del Male è incomprensibile. E un topos della predicazione cristiana di molti molti secoli fa’ che poteva avere un senso nei trattati sul disprezzo del mondo, ma che oggi è una metafora priva di senso : nessuno degli utenti vive in un monastero e nessuno di voi vorrebbe viverci. Per tutti acquistare merci, cioè buon cibo, vestiti, computers, telefoni, penne, quaderni, libri -oggetti che rendono la nostra vita quotidiana più bella, cose che ci permettono di fare quello che vogliamo fare (per esempio partecipare a una discussione su internet)- è una esperienza tutto sommato positiva, estremamente banale, e niente affatto tragica.
    Dico questo perché non capisco perché l’uso di metafore commerciali debba essere oggetto di lamentela o debba essere interpretato come un sintomo di decadenza. Anche in questo caso mi sembra attaccarsi a queste realtà significa non voler vedere o capire cosa è successo. Il sistema di crediti, con tutti i suoi difetti ha permesso di moltiplicare esponenzialmente la circolazione degli studenti non solo nel territorio nazionale ma anche e soprattutto in tutto il territorio europeo. E questo mi sembra, nonostante tutto, un risultato decisivo e importantissimo, da tutti i punti di vista, che ha permesso, tra le mille altre cose, una circolazione di metodi, idee, conoscenze impensabile quando ero ancora studente. Che questo sia successo introducendo metafore commerciali mi lascia del tutto indifferente. Io sono molto felice quando compro un libro e non mi sembra che la cultura sia svilita da questo atto. Non vedo perché debba essere il contrario per il sapere orale che viene offerto nelle università, soprattutto se, come in questo caso, si tratta di metafore. E comunque, nel Medioevo (e non solo) gli studenti dovevano comprarsi le lezioni e pagavano i professori. Forse bisogna storicizzare anche questi elementi della storia recente e non correre subito ai toni apocalittici. I problemi, mi sembra, stanno altrove.

    @Clotilde Bertoni
    Il problema dell’iperpubblicazione non è un problema solamente legato alla peer review, agli abstract, alla forma della valutazione. Il numero dei dottorandi è aumentato di sei volte nell’arco di tempo 1986-2006: l’esigenza di pubblicazione per oggettivare la competizione ha seguito questa tendenza. Senza contare che negli ultimi trent’anni il mercato editoriale accademico è esploso: le riviste si sono moltiplicate, le case editrici ecc. La colpa non è solo dei peer review o della generosità dei revisori. E non mi sembra che le riviste di trent’anni fa’ contenessero tesori dimenticati. La produzione accademica media è stata sempre mediocre.

  49. Credo che la risposta di Coccia meriti un ulteriore commento (poi mi fermo, prometto). Non intendo fare sterili polemiche, perciò cercherò di rispondere argomentando meglio la mia posizione. Noto, in primo luogo, che non ha fatto commenti a quello che reputo un punto decisivo: il fatto che i posti a tempo indeterminato non siano un privilegio, ma un diritto, il che significa forse che almeno su questo siamo d’accordo. Il privilegio, semmai, è nella possibilità di noi docenti universitari di dedicarci allo studio, alla ricerca e all’insegnamento e come dicevo di questa fortuna sono pienamente consapevole. Lo stesso Bertoni voleva ppunto far notare che tutte questa macchina neoliberale messa in piedi per valutarci, rende più difficile fare ciò per cui siamo pagati, fare ricerca e insegnare.
    Vi è però un putno su cui siamo agli antipodi: non ho mai criticato la mercificazione in sé, bensì la mercificazione del lavoro e della conoscenza. La questione che, per motivi ideologici, le sfugge è il lavoro e la riflessione non dovrebbero essere semplici merci, perché gli esseri umani non sono evidentemente cose. Il grande problema del neoliberismo è che vuole cancellare questa elementare distinzione tra persone e merci.
    Ha ragione a dire che non è in guerra e che nessuno le punta una pistola alla tempia: i dispositivi disciplinari e gli apparati ideologici sono sufficienti a ottenere il consenso, trasformando l’ideologia neoliberale in doxa. Il compito del pensiero critico dovrebbe consistere nel disinnescare questi dispositivi e quello dell’università alimentare il pensiero critico. Solo che, ormai, anche l’università si è sottomessa all’ideologia dominante, rishciando di trasformarsi nell’ennesimo apparato ideologico di stato.

  50. Caro Federico Bertoni, sospiro di sollievo vedendo che esistono altri come me…
    insegnante nelle scuole superiori per trent’anni, ho dovuto sempre lottare contro la famigerata “sperimentazione” ma alla fine ho perso: della bellezza dell’insegnamento non è rimasto quasi nulla e quasi nessuno che non interiorizzasse l’ottusità come una seconda natura (per usare le tue parole).
    Ti ringrazio per quello che dici, è così importante! (ah sì, quel proliferare di acronimi! davvero da neuro).
    Tanti auguri e care cose
    Carmela Fratantonio

  51. Sottoscrivo in toto le parole di Emanuele Coccia, condivido quello che ha detto e ripetuto.
    Le difficoltà in cui l’università si trova oggi sono evidenti a tutti e la burocrazia ha delle maglie strettissime, ma non per questo si è dinanzi ad un sistema che vuole istupidire, anzi. La possibilità che ha Carlo Capello di dire ciò che vuole in questo sito è la stessa che avrà nell’aula universitaria in cui fa lezione. I rapporti di potere ci sono, ci sono sempre stati e ci saranno sempre, riconoscerlo e avere degli strumenti che, anche se imperfetti, cercano di costruirli con obbiettività non può che essere un bene. A me pare che il discorso di Coccia sia realistico, mentre quello di Capello ideologizzato, con un lessico che è rimasto agli anni ’70.
    Parlando del ruolo dei professori, importante è che siano professionisti che abbiano passione per quello che fanno e che, soprattutto, siano in grado di trasmettere questa passione. Che nei Cfu siano comprese il numero esatto di pagine che gli studenti devono leggere o previste le ore da impiegare nello studio è una formalità; chi è bravo s’impegna e il professore deve aiutare i volenterosi.
    Gli articoli di riviste prestigiose (in lingua inglese) come Science e Nature passano attraverso tutte le tappe descritte nel post e nei commenti, è davvero così sbagliato? È una via crucis necessaria, di sicuro imperfetta, ma feconda; per aspera ad astra. Che cosa hanno le scienze umane di diverso dalle altre? La biologia o la fisica non si occupano dell’uomo e del suo ambiente tanto quanto la filosofia o la letteratura?

  52. @Guglielmo Albertazzi

    “Che cosa hanno le scienze umane di diverso dalle altre?” Evito di ricordarle che dietro questa sua domanda c’è una discussione che dura da millenni, sono sicuro che lo sa. La faccio breve: uno dei problemi (non il solo né il principale) consiste proprio in questo. Sulle scienze umane sono state calate a forza delle procedure che derivano dalle scienze naturali, ma che, quando vengono imposte alle scienze umane senza tener conto delle differenze, non descrivono la realtà di quelle discipline e producono disastri.

  53. @Capello

    Provo a risponderle, ma molto in fretta, perché sta spostando il dibattito su questioni e temi su cui so molto poco e ho molto poco da dire. Ho vissuto da venti anni in università, prima come studente poi come docente e credo di avere un po’ di esperienza sulle questioni toccate da Bertoni (valutazione della ricerca e dei ricercatori, internazionalizzazione e modernizzazione delle università). Sui massimi sistemi mi manca invece sia l’esperienza sia la conoscenza: non sono un economista (e da quello che scrive credo nemmeno lei) e per il mestiere che faccio sono convinto che sia necessario studiare molto prima di esprimere un’opinione su certe questioni.

    I.
    Non so se i posti a tempo indeterminato siano un diritto, e la mia opinione è poco importante. Sta di fatto che nel mercato del lavoro attuale gli universitari (e molti impiegati statali) sono gli unici o quasi a non essere licenziabili: questa situazione li mette di fatto in una posizione di privilegio sociale assoluto, quale che sia la loro opinione (come del resto quale sia l’opinione degli altri). Negarlo significa agire di mala fede. Partendo da questo fatto la lamentela dell’aumento del lavoro burocratico a carico dei docenti mi sembra del tutto fuori luogo, e a tratti indecente.

    II.
    Qualsiasi manuale di storia delle dottrine economiche e qualsiasi storia dell’economia insegna che non esiste un neoliberismo e non esiste una politica neoliberista coerente, comune, universale. Parlare di neoliberismo come se si trattasse di qualcosa di identificabile, chiaro evidente, significa combattere contro un mulino a vento. Non riesco davvero a capire di cosa parla quando parla di neoliberismo o di macchina neoliberale: ma le assicuro che non ho mai letto di un economista e di un politico che abbiano identificato uomini e merci e tutti gli stati occidentali proibiscono da anni la compravendita di individui umani, da secoli. E nessuna università occidentale, per quello che ho visto, ha tentato di vendere, comprare, o smerciare individui umani.

    Non capisco bene nemmeno cosa vuole dire con mercificazione del lavoro. Se intende dire che il lavoro è una merce, cioè qualcosa che si può vendere e acquistare, mi sembra una banalità che esiste da secoli. E mi sembra anche una banalità molto positiva: ci ha liberato da quello che Marx chiamava il sistema di produzione feudale. Se il lavoro non fosse una merce dovremmo ancora servirci di schiavi e servitù: non mi sembra una bella prospettiva, ma se lei vuole tornarci provi a combattere per reintrodurla.

    Quanto alla riflessione, basta pubblicare un libro perché diventi una merce: anche qui non mi sembra che si tratti di un evento tragico. Al contrario, significa solo che un pensiero o una parola può arrivare a chiunque senza distinzione di schiatta, razza, ceto sociale, provenienza geografica e culturale ecc. Basta avere dodici euro per comprarsi il paperback. Se lei vede una tragedia in questo fatto, non posso fare nulla oltre a dirle che mi spiace ma che è difficile tornare indietro.

    III.
    Non so cosa sia l’ideologia neoliberale, né mi sembra facile distinguere oggettivamente ideologia, opinione e verità. Tanto per fare un esempio ho sempre trovato il pensiero di Althusser (che lei a quanto pare considera una verità incontrovertibile visto che ne adotta i concetti -spesso oscuri- come se fossero ovvietà per chiunque) una mera opinione, una descrizione molto unilaterale e ideologica della realtà, molto legata all’atmosfera e agli anni in cui è vissuto. Chi ha ragione? Boh…

    IV.
    Credo che l’università sia il luogo della produzione, del deposito e della trasmissione di conoscenze certe, e solo per questo della promozione della libertà di pensiero. Non sono sicuro che questo compito coincida con la critica del pensiero dominante, che è un problema che spetta, semmai, alla società civile e all’opinione pubblica (che è nata per questo), non all’università. Quando insegno non mi interessa fare critica, ma capire e quando è possibile, trovare la verità. Io insegno una cosa che si chiama “storia della normatività cristiana”: non sono credente e non ho particolari simpatie per la chiesa eppure mi guardo bene dal criticare la teologia o la chiesa in aula. Non avrebbe senso e lo troverei persino indecente. Il mio compito è trasmettere conoscenze, passione e promuovere la libertà di pensiero. Poi ciascuno pensa come vuole e fa di queste conoscenze l’uso che gli sembra il più opportuno. Il resto, se mi permette, è solo ideologia.

  54. @Emanuele Coccia.
    Pur dovendo ancora elaborare la sua severità normativa – e riconoscendo in me parecchie tracce di “indecenza”, per usare una parola che sembra esserle cara – mi azzardo a porle una microscopica domanda: “Storia della normatività cristiana”: siam proprio sicuri che stiamo parlando di università di massa?

  55. E’ certamente un mio difetto, ma io non riesco mai a non stupirmi che ci siano persone che la pensano come il nostro Coccia, il cui concetto centrale è descrivere la nuova normativa imposta da un attacco ideologico senza precedenti che si è abbattuto sul mondo occidentale, come l’unica realtà possibile, anzi addirittura concepibile, qualificando coloro che la disprezzano, la deridono o comunque in varie forme le si oppongono come degli alieni, dei disadattati, e cpoco ci manca che li consideri dei dementi.

    No, caro Sig. Coccia, stia tranquillo, le cose che lei dice, le sappiamo anche noi, che ci sia una tendenza prevalente è un fatto che è ben noto anche a noi. La differenza sorge dal fatto che non tutti pensano che sia opportuno semplicemente piegarsi al pensiero dominante, adeguarsi velocemente ai nuovi standard che l’ultimo ministro ti impone, c’è chi possiede un minimo di capacità critica e che pensa che tale capacità vada esercitata quanto più possibile all’intera gamma dei propri atti sociali.

    So bene che oggi va molto di moda la figura del cretino efficiente, colui che esegue alla perfezione un compito affidatogli, dote molto apprezzata nei tempi in cui abbiamo avuto la ventura di vivere, ma per tutti coloro che cretini non sono, comportarsi come tali può risultare troppo faticoso, e magari qualcuno di questi può decidere deliberatamente di pagare prezzi pur di mantenere un comportamento che egli nella sua autonomia ha scelto.

    Si tratta insomma di una questione di carattere generale, che investe l’intera società, e su cui non avrebbe senso discutere perchè implica aspetti ideologici fondamentali che sarebbe vano affrontare in un contesto come questo.
    Li richiamo e ne evidenzio la loro influenza negli interventi, perchè è proprio dal complesso della società che tali tendenze provengono e si riverberano ovviamente anche sull’Università.

    Invece, il discorso davvero più importante sarebbe quello di evidenziare puntualmente l’effetto di ciascuna iniziativa normativa introdotta nell’Università. Purtroppo, occorrerebbe ben altro contesto, trattarne adeguatamente in un breve commento è impossibile.

    Sinteticamente, mi limito a citare il detto “fatta la legge, trovato l’inganno”, e che insomma la natura adattativa dellì’uomo fa in modo che se il parametro di riferimento a cui viene affidato un giudizio è di un certo tipo, se ne ottimizzi il valore senza variare significativamente il proprio livello di impegno.
    Ciò si accompagna a quanto ho già detto nel primo intervento, la determinazione dell’oggetto della ricerca, sulla base di una politica ormai totalmente asservita agli interessi economici di un numero ristretto di soggetti, assunta dogmaticamente come rappresentativza di interessi generali.

    Quindi questa burocratizzazione della valutazione che niente ha a che vedere con la valutazione in quanto tale, comporta la sollecitazione verso il docente ad adottare una certa prassi.
    Il punto è che tale prassi nell’ambito lavorativo costituisce parte integrante dell’attività stessa, concorre a determinarne la qualità.
    Se come è già oggi, l’oggetto della ricerca diventa attraverso varii organismi intermedi una scelta di chi comanda (e che non è detto che sia il politico, per intenderci), il rischio è che le università si trasformino in una sorta di reparti per la ricerca delle industrie.

    Logica a questo punto vorrebbe che ogni politica universitaria fosse sottoposta al vaglio della sperimentazione.
    Io così vorrei chiedere se le nuove forme della didattica, le nuove forme di organizzazione e soprattutto di finanziamento della ricerca abbiano portato ad un miglioramento o ad un peggioramento dei servizi che l’università fornisce.
    Credo che ci siano innumerevoli evidenze che mostrano come la qualità media dei nostri laureati sia peggiorata senza che ci sia un contemporaneo aumento del loro numero, ma addirittura una diminuzione.
    Sipotrebbe anche citare come la scienza sia ormai da troppo tempo ferma, in quanto tutto ciò che facciamo nelle scienze sperimentali riguarda esclusivamente il livello tecnolgico. Tutto ciò dovrebbe seriamente preoccuparci.

    Se invece si adotta il criterio da alcuni qui sollecitato del “così fan tutti”, allora certamente le conclusioni non potranno coincidere. Se insomma tutto lo sforzo intellettuale che taluni si impongono è quello di compiere una inchiesta statistica su quale sia l’atteggiamento prevalente, allora come mai potremmo metterci d’accordo?

  56. Non posso che sottoscrivere le parole del commento iniziale di Emanuele Coccia, aggiungo solo che banalmente sembra che si ignori che lo scopo dell’università dovrebbe essere produrre una ricerca e una didattica di qualità (non quindi l’accumulare soldi fine a se stesso) e in un mondo a risorse finite è buona cosa trovare un modo per spartirle e dare più mezzi a chi fa una ricerca e una didattica migliore mi pare più sensato che dare la stessa quantità di risorse a tutti.

    Se qualcuno poi dice “ma il valore un saggio di critica letteraria non è misurabile in nessun modo” allora se lo intende “non si può dimostrare il valore letterario di un’opera come si può dimostrare un teorema matematico” dice una cosa vera ma banale e infatti nessuno intende la valutazione in quel modo ma dire “Non ha alcun valore intersoggettivo ogni tentativo di giudicare quel saggio di critica letteraria” allora ci si sbaglia perché 1) prima di tutto i saggi di critica letteraria possono essere valutati ad esempio negativamente nel caso ci siano errori o perlomeno se si sostengono tesi ultraminoritarie senza nuovi forti argomenti riguardo a conoscenze linguistiche, storiche e filologiche: anche se non fanno parte delle scienze matematiche e naturali in questi campi è un dato di fatto che nessuno oggi ritiene che la Donazione di Costantino sia stata scritta nel IV secolo d.C. da Costantino, insomma già qui la valutazione è pacifica, sebbene ci possano sempre essere margini relativi di incertezza, ma appunto le “incertezze relative” sono diverse sia dalle “certezze assolute” che dalle “incertezze assolute” 2) Anche se si parla di “giudizi di valore” riguardo alle opere letterarie comunque in critica letteraria si argomentano sempre in modo intersoggettivo i propri giudizi, argomentazioni che certo presuppongono sempre delle precomprensioni (conoscenze, letture di altri autori anche poco conosciuti, esperienze di vita passate…) possedute dal critico, precomprensioni che tuttavia, proprio se ben esplicitate, non escludono un valore intersoggettivo a quel giudizio di valore su quell’opera letteraria.

    Peraltro occorrerebbe dire che difficilmente un saggio letterario di una decina di pagine su un generico valore letterario assoluto sull’opera omnia di Proust potrà affermare tesi di rilevante valore sul dibattito attuale su questo tema in quanto si cadrebbe inevitabilmente nel generico e nella scarsità di lunghezza di argomentazioni e dunque sarebbe valutabile in modo al massimo mediocre per questi motivi. Molto più valutabile sarebbe semmai un saggio sempre di una decina di pagine che mette in discussione la lettura più diffusa che dà valore all’amore tormentato tra Charles e Odette in “Un amore di Swann” ritenendo che questo passo de “Alla ricerca del tempo perduto” esprime un certo messaggio con un contenuto e una forma non trovati in altri romanzi. Ovviamente questo saggio avrà sempre dei presupposti che si possono mettere in discussione, ma tenendo buoni questi presupposti, un recensore del saggio può e deve sempre valutare se le argomentazioni portate dal saggio letto sono più o meno deboli di quelle opposte che si erano portate finora nei saggi di critica letteraria precedenti.

  57. @ Coccia, I

    Che in un momento di accelerata disgregazione sociale come quello cui stiamo assistendo a causa del duro attacco antioperaio e antipopolare del governo vi possa essere chi, giocando sull’ignoranza più ottusa e sul risentimento più meschino, invita a criminalizzare i lavoratori pubblici e a trasformare un conflitto verticale (quello tra i lavoratori e il capitale finanziario/UE di cui il governo Renzi è emanazione) in un conflitto orizzontale (quello, per l’appunto, tra lavoratori pubblici e privati), è cosa che non sorprende allorché un comportamento così divisivo trova espressione politica nelle file della destra, in particolare di quella leghista. Sorprende invece quando trova espressione in un intervento che dovrebbe avere ben altra ispirazione, ma che rischia di portare acqua al mulino delle forze reazionarie. Colpisce in particolare la disinformazione di cui Coccia dà prova, poiché evidentemente non sa che, come se non bastasse il mancato rinnovo dei contratti, le retribuzioni dei lavoratori pubblici sono bloccate da sei anni per opera dei precedenti governi, di cui il governo attuale prosegue ora con maggiore efficienza e insieme con maggiore brutalità lo sporco lavoro che quelli avevano iniziato. Inoltre, per tacere sugli aspetti importanti della funzione pubblica che la differenziano dal settore privato, aspetti dei quali evidentemente, a causa di un’ottica aziendalistica, egli è all’oscuro, Coccia dimostra di non sapere che, a partire dalla privatizzazione del rapporto di lavoro nel pubblico impiego introdotta nel 1992 dal governo Amato (già allora in applicazione delle politiche neoliberiste), i lavoratori pubblici sono licenziabili, talché l’invettiva tendente ad ascrivere ‘privilegi’ ai lavoratori pubblici e, sotto sotto, ad equipararli ‘tout court’ ad altrettanti ‘fannulloni’ si rivela del tutto infondata e crolla miseramente.

    Quella che occorre in questo momento è dunque, anche partire dai problemi che si pongono nell’Università, è la massima unità fra lavoratori pubblici e lavoratori privati, fra lavoratori (sempre meno) garantiti e lavoratori precari, fra lavoratori e pensionati, fra lavoratori autoctoni e lavoratori immigrati, nonché – ‘last but not least’ – tra studenti e lavoratori: tutti ridotti a carne da macello sull’altare del profitto industriale e della rendita finanziaria. Quella che va costruita è una resistenza di massa al tentativo di scatenare la guerra tra i lavoratori, portato avanti da questo governo con attacchi pesanti, a cui offre ansa l’accusa intollerabile, mossa ai dipendenti pubblici, di essere dei ‘privilegiati’. La politica dell’esecutivo colpisce infatti tutti i lavoratori dipendenti e i pensionati, attaccando il lavoro, le retribuzioni, l’occupazione e i diritti sia nel settore privato che nei servizi pubblici. L’esempio da seguire è semmai quello che fu posto in atto il 12 dicembre del 2008 con lo sciopero comune della Fiom e del sindacato della Funzione Pubblica della Cgil, esempio importante di risposta unitaria e di classe ai ricorrenti tentativi di contrapporre i lavoratori pubblici ai lavoratori privati.

    Eros Barone, fondatore della sezione universitaria “V.I. Lenin” del PCI (Genova, anni Settanta), docente di storia e di filosofia nei licei, membro del Comitato Direttivo provinciale della FLC di Varese e componente della RSU dell’IRRE Lombardia.

  58. @Carlo F.
    Siamo d’accordo, ma non è questo il punto. Un professore di scienze umane, così come uno di scienze naturali, deve trasmettere sapere e conoscenza, questo intendevo. Inoltre, se le varie pubblicazioni hanno lo stesso metodo di valutazione, non giova forse in una prospettiva di dialogo tra le due culture?
    A proposito, ripropongo qui parte del commento di Fabio Genovese:
    ” L’introduzione di un certo qual “metodo scientifico” non è più un’opzione. È il modo più rapido per ottenere applicabilità della ricerca ad ambiti contemporanei, e quindi non morire per carenza di fondi. Esiste la linguistica che si lega con le neuroscienze, esistono sicuramente tanti altri rami. Bisogna un po’ darsi una mossa, altrimenti davvero le “humanities” chiuderanno. Indipendentemente dal fatto che i loro studiosi scrivano accorati appelli dalla loro bella turris eburnea “.

    @Cucinotta
    Mi sembra che qui il problema non sia salvare il mondo dal “pensiero dominante”; il post critica i sistemi di valutazione interni all’università ed evidenzia un malessere rispetto alla gestione del tempo di lavoro degli insegnanti. Su questi aspetti bisognerebbe discutere per cercare un miglioramento.
    E poi chi le dà il diritto di affermare che il suo pensiero è più autonomo rispetto a quello di altri?

    @Barone
    Lei, come già Capello, utilizza un lessico che funzionava negli anni ’70. C’è chi non la pensa come lei e allo stesso tempo non è né reazionario né “ridotto a carne da macello sull’altare del profitto industriale e della rendita finanziaria”, per usare le sue sobrie parole.

  59. @ Coccia, III

    Caspita, Coccia, secondo Lei il pensiero di Althusser fornisce una “descrizione unilaterale e molto ideologica della realtà”! Ma ha mai letto i testi di questo pensatore marxista, a partire da “Leggere il Capitale”? Visto che è passato un quarto di secolo dalla sua morte, mi permetto allora di farLe una lezioncina, che vuol essere anche un modesto risarcimento reso a questo filosofo per sottrarlo al frettoloso tentativo di trattarlo come “un cane morto”. Orbene, va detto che alla ricerca teorica ed alla produzione intellettuale di Louis Althusser sono legati alcuni fra i più rilevanti ed innovativi contributi del marxismo della seconda metà del ’900, tentativi che spiegano il significato e l’importanza che la sua opera ha assunto per tutti coloro che hanno partecipato al dibattito politico e ideale del movimento comunista tra anni ’60 ed anni ’80.

    Althusser ha insegnato, innanzitutto, che la teoria materialistica della conoscenza non si riduce ad un ingenuo realismo gnoseologico, ma implica il riconoscimento della specificità irriducibile, di campo e di metodo, della teoria marxista, la quale ha come fine ultimo la conoscenza di oggetti reali, concreti, singoli. Althusser ha inoltre sottolineato che la conoscenza è – come Marx asserisce nella seconda “tesi su Feuerbach” – una «questione pratica». Rispondendo alla critica di teoricismo, che a più riprese gli venne rivolta verso la fine degli anni ’60, Althusser ha dimostrato come la tesi marxiana sul carattere “pratico” di ogni autentica questione di conoscenza non autorizzi alcuna interpretazione pragmatistica o empiristica né la semplificazione di chi afferma il ruolo ancillare della teoria (ridotta così a ideologia) rispetto alla pratica (intesa, quest’ultima, nel triplice significato di lavoro umano, sperimentazione scientifico-tecnica e lotta di classe). Egli ha chiarito, al contrario, che tale tesi apre la via, ancora largamente da percorrere, ad una concezione della teoria che assegna a quest’ultima una funzione di controllo epistemologico e metodologico nei confronti delle molteplici scienze del mondo naturale, umano e sociale, ne accerta le potenzialità euristiche, ne demistifica i contenuti gnoseologicamente viziosi e ne assume gli effetti conoscitivi che esse producono (se li producono). Per quanto concerne il significato, storicamente pregnante, che assume la tesi marxiana sul carattere pratico di ogni problema di conoscenza – significato secondo cui, come osserva ancora Marx, l’idea, quando penetra nelle masse, diviene una forza materiale –, Althusser ha osservato che esso implica un conflitto, poiché la posta in gioco è un processo di portata decisiva, un processo che egli definisce come l’evento più dirompente nella storia delle società divise in classi: l’unione della teoria marxista con il movimento operaio. Questo processo, che si cerca di annullare con la negazione del valore scientifico della dialettica e con la separazione fra teoria e conflitto, è ancor oggi motivo di scandalo sia nella storia delle dottrine politiche (ove ha segnato la nascita del socialismo scientifico) sia nella storia delle scienze (ove ha segnato la nascita del materialismo dialettico).

    Chi, pur apprezzandone l’afflato soggettivamente rivoluzionario, non ritiene che il socialismo utopistico e il “Principio-Speranza” siano chiavi teoriche atte a risolvere i problemi gravi e difficili del presente, né intende oggi arrampicarsi sugli specchi ingannevoli del ‘pensiero debole’ (e perciò stesso subalterno all’unico pensiero forte oggi dominante), così come un tempo su quelli della Teoria Critica francofortese, non può che sottoscrivere quanto asserisce Althusser sulla durezza del reale e sulla engelsiana “lotta contro il destino e la borghesia”: « Trasformare il mondo non è esplorare la luna. È fare la rivoluzione e costruire il socialismo, senza regredire verso il capita-lismo. Il resto, luna compresa, ci sarà dato in sovrappiù ».
    Ecco perché chi rifiuta di abbandonarsi a fantasie impotenti o ad una sorta di ‘consolatio philosophiae’ deve assumersi il compito di determinare a quale livello ed in quali forme si possa operare oggi la saldatura fra teoria e politica, avendo nel contempo la consapevolezza che le forze motrici della storia non sono gli individui – non i filosofi (chiusi nel loro idealismo) né gli scienziati (chiusi nel loro specialismo) né tanto meno gli intellettuali (appiattiti sul presentismo più effimero) –, ma le classi, capaci, grazie alla loro avanguardia organizzata, di dirigere le masse. Da tale consa-pevolezza discende il triplice riconoscimento dell’importanza strategica della teoria nel movimento operaio e della sua diffusione, del valore della concezione del marxismo come scienza e della sua funzione come analisi della realtà dal punto di vista di una posizione di classe rivoluzionaria: fattori, questi, che spiegano il carattere dirompente delle lotte (fra marxismo e revisionismo, fra leninismo e opportunismo) che si svolgono all’interno del movimento operaio su questioni ideali e teoriche, la cui soluzione in un senso o in un altro determina ripercussioni più o meno immediate nell’azione pratica.

    Proprio sul terreno dell’elaborazione teorica, la lezione di Althusser – in ciò convergente con quella di altri grandi pensatori marxisti del nostro secolo che hanno proceduto, come György Lukács, Antonio Gramsci e Galvano Della Volpe, nonostante le differenze tra i rispettivi programmi di ricerca, sulla via aperta da Lenin – si è rivelata decisiva, poiché ha mostrato che, nel condurre l’analisi del pensiero borghese, non è sufficiente una semplice denuncia della sua natura di classe sottesa al suo universalismo fittizio, ma è necessario un lavoro di ricostruzione dei concetti scientifici, diretto, per un verso, a liberarli dalle ombre mistificanti delle nozioni ideologiche cui sono commisti e, per un altro verso, a farne emergere l’autentico “nocciolo razionale”. Distinguere, quindi, tra ideologia, opinione e verità è possibile, caro Coccia, persino quando si insegna una materia come “storia della normatività cristiana”…

  60. @Guglielmo Albertazzi
    Innazitutto, siamo d’accordo, il punto centrale rimane quello della reale dinamica che le nuiove regole impongono all’attività accademica, e mi pare che leggendo attentamente ciò che ho scritto, sia facilmente riscopntrabile che su questo punto potremmo forse convenire. Tuttavia, una cosa è dire che le regole vanno giudicate sulla base del loro reale effetto, come ho tentato di dire, un’altra è quella di accettarle a prescindere, e poi sforzarsi di ridurne i danni, che temo sia ciò che lei intenda.

    Sulla domanda che mi fa, veramente non mi pare che stessi parlando di me stesso (da dove lo dedurrebbe?), rivendicavo il valore insostituibile dell’autonomia, e quindi non il diritto soggettivo del singolo docente, ma il fatto stesso che solo in un regime di autonomia l’Università possa continuare ad esistere senza finire con il diventare un esamificio.
    Intendevo criticare quanti dicono che sia preferibile che i docenti divengano funzionari governativi, eseguendone passivamente gli ordini impartiti attraverso questa neostruttura burocratica che fa capo a quel concetrato di dirigismo e di incompetenza che chiamano ANVUR.

  61. Caro Coccia, io sono professore associato di Storia Contemporanea (SSD M-STO/04); sono entrato in Accademia come ricercatore a TI nel 1995; poi dal 2002 son passato al ruolo degli associati. Sono abilitato ad ordinario (ASN 2012). Nel frattempo sono stato Gastprofessor (lo scrivo in tedesco, perché l’inglese non mi garba) a Potsdam, München (LMU), Kiel, Saarbrücken, e Gastwissenschaftler (idem) al ZZF di Potsdam e all’IfZ di München. Sono autore di circa 140 pubblicazioni uscite in italiano, tedesco, francese, inglese, portoghese, polacco, turco. Non sono né figlio, né genero, né parente di professori universitari; sono il primo laureato della mia famiglia (poi ho pure preso il dottorato di ricerca); mio padre faceva l’impiegato di concetto (era ragioniere), mia madre aveva la terza media (ed ha fatto pure la donna delle pulizie, per campare); i miei nonni erano un operaio calzaturiere ed un macchinista ferroviere, le nonne una cappellaia (sono alessandrino di nascita, ha presente Borsalino?), l’altra casalinga. Se sono diventato quello che sono (magari non me lo merito) è stato grazie al fatto che tra gli anni Sessanta e Settanta in Italia si è innescata una poderosa mobilità sociale. Grazie alla sinistra (nelle sue varie articolazioni), al sindacato ed ai movimenti di massa. Oggi questa mobilità non c’è più. E questo mi basta per decidere che il mondo d’oggi non mi piace. Un’ultima cosa: Lei mi deve delle scuse!!! Quando ha detto che in passato si entrava solo se si era parenti ecc. ecc. di qualche accademico Lei mi ha INSULTATO!!! E con me tutti quelli come me. Che vengono (veniamo) dal basso. Si vergogni e mi chieda scusa. Altrimenti risulterebbe un CIALTRONE.

  62. Ma com’è figo il progressismo rottamatore di questi nuovi docenti o dottorandi o Pierini dell’università renziana!
    Che sobrio, invidiabile, sciolto, leggero (da “Lezioni americane”) il loro lessico rispetto a quello pesante, ideologico, oscurantista «che funzionava negli anni ‘70» del Novecento!
    Lode ai nuovi Migliori!
    «Non sono in guerra»: la lasciano semplicemente fare ai governanti.
    L’esperienza «sui massimi sistemi» non ce l’hanno. Né vogliono faticare a farsela.
    Studiano «molto prima di esprimere un’opinione su certe questioni», ma su altre (“ideologiche” ovviamente, quindi quisquiglie) sorvolano volentieri.
    E pure volentieri s’accontentano della Scienza presente in «qualsiasi manuale di storia delle dottrine economiche e qualsiasi storia dell’economia». A patto che lì sia scritto a chiare lettere che «non esiste un neoliberismo e non esiste una politica neoliberista coerente, comune, universale».
    Sono così – naturalmente, candidamente, educatamente – antimarxisti da non capire più cosa vuol dire «mercificazione del lavoro». Epperò, se si tratta di lodare gli effetti benefici della «mercificazione del lavoro» – toh! – citano anche Marx “il progressista” che ha detto: la mercificazione del lavoro ci ha liberato dal « sistema di produzione feudale».
    Nel loro astuto cervellino hanno afferrato che «se il lavoro non fosse una merce dovremmo ancora servirci di schiavi e servitù». (Il «noi» è qui “padronale”: sta per ‘noi élite dirigente’ renziana o pararenziana, ‘noi moderni’ o ‘modernizzatori’, ‘noi progressisti’). Ma in esso non c’è posto per la «banalità» dell’analisi di « quella merce peculiare che è la forza-lavoro.» ( Cfr. http://www.filosofico.net/Antologia_file/AntologiaM/MARX_%20LA%20FORZA_LAVORO%20COME%20MERCE.htm).
    O per l’altra «banalità», scandalosamente chiamata dal medesimo Marx con una parolaccia: «sfruttamento».
    E perché non sono mai entrate queste banalità nelle loro brillanti testoline?
    Perché Marx faceva la *critica dell’economia politica* e queste testoline si accontentano di leggere solo testi che confermino la indiscutibile scientificità, attendibilità, veridicità delle (eterne) dottrine economiche. A costoro, quando insegnano, « non […] interessa fare critica, ma capire e quando è possibile, trovare la verità». «Fare critica» equivale a perder tempo. E perciò trovano «persino indecente», quando insegnano, sviluppare un lavoro critico. Se ne guardano bene! Il loro compito (assegnatogli da chi?) « è trasmettere conoscenze, passione e promuovere la libertà di pensiero». E, ovviamente, quest’ultima è stata sempre raggiunta – come dimostrano Giordano Bruno, Lutero, Marx e tutti quelli che volete aggiungere, senza mai «fare critica». Nell’«aula», dunque, si trasmettono esclusivamente le «conoscenze certe». E, fuori, «poi ciascuno pensa come vuole e fa di queste conoscenze l’uso che gli sembra il più opportuno». «Il resto [quel che non viene nominato nell’«aula»] è solo ideologia».
    Ma cos’è «l’ideologia»?
    Eh, mica « facile distinguere oggettivamente ideologia, opinione e verità».
    Di questa strana cosa si occupò – nell’«aula»? sì! – un certo Althusser (e prima ancora – lo sanno? – un certo Marx).
    Ma –tranquilli! – è acqua passata: « una mera opinione, una descrizione molto unilaterale e ideologica della realtà, molto legata all’atmosfera e agli anni in cui [Althusser] è vissuto».
    Eh, sì, ‘mercificazione’, ‘ideologia’, e quella parolaccia – ricordamela per favore! Ah, sì: ‘sfruttamento’ -, tutto « un lessico che funzionava negli anni ’70»!
    Oggi, invece, Noi abbiamo da insegnare « un pensiero o una parola [che] può arrivare a chiunque senza distinzione di schiatta, razza, ceto sociale, provenienza geografica e culturale ecc.». E «basta avere dodici euro per comprarsi il paperback».

    Ciuf, ciuf! Anzi: Bip, bip!
    È il progresso, baby, quello che ancora *avanza* (nella “nuova” università).

  63. “ Martedì 18 febbraio 1997 – Trent’anni fa una cosa che mi avviliva era che tutti i miei amici studiassero. Andavo a trovarli nelle loro case di studenti – case del centro storico, un po’ troppo del centro storico, un po’ troppo vecchie, senza luce, senza spazio, senza comodità, almeno rispetto alle mie abitudini – e quasi sempre stavano studiando. Oppure dormivano, fino a tardi, e studiavano la sera, quando io, quasi sempre, avevo sonno. Non c’era niente di strano nel fatto che studiassero, dato che, come me, erano studenti. Ma il fatto è che io, che avrei dovuto studiare come loro, avevo già smesso. Non so se avevo già smesso perché mi sembrava di avere già studiato o se mi sembrava di avere già studiato perché avevo smesso, fatto sta che non studiavo più. O, se studiavo, non ne avevo comunque più voglia, e, non avendone voglia, studiavo male, senza capire un gran che. Io avrei voluto fare qualcosa di divertente – la città, mi sembrava divertente, essere fuori casa, mi sembrava entusiasmante, e anche essere giovane come effettivamente ero. Quando entravo in quelle stanze buie, venendo da fuori, dal freddo eccitante della strada, dalle scale fatte di corsa, e li trovavo chini sui libri, con la faccia scura di chi sta concentrandosi nello studio, piuttosto poco disposti a intrattenersi con me, l’accaldato visitatore, se non in qualche discussione serissima sull’argomento del loro studio, tutto il mio entusiasmo svaniva, repentinamente mi sentivo avvilito, triste e – quel che è peggio – orribilmente colpevole. Quello che soprattutto mi dispiaceva era che fossimo così diversi, io e loro, noi che, almeno in teoria, avremmo dovuto essere amici. E, più loro studiavano, e più a me, che fino ad allora ero stato un bravo studente, ne passava la voglia. Visto in loro, lo studiare mi sembrava qualcosa di brutto, di non desiderabile, anzi di francamente odioso. Io, forse, non avevo mai studiato in quel modo, cioè, in un certo senso, non avevo mai studiato. Io mi ricordavo di essermi sempre divertito a imparare, mi ricordavo i libri letti con entusiasmo, le sere passate al tavolino come dolci lunghe tranquille sere. E, anche se era inverno, non era mai veramente buio, non quel buio triste che mi immalinconiva fino alle lacrime. Forse non studiavano nemmeno tanto quanto sembrava. Forse le facce scure che avevano non erano neanche per la concentrazione ma per qualcosa d’altro. Forse erano fatte così, e basta. Già: le facce. Ricordo solo che erano brutte, brutte da fare paura. “.

  64. HO dimenticato: non essendo ricco di famiglia (a proposito, prego il collega Coccia e tutti coloro i quali fan l’elogio dei contratti a tempo determinato di farci partecipi della propria dichiarazione dei redditi. Almeno così ciascuno capirà chi sia, materialisticamente parlando, il proprio interlocutore) dopo la laurea sono andato ad insegnare nella scuola media inferiore per una decina d’anni, poi al tecnico industriale e infine al liceo. Avendo perso la 382 non potevo permettermi di fare il precario. Perché la selezione che il precariato induce NON è meritocratica, ma assai più banalmente TIMOCRATICA!

  65. @Mantelli
    Capisco la sua indignazione e la condivido, ma dovrebbe sentirsi offeso dallo Stato, non da me. Lei è una delle numerose e confortanti eccezioni, ma il fatto che le università italiane (e non solo) siano piene di docenti assunti per favoritismi, parentele, amicizie non è un’opinione, è storia ratificata persino da qualche sentenza. E mi sembra che nel tempo la situazione sia molto peggiorata (tanto per farle un esempio personale, come me nessuno dei miei amici coetanei lavora in Italia, siamo tutti dovuti emigrare, in Francia, in Olanda, in Inghilterra, in Germania, in Spagna, in Brasile o negli Stati Uniti) e che la riforma fosse stata richiesta e invocata proprio per queste ragioni. Anche questo, mi sembra, è un dato oggettivo, difficile da negare.

    Su tutto il resto, mi spiace ma sta proiettando su di me suoi fantasmi privati, con cui non posso interagire. Non ho mai detto di essere a favore dei contratti a tempo determinato e come dice lei, vengo dal basso: pensi che durante il primo anno di università ero così povero da potermi permettere un solo pasto al giorno. So, Keep Calm and Turn Off Caps Lock.

    @Abate, Barone, Cucinotta.
    Io credo al senso e all’autonomia e alla neutralità delle procedure e delle tecniche: si stava parlando qui di tecniche e procedure di valutazione della ricerca e di tecniche di organizzazione dell’università per garantire una maggiore internazionalizzione, una migliore qualità della ricerca e delle pubblicazioni. Credo che sia possibile parlare di queste cose senza essere dover parlare d’altro e senza essere obbligati a esprimere un giudizio sull’operato del governo attuale o di quelli passati, sull’oppressione del lavoro salariato, sullo stato del capitalismo planetario e sulle nostre magnifiche sorti e progressive (o progressiste). Di queste ultime cose lascio discutere i giornali e le sezioni dei partiti o dei movimenti a cui vi vantate di appartenere. Credo anche che sia possibile trovare soluzioni efficaci a problemi di questo tipo a prescindere dalle fedi politiche o religiose degli uni e degli altri e che una discussione in un sito come questo ha senso solo per questo. Se tutto fosse una questione di ideologia, asservimento, padroni, ribellioni, neoliberismo, lotta, resistenza allora sarebbe inutile e irresponsabile parlare di università, ricerca, valutazione. Ricondurre ogni problema alle solite questioni che menzionate, mi sembra, serve solo a inoltrarsi ancora di più nella notte in cui tutte le vacche sono nere.

    Infine vi rassicuro: conosco lo stato dei contratti per l’impiego pubblico in tutta Europa; trovo come voi che il salario di un professore universitario e di un insegnante delle scuole primarie e secondarie sia ignobilmente basso; leggo i giornali anch’io, e sono al corrente di quello che sta succedendo nel mondo.

  66. Caro Mantelli,
    non si arrabbi e si tenga stretto il suo percorso professionale ed esistenziale. Mi viene da dirle, da nata negli anni Settanta: beato lei! Coccia, io e tanti altri che in questo blog intervengono abbiamo compiuto gli studi in tutt’altra temperie economica e sociale, quella degli anni Novanta. Quelle parole d’ordine (mobilità sociale, sindacati, movimenti di massa…) sono per molti della mia generazione puri nomi, perché (mi scusi la cattiveria) finito il movimento, occupati i posti di comando, la sua generazione in molti casi si è ben guardata dal tutelare e promuovere la mobilità sociale, la meritocrazia, ecc. ecc., soprattutto nell’Università.
    Chi è che si deve arrabbiare? Un saluto concorde.

  67. Caro Coccia (essendo colleghi possiamo anche darci del tu, no?), noto con (dis)piacere che nel merito Lei non è entrato. Deswegen, gehen Sie, bitte, sofort zum Teufel und sagen keine Dummheit mehr.

    Cara Caprara, evito di risponderle con una nota citazione di Mao Zedong (che orrore, non so proprio stare in società, vero?) riguardante la luna, un dito ed un osservatore esterno; mi permetto solo di far notare che la mia generazione (e quelle immediatamente precedenti e successive) si sono date collettivamente da fare (pagando anche di persona). Gran parte dei nati negli anni Settanta, invece, hanno preferito l’individualismo più sfrenato, il bellum omnium contra omnes, la concorrenza ai danni dei colleghi. Diceva un signore (senza barba, per inciso): “quando si ha un problema, uscirne assieme è politica, uscirne da soli è egoismo”. Chi semina in genere raccoglie.

  68. Caro Coccia, la discussione pubblica richiede il rispetto di alcune elementari regole, tra cui ricordo la conseguenzialità logica e la lettura dello scritto su cui si interviene, senza attribuire all’interlocutore proprie proiezioni più o meno immaginifiche.

    Del resto, il fatto di accomunare tre distinti interlocutori la dice già lunga sull’approssimazione con cui lei interloquisce.

    L’unica cosa che posso aggiungere anche se temo che lei la interpreterà a suo modo, è che posso anche concepire che qualcuno scelga la schizofrenia di escludere il luogo di lavoro dal resto della propria vita, come se le proprie idee siano qualcosa con cui ci si possa vestire e svestire a comando, ma che addirittura lei se ne faccia un vanto e intimi ad altri di farla propria, è davvero fuori da ogni ragionevolezza.

  69. Cara Caprara, al contrario di Mantelli, io sono convinto che la mia generazione abbia delle colpe formidabili, ma bisognerebbe almeno mettersi d’accordo su quali siano queste colpe.

    Al contrario di lei, io penso che le colpe siano esattamente opposte a quelle che lei ci attribuisce, e cioè sono proprio quelli della mia generazione che hanno permesso che una stagione di un sistema liberaldemocratico costruito attorno ai principi della costituzione nata a seguito della resistenza e costruita dai nostri padri venisse abbandonata per seguire modelli del mondo anglosassone importati senza alcun spirito critico e che hanno reso questa società inumana.

    Il non aver garantito ai nostri figli ciò che i nostri padri c’avevano donato è sicuramente una grave colpa che la storia si incaricherà di certificare.

    Tuttavia, ciò è un motivo in più perchè coloro tra noi che non hanno condiviso questa responsabilità se non oggettivamente, manifestino le loro idee, fosse pure a puro livello di testimonianza.

  70. @Cucinotta
    Ho l’impressione che lei non abbia capito quello che ho scritto e provo a essere più chiaro

    Nei miei interventi precedenti a dire che alcune tecniche di valutazione e alcune pratiche introdotte recentemente nelle università italiane mi sembrano efficaci e segno di un reale progresso
    Lei mi ha accusa di “descrivere la nuova normativa imposta da un attacco ideologico senza precedenti che si è abbattuto sul mondo occidentale, come l’unica realtà possibile” e mi rimprovera di non capire che tutto dipende da “una questione di carattere generale, che investe l’intera società”, da “aspetti ideologici fondamentali”; dalla “natura adattativa dellì’uomo” dinanzi a una politica, “ormai totalmente asservita agli interessi economici di un numero ristretto di soggetti, assunta dogmaticamente come rappresentativza di interessi generali”; dall’accettazione supina “della scelta di chi comanda”, che ha trasformato “le università in una sorta di reparti per la ricerca delle industrie”.

    Io mi sono limitato a dire che il valore di una tecnica di organizzazione non dipende dal governo che l’ha varata, e che quindi non può attribuirmi alcun giudizio sulle politiche di nessun governo. Ho ribadito che si può parlare di pratiche universitarie senza dover speculare sul destino del mondo occidentale, del capitalismo, dell’ideologia o dell’antropologia umana.
    Era un invito a concentrarsi su questioni più umili, più concrete e meno vaghe. E soprattutto una domanda, spassionata, a uscire dal gergo che sta usando, che non giudico ma semplicemente non capisco. E non sono il solo mi sembra.

    @Mantelli
    Non c’era nulla nel merito di cui discutere. Entrerò nel merito quando lei parlerà più chiaramente, senza trasformare una questione molto concreta nella dialettica tra politica e l’individualismo sfrenato di giovani (ha ragione, vogliamo solo il successo, il denaro e la gloria! Come ci ha inquadrato bene! E siamo tutti drogati e nichilisti!). Le darò del tu e la riconoscerò come collega quando la smetterà di darmi del cialtrone o di mandarmi al diavolo.

  71. Caro Coccia, non sia così modesto. Lei ha fatto delle affermazioni ben più ampie di quelle che rivendica nel suo ultimo intervento.
    Se lei per primo non avesse posto la questione in termini nettamente ideologici, io non avrei affrontato questo livello di discussione, anche se le cose che lei mi attribuisce sono del tutto fantasiose e non so da dove lei le deduca. Ciò mi impone di richiamarla alla lettura attenta degli interventi nel caso lei voglia interloquire.
    Cito sue parole, che spero non vorrà ora disconoscere:

    “Questa generazione non ha nessun problema a scrivere “I will point out”. Questi sono i nuovi costumi, che lo si voglia o meno: il desiderio di essere chiari e brevi, di pubblicare su riviste che praticano il peer review, scrivere in inglese, partecipare a progetti internazionali, è per loro qualcosa di ovvio e istintivo.

    Questa è la realtà; la si può accettare o meno, ma esistono centinaia di colleghi di questo tipo, ovunque, che lavorano o vorrebbero lavorare all’università. Ed è un fatto che l’università di domani e dopodomani appartiene e apparterrà a loro. ”

    Altrove, lei dice ancora:

    “Io credo al senso e all’autonomia e alla neutralità delle procedure e delle tecniche: si stava parlando qui di tecniche e procedure di valutazione della ricerca e di tecniche di organizzazione dell’università per garantire una maggiore internazionalizzione, una migliore qualità della ricerca e delle pubblicazioni.”

    Ebbene, questa è, che lei ne sia consapevole o no, un puro distillato di ideologia, la prima quella che richiama all’ordine sulla base del pensiero dominante, la seconda molto più semplicemente perchè sugli aspetti concreti, non c’è ragione di credere come se si trattasse di una fede, ma di sperimentare. Se le procedure di valutazione adottate dall’ANVUR funzionano o no, dovremmo poterci tranquillamente mettere d’accordo, basta vederne i risultati.
    C’è qualcuno che possa affermare che i servizi forniti dall’università siano miglioratia seguito delle novità normative introdotte tanto per fare un riferimento, nell’ultimo decennio (anche se si dovrebbe andare più a ritroso)?
    L’università sta andando a rotoli come possono osservare tutti coloro che ci lavorano, ma che alla fine vi si adattano cedendo agli infiniti ricatti a cui sono sottoposti.
    La mia cura è una sola, non garantire il docente, ma garantire il ruolo dell’università, ed è proprio per lo scempio che vedo perpetrarsi oggi che intervengo per tentare di fermare questo andazzo distruttivo.
    Ogni lavoro dovrebbe essere svolto con piacere, ed anche se mi rendo conto dell’utopia di un simile obiettivo, ritengo che certi lavori più di altri richiedano non solo una generica partecipazione emotiva dell’operatore, ma una vera e propria passione, come quella che per decenni ha portato me e tanti altri colleghi, a non badare agli orari di lavoro, a trascorrere interi week-end praticamente chiuso all’iuniversità perchè solo allora avevo il tempo macchina che mi era necessario.
    Studiare può costituire una formidabile fonte di piacere, e credo che la disinteressata ricerca della conoscenza, la pura curiosità scientifica siano da sole sufficienti a garantire la dedizione al lavoro per un docente che ha la duplice fortuna di nutrire una simile passione e di essere anche pagato per questo.
    Ciò implica che il momento dell’assunzione con certi caratteri di stabilità all’università dovrebbe costituire il passaggio selettivo decisivo, proprio per escludere chi non sente quanto questo tipo di lavoro sia un privilegio proprio in quanto permette innanzitutto di coltivare una passione. Ogni altra forma di controllo non potrà essere sufficientemente efficace, perchè come dicevo altrove, richiede un criterio rigido che come tale può essere inevitabilmente aggirato. Il docente che considera questo lavoro solo come uno strumento di promozione sociale ed economica è il vero nemico dell’università che non sarà mai possibile controllare.
    La valutazione non può che essere peer to peer, e vi assicuro che almeno nel campo delle scienze sperimentali, funziona da sempre a meraviglia. Chiedetevi perchè solo alcuni organizzano incontri scientifici, solo alcuni vengono invitati in tutto il mondo a tenere plenary lectures, a scrivere capitoli di libri scientifici.
    La considerazione dei colleghi è l’unica cosa che mi pare possa essere assunta come criterio di valutazione, come del resto da studenti delle scuole secondarie, proprio i propri compagni.
    costituivano la giuria più appropriata per essere valutati.

    Adesso, per entrare ancor più nel merito, dovrei parlare di H-index, di impact factor, di indici bibliometrici in generale, dovrei parlare dei criteri citati nei concorsi per la selezione dei candidati, ma avrebbe senso entrare ancora più nel merito, ad un livello così tecnico in questa sede?

    Mi sembra più interessante riportare la semplice constatazione da parte di tutti coloro che non sono ciechi, che aver messo tutto il settore della valutazione nelle mani di un gruppo di burocrati di nomina governativa sta distruggendo l’università e dovremmo trovare il modo di fermarli.

  72. “Era un invito a concentrarsi su questioni più umili, più concrete e meno vaghe. E soprattutto una domanda, spassionata, a uscire dal gergo che sta usando, che non giudico ma semplicemente non capisco. E non sono il solo mi sembra” (Coccia)

    Vediamo se si riesce a trovare una mediazione tra i (supposti) accecati dall’ideologia e lei che sarebbe invece del tutto esente da questo malanno.
    Sarò/saremo (noi tre suoi interlocutori che ha “ammucchiato” in un precedente commento) deformati dalla contemplazione ideologica dei massimi sistemi, ma questo suo semplice “invito” è altrettanto (se non più) ideologico; e questo suo linguaggio è altrettanto gergale (magari di segno rovesciato) del mio/nostro .
    Può anche darsi che – qui parlo solo per me – nel mio occhio si sia conficcata una trave d’ideologia e nel suo ci sia soltanto un fuscello. Ma lo riconosca questo fuscello. E forse un minimo ci si intenderà. Non è possibile, insomma, che non ci sia relazione tra questioni più umili e questioni generali. Concentrare lo sguardo sul dettaglio di un paesaggio può essere utilissimo. Abolire il paesaggio, affermando che non lo si capisce o non lo si conosce o non lo si vuol conoscere, è superbia.

  73. Personalmente a Lettere a Bologna ho trovato un ambiente che spesso rasentava la mediocrità. A parte casi sporadici, molti docenti fanno didattica con noia burocratica, altri si esaltano di fronte a una platea di studenti che raramente conosce lessici e bibliografie sciorinate, pendendo dalla bocca dell’orante e maturando cattive associazioni di idee. Per non parlare di chi in sede d’esame scarica sugli studenti le proprie frustrazioni burocratico-accademiche.

    Mi dispiace, ma qui si razzola sempre sulle generali. Queste idee infelici esposte con buono stile non mi pare abbiano altro sfogo che articoli su blog letti da chi ben conosce simili vicende. A parole si resta al sicuro dentro il cortocircuito: “ci leggiamo sempre tra noi”. Nella vita quotidiana si pensa solo a intascare lo stipendio avendo il posto molto ben assicurato.

    In fondo, credo che il “lamento”, ossia il discorso delle passioni tristi, sia un vero e proprio genere letterario degli intellettuali italiani, con evidenti punte negli ultimi anni, conseguenza dello sgonfiarsi della specificazione “[intellettuali] di sinistra”.

    Una prece.

  74. “ 20 ottobre 1978 – Linke Malinconie – Moloch vecchie demenze. ogni volta / concedersi il diritto di prova. con / una lunga prassi per ingannare il / tempo. una gestione scorretta. ma / senza averne la prova. ogni volta / ancora uno sforzo. per riposare c’è / tempo. un vago senso del tempo. una / malinconia a sinistra. “.

  75. Dal momento che non mi sembra che la mia parafrasi della celebre esortazione brechtiana sia stata raccolta neanche da coloro ai quali sono stato accomunato, entro nel merito del dibattito in corso ricordando che il processo di riforma dell’università italiana, che si può definire, in modo più appropriato, come processo di destrutturazione della medesima in senso neoliberista e anti-humboldtiano, fu avviato dal ministro Ruberti alla fine degli anni Ottanta del secolo scorso, facendo dell’autonomia il cavallo di Troia del passaggio di questo apparato ideologico di Stato da un regime di temperata sussunzione formale alla legge del valore ad un regime di progressiva sussunzione reale, ridefinendone gli obiettivi in funzione degli interessi economici dei ceti capitalistici e subordinando la ricerca scientifica e la didattica alle strategie del potere economico (soprattutto e innanzitutto, come è ovvio, nel settore tecnico-scientifico e medico-sanitario). Con l’impulso che è stato impresso a livello internazionale al Processo di Bologna, promosso e condotto per l’Italia da Berlinguer e Zecchino, la sussunzione dell’università alla legge del valore ha assunto poi un ruolo decisivo nelle strategie del capitale europeo. Va da sé che individuare una linea di demarcazione politica tra la destra e la sinistra in questo processo di destrutturazione per tappe sarebbe impresa altrettanto vana quanto fu la ricerca dell’elitropia nella famosa novella di Boccaccio. È da notare, peraltro, che la politica universitaria europea è stata elaborata dall’ERT (‘European Round Table of Industrialists’), che è uno dei gruppi di pressione più potenti che esistano ed agiscano in Europa, il vero ispiratore del Processo di Bologna e delle linee di riforma della Commissione Europea) ed applicata al contesto nazionale dalla Confindustria. Il processo di destrutturazione dell’università, denominato nella lingua di legno del dispotismo capitalistico come ‘riforma’, è stato infatti dettato da personaggi come Marcegaglia e Squinzi agli emissari governativi che si sono susseguiti in questi anni, partendo dalla Gelmini e arrivando alla Giannini. È chiaro come il sole che nella politica universitaria (e tendenzialmente nella stessa università) non c’è più spazio, da molti anni, per le teste pensanti, ma solo per i satelliti ubbidienti. Così, il processo di riforma dell’università che è stato avviato da Ruberti e perfezionato dai suoi successori, ha imposto una gestione privatistica degli atenei, subordinando l’assegnazione delle risorse pubbliche alla realizzazione degli obiettivi economici fissati dal governo e facendo della valutazione, a tutti i livelli, un’arma micidiale nelle mani del blocco capitalistico-governativo-baronale. Si trattava, e si tratta, pertanto di un progetto organico che tocca tutti gli aspetti della vita universitaria – dal diritto allo studio ai rapporti di lavoro, dalla didattica alla ricerca – alterandone la natura e ridefinendoli in funzione degli interessi delle imprese. Obbedienza e perdita di autonomia sono i nuovi obiettivi cui tutto il personale universitario deve adeguarsi, dagli studenti ai docenti, passando per il personale tecnico-amministrativo. Va da sé che nell’università così riformata non c’è più posto, se non in alcune residue nicchie, per gli studenti che vogliono sviluppare i propri interessi scientifici e culturali con autonomia e senso critico. Il personale tecnico-amministrativo è assoggettato a rapporti gerarchici e al ‘diktat’ dell’efficienza gestionale, che, come dimostrano le imprese private, è incompatibile con l’esercizio dei diritti. I ricercatori, dal canto loro, sono stati, se non privati, dimidiati della loro autonomia scientifica e ridotti a meri esecutori di progetti di ricerca altrui. Sul fronte didattico, l’effetto della riforma è stata, dunque, l’ulteriore dequalificazione dell’università. Gli stessi professori sono stati posti sotto la tutela del Consiglio d’Amministrazione, investito del potere di eliminare del tutto insegnamenti e sedi scomode o semplicemente poco redditizie. L’università attuale, con la sua ‘miseria brillante’ e la sua eterocefalia avvilente, è il prodotto dell’azione convergente del ceto capitalistico, dei suoi esponenti di governo (e di opposizione) e delle gerarchie baronali. È facile prevedere che non saranno né il socialismo piccolo-borghese di Bertoni, con i suoi meriti descrittivi ma anche con la sua totale impotenza politica, né l’efficientismo capitalistico di Coccia, con la sua apologia tardo-weberiana della ‘Wertfreiheit’ e con il suo supino adeguamento ai rapporti di proprietà che regolano la vita universitaria e reggono quella sociale, a invertire il processo in corso. L’epoca della compiuta peccaminosità, evocata da Fichte nei suoi “Lineamenti dell’età presente”, è ben lungi dall’essere finita, mentre dell’epoca successiva, quella dell’incipiente giustificazione, non si vede alcuna traccia.

  76. Caro Milton F., le segnalo un libro, se non l’ha già letto: “Il lamento dell’insegnante” di Alessandro Banda, ed. Guanda. Una storia lunga più di duemila anni. :-)

  77. Caro Coccia, NON le ho dato del cialtrone, ho detto che se non mi chiedeva scusa degli insulti che oggettivamente mi ha lanciato contro Lei si sarebbe comportato da cialtrone. È altra cosa. Poi Lei scuse non me ne ha porte. Tragga Lei le conseguenze. Quanto all’invito ad andare al diavolo, premesso che non credo Satanasso sia una cattiva compagnia, non capisco perché si adonti, visto che Lei accusa a man salva gli altri di dar sfogo alle loro frustrazioni personali… Se non Le garba Lucifero, allora provi a recarsi almeno in un ridente paesino del Monferrato, di nome Aramengo.

  78. @Coccia
    Caro Coccia, sono abbastanza d’accordo con quello che lei scrive, e devo dire che in effetti mi ha progressivamente deluso l’articolo di Bertoni, che pure punta il dito su alcune magagne evidenti (la didattica *non* è valutata per le progressioni di carriera eppure è sicuramente la parte più onerosa, complicata e burocratizzata del nostro lavoro … anche quella che può dare le maggiori soddisfazioni, aggiungerei).

    Mi spiace che la discussione abbia preso una brutta piega, con tanto di aggressioni verbali e richieste di autocritica (ah, i buoni vecchi anni ’70!) nei suoi confronti: lei ha mostrato che il re è nudo puntando il dito su quel mostro mitologico del “neoliberismo”, perfetto equivalente del “gender” per gli ultras cattolici. E’ un peccato perché alcune considerazioni, in particolare quelle che riguardano l’effetto di mobilità sociale dell’università pubblica, sono perfettamente condivisibili: mi piacerebbe che si discutesse con calma di tutti gli aspetti della questione, ma a quanto pare gli animi dei valorosi accademici di sinistra sono un po’ troppo infiammabili per riconoscere che esistono altri punti di vista oltre al loro.

  79. In parte sono d’accordo. Ho l’impressione che la generazione passata di professori universitari badasse più alla sostanza e fosse meno assorbita dalle idiozie burocratiche. Forse se ne fregavano e basta. Il sistema (o l’età veneranda) glielo consentiva. Così la qualità delle loro lezioni era eccellente, e non si amareggiavano per le perdite di tempo. Magari baravano: la loro bibliografia non era aggiornata, non erano “competitivi”. Ma bastava la loro personalità a far sì che ciò che usciva dalla loro bocca fosse oro colato. Io li ammiravo, volevo imparare da loro: essere come loro.

    Poi sono arrivati i nuovi: molti, ingrigiti dalla burocrazia. Poche personalità di spicco. Molte “punte” smussate via dai cfu, dalle balle burocratiche. Non è lo scandalo di scrivere un abstract, non è quello il punto: all’autore del post è pure stato detto (dal commentatore linkato) che “le regole sono queste” e se si rifiuta di sottomettersi all’idiozia è perché non ha voglia di lavorare. http://www.hookii.it/microfisica-della-betise-come-distruggere-luniversita-e-vivere-felici/

    “Perché nessuno ha chiamato la neuro quando una qualche commissione di “saggi” ha escogitato questa trovata?”. Me lo sono chiesto tante volte, e avevo solo vent’anni. Ma i “giovani”, quelli che oggi hanno 50/55 anni, dicevano che il nuovo sistema funzionava così. E noi, noi pargoli, ce la siamo bevuta.
    Perché non hanno chiamato la neuro? Perché nessuno esprime disagio. E io sono ben felice di non essere la sola di fronte alla dittatura dell’acronimo idiota. Ogni tanto mi trovo a pensare: io un mondo diverso l’ho visto. Ho voluto entrare all’università perché l’università non era questa istituzione qui, una volta. Ne sono sicura. Ma a volte vacillo. Oppure la mia idea di allora era solo dovuta a una scarsa conoscenza di come va il mondo?

    Se questo articolo ha collezionato tutti questi commenti è segno evidente che almeno in parte coglie il segno.

    Caro Mantelli, che scrive:
    “Oggi questa mobilità non c’è più.”

    Se non c’è più, allora perché non abbiamo il coraggio di dircelo? Dica al figlio di un operaio che non può neanche ambire a fare il lavoro di suo padre. Diciamocelo. Che se sua madre faceva la donna delle pulizie, non è neanche sicuro che la figlia troverà quello da fare. Abbiamo il coraggio di non mentire ai nostri figli, ai nostri allievi. Se no, a che serve?
    Se questa mobilità non c’è più, a cosa serve insegnare all’università? A che pro illudere qualcuno di poter raggiungere qualcosa che ormai è una chimera?

    A volte penso: “ci hanno fregati”. Quando leggo articoli così ne ho quasi la certezza.

  80. Solo un’osservazione su un passaggio dell’intervento di Rehdon.
    “…quel mostro mitologico del “neoliberismo”, perfetto equivalente del “gender” per gli ultras cattolici”.

    Fusaro parla di “Neoliberismo” ed è il personaggetto televisivo che sappiamo. Pasolini parlava di “Neocapitalismo” (anche le parole seguono le mode, ma, a quell’altezza cronologica, direi che intendeva quasi la stessa cosa) e i suoi Scritti corsari sono un classico dell’impegno intellettuale.
    Ciò che è apparentemente simile in Fusaro e in Pasolini è l’uso di un termine-ombrello, di una Grande Metafora. Fusaro sa solo ripetere quella, Pasolini all’ombra di quella metafora soppesa tutto con un’enorme radicalità, tutte le contraddizioni sue e altrui.

    Che ci sia una simmetria nel GESTO di chi grida al neoliberismo e chi grida al gender, Rehdon, non dimostra affatto che ci sia una simmetria nel SOGGETTO che lo compie né nell’OGGETTO, cioè nelle cose sostanziali.
    Chi vuole agitare un’invenzione fantomatica per impedire la libertà di qualcuno e chi si confronta ogni giorno con la fatica dell’università ai tempi della competizione e della iperburocratizzazione sono due soggetti ben diversi. E impedire la libertà di qualcuno è, altresì, ben diverso dal lottare per ottenerne una che non si ha, si è persa o si sta perdendo.
    Altrimenti restiamo al livello della retorica renziana: “rottamare!”, “guardi, io avrei da conservare due o tre cose buone…” “aaaahhhh corporativismo all’italiana!”

  81. Ecco l’ennesimo sproloquio piagnone su quanto l’università sia bistrattata.

    Quanti “luminari” mi è toccato sopportare durante la carriera universitaria. Ritardatari, palloni gonfiati, personaggi che ti insultano in sede d’esame perché commetti un errore, perché non dici loro quello che vogliono sentirsi dire. «Vedo che non ha acquistato il mio libro», «Vedo che non lecca il mio culo», «Vedo che lei ignora buona parte di questo e di quello». E un bello ‘sticazzi non ce lo metti? Sono uscito dall’università dopo un percorso umanistico inorridito da tanta idiozia.

    I pochi che si salvavano erano i trombati cronici, quelli che per integrità morale non si erano piegati alle follie del dipartimento. Cornuti e mazziati per anni, costretti a pubblicare sulla Gazzetta del Poeta perché altrimenti si fa torto al sior marchese.

    Francamente l’università italiana avrebbe bisogno di una bella cura McKinsey & Co.; dove ti sviluppano un bel controllo di gestione thatcheriano e per i fancazzisti non resta che confezionare panini da McDonald’s.

    Per il momento godetevi acronimi e albionismi. La cura futura sarà ancor più amara.

  82. Coccia e l’insopportabile Piras sono molto critici rispetto all’intervento di Bertoni.
    Ottima motivazione per condividere appieno tale intervento.

  83. Ha perfettamente ragione. Aggiungo che l’attuale sistema di valutazione e reclutamento crea non poche distorsioni. Per esempio, nel settore dell’economia, il sistema incentiva i ricercatori a pubblicare articoli con diversi coautori (organizzati come in catene di montaggio); spesso una ricerca viene “spezzettata” in modo tale da poter essere trattata in più articoli; generalmente, gli articoli pubblicati aggiungono poco o nulla allo stato dell’arte. Insomma: produzione di carta a mezzo di carta.
    In aggiunta, i libri, salvo casi eccezionali, ricevono una valutazione pari a zero, sia nell’ASN sia nella VQR, per cui non c’è alcun incentivo a scriverne.
    Infine, nell’attuale sistema di reclutamento, la didattica non ha alcun peso. Si valuta solo la ricerca. In realtà, soprattutto nelle facoltà umanistiche, in quelle giuridiche o economiche, la didattica dovrebbe avere un ruolo centrale: queste facoltà formano professionisti, dirigenti, professori, ecc. La ricerca dovrebbe avere un ruolo secondario rispetto alla didattica.

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