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di Daniele Balicco

[Questo saggio è uscito sull’ultimo numero di «Between»].

Nella manifattura la rivoluzione del modo di produzione prende come punto di partenza la forza-lavoro; nella grande industria il mezzo di lavoro. Occorre dunque indagare in primo luogo in che modo il mezzo di lavoro viene trasformato in macchina, oppure in che modo la macchina si distingue dallo strumento del lavoro artigiano.
Karl Marx, Il capitale

Noi ci siamo occupati tanto a fondo del problema di sapere che cosa pensiamo da esserci dimenticati di chiederci che cosa la psiche inconscia pensi di noi.
Carl Gustav Jung, L’uomo e i suoi simboli

Il rito, ogni rito, è un condensato di storia e preistoria: è un nocciolo dalla struttura fine e complessa, è un enigma da risolvere; se risolto, ci aiuterà a risolvere altri enigmi che ci toccano più da vicino.
Primo Levi, Opere

1. Realismo ingenuo

La cultura contemporanea occidentale immagina il proprio futuro con molta difficoltà. Non a caso la forma più comune di rappresentazione simbolica del futuro è la catastrofe. Naturalmente esistono ragioni oggettive che possono giustificare questo impulso simbolico autodistruttivo. Prima fra tutte, la percezione fisica, percettiva, estetica della distruzione dell’ecosistema e della biosfera; ma, subito dopo, potremmo enumerare una serie di condizioni di pericolo a cui ci stiamo abituando a essere esposti, per lo meno a livello ipotetico: caos sociale, crisi economiche, povertà, violenza politica, guerre, terrorismo, se la nostra sensibilità è soprattutto storico politica; contaminazioni radioattive, manipolazioni genetiche, epidemie, avvelenamenti di massa, disastri tecnologici, se ci spaventano di più quelli che Ivan Illich avrebbe chiamato gli esiti contro-produttivi della produttività (cfr. Illich 1973). Anche solo l’elenco sommario di queste condizioni di pericolo mostra come, in questi ultimi decenni, la cultura occidentale abbia sperimentato, con intensità crescente, la crisi dell’idea di progresso, non tanto a livello teorico, quanto a livello percettivo-sensibile. La società contemporanea trova però anche molto difficoltà a immaginare il passato. Da meno di vent’anni comunichiamo tutti con la posta elettronica. Difficile pensare come vivessero, non dico i nostri nonni, ma perfino i nostri genitori, alla nostra stessa età, senza computer, senza cellulari, senza internet. Per contro, abbiamo la possibilità di accedere a una quantità enorme di documenti del passato, anche remoto, in forma digitale. Le stesse informazioni che avremmo recuperato in mesi di studio, lavorando su materiale d’archivio, oggi le otteniamo in pochi secondi, con un motore di ricerca, dal nostro computer di casa. La quantità sconfinata di informazioni del passato, depositata nella memoria alfanumerica delle macchine digitali, non può non suscitare un sentimento simile a quello che Gunter Anders avrebbe definito “vergogna prometeica”(cfr. Anders 2007).

Allo stesso tempo, però, l’immensa memoria digitale a cui possiamo accedere oggi permette una conoscenza del passato solo visiva, solo mentale, solo astratta. Non possiamo toccare i documenti, non possiamo sentirne l’odore, non possiamo avere un’idea tridimensionale del luogo fisico dove sono stati conservati, per anni o secoli. Esattamente come per l’idea di progresso e di futuro, è a livello percettivo-estetico che non riusciamo più a sentire il passato: tanto come appartenenza, quanto come discontinuità. Forse perché, come sostiene Christoph Turke, con la trasformazione digitale del mondo è come se stessimo vivendo per la prima volta le conseguenze teoriche della rivoluzione copernicana a livello percettivo di massa (cfr. Turke 2002). Cosa significa? Semplicemente, che nell’universo microelettronico nel quale ormai tutti parzialmente abitiamo, lo spazio e il tempo iniziano a essere vissuti come variabili astratte, indipendenti dai limiti “geocentrici” a cui l’uomo è stato abituato da quando la sua specie esiste e abita questo pianeta.

Le sempre più numerose rappresentazioni estetiche della vita dopo la fine del mondo (soprattutto in romanzi, film e serie tv) [1] come il diffondersi ubiquitario di consumi simbolici di massa (videogiochi, pornografia, droghe, tatuaggi), che definirò con il concetto di nostalgia dell’iniziazione [2], parlano in realtà dell’ingresso dell’umano in una dimensione storica che sta sperimentando un’esperienza del tempo così radicalmente nuova da mettere in crisi le strutture antropologiche di base dell’immaginario – quanto meno quelle formatesi a partire dalla rivoluzione neolitica. La fine del mondo non è dunque semplicemente la catastrofe ambientale, benché sia anche questo. Il nostro mondo sta finendo perché l’alfabeto simbolico con cui l’uomo ha imparato a interpretarlo da millenni non funziona più.

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Note

[1] Per una prima ricognizione sull’estetica apocalittica contemporanea cfr. almeno, in una bibliografia ormai molto vasta, i volumi di: Mirko Lino (2014); Malcom Bull (1995); Monica Germanà – Aris Mousoutzanis (2014); Kenneth Newport – Crawford Gribben (2006).

[2]  Definisco con il concetto di nostalgia dell’iniziazione la diffusione di alcuni consumi simbolici di massa, destinati a un pubblico di adolescenti, ma diffusi anche fra gli adulti (ed è questa, per altro, già la prova della disattivazione del loro funzionamento iniziatico, del loro sopravvivere cioè solo come nostalgia, se intendiamo l’iniziazione come superamento del confine che introduce l’adolescente nell’età adulta), che riattivano scene immaginarie ed esperienze sensoriali proprie dei riti iniziatici premoderni.

[Immagine: Edward Burtynsky, Oxford Tire Pile (gm)].

8 thoughts on “La fine del mondo. Capitalismo e mutazione

  1. E’ veramente un intervento di notevole valore. Tra l’altro le considerazioni sul bisogno di iniziazione attraverso i consumi mi ricordano in qualche misura quelle sulla fine dell’esperienza in Infanzia e storia di Agamben.
    Giorgio Mascitelli

  2. Mi sembra un saggio che stia facendo seriamente i conti anche sulla scelta stilistica più adatta per affrontare la realtà del mondo che abbiamo ereditato dalle ultime evoluzioni tecnologico-produttive: quella definita come, appunto, micro-elettronica.

    Ovvero, l’autore stesso si è posto il cocente problema di come poter parlare ancora di una percezione dell’esistenza (così come dell’estetitco) nel momento in cui prevale l’unica linea temporale sincronica e intensificata del capitale, che riesce a pervadere ogni aspetto della nostra vita quotidiana.

    Torna quindi il problema già noto alla teoria letteraria, che non si limita soltanto a scovare il contenuto ed investigarlo (che cosa è e cosa comporta l’epoca della micro-elettronica?), ma qual è la forma estetica che sia all’altezza di una sua descrizione, e che sia in grado di argomentarla. Per i critici si tratta di questioni cicliche, che cambiano di volta in volta nelle soluzioni formali, e che rimangono sempre attuali.

    “Negli anni dell’emergere del capitalismo come forza sistemica, il campo dell’estetica inizia a mostrare dei sintomi interessanti di trasformazione che riguardano precisamente il funzionamento della verosimiglianza come meccanismo di potere in grado di selezionare, dalla realtà, CIO’ che deve essere narrato e COME deve esserlo”

    E’ dal Romanticismo infatti che si inizia a parlare anche del COME si debbano affrontare i vari generi letterari, quale stile sia il più adatto a svolgerne uno anziché un altro. Per rimanere in tema, anche se cambiando genere, un esempio molto efficace e semplice che mostra questo sconvolgimento è quello del Bildungsroman e del romanzo storico, che, di epoca in epoca, come sappiamo, degenera, si rovescia, si riduce, si appiattisce, poi scompare, quindi ritorna…Così che attualmente abbiamo anche soluzioni formali del Novel coesistenti.

    Perciò, quando, recuperando anche Harvey, si afferma che lo spazio\tempo delle nuove tecnologie sia stato compresso, sovrapposto, e intensificato, al punto di disinnescare quella distanza temporale imprescindibile, che serve a formulare un cambiamento qualitativo della vita, in base a delle esperienze (iniziatiche) significative, che stile possiamo utilizzare per testimoniare tale perdita, e offrire, allo stesso tempo, già nella forma, un tentativo di soluzione al problema?

    In questo caso specifico, finisce che si debba farei i conti con quel surrealismo di massa, di cui parlava Fortini. Che probabilmente si sia costretti a fare proprio?

    A farlo proprio nel contenuto, nella misura in cui le immagini del mondo circostante si manifestano come in un’esplosione continua che le propaga in modo irrazionale. Ma, allo stesso tempo, se ne rifiuta lo schema in quanto vengono tenute insieme con una forma cristallina, ordinata, e (al suo interno) logica, mediante uno stile snello, che non esalta l’oscurità di quella sovrabbondanza ma, viceversa, cerca di farvi luce.

    La disparità delle circostanze, delle questioni, degli esempi, delle epoche da prendere in considerazione, sono infatti molteplici, così che lo sforzo di Balicco di coagularle in un discorso coerente assume le sembianze di un’impresa titianica…

    Ad un caos, che è in realtà il risultato di questa intensificazione esasperata di nuovi modi di produzione, si è costretti a rispondere con un altrettanto intenso eclettismo trasversale e multi-disciplinare, dovendo ricorrere, quasi, ad una bulimia delle fonti, degli autori, e dei modelli teorici, che siano in grado di razionalizzare il gomitolo intricato per metterne in evidenza la componente traumatica accuratamente rimossa.

    Il rischio di fare indigestione c’è. Ma probabilmente è una delle maniere più consone proprie della forma-saggio per districarsi in questo marasma. Quest’ultima è d’altronde simile al genere poetico, capace di condensare le immagini disparate attraverso spesso l’allusione e la condensazione.

    (Ps. Un augurio di Buon Natale alla redazione di Allegoria e de Le Parole e Le cose).

  3. “La crisi dell’idea di progresso” è uno di quei concetti che esistono solo nelle narrazioni di certa sinistra apocalittica tanto in voga qualche anno fa che si deliziava di elencare tutti i punti deboli del capitalismo i quali avrebbero portato all’imminente implosione del sistema. Lamenti delle prefiche ai funerali quotidiani dell’Occidente capitalista. Funerali che, è il caso di ricordarlo, esistono solo nella mente delle suddette prefiche. Ma tutto l’articolo è un sequela di marchiani bias cognitivi.

    Nonostante le crisi economiche, l’Occidente, o il mondo in generale, sperimentano una sostenuta crescita economica per cui si può ben dire che, dal punto di vista economico la gente, anche di questa parte del mondo, stia meglio oggi che in qualsiasi epoca del passato.
    La povertà è in declino in tutto il pianeta e in particolare negli ultimi decenni centinaia di milioni di persone di Russia, Brasile, Cina, India sono uscite dalla condizione di miseria materiale.

    Caos sociale, violenza politica e terrorismo. Ci si dimentica cosa fossero gli anni di piombo in Italia e altrove e quanto fosse diffuso un sentimento di insicurezza generale. Proprio in questi giorni ricorreva il trentennale degli attentati terroristici agli aeroporti di Roma e Vienna.

    Le manipolazioni genetiche sono sempre state praticate. Se ci si riferisce agli OGM si dovrebbe spiegare per quale motivo costituiscano un pericolo.

    Contaminazioni radioattive, avvelenamenti di massa, disastri tecnologici? Dove e quali? Mai come in questi ultimi tempi l’attenzione per la sicurezza e la preservazione ambientale sono stati così sentiti e presenti nell’opinione pubblica e negli ordinamenti giuridici.

    Il cambiamento tecnologico avvenuto negli ultimi trent’anni ha sì rivoluzionato il nostro quotidiano ma possiamo dire che lo stesso sconcerto lo aveva chi negli anni ’80 si fosse immaginato la vita di trent’anni addietro senza il telefono, la lavatrice, l’automobile etc. etc. Cambiamenti che non sono da meno rispetto a quelli considerati nell’articolo.

    Si afferma che la digitalizzazione dell’informazione riduca la nostra conoscenza del passato ad astrazione. Che significato ha un’affermazione del genere? A meno che non si abbia esperienza diretta la nostra conoscenza del passato non può che essere astratta. Spero che non si sia così ingenui da pensare che toccare e annusare un libro siano un esempio di conoscenza concreta. Sono un po’ imbarazzato nel fare questa puntualizzazione perchè sembra una riduzione a parodia di un concetto profondo, invece è esattamente ciò che ha scritto l’autore: «l’immensa memoria digitale a cui possiamo accedere oggi permette una conoscenza del passato solo visiva, solo mentale, solo astratta. Non possiamo toccare i documenti, non possiamo sentirne l’odore, non possiamo avere un’idea tridimensionale del luogo fisico dove sono stati conservati, per anni o secoli».

  4. E poi c’è chi sostiene che “Cuore” del De Amicis è un’operetta tutto sommato dozzinale! Meno male invece che i suoi personaggi ci illuminano ancora oggi con le loro panglossiane profondità di pensiero e ci rimproverano, noi malmostose e “sinistre” prefiche, per la nostra ingratitudine verso il capitalismo!
    Buon Anno.
    Ancora e sempre nel nome del profitto ovviamente.

  5. Ringrazio tutte le persone che hanno commentato questo mio articolo

    @ Franti

    Difficile rispondere ad un commento che fraintende completamente l’impostazione generale del mio scritto, il cui primo capitolo si intitola “Realismo ingenuo” non a caso. Non c’è alcun giudizio morale in quanto riporto. Il mio scritto è un primo tentativo di capire il senso della ricorrenza compulsiva della rappresentazione della fine del mondo in film e romanzi contemporanei. Niente di più. Il titolo infatti è un omaggio al capolavoro di Ernesto De Martino, che si intitola La fine del mondo, appunto. Ed è un saggio sui rituali della fine del mondo nelle culture classiche e in quelle non occidentali. Ma forse Franti ha letto solo la pagina riportata dal sito; e pazienza. La tesi ridotta all’osso è che la messa in scena della fine del mondo racconta non tanto la fine dell’ecosistema, quanto la fine del nostro mondo simbolico e l’inizio di uno nuovo. Nel bene e nel male, come ogni passaggio storico.

    Detto questo, solo una nota. Capisco che può essere divertente mascherarsi dietro il nomignolo Franti. Più difficile, invece, capire per quale ragione una persona debba discutere, usando un tono al limite dell’invettiva e del vituperio. Si può anche ragionare senza offendere. So bene che ognuno sfoga la rabbia personale dove può e il web, oggi, svolge benissimo anche questa funzione. Per quanto mi riguarda, però, è l’ultima volta che risponderò ad un commento scritto con questo tono e per di più con un nomignolo. Almeno avere coraggio delle proprie idee non sarebbe male. In caso contrario si rischia di essere, come Franti, ripetenti a vita.

  6. Caro Balicco, il mio commento voleva essere polemico ma non insultante. Se è andato oltre i miei intendimenti le porgo le mie scuse.

    Saluti.

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