di Camilla Panichi
Dal 25 dicembre al 6 gennaio LPLC sospende la sua programmazione normale. Per non lasciare soli i nostri lettori, abbiamo deciso di riproporre alcuni testi e interventi apparsi nel 2011, quando i visitatori del nostro sito erano circa un quinto o un sesto di quelli che abbiamo adesso. È probabile che molti dei nostri lettori attuali non conoscano questi post. L’articolo che segue è uscito il 25 novembre 2011].
Ho ventiquattro anni e sono uno studente. Questa è la mia identità, ufficialmente riconosciuta dallo Stato in cui sono nata, in cui tutt’ora vivo e in cui vorrei lavorare, ma intimamente sentita come l’unica forma di vita che conosco. Mio padre è scalpellino. Tra pochi mesi non sarò più ciò che sono stata fino a questo momento; non potrò più scegliere, il tempo mi sarà imposto secondo un ritmo che mi è estraneo. Sì è già imposto. Lavoro con un contratto a prestazione occasionale accessoria valido solo fino ai venticinque anni di età, e solo nella condizione di studente. Vengo pagata sei euro all’ora come addetta alla contabilità. In autunno guadagno cinquanta euro al giorno andando a vendemmiare. Tutto questo tra non molto finirà. I progetti: continuare a studiare, diventare insegnante, una casa. Mia madre è operaia. Una volta laureata perderò il lavoro di adesso e la mia vita assumerà una forma diversa. Ma la mia identità è altro dal lavoro che faccio; questo lavoro non sono io. Il lavoro non è mio, come non è mia la casa in cui vivo o i luoghi che frequento; non è mia la persona che amo, non sono miei i libri che leggo. Non è mio il futuro che non vedo, perché il futuro non appartiene più a nessuno. Mi chiamo Camilla e il nome è l’unica cosa che mi appartiene.
[Immagine: Elad Lassry, Untitled (Ghost), Biennale 2011 (gm)].
Le appartiene anche un grande consapevolezza, e questo suo monito la testimonia. Un cordiale saluto. Adelelmo Ruggieri
Un messaggio come questo, cristallino e diretto, riscatta dalle tante conversazioni da bar in cui si è coinvolti in rete (sebbene anche al bar o al caffè, come sapevano gli illuministi, si possano dire e ascoltare delle cose intelligenti): ci riporta al senso vero di un sito come “Le parole e le cose”.
A Camilla, per sua e nostra fortuna, appartengono molte più cose del nome. La consapevolezza (come scrive Ruggieri), la lucidità. La dignità. Grazie
“… la solitudine, ad esempio”, Massimo Volume
“io, questa confusione e anarchia, sono io”, pilota tokkokai
“lungo i bordi della nostra esistenza ritroviamo i riflessi mancati e gli inutili sforzi finiti nel vuoto”, anonimo ammirato
Cara Camilla, Lei ha potuto studiare (nonostante i sacrifici economici che si intuiscono in filigrana nel Suo intervento) e ha già una Sua fisionomia intellettuale definita: si faccia coraggio, quindi, perché basta dare un’occhiata in giro per accorgersi che non a tutti – e non alla Sua età – è concessa questa fortuna.
Codesto solo oggi possiamo dirti / ciò che non siamo, ciò che non vogliamo
Grazie
ben ritorno a terra, quella dura e onesta, non come gli uomini che si sono inventati borghesi e promessi un occidente di infinito accumulo e consumismo, talvolta anestetizzando con la cultura il senso di colpa per aver perso il rapporto con la terra. Quei contadini che elogiava Pasolini non avevano problemi di contratto, non si ponevano ragioni sofistiche, affrontavano la durezza della vita che li poneva in rapporto con la terra. E con questo non voglio dire che si debba tornare a fare i contadini, ma ad essere consapevoli della durezza della terra e di quanto effimere e quindi prive di importanza rispetto all’essere siano le convenzioni umane. Senza mai dimenticarsi che se si è nati nella parte “sbagliata” del mondo non si ha nemmeno diritto ad un nome.
E’ molto frustrante per me sapere che siamo in tanti, eppure sentirmi solo.
Mi pare calzante questa immagine scritta da Ivan Baio e Angelo Orlando Meloni, su doppiozero.com :
“L’esorbitante numero di laureati in discipline umanistiche cavalca l’onda appiccicosa del suo viscoso tempo libero prima di sfracellarsi contro la scogliera.”
Mi è venuta in mente l’immagine di questa onda che si carica e poi si sfracella sulla scogliera. E poi mi sono venute in mente le immagini dei recenti tsunami.
camilla, io ho trentotto anni e son messa grossomodo come te (in più ho un dottorato e un figlio) – che si fa? qualcuno ha qualche idea?
@ Alfredo
“E con questo non voglio dire che si debba tornare a fare i contadini, ma ad essere consapevoli della durezza della terra e di quanto effimere e quindi prive di importanza rispetto all’essere siano le convenzioni umane”
Non è dura la terra, ma il lavoro dei contadini sotto padroni.
Non è dura la terra, ma lo sono – durissimi – i rapporti sociali capitalistici.
Chiamali pure “convenzioni umane”, ma non dire che sono “prive d’importanza”. ne soffrono milioni di uomini e donne.
@ la fosca
Ho una figlia del ’67, separata, con due figli a carico e che fa da anni lavori precari (teatro, danzaterapia, ecc.). Che si fa? – se lo chiede lei ogni poco. Da vecchio con un po’ di passato politico extraparlamentare alle spalle le ho suggerito di tentare di organizzare qualche incontro con altri suoi amici o amiche precari per chiederselo almeno assieme. Niente da fare. Ciascuno/a marcia per conto suo. Ciascuno/a sente gli altri/le altre come potenziali concorrenti.
Che si fa? se lo chiedono alcuni dei centri sociali o gli organizzatori del May day o di San Precario, ma tutto resta simbolico o quasi. Informazioni dal mondo precario più “militante” le si trovano sul sito di Global Project (http://www.globalproject.info/). Tentativi di organizzazione sindacale del precariato più attrezzato professionalmente possono essere conosciuti visitando il sito di ACTA (Associazione Consulenti Terziario Avanzato: http://www.actainrete.it/). Analisi e riflessioni importanti negli ultimi anni sono stati condotti da Sergio Bologna della LUMHI (Libera Università di Milano e del suo Hinterland “Franco Fortini”: http://www.lumhi.net/). Qualcosa si muove. Certo non si muovono i sindacati, i partiti della sinistra, i governi.
Ma lamentarsi o testimoniare dignitosamente su un blog di letterati, pronti magari a sdilinquirsi per la dignità della testimonianza serve poco o nulla.
Bisogna organizzarsi. Come fecero i primi operai quando cominciarono a sentire sulla loro pelle la sferza della rivoluzione industriale. Bisogna anche diventare cattivi/e e non mettersi mai in una posa sacrificale.
La riflessione identitaria di Camilla mi sembra molto più interessante se letta guardando al di là di tutti quei “problemi lavorativi” che pur solleva.
non vorrei rigirare il coltello nella piaga. ma a volte, in tanta spersonalizzazione, ho come la sensazione che nemmeno il nome ci appartenga in pieno, nel senso che esso ci colpisce quasi sempre da fuori, nasce sulla bocca degli altri, e ci raggiunge, come un bersaglio.
Il nome è il primo presidio di un’identità individuale, il primo segno di riconoscimento che ognuno di noi vanta in una comunità. Quando ti presenti a qualcuno, la prima cosa che dici è il nome. Ma essere solo un nome, e nient’altro, senza che quel nome diventi parte di tanti altri nomi, senza, insomma, che dall’io si passi al noi, significa che quella comunità ti riconosce ma non ti integra, ti accetta ma non ti comprende. La precarizzazione del lavoro e del futuro è l’esito della precaricarizzazione dei legami sociali che la società degli ultimi decenni, gonfia di tante etichette (capitalistica, consumistica, post-moderna), ha prodotto. Alla fine, questa precaricazzione diventa una nuova condizione esistenziale, un modus vivendi a cui giocoforza, obbeddendo ai più elementari istinti di sopravvivenza, dobbiamo adeguarci. Così il rischio è l’accettazione totale, l’idea che il mondo, in fondo, vada, debba andare così. Abbiamo, mi chiedo, realmente la forza per pensare a modelli di convivenza sociali ed economici diversi? ”Organizzarsi”, come è stato suggerito sopra? Per farlo, non bisognerebbe prima e anzitutto ricostruire un’identità collettiva, un ”noi”, che negli ultimi tempi è andato disperso, se non disintegrato da modelli culturali che hanno operato antagonisticamente nella direzione opposta?
Credo che Sandra abbia colto il punto: in questo pezzo sono sollevati dei problemi materiali, “lavorativi”, ma ciò che lo rende interessante è la frizione tra questi e una lucidissima riflessione esistenziale che, sì ne è condizionata, ma al tempo stesso va oltre. Questo pezzo non è né confuso né tantomeno è “lamentoso” (e in qualche commento sembra invece trasparire una certa insofferenza nei confronti di ciò che dice). E, per quanto sia bello il fatto che stimoli commenti di reazione (“che si fa?”), non sono così sicura di averci letto una qualche richiesta in tale senso.
Credo che qui ci sia la rappresentazione di una condizione esistenziale in cui, a prescindere dal nome che c’è scritto, molti si possono identificare. L’attestazione di uno stato, né orgoglioso né lamentoso.
Questo siamo, punto.
Il post precedente mi anticipata e non ho nulla da aggiungere, se non che NON stiamo leggendo un’intervista della Misère du monde!
Esatto, Silvia, è quello che penso anche io. E avere un nome, cioè sapere chi siamo e cosa non siamo, mi sembra una dei traguardi più importanti (a ventiquattro anni, e non solo).
Però non è vero che non si può fare nulla. Si dovrebbe cominciare a pretendere che le risorse che ci sono (copiose) vengano spalmate in modo più equo, sindacati o non sindacati (che difendono solo chi è già posizionato). Magari bisognerebbe spendere in modo più intelligente la poca energia politica della quale disponiamo, e smetterla di manifestare per indignarsi contro le donne nude sui manifesti o contro le puttanelle di arcore; ancora di più bisogna smetterla di manifestare contro le banche, ché se loro si mettono a manifestare contro di noi sono cazzi (sostanzialmente, i poveri tornano in mano agli strozzini). Bisogna invece manifestare per una legge che stabilisca la paga minima oraria (non meno di 7 euro netti); nonché il costo maggiore dei contratti precari e non il contrario (perché se tu fai il servizio della flessibilità necessaria alla cazzo di imprese, è giusto che te lo paghino); infine, il salario minimo di cittadinanza. Si vive in una nazione che spende 800 miliardi di euro all’anno, una follia: non scordatelo mai quando vi dicono ora non ci sono le risorse… Ci sono, ma sono spalmate a minchia.
… concordo con quanto scritto da sandra e con il tenore di più o meno tutti gli ultimi commenti, cioè sulla lettura eminentemente esistenzialista (e perché no “fenomenologica”, ma non vorrei utilizzare concetti che io in primis non padroneggio pienamente) del brano di Camilla. Esso cioè attesta un dato di fatto. Uno stato di cose. E non vuole, non chiede, non spera altro se non questo suo stesso darsi a chi legge. Guardate, ci dice.
A me ha colpito molto la parte finale del brano. Dove l’identità di chi scrive è in qualche modo connessa all’idea di possesso. “non è mio … non è mio … non è mio”. Perché l’uomo si forma e costruisce una propria identità proprio, e sempre, “in rapporto a”. Forse ci sta dicendo che è proprio questo “in rapporto a” ad essere in crisi. Come fa a non essere mia la ragazza che amo? Così, ho pensato, alle volte anche i nomi sfuggono al nostro controllo. I nomi sono parole, e le parole (e le cose) di chi sono allora? (della comunità parlante ovviamente).
Il fuoco della questione secondo me è proprio qui “ma la mia identità è altro dal lavoro che faccio”. Qui non si piagniucola per la mancanza di un lavoro, qui non si fanno i capricci. Qui c’è uno scollamento tra l’essere e il fare. Il fare, cioè la parte più nobile, e spiccatamente umana, del possedere.
Spero di non avervi annoiato. Questo è ciò che io ho letto.
L’espressione “piagnucolare per la mancanza di un lavoro” (@Sergio) la dice lunga sull’essere del nostro tempo, che sarà anche scollato dal fare, forse proprio perché ha “un contratto a prestazione occasionale accessoria”.
@simone: mi ritrovo nella stessa situazione, se non peggio, ma non volevo essere riduttivo in questo senso. cordialità.
tra l’altro ho scritto “piagniucolare” con la “i”, la i di imbarazzo. a presto.
@Sergio: quella “i” s’è messa come il bastone fra le ruote :-)
:) ma devo dire che provo un po’ di imbarazzo anche nell’avere utilizzato una parola come “scollamento”. a parte questo, comunque, non voglio più rubare spazio al testo pieno di dignità scritto da camilla.
ciao a tutti.
@Abate Ennio
è dura poter confrontarsi così “rapidamente”, “sinteticamente” su questioni che partono dalla vita per toccare letteratura, politica, società, sofferenze, filosofia e/o religione. Accordiamoci semplicemente sul fatto che nessuno dei due vuol trattare la cosa semplicisticamente senza considerare tutte le implicazioni sociali, ideologiche, filosofiche ecc. semplicemente non si può qui.
@sergio
secondo me il problema è la differenza tra il fare e il creare; l’ultimo può implicare le medesime azioni del primo ma è arricchito dal “senso”. E, secondo me, è questo il fenomeno degli ultimi anni: la crisi economica ha portato a galla la crisi antropologica nichilistica anestetizzata dal progresso economico degli ultimi 50 anni che ha portato con sé i meravigliosi anestetici del consumismo e dell’accumulo di ricchezza. Se vogliamo prima ancora di essi c’erano le ideologie del secolo scorso e di fine 800.
@ Silvia C.
“in questo pezzo sono sollevati dei problemi materiali, “lavorativi”, ma ciò che lo rende interessante è la frizione tra questi e una lucidissima riflessione esistenziale che, sì ne è condizionata, ma al tempo stesso va oltre. Questo pezzo non è né confuso né tantomeno è “lamentoso” (e in qualche commento sembra invece trasparire una certa insofferenza nei confronti di ciò che dice)”
Fatemi essere cattivo, visto che siete tutti così buoni. Ho scritto:”Ma lamentarsi o testimoniare dignitosamente su un blog di letterati, pronti magari a sdilinquirsi per la dignità della testimonianza serve poco o nulla”.
Ammesso che Camilla Panichi non sia un nick name ( oddio cosa va a pensare questo!), non riesco a sopportare l’ipocrisia di chi vuole ridurre questo post a una “lucidissima riflessione esistenziale” che “va oltre”. Oltre, ma dove?
@ Sergio
“Qui non si piagnucola per la mancanza di un lavoro, qui non si fanno i capricci. Qui c’è uno scollamento tra l’essere e il fare”.
Ma caro mio, sai la mancanza di lavoro quanto ti scolla dall’essere ( se veramente non ce l’hai e non lo trovi il lavoro) ?
Cosa facciamo di questa “lucidissima riflessione esistenziale”? Ce la godiamo esteticamente?
Cosa facciamo di questo “scollamento tra l’essere e il fare”? Ce lo contempliamo come un fatto dovuta alla natura, al fato o andiamo a vedere chi sono gli Scollatori e cerchiamo un po’ di Colla?
@alfredo: perdonami, ma questa volta sarò riduttivo sul serio. Dal mio minuscolo punto di vista io non vedo differenza tra il creare e il fare. Penso che sarei un muratore pienamente fiero di sé se riuscissi ad “alzare” un muro come si deve. (E nello stesso tempo avrei creato.)
@ennio abbate: mi perdoni anche lei se le mie parole sono state poco calibrate. Ma io ho dato conto di una mia esperienza di lettura. Il testo di camilla mi riguarda molto da vicino, quindi non parlo dall’alto della mia scienza (che non ho, come del resto non ho il lavoro). Annoto solo che questo testo si è imposto alla mia attenzione perché secondo me rappresenta una presa di coscienza. E prendere coscienza di qualcosa non mi sembra un affare così scontato. Soprattutto in questi anni. Soluzioni non ne ho.
A 24 anni si e’ ancora in tempo per costruirsi un profilo spendibile sul mercato anche in una fase economica recessiva come questa, magari cominciando col fare un’esperienza all’estero. Ryanair ha fatto l’Europa dove l’euro ancora non e’ riuscito. In bocca al lupo.
Io penso che ci voglia una grande forza, quando si conosce il peso delle parole, per passare dignitosamente attraverso un’espressione come “prestazione occasionale accessoria”, così come attraverso “profilo spendibile sul mercato”. Le parole spesso sono ancora più avvilenti e aggressive delle realtà che definiscono.
Io credo che Camilla Panichi non si lamenti, io credo che passi attraverso, attraverso le cose e attraverso le parole.
@Ennio Abate
Può essere cattivo, caustico e sognatore quanto le pare in questo mondo di dorato (dis)impegno che lei però pare dominare così bene.
Per quanto mi riguarda, io e il mio modesto ombelico abbiamo sussultato per un pezzo così bello. Grazie Camilla.
Well a young man
He ain’t got nothin’ in the world these days
I said a young man
Ain’t got nothin’ in the world these days
In the old days
When a young man was a strong man
All the people stepped back
When a young man walked by
You know nowadays
Well it’s the old man’s
Got all the money
And a young man
Ain’t got nothin’ in the world these days
@sergio concordo, infatti il muratore da un grande senso al suo fare e quindi crea il muro. E’ molto più difficile, ma magari non impossibile dare un senso e quindi ritenere creazione fare una fotocopia, quando questo fosse l’unico compito assegnato all’interno di una più complessa organizzazione.
Nelle tue parole leggo la rassegnazione di mia figlia.
E mi viene un groppo alla gola.
Il post precedente di Silvia, ha già in larga misura espresso quella che è anche la mia lettura di questo pezzo di Camilla.
Vorrei condividere qui la mia personalissima lettura di questo scritto. Questo secondo me è un frame, un attimo colto nella sua interezza, uno scorcio di realtà da leggersi per quel che è, la fotografia di una condizione esistenziale che è la mia, quella di Camilla e quella di molti di voi. Certo che questa condizione è imposta dall’esterno e certo che si innescano delle domande. Prima, a priori, c’è una condizione sociale, politica, reale di un paese e di un’epoca in cui il lavoro non c’è e quando c’è, è precario e insoddisfacente. Dopo, a posteriori, ci si può domandare che fare, se organizzarsi e come. Ma le discussioni interessanti o meno su “cosa possiamo dunque fare?” le lascerei perdere qui . Ci sarà tempo e modo altrove di discutere su cosa fare e come farlo. Senza lamentele, senza buonismi o retoriche inutili e dannose la mia è una lettura prepotentemente oggettiva di un hic et nunc, imposta da una scrittura che è essa stessa prepotentemente oggettiva e consapevole e che lascia per un momento da parte i “poi” e gli “oltre”.
@alfredo, concordo con te, il tuo esempio “è” la situazione della quale stiamo parlando.
e concordo anche con e. sulla dignità e violenza delle quali le parole si possono caricare. come mi sento vicino al commento di francesca lorenzoni. questo è un hic et nunc, un autoritratto, una fotografia. guardiamola.
Non credo siano violente le mie parole, e’ violenta la vita. L’autoritratto restituisce una persona lucida, che ha ben seminato (istruzione, contatto col lavoro, senso della famiglia e di appartenenza), davanti alla quale si apre l’indefinito della vita adulta. La lucidita’ fa temere l’abisso, ma a 24 anni il destino e’ ancora quasi totalmente nelle sue mani e il mondo una prospettiva, invece che una minaccia. Le sue scelte individuali, fra la paura dettata dalla lucidita’ e la consapevolezza dei rischi nell’aprire una porta invece di un’altra, faranno di lei molto di quel che sara’ fra 10 anni.
io pensavo solo a questo nostro italiano (presunto) standard, e a come può essere glaciale. è una cosa che riguarda tutti.
a ventiquattro anni:
http://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/9/94/Ingres%2C_Self-portrait.jpg
Ingres et les violons d’Ingres
Mi ero perso questo pezzo. Assolutamente necessario e rappresentativo.
Grazie
Il nome. La cosa più arbitraria che ci appartenga. Ci è stato dato da qualcuno che non ci conosceva, sulla base di motivazioni che sfuggono, spesso per un capriccio. Il nome serve agli altri molto più di quanto serva a noi. Ci identifica prima di tutto presso gli altri. Appartiene agli altri. E forse questo è un punto centrale. Quando l’unica cosa che ci appartiene è una cosa che sta altrove, che sta nella disponibilità di altri (anche quando siamo noi stessi che ci chiamiamo per nome) lo smarrimento allora è totale e perfetto. Più liquidi di così… Certo, quando decidiamo di rispondere al suono di quelle sillabe che formano il nostro nome allora le cose, forse, cambiano; allora dall’iniziale condizione di spossessamento si può aprire, forse, uno spazio di relazione in cui anche noi facciamo la nostra parte, provando a riempire quel vuoto che ci è imposto. Ma è un cammino lungo e difficile. I miei più cari auguri a Camilla.
Ventisei anni io. Grazie Camilla.
http://www.geronimocarbono.org/2012/tu-non-sei-nostra-sorella/