di Riccardo Castellana
[Questo intervento è uscito su «Intersezioni»]
1. Una teoria realista
René Girard è uno di quegli autori che rendono difficile il mestiere di chi cataloga libri. E se cercate in biblioteca i suoi scritti (soprattutto gli ultimi) li potete trovare a volte negli scaffali di Letteratura, altre in quelli di Storia delle religioni, di Antropologia, di Psicologia o di Filosofia, perché è spesso obbiettivamente difficile classificarli in modo univoco e inquadrarli in un ambito disciplinare preciso. Ma è proprio l’interdisciplinarità l’aspetto più affascinante del pensiero girardiano: un’interdisciplinarità che nulla ha da spartire con l’eclettismo metodologico degli ultimi anni, ma che, al contrario, accompagna sempre ad una analisi ampia e variegata della cultura una sintesi teorica consapevolmente riduzionistica. L’idea-guida di Girard è in fondo semplicissima: l’imitazione (l’imitazione reciproca) è ciò che distingue l’uomo dagli altri animali, è il meccanismo principale della socializzazione e della conoscenza e il fondamento su cui si struttura l’identità dell’individuo.
Salvo rari casi la comunità accademica ha tardato non poco a riconoscere l’indubbia originalità della teoria mimetica, soprattutto in Europa, e soprattutto in Francia (con la notevole e precoce eccezione, però, del Goldmann di Pour une sociologie du roman, 1964).[1] La vicenda intellettuale di René Girard è in effetti quella di un isolato, che negli anni ha sistematicamente eluso (e talvolta apertamente avversato) il pensiero dominante: non è mai stato marxista né strutturalista negli anni in cui tutti erano o si dicevano marxisti o strutturalisti; il suo nome non figura oggi nel libro di Gotha del post-strutturalismo; la sua critica coerente e motivata al freudismo gli ha estraniato tutti coloro (e non sono pochi) che sul mito di Edipo hanno costruito una sorta di religione laica. In Italia, quando Bompiani nel 1965 tentò di contrabbandare il suo capolavoro giovanile, Mensonge romantique et vérité romanesque (1961), traducendolo col titolo fuorviante Strutture e personaggi del romanzo moderno, il tentativo di affiancarlo alla nouvelle critique fallì miseramente. Né c’era da dubitarne. E da noi il suo nome è più noto ai lettori di «Famiglia cristiana» o di «Avvenire», che negli ultimi anni hanno cercato di proporlo come il nouveau philosophe cristiano, che agli studiosi di letteratura o di antropologia.
Perché tanta inattualità? Il fatto è che Girard, discostandosi in modo deciso dal filone principale della teoria francese degli anni Sessanta e Settanta, propone già a partire da Menzogna romantica e verità romanzesca, una concezione sostanzialmente realista e non autoreferenziale della letteratura. Per lui, infatti, tanto i drammi di Shakespeare quanto i romanzi di Cervantes, di Flaubert o di Dostoevskij riproducono criticamente una struttura profonda del comportamento umano e rivelano la cosiddetta natura “triangolare” del desiderio, ovvero il fatto che, quando desideriamo, non lo facciamo scegliendo spontaneamente una certa qualità dell’oggetto desiderato, ma ci lasciamo invece influenzare dal prestigio che per noi riveste la persona o l’istanza (reale o immaginaria) che prima di noi desidera quell’oggetto o prova interesse per un oggetto ad esso assimilabile. Don Chisciotte combatte e cerca pulzelle da salvare ispirandosi alle gesta del suo modello dichiarato: Amadigi di Gaula. Julien Sorel tiene nascoste sotto al letto le Memorie di Sant’Elena e fa quel che può, nella Francia della Restaurazione, per seguire le orme del suo eroe, Napoleone. Emma Bovary desidera ciò che i romanzi romantici della sua biblioteca le suggeriscono di desiderare, e così riempie il vuoto della sua vita reale. Marcel desidera diventare scrittore per emulare Bergotte, e così via. La sconcertante scoperta di Menzogna romantica e verità romanzesca è che i grandi romanzi sono tali perché svelano che la vera natura del desiderio è di tipo triangolare e non lineare, come tutti ingenuamente crediamo: desidero qualcosa non per le sue qualità intrinseche, ma perché c’è sempre qualcuno (più importante, più prestigioso, più forte di me) che lo fa (lo ha fatto) prima di me e al mio posto, svolgendo la funzione di garante o, nei termini di Girard, di «mediatore» del mio stesso desiderio. Questa idea di partenza così semplice, e pure così sconvolgente, ha consentito a Girard di costruire una teoria in realtà molto articolata e complessa. Una teoria dell’essere sociale contenuta nelle grandi opere letterarie che, contro l’ideologia della modernità, riconduce le strutture dell’io (e il desiderio innanzi tutto) alle strutture della socialità, riducendo drasticamente, tra l’altro, l’importanza del modello famigliare nella formazione del soggetto. Il compito del critico è dunque quello di portare alla luce le strutture profonde, di mostrare come la letteratura metta in scena la realtà del desiderio – che è per Girard assai più importante della realtà esteriore, del dettaglio fotografico, della superficie delle cose.
Il grande romanziere è dunque sempre realista, ma il suo è un realismo del desiderio e non dell’oggetto.[2] Dal punto di vista di Girard non avrebbe perciò senso distinguere tra un realismo ottocentesco e un realismo novecentesco: anche nel primo ciò che conta veramente non è il fenomeno, ma l’essenza. Ciò non significa tuttavia che la teoria mimetica rifiuti la storia. Agli albori del genere romanzesco e della modernità, Don Chisciotte non ha ancora paura di dichiarare i suoi modelli: Be yourself! non è ancora diventato l’imperativo della modernità. Al contrario, eroi ed eroine del romanzo otto e novecentesco avranno sempre più pudore ad ammettere di ispirarsi ad altri, negandolo prima di tutto a loro stessi, avvelenati come sono dalla “menzogna” romantica per cui il desiderio (quello amoroso in primo luogo) sarebbe qualcosa che appartiene alla parte più profonda del soggetto, che ci identifica in quanto individui e che ci differenzia dagli altri (e che dunque non può essere copiato dagli altri). Spia della storicità intrinseca della teoria mimetica è anche il fatto che il romanzo negli ultimi due secoli veda una proliferazione incontrollata di quel tipo di mediatore che Girard chiama «interno»: non l’Amadigi con cui Don Chisciotte non potrebbe mai entrare in competizione diretta (perché personaggio di finzione, diciamo così, di secondo grado), ma piuttosto l’amante de L’eterno marito di Dostoevskij: il rivale insomma, colui che, ad un tempo, ci dice cosa dobbiamo desiderare e però minaccia di sottrarcelo, dando luogo ad un pericoloso doppio vincolo da cui l’eroe non può sottrarsi facilmente. E non è un caso che questa proliferazione di mediatori interni raggiunga il suo apice dopo la Rivoluzione francese, quando tutti si scoprono virtualmente mediatori di tutti, quando la democratizzazione della società abbatte le gerarchie, quando anche il nostro vicino di casa può diventare per noi un modello.
Impossibile ricordare qui le enormi conseguenze della teoria girardiana per la comprensione del romanzo modernista. Non si coglierebbe, per esempio, il “realismo del desiderio” di Proust se lo si giudicasse nei termini della sociologia marxista vecchio stampo. Ad essa un libro come la Recherche appare privo di dimensione sociale, ma Proust è ben «lungi dall’essere indifferente alla realtà sociale. Ci parla soltanto di essa, in un certo senso, poiché la vita interiore è già sociale per il romanziere del desiderio triangolare e la vita sociale è sempre il riflesso del desiderio individuale».[3] Mentre insomma il Capitale ci mostrava l’alienazione dell’individuo come negazione del soddisfacimento di bisogni materiali (indicando nella rivoluzione il mezzo per espellerla dalla struttura sociale), Girard parla di un tipo di alienazione che riguarda non i bisogni ma i desideri (e ciò che significano per noi): «L’opera di Proust descrive le nuove forme di alienazione che succedono alle forme anteriori quando i “bisogni” sono soddisfatti e quando le differenze concrete cessano di dominare i rapporti fra gli uomini».[4] E lasciando da una parte per un attimo la letteratura: la dialettica del potere nelle moderne società avanzate (e solo in queste, è bene aggiungere) non si fonda forse sulle reazioni ambigue delle masse di fronte alla inaccessibilità degli oggetti del desiderio posseduti dalle élites?
2. Identità e desiderio
Non si può dire che René Girard goda di grande notorietà presso chi si occupa di letteratura italiana. La pubblicazione dei suoi scritti maggiori a partire dagli anni Ottanta da parte di Adelphi (tra gli altri: La violenza e il sacro, 1980; Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo, 1983; Shakespeare: il teatro dell’invidia, 1998) gli ha conferito quel fascino ritroso e un po’ snob caratteristico degli autori della casa milanese, ma avrà anche, forse, insospettito il lettore non interessato al nichilismo fiammeggiante o alle nostalgie della mitteleuropa. Meno noto ma non meno degno di attenzione è invece il lavoro di case editrici come Marietti, Raffaello Cortina, SE e Transeuropa, cui si deve la pubblicazione di saggi di Girard meno conosciuti nonché di alcuni contributi critici, talvolta illuminanti, sul suo lavoro. La Transeuropa, per esempio, ha dedicato a Girard addirittura un’intera collana curata da Pierpaolo Antonello e Giuseppe Fornari, che raccoglie sia testi dell’autore (Miti d’origine e Il pensiero rivale) sia raccolte di studi sul suo pensiero. Gli ultimi due titoli di “Girardiana”, usciti in contemporanea nel 2009, sono una raccolta di scritti dell’autore sul mito di Edipo (Edipo liberato) e gli Atti del convegno di Falconara del 2006 (Identità e desiderio. La teoria mimetica e la letteratura italiana), curati dagli stessi Antonello e Fornari[5]. E quest’ultimo volume è unico nel suo genere, se si esclude il numero doppio di «Nuova corrente» uscito nel 2006 proprio a ridosso del convegno, perché offre uno sguardo d’insieme sulle applicazioni delle categorie girardiane ad autori italiani.
Il sottotitolo, in realtà, non rispecchia in toto i contenuti del libro, che nell’introduzione e in tutta la prima parte (saggi di Daniele Giglioli, Alberto Beretta Anguissola e Roberto Farneti) affronta questioni teoriche e metodologiche generali, mentre nella più cospicua seconda parte tratta più direttamente la letteratura italiana. Il tono dei contributi migliori è fortunatamente lontano dall’essere apologetico, e alcuni degli autori non risparmiano a Girard né obiezioni sul metodo né critiche al merito. Si deve dire innanzi tutto che qui sono toccate tutte e tre le dimensioni principali del pensiero girardiano: c’è il Girard critico letterario che individua nelle opere la rappresentazione della natura triangolare del desiderio; c’è l’antropologo che studia il rito sacrificale e la genesi della violenza collettiva; c’è infine il credente, che vede nel sacrificio di Cristo la denuncia dell’assurdità del meccanismo del capro espiatorio e che sul principio evangelico della non violenza fonda la propria proposta etica e di vita. Ma come osserva giustamente Beretta Anguissola[6], si può benissimo accettare la validità (anche solo operativa) di uno solo di questi tre aspetti senza dover accettare necessariamente gli altri due. Si può, ad esempio, riconoscere la capacità esplicativa del nucleo originario della teoria senza accettare la tesi centrale del secondo libro (La violenza e il sacro), secondo cui sarebbe sempre il desiderio imitativo, propagato per contagio a molti soggetti e portato al parossismo, a far nascere la violenza, la quale verrebbe a sua volta regolata da un “meccanismo vittimario”, cioè dallo sfogo della violenza stessa su un capro espiatorio scelto in modo sostanzialmente arbitrario dalla comunità (tesi affascinante ma non sempre vera: è chiaro che la rivalità genera sempre conflitto, ma non ogni conflitto è causato dalla rivalità imitativa). E si può vedere il nesso tra violenza collettiva e nascita della religiosità senza necessariamente attribuire alla Bibbia e ai Vangeli il ruolo demistificante (di rivelazione dell’innocenza della vittima sacrificale) che Girard gli attribuisce.
Sebbene non siano mancati tentativi di applicare le idee del Girard “antropologo” alla letteratura italiana[7], credo che sia tutto sommato ancora il primo Girard, quello di Menzogna romantica, ad offrire le riflessioni più utili e più produttive per la critica letteraria, e i saggi migliori di Imitazione e desiderio lo dimostrano ampiamente. Anche solo da un punto di vista puramente operativo, in effetti, la teoria mimetica si presta egregiamente a due tipi di ricerche sui testi: una, più semplice, di tipo contenutistico e tematico (la figura del rivale, il modello, il doppio, ecc.); l’altra, più sofisticata, riguardante le relazioni tra i personaggi e, dunque, il meccanismo generativo della trama.
Nel suo intervento[8] Sergio Zatti mostra molto bene come il desiderio secondo l’altro venga magnificamente messo in scena da Boccaccio nella novella di Natan e Mitridanes (Decameron X,3). Il giovane Mitridanes, spinto dall’invidia per il vecchio Natan di cui tutti lodano la generosità, ingaggia con lui una competizione a distanza che lo spinge da ultimo a meditare l’uccisione del rivale. Giunto nel magnifico palazzo di Natan, Mitridanes confida involontariamente il suo piano omicida proprio al padrone di casa, che si cela sotto le mentite spoglie di un servitore e che, inaspettatamente, lo aiuta a mettere in atto il suo proposito. Quando però Mitridanes arriva nel bosco dove sa di poter trovare la sua vittima, Natan finalmente gli si rivela e a questo punto l’altro «resta vinto da tanta superiorità deponendo le armi omicide: si pente del proprio “desiderio perverso” come figlio di fronte al padre ingiuriato, e, ascoltata la lezione di liberalità del maestro sulla virtù del dono che non arretra di fronte al sacrificio della vita stessa, ne ottiene il perdono e si congeda da lui».[9] In questa breve novella sono molte le cose degne di nota: c’è innanzi tutto la descrizione del double bind che lega soggetto e modello, poiché «il rivale […] è il modello del desiderio e ne è, al contempo, l’ostacolo più forte: è un modello-ostacolo»[10]; c’è la messa a nudo «della radice aggressiva che c’è in ogni forma di aemulatio»; c’è l’ammirazione per l’altro che diventa a poco a poco invidia e poi odio fino a degenerare nella violenza progettata ma non compiuta, perché Mitridanes, di fronte all’estremo atto di liberalità di Natan che offre la propria vita in nome del valore di cui si è fatto difensore, riconosce la propria inferiorità rimanendo schiacciato sotto l’autorità dell’altro; c’è infine, sempre secondo Zatti, la vittoria della «virtù tirannica» di Natan, che nel perseguirla con ostinazione fino in fondo dimostrerebbe la propria natura fondamentalmente narcisistica ed egocentrica. Ma c’è anche, direi, qualcos’altro, perché nel momento esatto in cui Natan offre se stesso in sacrificio all’altro si impone come modello assoluto, trascende se stesso e raggiunge un piano diverso da quello cui Mitridanes lo aveva sino a quel momento collocato: diventa cioè, in termini girardiani, mediatore «esterno» e non più «interno». Solo questo repentino mutamento di status del modello spiega, a ben vedere, la resa di Mitridanes (che pure, non dimentichiamolo, potrebbe uccidere Natan e sostituirsi a lui) di fronte all’altro, che da questo momento non è più rivale ma idolo, ed ha portato a termine la sua imitatio Christi.
3. Verità romanzesca e menzogna freudiana
Se i fenomeni mimetici sono sempre esistiti e se la grande letteratura li ha sempre assunti come oggetto, è tuttavia nel romanzo moderno dell’Otto e del Novecento che questi trovano il loro luogo di rappresentazione elettivo. Basta leggere le pagine di Svevo per trovarne conferma: tutta la sua opera narrativa non è che una indagine sui rapporti rivalitari e imitativi nella modernità otto-novecentesca, e Pierpaolo Antonello ha ragione quando scrive che «la lente freudiana» introdotta nell’ultimo romanzo sveviano non ha modificato la sostanza dei rapporti interpersonali descritti nei primi due (così ricchi, appunto, di fenomeni imitativi e di rivali). L’aspetto più interessante del saggio di Antonello sta anzi proprio nel tentativo di sottrarre l’autore della Coscienza di Zeno alla tirannia della lettura psicanalitica, che, se cinquant’anni fa ha permesso a Svevo di uscire dall’ombra, rischia oggi di ingessarlo in una interpretazione troppo limitativa.
Antonello, in particolare, mostra molto bene (qui e già nel saggio del 2006 apparso su «Nuova corrente») che in Zeno «la matrice del conflitto rivalitario» non «può essere interamente ascritta all’interno di una dinamica di carattere edipico».[11] Lo stesso vizio del fumo dal quale Zeno tenta di guarire non è affatto spia del conflitto edipico col padre ma frutto di un «mimetismo orizzontale», di una rivalità fra coetanei, fra eguali.[12] Incapace di inscrivere tutto ciò nel quadro della teoria psicanalitica, il dottor S. eviterà, nell’ultimo capitolo, di interpretare i due sogni di Zeno aventi come antagonista il fratello: due sogni che mostrano molto chiaramente questa forma di rivalità tra pari. È insomma il mito di Caino, più che quello di Edipo, ad essere pertinente in questo caso. Ed è ovvio che proprio questo modello rivalitario si rifletta poi sul rapporto tra Zeno e Guido: un rapporto tra pari ma che l’ortodossia critica freudiana ha talvolta interpretato come proiezione della rivalità edipica, sfidando oltre che la lettera anche il buon senso.
Quanto poi al padre vicario di Zeno, Giovanni Malfenti, Antonello ha ancora una volta ragione nell’identificare in lui un mediatore che nulla ha a che fare con la conflittualità di tipo edipico: «sposare una delle figlie non è stato edipicamente contendergli qualcosa di proprio, ma essere ammesso alla sua tavola, essere eletto al suo rango, attraverso un meccanismo di mediazione esterna».[13] È vero che Giovanni è un sostituto della figura paterna, ma un sostituto fortemente idealizzato, quasi un idolo e mai un rivale. E il tentativo del dottor S. di spiegare il rapporto tra i due come proiezione del rapporto edipico primario, nell’ultimo capitolo del libro, mostra evidenti contraddizioni. Si ricordi infatti cosa afferma Zeno: «Ne sposai una o l’altra delle figliuole ed era indifferente quale perché si trattava di mettere il loro padre ad un posto dove il mio odio potesse raggiungerlo. Eppoi sfregiai la casa che avevo fatta mia come meglio seppi. Tradii mia moglie ed è evidente che se mi fosse riuscito avrei sedotta Ada ed anche Alberta».[14] Ma mentre è vero che Zeno sposa Augusta solo perché è figlia di Malfenti (cioè è il mezzo per rimanere legato a lui), è falso che tradisca Augusta per ferire il padre elettivo, dato che Zeno avrà sempre cura di tenere nascosto l’adulterio. E la controprova che Giovanni sia un mediatore esterno, che si limita ad indicare indirettamente l’oggetto del desiderio (le figlie) ma che non minaccia mai edipicamente il figlio di sottrarglielo, è secondo me in quella scena del quinto capitolo («Storia del mio matrimonio») in cui Zeno vince in borsa avendo disatteso il consiglio dell’esperto Malfenti che lo aveva consigliato di sbarazzarsi delle azioni della fabbrica di zucchero. Qui, infatti, il protagonista si ritrova inaspettatamente in una posizione di vantaggio e potrebbe (immeritatamente) vantarsi del proprio fiuto per gli affari; ma quando si accorge che la sua vincita sta scatenando l’ira dell’altro nega qualsiasi responsabilità e ammette finalmente di aver avuto successo grazie alla propria sbadataggine:
Corsi da mio suocero il quale già sapeva dell’aumento di prezzo di quelle azioni e si doleva di aver vendute le sue e un po’ meno di avermi indotto a vendere le mie.
– Abbi pazienza! – disse ridendo. – È la prima volta che perdi per aver seguito un mio consiglio. L’altro affare non era risultato da un suo consiglio ma da una sua proposta ciò che, secondo lui, era molto differente.
Io mi misi a ridere di gusto.
– Ma io non ho mica seguito quel consiglio! – Non mi bastava la fortuna e tentai di farmene un merito. Gli raccontai che le azioni sarebbero state vendute solo la dimane e, assumendo un’aria d’importanza, volli fargli credere che io avessi avuto delle notizie che avevo dimenticato di dargli e che m’avevano indotto a non tener conto del suo consiglio.
Torvo e offeso mi parlò senza guardarmi in faccia.
– Quando si ha una mente come la tua non ci si occupa di affari. E quando capita di aver commessa una tale malvagità, non la si confessa. Hai da imparare ancora parecchie cose, tu.
Mi spiacque d’irritarlo. Era tanto più divertente quand’egli danneggiava me. Gli raccontai sinceramente com’erano andate le cose.
– Come vedi è proprio con una mente come la mia che bisogna dedicarsi agli affari.
Subito rabbonito, rise con me:
– Non è un utile quello che ricavi da tale affare; è un indennizzo. Quella tua testa ti costò già tanto, ch’è giusto ti rimborsi di una parte della tua perdita[15]
Zeno compie dunque un passo indietro, si ritira di buon grado dalla competizione e accetta la posizione di schiavo nella dialettica servo/padrone che lo lega a doppio nodo all’altro. (E quanti inetti novecenteschi si comportano esattamente nello stesso modo? Non fa la stessa cosa anche il giovane Pietro Rosi in Con gli occhi chiusi di Tozzi? Non compie anche lui un passo indietro quando Ghìsola dichiara di preferire lui al rivale Antonio, scegliendo di restare vicino al mediatore anziché sfruttare la posizione di vantaggio e raggiungere l’oggetto del suo desiderio?).[16]
4. La buona relazione edipica
Per Girard il padre non è un rivale, ma un modello positivo per il figlio. L’infanzia di Marcel, nella Recherche, non è mai minacciata dall’ombra paterna, ma piuttosto dall’ambivalenza della madre, che nega il bacio al bambino suscitando così in lui il desiderio e al tempo stesso frustrandolo, «sentinella implacabile» del desiderio da lei stessa provocato.[17] Modello mimetico e modello edipico sembrano non potersi sovrapporre o integrare, essendo per Freud il desiderio per l’oggetto materno un desiderio primario e non fondato da altro: «il desiderio per la madre si sviluppa indipendentemente dall’identificazione con il padre».[18] Nell’antropologia girardiana il padre è modello non di desiderio ma di apprendimento, e la sua funzione è quella di trasmettere il principio di realtà senza però che tale trasmissione passi, come voleva Freud, per il superamento dell’edipo infantile. È per questo che la mediazione interna del padre non può essere considerata, da Girard, “norma” famigliare. Quando l’adolescente Arkadij Dolgorukij si trova ad amare la donna amata dal padre Versilov quest’ultimo funziona, sì, da mediatore interno, ma ciò dà luogo ad una situazione patologica di impasse che mette in scacco Arkadij. Qualcosa del genere accade, come osserva nel suo contributo Stefano Brugnolo[19], nell’Isola di Arturo della Morante. Un romanzo che si comprende molto meglio con Girard che con Freud.
Arturo non ha mai conosciuto la madre. Quando il padre, Wilhelm, gli porta in casa la sposa-bambina Nunziata, suscita involontariamente il desiderio del figlio, spingendolo sull’orlo dell’incesto (sarà però Nunziata a frustrare le attese di Arturo resistendogli e impedendo l’incesto in nome della regola ancestrale che lo vieta). Ora, per Brugnolo, se si concepisce l’edipo freudiano essenzialmente come principio che «organizza, struttura il desiderio triangolare, spostandolo da un piano immediato a un piano mediato, simbolico»[20], effettivamente nel romanzo della Morante non abbiamo nulla di tutto questo. Se secondo Freud il padre, vietando al figlio di desiderare la madre, media il principio di realtà, la “crisi mimetica” di Arturo deriva proprio dall’avere un genitore che non incarna nessun principio di realtà e che si pone come «modello di un desiderio infinito, senza oggetto specifico».[21] L’arrivo di Nunziata spinge allora Arturo a vivere un edipo decentrato: egli desidera la madre, ma il suo desiderio non si infrange sul divieto del padre. Il romanzo della Morante, osserva Brugnolo, mostra dunque la crisi dei padri, non più mediatori dei valori tradizionali ma succubi di un implacabile processo di modernizzazione che ha travolto i ruoli famigliari e le strutture della società rurale. L’isola di Arturo è il romanzo della crisi dei figli, costituzionalmente deprivati del senso di realtà, disorientati dall’assenza del «buon mediatore paterno», tanto più buono, è ovvio, quanto più inflessibile nel far rispettare la Legge.
5. Le cause di un bacio
Dicevamo in apertura che la ricezione di Girard tra chi si occupa di letteratura italiana è stata, fino a pochissimo tempo fa, scarsa se non nulla. Eppure proprio a Girard si deve un geniale spunto interpretativo di uno degli episodi-chiave della nostra tradizione letteraria: quello di Paolo e Francesca nella Commedia. In un breve scritto del 1963 sul quinto canto dell’Inferno, infatti, il critico aveva richiamato l’attenzione su un dato che l’interpretazione ottocentesca di Dante aveva quasi completamente oscurato: l’amore di Paolo e Francesca non rappresenta affatto la quintessenza dell’amore romantico, ma piuttosto il suo contrario, cioè lo svelamento della natura mediata del desiderio, la dimostrazione che anche per Dante la passione amorosa ha un’origine imitativa e ha bisogno di un modello (la storia di Lancillotto e Ginevra)[22] per esprimere se stessa. Tra i dantisti di casa nostra l’osservazione è passata del tutto inosservata, come rileva Lorenzo Renzi, che in un libro recente interamente dedicato all’episodio dantesco[23] cita invece a più riprese il nome di Girard. Purtroppo però l’uso che Renzi fa di Girard appare piuttosto riduttivo, e forse addirittura un poco fuorviante.
Ecco intanto come l’autore riporta la tesi di Girard:
Del tutto a parte si colloca il contributo di René Girard. Per Girard, l’episodio del canto V dell’Inferno è il primo esempio nella storia della letteratura del processo che costituisce il tema del suo libro: quello dei modelli letterari che tengono il posto della pretesa sincerità e spontaneità del sentimento. Francesca si bacia con Paolo per imitazione di Ginevra e Lancillotto. Girard, condannando il cattivo romanticismo dei critici ottocenteschi di Dante (tra i quali avrebbe incluso probabilmente anche De Sanctis, se l’avesse conosciuto), attribuisce a questa imitazione un ruolo profondamente negativo. Negatività di Francesca, non di Dante! Dante la negatività dell’insincerità romantica, in cui la letteratura prende il posto dell’autenticità, l’ha riconosciuta e denunciata, dice Girard. Ma la stessa cosa non avrebbero fatto i lettori e i critici “romantici”: questo errore è quello che Girard chiama mensonge romanesque.[24] [segue il resoconto del saggio di Contini]
Sono almeno tre i punti che non convincono nel discorso di Renzi. In primo luogo non è affatto vero che il tema di Mensonge romantique et vérité romanesque sia «quello dei modelli letterari che tengono il posto della pretesa sincerità e spontaneità del sentimento». Nel suo libro, Girard non parla solo di modelli letterari (i personaggi di Proust o di Dostoevskij non imitano affatto eroi di carta) e non è affatto interessato ad alimentare l’idea per cui la letteratura, in fondo, si nutre di altra letteratura. Girard è al contrario uno di quei (pochi) che, oggi, sarebbero disposti a sostenere che la letteratura si nutra (soprattutto) di realtà e di esperienza. In secondo luogo, e coerentemente con l’assunto del suo primo libro, nel breve saggio su Inferno V Girard non insiste affatto (come sostiene Renzi) sulla natura letteraria e libresca del peccato di Francesca e del suo amante, ma dice testualmente: «scritta o orale che sia, è sempre la parola di qualcuno a ispirare il desiderio».[25] Difficile, dunque, accostare – come fa Renzi – la sua tesi a quella formulata qualche anno prima (1958) da Contini, secondo il quale «l’intellettuale di provincia» Francesca sarebbe sostanzialmente malata di bovarismo. Renzi precisa l’indipendenza dell’osservazione di Girard da quella di Contini – anzi non perde l’occasione di bacchettare il «grande critico» che di Dante «ignora anche l’abc»[26] – ma non sembra cogliere l’enorme differenza tra le due interpretazioni, né, purtroppo, la vera portata della tesi girardiana: sia Contini che Girard rompono, è vero, con l’interpretazione romantica che riabilitava Francesca e vedeva in lei un simbolo dell’amour-passion che non conosce confini né regole, ma gli esiti sono totalmente diversi. In terzo e ultimo luogo, è vero che Girard attribuisce all’imitazione di Lancillotto e Ginevra «un ruolo profondamente negativo», ma non esclude affatto l’origine personale e autobiografica di questa negatività (che è poi la chiave di lettura, in verità piuttosto debole, proposta da Renzi). Anzi, un paio di pagine dopo aver descritto la natura mediata del desiderio di Paolo e Francesca, Girard precisa che il narratore (ogni narratore) «percepisce le strutture del desiderio» grazie al fatto che lui stesso ne è stato vittima: «il narratore […] è l’uomo che dapprima è stato catturato dalla struttura del desiderio e poi ne è fuggito».[27] Come il giovane Flaubert, come il giovane Proust, come il giovane Dostoevskij. Come il giovane Dante.
Fatte le dovute precisazioni, si capisce bene a questo punto anche la differenza con Contini. Mentre a quest’ultimo, con la «trouvaille» (parole di Renzi) francamente un po’ troppo umorale dell’«intellettuale di provincia», interessava stigmatizzare il bovarismo di Francesca, l’imitazione parodica della (cattiva) letteratura da parte della vita, Girard sostiene qualcosa di molto più importante: tutti noi agiamo in base a dei modelli, buoni o cattivi, letterari o reali che siano, e la grande letteratura può servire a renderci consapevoli di questo meccanismo non meno che a rivelarcene la necessità. Dalla logica mimetica, insomma, non si sfugge: se ne può essere più o meno consapevoli ma da essa non ci si libera con la semplice forza di volontà. Dante avrebbe probabilmente risposto che se le cose stanno così allora l’unica soluzione è scegliersi il migliore modello possibile, dirigere il desiderio verso il giusto obiettivo e nella giusta misura, cioè Dio. Girard e i lettori di «Avvenire» e di «Famiglia cristiana» sarebbero d’accordo. Tutti gli altri dovranno accontentarsi delle analisi lucide e spietate contenute nella teoria mimetica, che in sé non ha nulla di consolatorio, e che però può aiutarci a capire meglio certi testi letterari e, soprattutto, il mondo di cui parlano.
Note
[1] L’ingresso di Girard all’Académie française nel 2005 è un riconoscimento piuttosto tardivo dell’importanza del suo lavoro e non contraddice la sostanziale (e positiva) «inattualità» del suo pensiero, su cui insiste utilmente Mark Anspach nell’Avant-Propos al volume a lui dedicato dai «Cahiers de l’Herne» nel 2008 (devo a Margherita Bartalucci la segnalazione di questo importante volume ricco di contributi di e su Girard, oltre che molti altri suggerimenti di cui ho tenuto conto nella stesura di queste note).
[2] R. Girard, Menzogna romantica e verità romanzesca, 1961, trad. it. Milano, Bompiani, 2002, p. 70.
[3] Ibidem, p. 192.
[4] Ibidem, p. 193.
[5] Identità e desiderio. La teoria mimetica e la letteratura italiana, a cura di P. Antonello e G. Fornari, Massa, Transeuropa, 2009. Manca purtroppo l’indice dei nomi, e abbondano, invece, i refusi, il che conferma che la sempre minore cura editoriale dei lavori scientifici è oggi, molto spesso, il prezzo da pagare per la loro diffusione.
[6] A. Beretta Anguissola, Marcel Proust e René Girard: un triplice confronto, in Identità e desiderio cit., pp.15-34.
[7] Cfr. R. La Valva, I sacrifici umani: d’Annunzio antropologo e rituale, Napoli, Liguori, 1991.
[8] S. Zatti, Un approccio mimetico alla letteratura italiana, in Identità e desiderio cit., pp. 51-63.
[9] Ibidem, p. 53.
[10] Ibidem, p. 54.
[11] P. Antonello, Rivalità, risentimento, apocalisse: Svevo e i suoi doppi, in Identità e desiderio cit., p. 150.
[12] Ibidem, p. 151.
[13] Ibidem, p. 151.
[14] I. Svevo, La coscienza di Zeno, in Romanzi e “continuazioni”, a cura di N. Palmieri e F. Vittorini, Introduzione di M. Lavagetto, Milano, Mondadori, 2004, pp. 1060.
[15] Ibidem, pp. 689-90.
[16] Ho analizzato le implicazioni del desiderio mimetico in Con gli occhi chiusi nel primo capitolo del mio libro Parole cose persone. Il realismo modernista di Tozzi, Pisa, Giardini, 2009.
[17] Girard, Menzogna romantica e verità romanesca, cit., pp. 33-34.
[18] R. Girard, Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo, Ricerche con Jean-Michel Oughourlian e Guy Lefort, Milano, Adelphi, 1983, p. 427.
[19] S. Brugnolo, Il chisciottismo dei periferici: sulle dinamiche del desiderio mimetico ne «L’isola di Arturo» di Elsa Morante, in Identità e desiderio cit., pp. 183-220.
[20] Ibidem, p. 199.
[21] Ibidem, p. 199.
[22] R. Girard, De la «Divine Comédie» à la sociologie du roman, in «Revue de l’Institut de Sociologie», 2, 1963, pp. 103-109, poi in R. Girard, Critique dans un souterrain, Paris, Grasset, 1976 (pp. 177-184). Di questo saggio esiste una traduzione inglese (From «The Divine Comedy» to the sociology of the novel, in Sociology of literature and drama, a cura di E. Burns e T. Burns, Harmondsworth, Penguin, 1973, pp. 101-108), poi raccolta in R. Girard, To double business bound. Essays on literature, mimesis and anthropology, Baltimore, The Johns Hopkins University Press, 1978, pp. 1-8, con una nota bibliografica non presente nell’originale e alcune varianti di cui tiene conto la traduzione italiana (Il desiderio mimetico di Paolo e Francesca, in Politiche della mimesis, a cura di A. Borsari, Annuario di «IF, Itinerari filosofici», Milano, Mimesis, 2003, pp. 41-48).
[23] L. Renzi, Le conseguenze di un bacio. L’episodio di Francesca nella «Commedia» di Dante, Bologna, il Mulino 2007. L’autore mostra di conoscere solo la versione francese del saggio di Girard.
[24] Ibidem, p. 32.
[25] Girard, Il desiderio mimetico di Paolo e Francesca, cit., p. 42.
[26] Renzi, Le conseguenze di un bacio cit., p. 15.
[27] Girard, Il desiderio mimetico di Paolo e Francesca, cit., p. 44.
[Immagine: Bronzino, Venere, Amore e Invidia (particolare) (gm)].
Che dire, magnifico, grazie!