di Vanni Santoni
[Mircea Cărtărescu è nato a Bucarest nel 1956; su LPLC ne avevamo già parlato qui. Più volte candidato al Nobel per la letteratura, è oggi generalmente considerato il maggior autore di lingua rumena. I suoi libri tradotti in Italia sono Nostalgia, Travesti, Perché amiamo le donne, i primi due volumi della trilogia Abbacinante (L’ala sinistra e Il corpo), tutti editi da Voland, e la raccolta di poesie Il poema dell’acquaio, uscita per Nottetempo nel 2015. Questa intervista è stata effettuata allo Wissenschaftskolleg di Berlino nel novembre 2015 (Vanni Santoni)].
Anzitutto è bene sottolineare che non mi considero un romanziere, ma un autore di libri, e scrivere libri è un modo per conoscermi. Faccio questa specificazione, che può sembrare inutile, perché il ‘romanzo’ è qualcosa che non mi interessa più, per il semplice fatto che oggi si tratta di un genere così ampio che può includere quasi ogni cosa scritta in prosa e raccolta in volume. Di conseguenza la categoria non ha più molto senso: io vorrei scrivere solo ‘libri’, scrivo testi in prosa, di una lunghezza proporzionata al medium volume, quello sì. Ma non faccio distinzione tra romanzo, racconto, poesia, e nemmeno tra letteratura, filosofia, scienza, tra tutto ciò che è conoscenza. Per come la vedo io, la conoscenza non ha confini e le discipline si ibridano continuamente, anche perché – devo ammetterlo – nella mia mente alla fine tutto si riduce a poesia. Ho infatti cominciato come poeta e poi, sebbene sia ovvio che la poesia non sia solo versi, mi sono progressivamente spostato sulla prosa, sui ‘libri’ appunto, perché ho avuto la sensazione che la poesia mi fosse diventata troppo stretta, ogni modo per descriversi ha dei limiti e i versi per me non andavano più bene, mi occorreva una forma più ampia; ritengo inoltre che se si vuole entrare in modo forte sui grandi temi la prosa si presti di più.
Dopo sette volumi di poesia ho allora creduto fosse possibile e necessario chiudere con tale forma, anche se per il modo in cui mi approccio al mio mondo interiore attraverso il testo rimango comunque un poeta. Anche per questo non sono facilissimo da tradurre, tant’è che sono molto felice ogni volta che sento di venire apprezzato in traduzione, non che io sia un terrorista della non traducibilità, credo che tutto possa essere tradotto, le eccezioni sono poche, il Finnegan’s wake, alcune poesie, ma è un fatto che a un libro come Abbacinante, che ha continui flussi di immagini anche sconcertanti, serva un buon traduttore, e io sono fortunato perché ne ho di eccellenti, ad esempio in Italia Bruno Mazzoni è davvero bravissimo nel rendere la mistica per immagini che cerco di costruire.
È vero, nei miei testi c’è molto misticismo, molta religione, molto mito, passi di Bibbia, riferimenti ai Veda, alla Kabbalah, e sì, certo, c’è molta psichedelia, tutto quello che ha a che fare con la vita interiore mi interessa moltissimo, sono influenzato dal romanticismo tedesco, Hoffmann su tutti, dal surrealismo, dal realismo magico, ma anche da musicisti come Lennon e i Pink Floyd. Sono interessato a qualunque cosa qualunque cosa faccia esplodere la testa e le percezioni, bisogna andare nel muso agli archetipi jungiani, sfidarli sul loro terreno, che è quello della sincronicità, a volte addirittura della schizofrenia. Non si può uscire da questo se si lavora seriamente su certi temi, e non c’entra solo il fatto che Pynchon, uno scrittore postmoderno fortemente influenzato dalla psichedelia, sia tra i mei punti di riferimento assoluti: il fatto è che il mio principale interesse è la sostanza della realtà, ma intesa nel senso più ampio possibile. Le visioni, i sogni, sono realtà. Quella che chiamiamo comunemente ‘realtà’ non è che la superficie delle cose. La vita allucinatoria è vera quanto la vita ‘reale’.
Ultimamente mi sono interessato molto alla fisica quantistica proprio perché mostra che la logica e il – chiamiamolo così – ‘pensiero realistico’ non sono sufficienti per descrivere il reale. A volte la realtà è folle. È paranoica. Inoltre la realtà è quello che è, ma è anche quello che avrebbe potuto essere, ed è pure quello che non sarebbe mai stata. La realtà si spezza e parcellizza continuamente in un sistema di possibilità vertiginoso. Nel libro che sto scrivendo, Solenoid, cerco di seguire il mondo intorno a un personaggio nel momento in cui si scinde in due possibili destini, come accade al gatto di Schrödinger, conosci il paradosso no? Lo possiamo leggere in modo ‘soft’ – cosa succede al gatto non si sa – o in modo ‘hard’: il gatto, o meglio il mondo intero, si divide in due, un mondo col gatto vivo e un mondo col gatto morto. Rappresentare questo, per il modo in cui lavoro, richiede molto spazio, infatti benché abbia da poco concluso la trilogia di Abbacinante (che in totale supera le milleduecento pagine, NdR), Solenoid sarà un romanzo di novecento pagine. Non lo dico per attribuirmi dei meriti, sia chiaro. Borges diceva che è folle scrivere grossi libri perché qualunque libro può essere riassunto in tre o quattro pagine. La dimensione è un tratto stilistico.
Pensandoci bene però non sono neanche troppo d’accordo con Borges, come fare ad esempio dei riassunti di Nabokov? Non si può. Ecco, io stesso spero di essere così: spero che questi libri, che mi vengono grossi, siano grossi solo perché non possono essere piccoli. Con buona pace di Borges, che comunque è, assieme a Pynchon, uno dei miei punti di riferimento. Assieme a chi? Direi con Joyce, Proust, Woolf, Musil. Oltre ovviamente a Kafka. Il discorso di Kafka è la cosa più importante di tutte, lui simboleggia e incarna la modernità anche da solo. Poi oltre a Borges mi piacciono altri autori latinoamericani come Sabato, Cortázar, Garcia Marquez, italiani come Calvino e Eco e altri americani postmoderni come Gass e Barth, ma su tutti Pynchon, è chiaro ad esempio che il suo lavoro è fondamentale per quello che ho fatto in Abbacinante, sebbene sia vero che Pynchon, a causa della ben nota ‘ironia postmoderna’, di cui è una delle incarnazioni più pure, non diventa mai metafisico fino in fondo, mentre io credo nei valori ‘duri’, non scherzo mai, per me la visione, la letteratura, il libro stesso, sono questioni di vita o di morte. Tuttavia da lui, così come da Joyce, ho preso moltissimi dispositivi tecnici. Sono loro ad avermi insegnato a fare i libri come li faccio. Tra l’altro non è che io non scherzi mai, anzi a volte mi sembra di essere abbastanza buffo, ma nel turbinio delle visioni questo si vede poco, e va bene così.
Per inquadrare i miei libri è importante anche tener conto che sono uno scrittore rumeno, e la letteratura rumena è fondamentalmente una letteratura fantastica, penso a Mircea Eliade, a un personaggio come Mihai Eminescu, che è stato il nostro Goethe e il nostro Schiller… La Romania è una nazione sudamericana che si è perduta in Europa, del resto anche i nostri destini sono simili, dittatori, corruzione, uno spirito e una lingua latina, e il rifugio, l’ossessione, della fantasia. Anche quando si cerca la realtà, è difficile che non ci sia una scollatura, ad esempio molti commentatori di Abbacinante hanno scritto che si vede molto Bucarest, la Bucarest degli anni della dittatura, ma si tratta di una città immaginaria, non sono voluto neanche andare a ricontrollare i luoghi, le impressioni, ho ricreato attraverso la memoria una città ectoplasmatica che costituisce una sorta di sensazione concentrata di Bucarest. Ho sempre voluto avere una mia città immaginaria, così me la sono creata. Era naturale che la base fosse quella della città dove sono nato e cresciuto, e dove ho cominciato a scrivere e pubblicare. Inoltre, e per fortuna, a volte la rappresentazione fantastica arriva più in profondità di quella realistica: ricevo spesso lettere in cui la gente mi dice che riconosce impressioni, momenti della propria vita lì.
I miei primi libri sono usciti sotto il regime, prima era molto difficile pubblicare qualcosa in Romania, ma la mia generazione di poeti e scrittori, quella definita degli ‘Ottantisti’ o ‘Blue jeans generation’, è stata fortunata: in quegli anni il regime voleva dare un’impressione di tolleranza e mostrarsi aperto rispetto all’arte ‘vera’, così si aprì una finestra di falso liberalismo in cui comunque era effettivamente possibile pubblicare qualche libro. In realtà il periodo peggiore è stato quello subito successivo alla caduta di Ceaușescu: si entrò infatti in un contesto di capitalismo selvaggio in cui a nessuno fregava niente delle arti: negli anni ’90 gli scrittori hanno sofferto moltissimo, c’era il deserto, niente editori, niente agenti, niente scena letteraria, nulla, poi però dopo quel periodo buio le cose si sono assestate almeno un po’, io stesso ho cominciato a uscire per la Editura Humanitas, nata e sviluppatasi proprio in quegli anni, e dopo non ho avuto più problemi a pubblicare i miei libri; qualche anno più tardi hanno cominciato ad arrivare anche le traduzioni, a volte con notevoli differenze di ricezione a seconda dei paesi, ma penso che sia normale, del resto non mi interessa avere per forza diffusione ovunque, quello che mi interessa è scrivere bene, e sappiamo che se si arriva da un paese più marginale è tutto più difficile. Tanto più che ci sono anche molte cose da fare in patria… In Romania gli scrittori sono piuttosto coinvolti in politica, tendono ad assumere il ruolo di intellettuali pubblici e opinionisti, molti colleghi hanno accettato questo compito con grande generosità, ma il nostro è un paese che non ricompensa la generosità, al contrario c’è da anni una forte tendenza anti-intellettuale, la gente crede che gli intellettuali siano moralisti e professorini e li odia, li teme, allo stesso modo in cui i ragazzini odiano aprioristicamente i professori. Ovviamente i mafiosi che gestiscono il paese fanno tutto quello che possono per coprire di fango gli intellettuali e alimentare questo sentimento nella gente. In un paese corrotto come la Romania avere successo nelle arti è pericoloso, più diventi percepito come importante e più devi soffrire.
Il terzo libro di Abbacinante (L’ala destra, ancora inedito in Italia) in effetti è una vera e propria opera satirica, quasi un pamphlet sulla classe politica rumena. Il secondo (Il corpo, uscito in Italia per Voland nel 2015) lo è a metà, mentre il primo (L’ala sinistra, 2008) è completamente visionario. Sono anche, nella loro struttura a farfalla, libri rispettivamente su mia madre – L’ala sinistra – su me stesso – Il corpo – e su mio padre – L’ala destra –. Vedi, mio padre era un comunista puro, uno tosto, che ci credeva veramente… Quando Ceaușescu divenne dittatore si infuriò e restò deluso in modo incredibile, per me quindi lui è una vera e propria metafora della nostra storia: parto da lui, dalla sua carriera – era un giornalista di agricoltura – dalla sua fede nel comunismo, per arrivare alla cosiddetta ‘rivoluzone rumena’, una rivoluzione postmoderna e televisiva, che non a caso ci ha portato nello stato in cui versiamo adesso.
La struttura di Abbacinante è quindi un viaggio progressivo dalla visione alla realtà, anche la struttura a farfalla costituita dai tre volumi è al servizio di tutto questo. È però importante ricordare che non è un libro pensato a tavolino, se non nei suoi tratti generali. So che sembra incredibile, ma per fortuna ho i taccuini per provarlo: ho scritto tutti e tre i volumi a mano, senza editing e senza fare più schemi in corso d’opera, insomma quella che si trova nei libri è sostanzialmente la prima bozza, a parte la revisione e qualche taglio occasionale. Si tratta del frutto di un flusso ispirativo continuo, lento ma costante, quasi medianico, a metà tra il fare poesia in prosa e la scrittura automatica. Ogni mattina rileggevo l’ultima pagina fatta e procedevo, lentamente, seguendo l’onda e sforzandomi soprattutto di tenere legati i fatti e le chiavi simboliche. Un buon esempio potrebbe essere quello di un fantino su un cavallo: è il cavallo che corre, il fantino deve guidarlo, sì, ma toccandolo il meno possibile, quasi levitandoci sopra: questo, se si ha abbastanza esperienza, si può fare anche anche con la scrittura.
[Immagine: Mircea Cărtărescu]
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