di Giorgio Falco
Ne vale la pena? Continuare a scrivere, a dipingere, a fotografare il paesaggio lungo i bordi di città per tentare di dare dignità all’ultimo dei mattoni, dei pali della luce, degli animali che vivono dentro gli interstizi, dove patiscono il dolore che noi non siamo più in grado di riconoscere e provare? (se non quello momentaneo, smemorato, a comando digitale?)
La domanda, in fondo, è la stessa che si pone Federico Morpio, uno dei personaggi dell’ultimo romanzo di Tiziano Scarpa, Il brevetto del geco (Einaudi, 336 pagine, € 20 ).
Il libro racconta le vicende di due esseri che vivono a Milano. Federico Morpio ha trentanove anni, abita da solo, in un “bilocale camera e cucina di ventotto metri quadrati” (è necessario essere così precisi: trenta metri quadrati sarebbe un annuncio immobiliare, una conversazione tra amici; ventotto metri quadrati è il catasto che diviene letteratura, due metri quadrati in più farebbero comodo, si potrebbero fare molte cose in quei due metri quadrati mancanti, ma questa assenza è sorgiva, è il personaggio: i ventotto metri quadrati sono i trentanove anni di Morpio); Adele Cassetti, ventinove anni, vive “da sola in un appartamento al sesto piano, in zona Lorenteggio”. Una piccola casa in affitto, nel quartiere della zona sud ovest della città. Subito dopo inizia Corsico, l’hinterland, il Parco Agricolo Sud di Milano. La donna lavora come impiegata, in una di tante ditte dai nomi intercambiabili, nomi anonimi nel loro disperato tentativo di visibilità (e fanno del loro essere aziende qualunque, ditte medie a cominciare dai nomi, la loro parvenza di affidabilità e successo). Thermodigma: “azienda lombarda” che produce soprattutto “bicchierini usa e getta da caffè, piatti per picnic, vaschette alimentari” (il lettore consapevole, il lettore che legge e riscrive il libro assieme allo scrittore, coglierà anche questo dettaglio, perché nei libri come quello di Scarpa, ogni dettaglio, anche il più apparentemente insignificante, concorre alla creazione di un mondo composto dalla sedimentazione di fondamentali minuzie). Un’azienda che esporta bicchierini usa e getta in tutto il mondo, e per questo motivo Adele conosce quattro lingue (o meglio: poiché conosce quattro lingue, lavora alla Thermodigma), ma tutto questo non le basta, lei è alla ricerca di qualcosa di più grande, ancora non sa bene cosa, dove indirizzare la propria inquietudine (un piccolo appunto: per soddisfare una mia ossessione, avrei voluto maggiore insistenza nel ritrarre Adele all’interno della Thermodigma. Quanta fede religiosa e quanta nell’arte riesce a sopravvivere nei luoghi di lavoro?).
Federico Morpio – artista in crisi, spietato prima di tutto verso se stesso – si chiede se abbia il talento necessario, se ne valga la pena. Vivere fino in fondo la propria arte è una vocazione religiosa (e qui i punti di contatto con Adele): “Non è che la mia arte, così com’è, conta non per le poche opere che produco, ma per quel che mi costringe a vivere?”
Quando “il demone tentatore” gli si accosta all’orecchio, con la vocina suadente, pubblicitaria, gli chiede: “Ti faccio diventare ricco e famoso come Maurizio Cattelan, vuoi?”, Morpio non vuole. “Magari per sempre sfigato e sconosciuto, ma autore delle mie opere”. E Morpio resiste quando il demone gli propone di “diventare Gerhard Richter o Nathalie Djurberg. L’idea che ottenere quel successo e quella fama non fosse possibile se non passando per quelle opere, e che fosse necessario assumersene la paternità, annientava in lui qualunque sturbo invidioso”.
E in questo Morpio, benché pieno di dubbi, è un vero artista, sa che è importante (faticoso e divertente) il processo che conduce all’opera, più di tutto ciò che ne segue (anche se, come diceva un fotografo-artista tedesco morto pochi anni fa: il 90% del mio lavoro, diceva, è relazione, il 10% è l’opera. Allora mentre lui parlava pensavo che l’artista riconosciuto in questa epoca dovesse piuttosto fingere il contrario, ovvero dare l’impressione di trattare il 10% dell’opera come se fosse addirittura il 100%, e trattare quel 90% relazionale come se fosse il 10%, anche meno).
Morpio è stanco dell’ambiente a cui ancora appartiene, pur senza farne parte completamente.
“I curatori conformisti che obbediscono alle tendenze di moda. I vecchi artisti-professori che spingono avanti i loro allievi. I curatori gay che scelgono artisti gay. Le curatrici donne che scelgono artiste donne. I curatori maschilisti che scelgono artiste carine. I collezionisti ricchi che trasformano in grandi opere robaccia inconsistente solo perché la pagano tantissimo”. Morpio non è quindi un artista frustrato, semmai patisce un eccesso di lucidità, che gli fa vedere troppo ciò che lo circonda e lo compone (e quando sei troppo lucido, non è mai un bene, quello il momento in cui coloro che appartengono completamente, ti dicono che sei rabbioso, invidioso del successo altrui). Allora Morpio pensa a un gesto eclatante, disperato: con i soldi che ha sul conto corrente potrebbe comprare “centosettantacinque ombrellini” colorati, salire fino all’ultimo piano del Pirellone e da lassù si lancerebbe con tutti quegli inutili e finti paracaduti (non più La vita agra, la rabbia sociale del personaggio di Bianciardi, arrivato a Milano per distruggere quel grattacielo nano; la protesta performance è ciò che ancora può attirare un minimo di attenzione, anche se la notizia per i media non è perché si protesta ma come si protesta; e Morpio, senza rendersene conto in quanto intossicato dall’arte, ipotizza di comportarsi allo stesso modo dei lavoratori di questi anni recenti, costretti a salire su gru e tetti per ricevere un po’ di attenzione; ma come tutte le mode, anche questa consuetudine ha già perso di interesse; e in fondo il “morire alla grande”, la performance estrema, l’ha fatta – senza volerlo, ha detto l’inchiesta – nel 2002 Luigi Fasulo, schiantatosi con il suo piccolo aereo contro il Pirellone, causando la morte di due donne che lavoravano al ventiseiesimo piano). Ombrellini da cinque euro. Quasi usa e getta, come i bicchierini della Thermodigma e, forse, le opere di Morpio.
L’alternanza dei capitoli (dai titoli notevoli, ne ricordo solo alcuni come Un argomento invade la solitudine o Crucci di un uomo volenteroso o Teologia dei tubi al neon o Peripezie della scultura o La vita dopo di sé o Passaggio all’atto) tra le vicende di Morpio e quella di Adele (indicata poi solo con il nome, Morpio invece il nome lo perde, rimane quasi sempre indicato come Morpio, cognome da amico delle scuole medie, da collega di lavoro; Adele, nome quanto mai azzeccato, scongelato da un’epoca passata, Adele potenziale amica delle domeniche milanesi, di Carla, senza più la consolazione del mercato), avviene in modo naturale. Adele, nelle ore libere dal lavoro, inizia a girovagare nel Parco Agricolo Sud di Milano, “una sequela di campi coltivati, filari di alberi, capannoni, quartieri abitati” (il brulicare della vita sui margini, dondolio tra grazia e spietatezza); Adele “non avrebbe mai immaginato che alle soglie di Milano ci fosse tutta quella biomassa pullulante di animali e piante che si intrecciavano con la città; tutta quella natura civilizzata, tutto quel cristianesimo”. Adele sta cercando qualcosa. Una piccola epifania è la presenza di un geco arrampicato su una parete dell’appartamento in cui la donna vive. È una rivelazione domestica, che Adele decide di custodire all’interno di una pentola rivestita di Teflon, l’unico materiale che le zampine del geco non riescono a scalare. Anche Morpio si imbatte in una rivelazione domestica, quella del cestello della lavatrice (e la copertina del libro le contiene entrambe: una lavatrice, l’oblò di Teflon sembra un buco notturno del cielo, entro cui specchiarsi, il buco che contiene il geco stella, noi).
Morpio si consegna al dubbio, conscio di essere un ex giovane. Senza un rapporto affettivo (dopo quattro anni e mezzo di convivenza, amore distrutto dalle difficoltà economiche, sintetizzate dai ventotto metri quadrati) e rinchiuso nell’autismo masturbatorio, Morpio decide di essere fedele al proprio fallimento, e così esegue una sottrazione d’artista per recuperare quanto gli resta d’umano. Si occupa del padre, dalla salute sempre più cagionevole. Adele va nella direzione opposta, la conversione religiosa può diventare un piano di accumulo (fede rafforzata dall’arte nascosta in molti angoli d’Italia), un atto di bulimia verso il mondo, meglio se eseguito in coppia, assieme all’altro personaggio maschile, Ottavio, il compagno con cui andare fino in fondo alla propria conversione, a costo di infrangere la legge (sovvertire il mondo con le buone azioni).
Non è semplice raccontare il vortice di situazioni, di intuizioni che affollano il libro, ma Scarpa riesce a tenere insieme tutto, e questo tutto converge nell’ultimo lungo capitolo (novanta pagine), ambientato a Venezia. Lascio ai lettori il gusto della scoperta di questa parte, nella quale si focalizza quanto accaduto nei capitoli precedenti (come possiamo rendere manifesto ciò che ci sfugge, ciò che la nostra ombra distratta non riesce o non vuole percepire? L’arte e la religione servono anche a questo, e ci farebbe comodo trovare il misterioso “cronovisore”, un apparecchio in grado di mostrare quanto accaduto in un determinato giorno, un secolo o duemila anni fa, per captare, attraverso “le onde residue degli avvenimenti passati” qualsiasi cosa, anche la Resurrezione di Cristo).
Un romanzo imbevuto del nostro contemporaneo eppure, al tempo stesso, ne è avulso. Un romanzo attraversato da una luce straniante ma non troppo (la narrazione pare racchiusa entro la cappa luminosa di una chiesa periferica degli anni Sessanta del Novecento, e là dentro abbiamo la fortuna di trovare una pizzeria di Bussero, Milano, e un quadro di Caravaggio). Un romanzo che non si accontenta, traccia ogni volta i confini (e Adele deve sconfinare nei comuni del Parco Agricolo Sud di Milano, per trovare le tracce che la natura ancora ci regala: grazie all’esperienza nel Parco Agricolo Sud, Adele riconosce il valore del geco domestico) e poi li ridisegna, come fanno le parole aperte a sempre nuove possibilità (e Morpio incontra Tiziano Scarpa a pagina 175, “uomo di mezza età che prendeva appunti su un taccuino”: qui l’autore ha il medesimo vezzo di Hitchcock, quando entrava da comparsa nei propri film, per alcuni fotogrammi).
Ma chi parla? Chi è la voce narrante del libro? A volte le parole stesse, le parole in persona prendono la parola, nonostante siano consapevoli dei loro stessi limiti. E poi (sempre tra parentesi) il misterioso Interrotto parla con l’incedere del sogno, quando tutto è in corsivo, sfuocato e nitidissimo, e agisce da controcanto salvifico, come se fosse un cronovisore portatile, ciò che, secondo Padre Marcello, portiamo sempre dentro di noi, “nella nostra anima”.
Scarpa è riuscito in una performance senza urla e strappi. Il suono più invadente è quello delle polveri sottili. “Forse le polveri sottili rendono davvero la pioggia più rumorosa”. E la cautela con cui l’Interrotto irrompe nelle pagine (brevi apparizioni, testimonianze e riflessioni della sua non vita, dalla sua vita non vita, in contrapposizione alla nostra condizione d’essere nati, d’essere ancora vivi) trasformano il libro in una preghiera tra parentesi. Noi abbiamo avuto ciò che l’Interrotto non ha avuto. Il compito della letteratura è anche questo ricongiungimento apparentemente impossibile. Coltivare la possibilità, all’interno di quella parentesi (e conservarla sempre, soprattutto dopo, non appena crediamo di sgusciare da essa). Il luogo in cui presto, molto presto (che siano sette, dodici, ventotto anni o nove minuti, poco importa) tutti noi ritorneremo.
[Immagini: Foto di Sabrina Ragucci].
Sto leggendo questo libro ma se (come temo) ”il colpo di scena finale” è che la voce narrante è quella del feto abortito, giuro che lo lancio dalla finestra.
Già lanciato quando a pagina 144 ho letto <>.
Siamo nel 2016, francamente appellare le persone transgender come “travestiti” è fuori dalla decenza. Uno scrittore del livello di Scarpa non può ravanare parole inconsistenti e violente degli anni settanta. Tra l’altro per tutto il resto del libro fa un lavoro finissimo con le parole – addirittura sono un personaggio del romanzo.
[A dire la verità, mezz’ora dopo che il costoso volume aveva concluso la traiettoria contro uno spigolo di muro, l’ho raccolto per continuare la lettura. Voglio sapere se il colpo di scena finale sarà, come temo anch’io, un feto abortito! Sono circa a pagina 170.]
La parte del mio precedente commento illeggibile è “i travestiti li salutavano”.
Purtroppo avendolo scritto tra virgolette è stato letto come html quindi sparito.