di Emiliano Morreale
[Alcuni paragrafi di questo articolo sono apparsi, rimaneggiati, sull’ «Espresso»]
1.
Si può mettere in scena Auschwitz? Si può dare forma estetica alla Shoah? Bisogna affidarsi alla parola, all’astrazione, e mantenere un’austerità assoluta, come ammoniscono filosofi (Adorno) e documentaristi (Lanzmann)? Oppure divulgare, far piangere e far ridere a fin di bene, secondo la linea che va dallo sceneggiato Holocaust a Benigni?
Sorpresa dell’ultimo festival di Cannes, favorito agli Oscar come miglior film straniero, l’opera prima di Laszlo Nemes, trentottenne ungherese, rilancia su un piano altissimo uno dei grandi dilemmi etici ed estetici contemporanei, inventandosi un dispositivo rigoroso. Il protagonista del suo film è un membro del Sonderkommando, aiuta i nazisti nei compiti più abietti: accompagnare gli altri prigionieri nelle camere a gas, portare i cadaveri nei forni. Ed è sempre al centro della scena, a fuoco, mentre negli angoli dell’inquadratura l’orrore è appena intravisto, sullo sfondo, non a fuoco o fuori campo. La radicalità di questa scelta visiva si sovrappone a una struttura quasi da fiaba. Il protagonista decide di compire un gesto gratuito, folle: dare sepoltura al corpo di un bambino, che lui dice essere suo figlio (ma non sapremo mai se è vero). Da qui cominciano una serie di tappe alla ricerca di un rabbino che possa recitare il Kaddish funebre.
Il film è girato in pellicola, con un unico obiettivo e con un formato quadrato. Un apparato di scelte estetiche funzionali alla creazione di un punto di vista che coincide con quello di un agente-osservatore, ma che in parte sembra avere lo stesso valore di gesto, simbolico, apotropaico, del protagonista che sfida ogni pericolo per seppellire un unico corpo. Così dichiara Nemes ad Antoine de Baecque:
“Era il solo modo di preservare una instabilità nelle immagini e quindi di filmare in modo organico questo mondo. La posta in gioco era toccare le emozioni dello spettatore – cosa che il digitale non permette. Tutto ciò implicava una luce il più semplice possibile, diffusa, e rendeva necessario filmare con lo stesso obiettivo, un 40 mm, con un formato ristretto, e non il formato panoramico che amplia lo sguardo, e sempre all’altezza del personaggio, intorno a lui”.
Alle spalle di Nemes c’è anche la lezione di Bela Tarr, con cui il regista ha collaborato. L’autore di Satantango, artefice di straordinarie esplorazioni sulla temporalità cinematografica, di visioni apocalittiche dell’umanità mostrate attraverso autentici tour de force della temporalità cinematografica. Al fondo del cinema di Tarr, infatti, c’è una paradossale fiducia nell’occhio della macchina da presa, nella forza che questa ha, a partire da un grado zero dell’umanità e della storia, di reinventarle liricamente, guidando l’occhio dello spettatore con sinuosi movimenti di macchina, con musiche che cadenzano la danza macabra dei personaggi in una paradossale nerissima bellezza.
2.
In Francia il dibattito sul Figlio di Saul è stato piuttosto serio. “Le Monde” ha dedicato al film una mezza dozzina di articoli. I “Cahiers du cinéma” e “Libération” ne hanno criticato la strategia “immersiva”, tutta emozionale, e che in definitiva può rivelarsi una forma di kitsch. Ma è intervenuto anche il nome più temuto: Claude Lanzmann, l’autore del fondamentale documentario Shoah, che ha da sempre posizioni radicali sulla possibilità di filmare i campi di sterminio. Nessuna immagine, intima da sempre: solo dar voce ai testimoni. Qualunque ri-messa in scena sarebbe un sacrilegio. “Non ti farai nessuna immagine della Shoah”, insomma. Ma stavolta, a sorpresa, si è lasciato convincere dal complesso dispositivo inventato da Nemes: “E’ l’anti- Schindler’s List“, ha dichiarato, sapendo di fargli un complimento[1].
Del resto, in Francia il discorso sull’etica del cinema davanti alla Shoah ha una ricca tradizione. Ricordiamo negli anni ’50 la stroncatura, da parte di Jacques Rivette, di Kapò di Pontecorvo, definito senza mezzi termini “abietto” per un carrello che estetizzava la morte di una donna sul filo spinato. O i dibattiti tra Jean-Luc Godard e Lanzmann, e l’opera del filosofo e storico dell’arte Georges Didi- Huberman.
Proprio da Didi-Huberman è venuto il sostegno teorico più solido a Nemes, attraverso una lunga lettera aperta al regista, intitolata Sortir du noir e pubblicata in volume da Les éditions de Minuit. Un’analisi esemplare, che ne scandaglia i minimi aspetti visivi e narrativi; quasi un esempio contemporaneo del classico genere dell’apologetica, sostenuto da grande tensione letteraria e morale. Il “nero” del titolo è il buco nero della storia costituito da Auschwitz, ma anche l’assenza di immagini come ideale dell’arte dopo il Lager, secondo la visione di filosofi come Adorno. Invece, sostiene Didi-Huberman, Il figlio di Saul fa “uscire dal nero”, da questa maledizione per cui l’orrore non si può/ non si deve ricostruire. Permette di dire che le immagini sono possibili malgrado tutto.
La Shoah è, dice Nemes in un’intervista, “un buco nero dentro di noi”. Che fare allora, scrive Didi- Huberman?
Lasciare che il “buco nero” ci mini dall’interno, sordamente, assolutamente? O piuttosto tentare di farvi ritorno, di guardarlo, cioè di metterlo in luce, di farlo uscire dal nero? Sono note le scorciatoie filosofiche e religiose a cui da adito il primo atteggiamento: fare del “buco nero” un “Santo dei Santi”, uno spazio fantasmatizzato come inavvicinabile, impossibile da figurarsi. Consacrare il regno del nero.
E’ questa la via dell’ “arte radicale” secondo Adorno, che nella sua Teoria estetica scrive che “per sussistere in mezzo agli aspetti più estremi e più cupi della realtà, le opere d’arte che non vogliono vendersi per servire da consolazione devono farsi simili a essi. Oggi arte radicale significa arte cupa, nera come il colore fondamentale.” A questa opzione, Il figlio di Saul contrappone la propria impurità, il proprio realismo impossibile che viene contestato e dialettizzato visivamente proprio dal complesso apparato visivo.
Nel film, insomma, il filosofo ha trovato conferma a una battaglia teorica che compie da anni. Nel libro intitolato appunto Immagini malgrado tutto, partendo dalle poche immagini scattate di nascosto proprio da alcuni componenti del Sonderkommando di Birkenau, contrapponeva alle posizioni di Lanzmann l’esigenza di un faticoso lavoro per rendere pensabile l’impensabile, mostrabile l’immostrabile. Per non darla vinta ex post, in definitiva, ai nazisti, che prima di fuggire cercavano di far sparire le immagini dei campi. “Le scelte formali di Shoah sono servite da alibi per tutto un discorso (sia morale sia estetico) sulla rappresentazione, l’infigurabile, l’invisibile e l’inimmaginabile…”, scriveva Didi-Huberman, e, citando alcuni esempi di arte ascetica come il Monumento contro il razzismo a Sarrebruck, rilanciava: “Le due misere foto scattate attraverso la porta di una camera a gas, nel crematorio V di Auschwitz, nell’agosto del 1944, non bastano a confutare questa elegante estetica negativa?” Il film di Nemes è dunque per Didi-Huberman una conferma del proprio lavoro, l’erede delle misere e miracolose foto del Sonderkommando.
3.
Dunque, nel film il progetto estetico è perseguito fino in fondo. Ogni scelta estetica è ponderata e motivata: l’uso della pellicola, del formato quadrato, del suono, dei piani-sequenza, dell’impassibilità del protagonista, delle sue semi-soggettive.
Davanti allo schermo, in effetti, si resta infine angosciati ma anche un po’ sconcertati. Le insidie rientrano dalla finestra, nonostante la serietà dell’impegno. Nemes da un lato dialoga con una serie di interpretazioni e con un immaginario, li presuppone per glossarli o schivarli; ogni immagine di muove in un terreno minato di errori possibili, e si propone come modello estetico in maniera iper-consapevole, o addirittura letteralmente manierista. Dall’altro, punta a ricreare un’esperienza, a inghiottire lo spettatore nell’esplorazione di uno spazio e in un percorso a ostacoli. L’esito paradossale è che questa strategia immersiva risulta non troppo diversa dalle attrazioni del 3d, o addirittura da certi videogiochi di ruolo che ci permettono di rivivere iper-realisticamente un mondo. E dunque, proprio mentre si rivela involontariamente modernissimo, ripropone, traslati e amplificati, i dilemmi etici che forse sperava di risolvere.
Insomma: il merito di Nemes, certo, è di aver mostrato che si può sfidare in maniera seria il terrorismo iconoclasta dell’interdetto adorniano e lanzmanniano. Ma ha un altro merito, involontario e paradossale, forse addirittura maggiore. Il figlio di Saul, anche e soprattutto nelle aporie cui va incontro, invita a riformulare i termini della propria questione: dopo le Scilla e Cariddi novecentesche del silenzio e dell’abiezione, del nero e del Technicolor, oggi le immagini dei campi galleggiano in un altro arcipelago: nel tempo dell’inesperienza (e dell’esperienza vicaria, virtuale); della imminente scomparsa dell’ “ultimo testimone”; della figura della vittima come modello di identità politica; dello storytelling universale; dell’interattività e della manipolazione digitale delle immagini. Chiedere, riconoscere e salvare delle immagini malgrado tutto è allora sempre più difficile; proprio perché questo “tutto” è sempre più opaco, complesso e non troppo umano. Il bambino in fuga nel finale del film è quello dell’Infanzia di Ivan, ha suggerito Roberto Manassero; ma il film stesso denuncia di esser girato piuttosto al tempo di Solaris.
[1] Negli Stati Uniti, un tweet di Joyce Carol Oates definisce Il figlio di Saul “un film che non tratta semplicemente un tema, ma ingloba (embed) lo spettatore in un’esperienza”. Complimento che può essere rovesciato in critica: il “New York Times” infatti, pur apprezzandolo, nota che il film “offre più sensazione che profondità, una esperienza emotiva che si situa troppo comodamente all’interno delle regole spettacolari. Il che non è solo colpa del regista: l’Olocausto, un tempo territorio proibito, oggi è un terreno sicuro e familiare.”
[Immagine: Le riprese del Figlio di Saul (gs)]
Ho letto molte recensioni sul film che andrò al più presto a vedere, ma nessuna parla di un assecondamento solo delle emozioni. Si tratta di una lettura dell’Olocausto ancora più lacerante, dilaniante, che ci colpisce nelle nostre oscure paure, nella assenza di misericordia e di solidarietà, bandita dai lager. Si può diventare come i carcerieri, i nazizti più feroci, la nostra umanità non esclude questa opzione.
Ed è questo su cui si può riflettere , sulla complessità delle nostre trasformazioni, pur rimanendo esseri umani. Dice Nietzsche: a furia di guardare nell’abisso, si viene assorbiti dall’abisso. E’ così, perciò oggi siamo di una superficialità grottesca. Abbiamo divagato troppo tra le betiserie e gli show.
Quello che si dice dell’estetica del film, è un modo di rendere più agghiaggiante l’esperienza umana, più complessa nell’analisi, che ,se si tratta di opera valida, è sempre analisi del sé. Prima di tutto.