di Alessandro Brizzi
Nel 1906, Werner Sombart pubblicava Perché non esiste il socialismo negli Stati Uniti?, divenuto presto un classico per i teorici e i critici dell’«eccezionalismo» americano. Oggi in America, a 110 anni di distanza, il socialismo continua a non esistere: nessuna forza politica si fa portatrice degli interessi di una fantomatica «classe operaia», soprattutto in un paese che ama ancora specchiarsi nello stile di vita e nelle speranze della sua middle class. A partire dagli anni venti, con il declino del Socialist Party of America, parlare di socialismo negli Stati Uniti significa, almeno nel discorso pubblico, rievocare le paranoie della CIA, degli oppositori al New Deal e dei neoconservatori. E tuttavia, un capitolo chiuso della storia americana si è riaperto il primo febbraio, quando un senatore ultrasettantenne, figlio di immigrati ebrei polacchi e russi, che nel pieno della campagna elettorale continua a definirsi «socialista», ha conquistato metà del caucus democratico dell’Iowa.
La stampa italiana, meno avvertita di altre nelle questioni di politica estera, ha accolto con un certo stupore la notizia della «vittoria dimezzata» della superfavorita Hillary Clinton nel primo voto delle primarie. Non è certo incomprensibile: gli stessi media americani si sono resi conto molto tardi della sfida che Sanders poneva a una narrazione tradizionale della campagna elettorale, con i suoi riti fissi e un vincitore annunciato. Da dicembre, hanno prodotto numerose analisi sociologiche dell’elettorato democratico, improvvisate biografie politiche del riservatissimo senatore, cumuli di risultati di un sempre più accurato fact-checking sulle sue affermazioni; infine, hanno deciso di prendere una posizione più netta sulla sua candidatura. Il 27 gennaio, un duro editoriale del «Washington Post», Bernie Sanders’s fiction-filled campaign, lo liquidava come «not a brave truth-teller», scatenando l’ira dei suoi sostenitori.
In effetti, il binomio idealismo-pragmatismo è ancora la chiave di lettura principale della competizione democratica. Se si confrontano gli ultimi editoriali con quelli risalenti alla discesa in campo del senatore del Vermont, si può notare come i toni non siano sostanzialmente cambiati: «idealista» è uno degli aggettivi più ricorrenti; talvolta, anche se sempre più di rado, si accompagna al più significativo «unelectable». Se si eccettuano alcuni casi, come quello del periodico «The Nation», i commenti continuano a vertere sul problema della credibilità di Sanders: non solo a causa del suo profilo pubblico – fattore importantissimo negli Stati Uniti – ostentatamente privo di qualunque appetibilità mediatica, ma anche per il contenuto del suo programma. Non è un caso, né una sorta di complotto della grande informazione contro una candidatura «scomoda»: molti opinionisti democratici, infatti, ammirano la coerenza di Sanders, rispettano le sue posizioni e ritengono che la sua candidatura abbia portato all’attenzione dell’opinione pubblica temi importanti, come il rapporto tra politica e finanza, il ruolo problematico dei superPACs e l’impoverimento della middle class. Tuttavia, temono seriamente che, se mai la moda di una parte giovane e «immatura» dell’elettorato dovesse contagiare le altre, portando Sanders alla nomination, sarebbe la disfatta del Partito democratico, già fortemente indebolito dalle ultime elezioni congressuali.
È una preoccupazione legittima, soprattutto se si considera che per ora i repubblicani e la loro maggiore espressione mediatica, la Fox, stanno prendendo di mira principalmente la Clinton. Se Sanders venisse nominato, aggirando il problema della diffidenza dell’establishment democratico, come farebbe la sua «gioiosa macchina da guerra», fatta di attivisti perlopiù giovani e inesperti, a battersi alla pari con uno schieramento che va dall’opinione pubblica moderata ai fanatici del Tea Party? Lo spettro di McGovern, il candidato liberal e pacifista che nel 1972 fu travolto da Nixon, è dietro l’angolo. Sanders, insomma, rimane «unelectable», almeno nelle elezioni generali. Bisogna però fare molta attenzione quando si riprende una categoria da un dibattito ideologizzato come quello che ora è in atto negli Stati Uniti: è l’errore in cui sono caduti molti opinionisti, che hanno sovrapposto il giudizio politico all’analisi della «sandersmania».
Conviene ora esaminare velocemente il nocciolo della questione politica, prima di proporre un’interpretazione del fenomeno. La credibilità di Sanders è minata principalmente dal fatto che le sue proposte più rilevanti – la riforma del sistema sanitario, il ritorno a una regolamentazione più severa delle banche e della finanza, l’aumento del salario minimo, l’eliminazione dell’indebitamento universitario – non sono ritenute attuabili per due ordini di ragioni. Il primo è quello dell’impossibilità stessa di attuare certe riforme all’interno di un sistema politico come quello statunitense, e si ricollega al secolare dibattito sull’opportunità di un potere centrale più forte. Secondo alcuni, infatti, la proposta «socialisteggiante» di un sistema sanitario nazionale non può avere cittadinanza nel dibattito pubblico, semplicemente perché viola due assiomi radicati nella cultura politica americana: la libertà individuale declinata in senso economico, che trova espressione nel perverso sistema delle assicurazioni, e l’equilibrio dei poteri tra presidenza, Congresso e stati. Il secondo livello delle critiche, che potremmo definire «pragmatista», è tutto incentrato sull’attuabilità pratica delle riforme, all’interno di un quadro che vedrebbe ancora, salvo miracoli, il predominio dei repubblicani nel Congresso. A questo filone, inoltre, si possono ricondurre i dubbi sul Sanders amministratore «inesperto»: come farebbe un uomo abituato a valutare le questioni secondo il metro della giustizia ideale a misurarsi con le difficoltà poste dall’opposizione e dalle principali issues di politica estera? I democratici hanno da molto tempo accettato la necessità della mediazione, Sanders no.
È qui che entra in gioco la Clinton: debolissima, ai limiti dell’impoliticità sulle questioni principali, può però vantare un’esperienza nell’amministrazione che risale alla presidenza del marito Bill. È inoltre a pieno titolo l’erede di Obama, che le ha già accordato un mezzo endorsement. Eppure, nonostante questi innegabili elementi di forza e la straordinaria legittimazione politica fornitale dal sostegno di vip, giornali ed establishment democratico, la Clinton è una candidata debole. Questo giudizio è ovviamente forzato e parrebbe ingiusto a chi, cresciuto a pane e sondaggi, può apprezzare il solco di 15 punti che sul piano nazionale separa i due candidati democratici. E tuttavia, bisogna considerare due fattori determinanti: prima di tutto, oggi Hillary Clinton non appare più credibile di Bernie Sanders. Incalzata dall’avversario e della stampa sulla questione dei suoi legami con Wall Street, sembra che la Clinton abbia perso la bussola della ragione: è diventata improvvisamente aggressiva, anche sul piano personale, e nella sua difesa rafforza l’immagine di una donna saccente e autoritaria; immagine che gran parte dell’opinione pubblica sembra aver già digerito, a causa della lunga campagna di discredito, esagerata e sessista, condotta dai media conservatori. Ma, ancora peggio, si sta diffondendo la sensazione che la capacità di mediazione e il moderatismo di Hillary, prima considerati suoi pregi, celino un’ipocrisia di fondo. Nell’ultimo dibattito democratico, rispondendo a chi le chiedeva dei contributi ricevuti da Goldman Sachs per i suoi discorsi, la Clinton ha dato una risposta che le costerà cara in termini di credibilità: «What I want people to know is, I went to Wall Street before the crash. I was the one saying you’re going to wreck the economy because of these shenanigans with mortgages». Nelle famigerate riunioni con i grandi della finanza statunitense, avrebbe dunque detto loro che rischiavano di distruggere l’economia a causa delle loro birbonerie con i mutui ipotecari. Lo scandalo o il silenzio imbarazzato degli analisti del dibattito sono il miglior commento.
Il secondo fattore di debolezza della Clinton è forse più significativo: la legacy dell’Obama amministratore sarà anche tutta nelle sue mani, ma quella dell’Obama candidato alla nomination è stata raccolta con sorprendente facilità da Sanders. Il successo della campagna di sottoscrizioni popolari, la capacità di mobilitazione di giovani volontari, l’attivismo sui social segnalano il fatto che, tra i democratici, nessuno più di lui ha saputo valersi degli elementi innovativi del 2008. Anche sul piano del carisma personale, Sanders non sarà un bravo «truth-teller», ma di sicuro è un ottimo venditore di sogni e di speranza, in questo simile a Obama. Per rendersene conto basta guardare il video più noto della sua campagna elettorale, quello con la canzone di Simon e Garfunkel che accompagna le immagini di un’America rurale e urbana, produttiva e impegnata (ma anche, come hanno notato alcuni, incredibilmente bianca).
In ogni caso, nulla è più utile della chiave generazionale per comprendere il fenomeno Sanders. In Iowa l’84% degli elettori dai 17 ai 29 anni ha votato per lui: un abisso, 70 punti, rispetto alla Clinton. Si può tranquillamente prevedere che, alla fine delle primarie, l’espressione del voto tra le generazioni resterà disomogenea, anche se il consenso della Clinton tra i giovani sicuramente aumenterà negli stati dove l’elettorato nero è forte o in quelli che si possono ancora considerare i «feudi» della sua famiglia. Qui ci limitiamo solamente ad accennare quella che sarà, sul lungo termine, la ragione della probabile sconfitta di Sanders, cioè lo scarso radicamento del suo improvvisato apparato elettorale nelle comunità nere e latinoamericane. Piuttosto, è interessante soffermarsi sul dato generazionale. Il giornalismo inglese l’ha colto lucidamente, anche grazie all’esperienza di un caso frequentemente accostato a quello di Sanders: l’elezione a segretario del Labour Party del socialista radicale Jeremy Corbyn. In un articolo apparso sul «Guardian» del 4 febbraio (First Corbyn, now Sanders: how young voters’ despair is fuelling movements on the left), Owen Jones legge i successi paralleli di Podemos e Syriza, di Corbyn e Sanders, cogliendo la differenza tra l’orizzonte politico dell’elettorato maturo e quello dei giovani (nel caso statunitense, i cosiddetti «millennials»): «Qui c’è una generazione che è cresciuta in un mondo segnato dal fallimento del mercato piuttosto che in uno modellato dalle rivalità della guerra fredda». È chiaro che una simile analisi non può cogliere tutti gli aspetti e le complessità di movimenti e fenomeni diversissimi tra loro, ma ha il merito di inserire in una prospettiva storica, come momento periodizzante, la crisi del 2008. Nello specifico, la validità dell’accostamento tra il caso inglese e quello americano è garantita dall’originale figura di Larry Sanders, il fratello britannico di Bernie, che in un’intervista pubblicata sull’«Huffington Post» fornisce un’analisi simile, in termini semplici ma efficaci:
Penso che Bernie veda nel Labour Party del periodo postbellico l’equivalente del New Deal. Politiche simili e anche alcune cose che il New Deal non ha ottenuto. È ben consapevole dell’era Blair. E penso che la vedrebbe – adesso gli sto mettendo le parole in bocca, non ne abbiamo discusso nei dettagli – nello stesso modo in cui considera ciò che è successo in America, ovvero che il partito di centro-sinistra si è spostato a destra. E ogni cosa si sposta a destra quando questo accade.
Gli Stati Uniti, però, sono un caso a sé stante: l’amministrazione Obama, infatti, ha lasciato in eredità al futuro presidente 7 milioni di posti di lavoro in più, una significativa estensione delle assicurazioni mediche tra gli strati più deboli della popolazione, una ripresa lenta ma sostenuta. Ma l’era Obama è anche foriera di contraddizioni: la crescita si è accompagnata a un aumento delle disuguaglianze economiche; la distribuzione del reddito, soprattutto in un contesto di crescita post-crisi, è messa in discussione; infine, ci si chiede se sia ancora ammissibile che nel paese più ricco del mondo non si possano godere i benefici di un welfare state di tipo europeo – questo, paradossalmente, mentre in Europa quel modello è ormai sul punto di essere spazzato via. Si apre così la porta a quattro tradizioni che la figura di Sanders sembra riassumere: il populismo americano ostile alle big corporations alla Teddy Roosevelt, il socialismo anglosassone secondinternazionalista e pacifista, la creatività liberal dell’era del New Deal e, infine, la contestazione sessantottina, che Sanders, da giovane attivista per i diritti civili e, meno giovane, sindaco in giacca di pelle, incarna perfettamente nella sua variante americana. In questo originale misto ideologico che il vecchio senatore offre alla generazione dei suoi nipoti manca, ovviamente, un ingrediente: la ristrutturazione della sinistra anglosassone condotta negli anni novanta da Clinton e Blair. Sembra che ai giovani elettori di sinistra non interessi più la ripulitura ideologica data dal New Labour e dai New Democrats: la crisi economica ha messo seriamente in discussione l’opzione «vincista» e moderata della gestione ordinaria del capitalismo.
La chiave generazionale – va ripetuto – non si applica a tutti i contesti e fornisce una lettura ben lungi dall’essere adeguata. Per esempio, il tentativo di accostare i populismi rossi e viola dei movimenti del Sud Europa a quello di Sanders e al non-populismo di Corbyn è antistorico, per il semplice fatto che in Inghilterra e in America l’esistenza di un partito comunista non ha mai prodotto le profonde cicatrici che invece si sono aperte, tra il 1936 e il 1949, in Grecia e in Spagna. Forse anche questa è una delle ragioni per cui i tentativi di superare la fase centrista dei partiti socialisti occidentali si sono configurati in maniera tanto diversa a seconda dei contesti nazionali (o, se si vuole, macroregionali): talvolta si sono basati sulla continuazione per inerzia di un processo interno alle organizzazioni politiche tradizionali, fino al loro travolgimento da parte di una forza esterna; in Inghilterra, invece, lo stesso partito di sinistra si è dimostrato capace di un’inversione di tendenza, probabilmente parziale e momentanea, ma significativa. Resta da vedere la consistenza di un fenomeno analogo negli Stati Uniti. In realtà, il caso americano è decisamente più complesso: la sfida di Sanders alla ristrutturazione del Partito democratico si basa sull’immissione di un corpo per certi versi estraneo ad esso, che solo in minima parte si richiama alla tradizione del partito in sé, ma che non manca di ricordargli la lezione di alcune sue importanti figure, come Franklin D. Roosevelt. Una sfida che mette in pericolo la scommessa dell’establishment democratico sull’elettorato nero e latino.
Una cosa è certa: bollare questo fenomeno come «velleitarismo giovanile» è superficiale. La questione è fondamentale e chiama in causa anche i più forti partiti socialisti di Francia e Germania, che nell’esperienza di governo o di Grosse Koalition sembrano già aver compiuto la loro scelta sulla ristrutturazione, volgendosi verso destra. Quanto all’Italia, la trasformazione è ormai in fase di conclusione e difficilmente il dibattito della sinistra anglosassone potrà avere effetti sul Partito della Nazione: d’altronde, se Corbyn non è né più né meno che un perdente, come l’ha definito indirettamente Renzi, Sanders sarà un altro vecchio fallito. La speranza, per chi segue le elezioni dall’Italia, è che il nostro mondo politico e giornalistico, come quello americano, abbandoni i concetti limitanti di «ineleggibilità» e «idealismo», per cogliere più lucidamente quella che si potrebbe a tutti gli effetti definire una sfida, assolutamente credibile, alla ristrutturazione della sinistra occidentale.
Sitografia essenziale:
http://www.huffingtonpost.co.uk/2015/12/27/larry-bernie-sanders-jeremy-corbyn_n_8860508.html
http://www.theguardian.com/commentisfree/2016/feb/04/jeremy-corbyn-bernie-sanders-young-voters-left
https://www.washingtonpost.com/opinions/bernie-sanderss-fiction-filled-campaign/2016/01/27/cd1b2866-c478-11e5-9693-933a4d31bcc8_story.html?hpid=hp_no-name_opinion-card-e%3Ahomepage%2Fstory&tid=a_inl
http://www.realclearpolitics.com/epolls/latest_polls/president/
http://www.thenation.com/article/bernie-sanders-for-president/
[Immagine: Bernard Sanders]
Pezzo interessante. Un unico commento: FORZA BERNIE!!!
Va bene, ma non è che si paventi un po’ il ritorno della sinistra moderata (che tale è comunque quella della Clinton, di Sanders, della SPD e, se proprio vogliamo, di Renzi e Blair) nell’alveo della sua tradizione di critica (se non di contrasto) degli eccessi del capitalismo e della disuguaglianza? Serve proprio discutere ancora di “sfida, assolutamente credibile, alla ristrutturazione della sinistra occidentale”, laddove invece le cose mi sembrano assolutamente chiare, i problemi enunciati, le soluzioni valutate e si tratta soprattutto della volontà di accettare lo scontro con la realtà (brutta) del modello economico dominante e di combatterne le potenti resistenze al cambiamento? Poi nella fattispecie è abbastanza probabile che vinca la Clinton, non solo le primarie ma anche le presidenziali: l’endorsement non tanto di Obama quanto (ben più importante) dei mercati è chiaro. Ma qualora Sanders dovesse anche prevalere ancora qualche volta, per poi perdere sulla distanza, dubito che queste vittorie funzionino come “caveat” per la Clinton e per i suoi sponsor, come segnali del disincanto – che pure in qualche modo indubbiamente c’è – nei confronti della narrazione del capitalismo trionfante marca Wall Street da parte di quella middle class elettrice, sacrificata sugli altari delle trimestrali: ci vorrebbe ben altro per cambiare il quadro a-democratico che si sta costruendo in America e in Europa. Ci vorrebbe in primo luogo una politica forte, che presti orecchio alle difficoltà di quelli che non saranno mai invitati a Davos (neanche come spettatori) e ignori i convegni eleganti dei circoli lobbistici, non molto interessati al parere di coloro a cui hanno assegnato come unico ruolo quello di consumatori, che di cittadini non si vuole neanche sentir parlare.
Ottima analisi, con molte sfaccettature degne di sviluppo. Mi limito a poche cose.
Del tutto corretto dire che non si tratta di “velleitarismo giovanile”, né di semplici “perdenti”, parlando di Sanders, o Corbyn; e la cosa è tanto più evidente se si parla di Podemos e Syriza. Il processo riguarda la crisi radicale dei partiti politici “istituzionali”, dentro le democrazie avanzate, siano essi di destra o di sinistra. I risultati di ogni tornata elettorale lo mostrano. Il caso apparentemente contrario della Cdu della Merkel conferma questa cosa, perché in realtà in essa sono presenti forti elementi di populismo e leaderismo. Questa crisi colpisce in modo più radicale le sinistre, perché i compromessi che le sinistre tradizionali accettano o hanno accettato le portano a tradire maggiormente le loro identità e le loro promesse fondative.
Le sinistre così pagano due cose insieme: la delegittimazione delle istituzioni rappresentative (che alimenta quel tanto di “antipolitico” che emerge nei nuovi movimenti); e la sbornia neoliberista, seguita dal triste risveglio della crisi globale. Nessuna forza politica della sinistra “istituzionale” riesce a dare risposte a questi due problemi; tutte si limitano a gestire alla meno peggio i processi (anche Hollande, partito con grande promesse, è finito così). Allo stesso tempo, le forme nuove di contestazione rischiano di ridursi al primo punto (come è successo al M5S), perché non hanno gli strumenti per affrontare la gestione del contesto economico in modo nuovo. Non è visibile una prospettiva politico-teorica davvero nuova, alternativa alla gestione del sistema.
E’ qui il nodo su cui tutte le sinistre antisistema o “veramente socialiste” cadranno: siamo su una faglia veramente epocale, perché gli stati non possono più controllare i processi economici, e non vediamo in nessun modo gli strumenti sovrastatali che possano farlo. Chi non si pone a questo livello fallisce, magari con un autoconsolatorio rimpianto di socialismi di altri tempi o di chiusure nazionaliste; chi si pone a questo livello o si accontenta di gestire il sistema, evitando i mali peggiori, o mostra una lacuna immensa di potere politico e di legittimazione democratica. In questa lacuna si installano i populismi, che alimentano rfilessi identitari e soluzioni semplici (amico-nemico), sembrano forti perché raccolgono consenso e così danno forza all’azione politica, ma lasciano aperti tutti i problemi.
Sarò tranchant: l’unica seria ed utile che si può fare, è abbandonare del tutto la dicotomia destra/sinistra in politica.
Ci sono più motivi per questo abbandono.
L’uno è di origini storiche, la sinistra è nata come sinistra della borghesia, ed a lungo i marxisti non si sono identificati con la sinistra. E’ soltanto nel novecento che la sinistra si identifica con la difesa dei ceti più poveri, e tutto ciò in base alla svolta tutta interna al marxismo di decidere di identificarsi come sinistra.
Tuttavia, il marxismo è praticamente finito, ne sono rimaste macerie ancora importanti, ma è tutto un fiorire di distinguo, di capovolgimenti pietosamente mascherati da revisionismi, ma ogni revisione si dovrebbe porre dei limiti, al di là dei quali sembra un’operazione di onestà dichiararsi fuori da quella tradizione.
La situazione è quindi quella di una confusione estrema sul termine sinistra, all’interno della quale convive di tutto, una sinistra che al suo interno non condivide praticamente nulla, io direi poco più di una foglia di fico a coprire l’assenza sostanziale di proposta.
Il prorompere dei temi ecologisti sulla scena politica hanno una portata almeno potenziale che non è stata fin qui adeguatamente apprezzata. Costituisce una svolta storica del pensiero occidentale, del concetto stesso di modernità, di progresso, di direzione della storia, ed è quindi intrinsecamente incompatibile con quanto la sinistra è stata concepita nel novecento, e di conseguenza non può in alcun modo essere considerata come una articolazione della sinistra.
Di sinistra, abbiamo oggi macerie, anche molto ingombranti, vistosissime, ma sempre di macerie si tratta, perchè i suoi capisaldi sono entrati in crisi, a mio parere, in una crisi irreversibile.
Il punto di rottura più forte è sul fronte della globalizzazione, dove rimangono le posizioni che Piras manifesta, continuare col mito della direzione della storia, e quindi vedere la difesa degli stati nazionali come un’operazione di retroguardia, di ritorno indietro. In tutto ciò, alla fine, non v’è argomentazione alcuna se non appunto il mito della direzione obbligatoria della storia, cioè un dogma.
Il conceto di progresso da perseguire è del tutto sustanziale al concetto di sinistra, su questo do ragione a Piras, e di conseguenza credo che questa sinistra, l’unica ormai possibile, vada sconfitta e distrutta.
Potremmo dire che l’universalismo che costituisce un aspetto fondamentale della sinistra ed anche del marxismo, si sostanziano oggi nella società del mercato globale, e se questo piano di distruzione degli ambiti locali e della mercificazione di ogni aspetto della nostra vita va combattuta, questa battaglia non può essere condotta dalla sinistra, da nessuno schieramento politico che in modo anche vago si richiami alla tradizione della sinistra, e quindi io credo che oggi la vera dicotomia sia quella globalismo/ecologismo.
D’accordo su quasi tutto Mauro, ma… e quindi? Se “non è visibile una prospettiva politico-teorica davvero nuova, alternativa alla gestione del sistema” continueremo pragmaticamente a stare a qui a contemplarci l’ombelico? Mi pare che siamo sempre dalle parte del TINA (There is No Altermative) di thatcheriana memoria. Se le sinistre antisistema o “veramente socialiste” cadranno su “questa faglia epocale” (e non mi pare che a livello di analisi ci cadano affatto: al massimo manca una chiara strategia su cosa fare e come farlo, come avevo già detto) dobbiamo sconsolatamente prendere atto dell’inanità di ogni tentativo di cambiamento e accontentarci di gestire (alla bell’e meglio) il sistema, una riformina qui, un contentino economico là, cercando di gestire lo scontento aumentando il potere decisionale dell’esecutivo (magari in vista di future situazioni sociali più problematiche) in materia legislativa? Qui invece non si tratta di rimpiangere alcunché: chi lo fa non si pone certo su un piano politico; ma chi si abbandona (più o meno ipocritamente) al corso immodificabile degli eventi – per come viene presentato – si assume la grave responsabilità storica di favorire proprio quei populismi di cui si teme l’avanzata. Qui di ineluttabile non c’è niente: motivazioni e interessi (e forse anche nomi e cognomi) mi pare che siano abbastanza chiari. Sembra mancare, specie nella sinistra “moderatamente socialista” (o liberal-socialista), la volontà di contrastarli. O forse si pensa che in fondo questo mondo non sia poi tanto male.