di Diego Bertelli
Vivo da pochi mesi a Lawrence, Kansas, una città di circa 100.000 abitanti situata in mezzo agli Stati Uniti. Proprio qui, nel Midwest, una delle prime cose che ho sentito ripetere al mio arrivo è stata che avrei finalmente provato una real American experience. Che cosa sia questa “esperienza americana” resta però un punto di domanda, che viene alimentato dal mio precedente soggiorno in questo paese, lungo all’incirca otto anni, ma in tutt’altro luogo. Si tratta della costa est, o meglio, di una sua zona ben specifica, quella compresa tra l’europeizzante Boston e la cosmopolita New York. Il New England, nonostante la sua unità culturale, sembra aver subito, a causa della morsa di queste due città, una serie di curvature tali da annullare, come farebbe una calamita con una bussola, quegli orientamenti atti a condurre all’essenza stessa di una tale esperienza. Con in più un’aggravante geopolitica, la quale riconosce agli Stati Uniti soltanto l’utilizzo dell’aggettivo “americano” come equivalente di statunitense. Cosa che non si potrebbe fare, ad esempio, nei confronti del Canada o del Messico. Ragion per cui, la cosiddetta esperienza americana che non ho vissuto in quasi otto anni di Stati Uniti è stata, nello specifico, l’esperienza statunitense dell’America. Ho vissuto, invece, in una sorta di “dimensione occidentale”, che dagli Stati Uniti si è estesa all’Europa grazie al suo diffusore più importante, l’American way of life. Sostenuto in maniera imponente da pubblicità e programmi televisivi, lo stile di vita americano ha definito a priori il nostro modo di intenderlo nel corso di interi decenni.
Il fatto di non aver potuto riconoscere alla fascia degli Stati Uniti che sta tra Boston e New York l’essenza stessa dell’esperienza americana è però una questione paradossale fino a un certo punto; e cioè, lo è nella misura in cui si considerino le coste confini terrestri. Se pensiamo all’altra parte del paese, la medesima aleatorietà territoriale e culturale sembra valere per la costa ovest, che è divenuta il ganglio da cui si sono propagati gli impulsi vitali del web. Si tratta di un’area metageografica che vive oramai in modo talmente autonomo da far sì che anche il suo spazio resti tale, definendosi come una linea di costa a se stante, se non addirittura una sezione terrestre che per metonimia si chiama Silicon Valley. Resta dunque, autoreferenziale più che mai, il centro degli Stati Uniti, una fetta geograficamente amplissima, divisa in due parti non uguali: Midwest e South. Avanza poco altro, se proprio vogliamo segnare luoghi a sé stanti come il Texas, il quale è senza dubbio uno degli esempi più calzanti per cogliere l’essenza di queste separazioni nette tra le vaste aree geografiche che formano il variegato ma uniforme centro del paese. Ed è appunto qui, più che in ogni altra sua discontinua parte, che a parere di molti si può realmente provare una vera esperienza americana. Di per sé tanto concreta quanto intangibile, essa non è immediatamente rapportabile alla prassi per chi arriva da fuori: essa s’identifica con il modo naturale di comportarsi di tutti gli americani, a prescindere dai singoli caratteri che distinguono questo popolo da regione a regione, se non da stato a stato. Invisibile agli occhi dei suoi abitanti per il fatto stesso di coincidere con il loro stile di vita, costantemente presente e attuabile: in maniera paradossale, il dato concreto di ciò che rappresenta l’esperienza americana non può essere rinvenuto, specie nel momento in cui lo si voglia identificare e isolare come unico nel suo genere. Le uova e il bacon per colazione, le dimensioni dei prodotti esposti in un qualsiasi supermercato, la misura in galloni della benzina, sono o non sono già un’esperienza americana? I pick up dalle cilindrate eccentriche, i centri commerciali che assumono i tratti di vere e proprie epitomi urbane, i drive-through in cui si ordinano bagel e hamburger o dove si fanno operazioni bancarie senza scendere di macchina: si tratta di esempi necessari ma non sufficienti. Chiunque può capire in modo più o meno chiaro di che cosa stiamo parlando, anche nel caso in cui non lo abbia verificato direttamente. Ogni fenomeno che possiamo definire americano è stato assorbito collettivamente e fa parte da molto tempo del nostro immaginario. L’unicità di questa esperienza sembra irrealizzabile prima di tutto perché obliterata da una sua conoscenza pregressa. Ne consegue che anche il Midwest è un luogo arbitrario, tanto quanto lo sono le coste est e ovest. Che qui si possa provare realmente ciò che fa parte, oggi come allora, della dimensione occidentale rimane un fatto del tutto soggettivo, una questione di percezione. Soltanto in questo senso, l’esperienza degli Stati Uniti avuta a Lawrence può definirsi ai miei occhi americana e nuova rispetto a quella di otto anni prima: per il semplice motivo di essersi presentata in modo ricorrente in questi primi mesi. Mi riferisco all’uso quotidiano dell’automobile per andare al lavoro e a una struttura tipica degli incroci tra strade principali e secondarie che non sono comandate da un semaforo: quella del 4-Way Stop.
A differenza del «No Turn On Red», e cioè il divieto alla possibilità, garantita dal codice stradale, di poter girare a destra agli incroci anche quando è rosso, le intersezioni regolate da quattro stop non conoscono eccezioni. Questa disposizione della strada è molto diffusa qui a Lawrence, specie nelle primissime adiacenze del centro. Per capire come funziona il meccanismo americano del 4-Way Stop, la teoria che precede la prassi è illuminante, poiché ciò che sta dietro a questa disposizione del codice stradale predica lo spirito di un popolo. Chiunque prenda la patente negli Stati Uniti impara che in prossimità di un incrocio regolato ambo i lati da quattro segnali di stop la precedenza spetta molto semplicemente al primo che arriva, secondo la formula del «first car rules». Se non per un’eccezione alessandrina relativa alla contemporaneità di quattro veicoli fermi all’intersezione, la questione della precedenza riguarda il momento, ed è stabilita dalla vicinanza del mezzo alla linea di stop. La legge del più forte sembra governare, in apparenza, questa dinamica, ma lo strato sottile che separa l’esercizio individuale della forza da una coercizione imposta dall’alto è invece la parte più interessante di tutta la faccenda. La sola garanzia reggente è infatti quella della legge, per cui nessuno, in condizioni normali, si sogna di accelerare, anche se arrivare prima significa poter ripartire prima. Immaginate invece una membrana che separa la distribuzione alternata delle precedenze. Ogni propensione individuale è qui rivestita della sostanza isolante che è la legge. Il codice stradale mette in atto in una relazione totemica, in cui il rispetto della norma non consiste in nient’altro che una forma di venerazione. Il derivato più comune della gestione di un veicolo, ossia l’amplificato senso di controllo della sua potenza sulla strada, è posto sotto la tutela invisibile dell’autorità: una sorta di legge-dio che previene l’intervento tangibile dell’ufficiale di polizia. Quasi che lo stesso soggetto che si trova nella condizione di poter esercitare la sua superiorità sia invitato invece a esercitare una forma di controllo ancora maggiore, che è quella del rispetto della regola da parte di tutti gli altri. La legge-dio è così capace di imporre a ognuno il proprio turno, demandando un’autorità apparente al singolo. Di fatto, tutti gli individui credono di poter sfuggire alla legge-dio accertando il rispetto della norma da parte degli agenti coinvolti nell’uncino della precedenza. Riuscire a far prevalere questo controllo astratto, che impone al soggetto-vigile di essere controllato a sua volta, è un risultato sorprendente. La possibilità data all’individuo di farsi egli stesso sceriffo è il velo di Maya che rende la parola “soggetto” riferibile tanto a colui il quale agisce quanto a chi soggiace a un’azione. Solo così la precedenza è sempre della persona che arriva “per prima”. Questa formula è ben diversa da quella che distribuisce su piani diversi l’esercizio di una medesima disposizione. Si tratta di un portato culturale che proviene dalla frontiera americana, l’Old Wild West, dove lo sceriffo e il fuorilegge a cavallo si fermavano nel centro del villaggio, nell’unico incrocio della via principale, pronti per il duello. In quel caso non era il veicolo a partire, ma la pistola: chi sparava per primo continuava per la sua strada. Nella dinamica di quello scontro possiamo rinvenire oggi la struttura del 4-Way Stop e la sua imposta necessità. Il nodo della questione è questo: l’imposizione salva la vita alla legge, e dunque allo sceriffo, che non deve più morire.
Se all’esperienza del duello il 4-Way Stop cerca ritualmente di ovviare nel momento in cui più di una macchina si avvicina, che cosa accade quando lo sceriffo è da solo? La reciprocità dell’assoggettamento alla legge-dio che trasla su un soggetto il dominio momentaneo ma assoluto sugli altri non basta all’analisi del ruolo che la precedenza e gli incroci con stop quadrilatero esercitano sul singolo individuo. La cosa ancora più straordinaria di questa esperienza americana è la seguente: chiunque si trovi a dover impregnare l’incrocio in assenza di altre auto non ne è esente. Nel caso del 4-way stop non esiste la possibilità di una precedenza in nessuna circostanza. La legge-dio manifesta qui tutto il suo potere astratto. La situazione che si presenta al singolo guidatore di fronte al 4-way stop è la replica di una condizione kafkiana. Fermarsi allo stop e dover attendere significa essere soli di fronte alla legge. Come in Kafka, anche qui non c’è che un ingresso riservato per ognuno, il quale non potrà mai essere di qualcun altro. L’attesa è qualcosa che prescinde dal valore delle azioni: chiedere di entrare, restare fuori, provare a parlare, corrompere il custode: nulla di tutto questo può vincere l’imposizione di un’attesa da parte della legge. Il senso della storia raccontata di Kafka sta proprio nel rivelare da subito che ogni coercizione ritualizza un sacrificio. Quando si arriva al segnale di stop e si è da soli, per continuare è necessario fermarsi del tutto. La legge impone la perdita dell’autorità che si acquisisce solo in modo relativo. Nella sua versione assoluta, di fronte alla legge non esiste mai una possibilità di precedenza. Attraverso la richiesta del full-stop – l’arresto integrale del veicolo, misurato sul movimento delle ruote, che devono bloccarsi per poi ripartire –, la legge impone un’attesa contro il quale non si può niente. Nonostante duri un momento, ciò è sufficiente a far credere che tutto sia normale, e cioè misurato sulla norma. Nel momento in cui il conducente può proseguire, la legge impone un’attesa. L’idea è appunto la medesima che ritroviamo in Kafka: ««Nessun altro poteva ottenere di entrare da questa porta – afferma il guardiano alla fine della storia –, a te solo era riservato l’ingresso». Non si fornisce dunque una direzione alla libertà di transito. Necessario è vivere, ogni volta, l’attesa: il rituale dell’assoggettamento è il tempo di ognuno di fronte alla legge, un momento che vale per il resto della propria vita.
[Immagine: Stephen Shore, Second Street East at First Avenue East, Kalispell, Montana 22 August 1974. (gm)].
Molto interessante questa interpretazione “kafkiana” del 4-Way-Stop. Sì, definisce benissimo l’essenza del popolo “americano”. Vince chi primo arriva, come sanno bene, purtroppo, gli altri popoli americani del patio trasero. E devo anche dire che mi ha dissuaso dal recarmi negli States e noleggiare un veicolo.