cropped-Klat_Marco_Zanta_Treviso_2007.jpgDi Sergio Bozzola

[È in stampa il libro L’autunno della tradizione. La forma poetica italiana nell’Ottocento presso Franco Cesati. Questa è la premessa].

1. Al lettore appassionato della poesia di oggi si manifesta forse una sola palmare evidenza: non c’è più un fondamento unico e riconosciuto in grado di regolare oggettivamente la forma del testo poetico; il superamento della tradizione è un processo ormai compiuto, che nega anche solo la possibilità di una vera e propria dialettica con le forme tràdite. Si può in questo senso affermare che nella storia delle forme si è compiuta una transizione paradigmatica, il cui esito è l’affermarsi di uno stato di anomia, un paradigma-zero.

2. Questo stato di cose è l’effetto di un processo molto lento. Se si osserva il paesaggio della poesia italiana da un punto di quota sufficientemente alto e panoramico, vi si individueranno episodi e soluzioni localmente traumatici, ma privi perlopiù di continuità e di séguito. Sovvertimenti e rivoluzioni hanno quasi sempre generato drappelli di seguaci, ma non veri e propri eredi. E quando la novità si è incarnata in una sola persona, vedi D’Annunzio, non sono stati gli aspetti più eclatanti delle sue innovazioni a fare durevolmente scuola, ma quelli più sottili, come può essere una certa foggia dell’endecasillabo o la rima imperfetta. La datatissima affermazione di Jakob Burckhardt, secondo la quale arte e letteratura languono nelle fasi storiche in lenta evoluzione, prosperano in quelle di grandi e veloci cambiamenti sociali e politici (1998, pp. 192-193; gli appunti relativi sono da datare fra il 1868 e il 1873), va in questo senso rovesciata. In Italia, per rinnovare la poesia e la letteratura, si cambia l’aria senza sfasciare le finestre, conformemente a quanto, all’inizio del nuovo secolo, invita a fare Domenico Gnoli: «Apriamo i vetri, / rinnoviamo l’aria chiusa!»; e difformemente da ciò che osserva Virginia Woolf in margine all’Ulisse di Joyce: prodotto di «un uomo disperato, che sentiva che per poter respirare doveva rompere le finestre» (cit. da Kern 1988, pp. 227-65).

3. Raccontando del passaggio all’Umanesimo e al Rinascimento dall’Età di mezzo in ambito franco-borgonone, Huizinga (1944, pp. 438-53) porta esempi di chierici e magistrati che si scambiano «epistole belle e sonore» (ivi, p. 439), in cui i corrispondenti manifestano una nuova, proto-umanistica, preoccupazione per la forma (l’ortografia di orreolum o di scedula «con o senza h»), e considerano gli errori morfologici del loro latino, quando ne prendono atto, come motivo per divenire bersaglio, addirittura, «di libelli diffamatorî» (ivi, p. 440). La sostanza di quelle lettere rimane, nel metodo e nel merito, ancora tutta dentro la cultura medievale; ma alcuni dei loro dettagli formali minimi evidenziano il principio di una nuova cultura e sono pertanto oggetto di grande attenzione. Rovesciamo in questa sede i termini del rapporto e fermiamo così una prima approssimazione metodologica: un’eredità secolare, depositata in pratiche formali antiche e mai veramente sovvertite, conserva più o meno saldamente il suo potere ma vede già declinare il suo prestigio, mentre si diffondono soluzioni tematiche e ideologiche del tutto nuove. E pertanto quella forma incomincia a sgretolarsi: continua a determinare le pratiche della poesia, ma incomincia a dare segni di cedimento. In questo studio vorrei documentare questo processo dai Canti di Leopardi fino all’inizio del ventesimo secolo. L’Ottocento, in questo senso, e non il Novecento, rappresenta il secolo chiave da cui partire per esaminare l’ingresso della poesia italiana nella modernità. L’esame è inizialmente puntato su aspetti e segnali apparentemente irrilevanti, primi cedimenti di una transizione che non si verifica all’improvviso, ma con spostamenti minimi e aggiustamenti progressivi.

4. Uno dei primi sintomi della nuova era avviene in Huizinga intorno a figure e personaggi di scarso rilievo, secondari o terziari, letterariamente irrilevanti. Allo stesso modo la storiografia de minimis di Ginzburg ritrova nelle vicende di un mugnaio i grandi conflitti di classe e le potenti dinamiche politiche e sociali di un’intera epoca: «Alcuni studi biografici hanno mostrato che in un individuo mediocre, di per sé privo di rilievo e proprio per questo rappresentativo, si possono scrutare come in un microcosmo le caratteristiche di un intero strato sociale in un determinato periodo storico» (dall’introduzione al Formaggio e i vermi, Ginzburg 2009, p. XIX). Deriviamo da qui una seconda posizione metodologicamente rilevante: nelle poesie dozzinali (ma anche spesso divertenti) dei poeti dell’Ottocento si rispecchiano i grandi processi di trasformazione della forma poetica, dai suoi primi allentamenti alle sue più tarde e più radicali trasformazioni. Il luogo elettivo di questa verifica saranno pertanto i Poeti minori dell’Ottocento (variamente integrati da edizioni coeve o di oggi e dalle opere più rilevanti dei maggiori), che dimostreranno, credo, con ciò la fondatezza dell’affermazione che vi premetteva il curatore, Luigi Baldacci (1958, p. IX): «Una strana impressione potrebbe fare al lettore (e intendiamo anche quello più avvertito) sentir dire che questa poesia minore dell’Ottocento, presa in blocco, non è già un fondo di biblioteca inerte e polveroso». Credo che i risultati che si ordinano e si argomentano in questo libro ne siano una conferma.

5. Secondo Adorno, l’inizio del processo di declino della forma musicale classica nella musica della prima metà dell’Ottocento si manifesta dapprima mediante un «cedimento» (è la parola che abbiamo usato più sopra): «Il cedimento in Schubert e Schumann è il prezzo che viene pagato per cogliere la trascendenza della forma. […] quel declino della musica come linguaggio oggettivo si esprime in Schubert nell’interruzione, in Schumann nel meccanico» (Adorno 2001, p. 109). Prescindendo dal giudizio di merito, l’osservazione ha un rilievo più generale: la progressiva erosione della metrica e della lingua poetica in quanto istituzioni della letteratura è possibile in virtù della caduta del loro significato storico e formale, della loro, appunto, oggettività. Metri e linguaggio cessano di designare un rapporto, ovverosia il legame con un genere poetico e le relative implicazioni che ne venivano sul piano stilistico e tematico: forma non più «simbolica», con la formula di Panofsky (Mazzoni 2005, p. 36 e passim; in una prospettiva diversa, Soldani 2010, cap. 2), ma vuota. Da cui la possibilità di fruirne con grande libertà, soggettivamente, in contesti e in accostamenti inediti, in combinazioni nuove, in soluzioni deformanti o parodistiche. La metrica e la lingua poetica tradizionali non sono ancora un reperto archeologico da guardare con distaccato senso dell’alterità e della distanza, benché siano già la parte rigettata di un rapporto separato, in un processo ancora in corso, ancora per certi aspetti doloroso.

6. Quale è, poeticamente, la conseguenza più evidente di questo progressivo svuotamento? Correggendo l’impostazione data al problema della forma nella sua Filosofia della musica moderna (e che ritroviamo più volte in Immagini dialettiche), Adorno dà segno di voler superare l’idea che tra il compositore e la forma tramandata si inneschi una dialettica soggetto-oggetto (2001, p. 91), poiché «le grandi forme tramandate della musica caratterizzano già in sé questa dialettica e lasciano al soggetto un certo spazio vuoto» (ibidem), nel quale il compositore deve imprimere la sua soggettività. In questa chiave si possono ben inquadrare grandi poeti che non sono stati dei sovvertitori della metrica, e cioè quasi tutti i massimi della poesia italiana. Ora, scrive Adorno, il salto che fa Beethoven rispetto alla tradizione musicale consiste appunto nell’aver sfruttato nella massima misura tali spazi vuoti, ma nel contempo e di più nell’aver saputo trattare i luoghi definiti della forma, i suoi gangli strutturali, «in modo tale che essi perdano il momento dell’esteriore, del convenzionale, del reificato, dell’alieno al soggetto» (ivi, p. 93); e prosegue scrivendo che tale vuota convenzionalità è ciò che Wagner definì, a proposito di Mozart, «il rumore delle stoviglie sulla tavola principesca» (ibidem). La metafora rende superbamente l’effetto di una forma che perdura, ma è svuotata di senso (ma certo oggi noi non la ripeteremmo per Mozart). In essa credo che si tocchi, fatti i debiti spostamenti, il problema di fondo di tanta poesia ottocentesca. Lingua poetica tradizionale e metrica sono fruite come elementi aggiunti e per così dire appesi al soggetto, reperiti nel grande serbatoio della tradizione ma non fatti propri. Privati del loro significato storico-culturale, sono l’esito di un gesto convenzionale.

Adorno, Th.W. (2001), Beethoven. Filosofia della musica, Einaudi, Torino.

Baldacci, L. (a cura di) (1958), Poeti minori dell’Ottocento, I, Ricciardi, Milano-Napoli.

Burckhardt, J. (1998), sSullo studio della storia. Lezioni e conferenze (1868-1873), Einaudi, Torino.

Ginzburg, C. (2009), Il formaggio e i vermi. Il cosmo di un mugnaio del ’500, Torino, Einaudi (1976¹).

Huizinga, J. (1944), Autunno del Medio Evo, Sansoni, Firenze.

Kern, S. (1988), Il tempo e lo spazio. La percezione del mondo tra Otto e Novecento, Il Mulino, Bologna.

Mazzoni, G. (2005), Sulla poesia moderna, Il Mulino, Bologna.

Soldani, A. (2010), Le voci nella poesia. Sette capitoli sulle forme discorsive, Carocci, Roma.

[Immagine: Immagine: Marco Zanta, Treviso (gm).]

12 thoughts on “Sei paragrafi per la crisi della forma poetica italiana

  1. Sia pur vero che solo chi oserà
    varcare quei confini che, di carta,
    stringon da presso, potrà disvelare
    quello che domina oltre Atene e Sparta.

    Chi, ti chiedo, saprà poi ritornare
    al luogo che dà vita all’arte alta?
    Colui che si disperde nel cercare
    è destinato a non più mai parlare.

    Un albero che scorda le radici
    potrà per poco viver di gran vaglia
    ma presto morirà, secco e spezzato.

    Tenete bene a mente, cari amici,
    chi guarda spesso indietro non si sbaglia
    perché il futuro è incerto come il fato.

  2. Non sono d’accordo con la tesi sostenuta dall’autore benchè sia lodevolmente intessuta di citazioni nei modi si “Cicero pro domo sua”. Penso che considerare la forma come vuota di contenuti sia un concetto più adatto ad un gesuita che ad un letterato se però crediamo che le parole, segni dipinti, abbiano in se un valore di rappresentazione del suono e del segno che esprimono. Il Verbo, ab initio, è la parola creatrice(fiat lux e luce fu)…quindi “luce” è la parola che rappresenta se stessa non qualcosa che le assomigli…l’armonia di questa combinazione di “logoi” produce, metaforicamente, per me che sono un non credente, l’Universo…dunque forma e sostanza fuse insieme in unico simbolo grafico combinatorio….

  3. Caro savino, condivido ciò che dici, salvo il fatto che mi senbra abbia ben poco a che vedere con il testo che pretendi di criticare.

  4. complimenti per la serietà.
    Non capita spesso di essere censurati, e questo è il primo sito di poesia che applica la censura a un sonetto.

    Ma ve bene così.
    La disonestà intellettuale, in fondo, è il pane quotidiano della poesia contemporanea.
    Evidentemente non solo in chi compone

    Bravi, meritate i commenti di livello “facebook”, e solo quelli

  5. nessun problema.
    cose che succedono.
    E’ rimasto in moderazione per due giorni, dopodiché qualcuno lo ha cancellato.
    Si vede che chi lo ha cancellato non ha nemmeno letto il commento.
    Quindi non si tratta di censura (e meno male) ma solo di superficialità.

    Pazienza :)

  6. Vitellini, se non avessimo letto il suo commento non avremmo recuperato il suo sonetto. E’ semplice da capire (gm).

  7. Ok :)
    Ci è voluto solo un commento infastidito per farlo uscire dal cestino.
    E se proprio vogliamo essere logici, nello spam ci finiscono solo due tipi di commenti: queli di qualcuno che è segnalato come indesiderato (essendo la prima volta che commento, e anche l’ultima, visto il trattamento, dubito di essere stato sulla vostra lista di commentatori non desiderati) e quelli che contengono parole filtrate (di solito insulti e volgarità, entrambi cose che nel sonetto non ci sono).

    Il sonetto è stato cancellato e poi ripescato dal cestino dopo il mio commento piccato.
    Visto che nessuno vi impedisce di cancellare tutti i miei commenti credo che sarebbe la cosa migliore.
    Trovo molto sbagliate le prese in giro e, sinceramente, a questo punto non ci tengo a rimanere su questo blog.

    Buona vita

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *