di Davide Nota
[E’ uscita da poco per Oèdipus Edizioni Gli orfani, una raccolta di racconti di Davide Nota. Ne proponiamo uno].
Non avevo mai visto questo muro prima d’ora. Pare un ritorno dall’esilio dopo quindici anni, un rientro in nave. Scendo dal pontile tremante come il gioco dei pirati al parco (ti ricordi quando rimasi bloccato nel tubo, impigliato alle giunture dello scivolo ombelicale, giallo plexiglass trafitto dal sole come palpebre chiuse?) mia cugina mi aspetta. Quindici anni non passano invano ma noi non siamo cambiati. Giusto più traumatizzati, disabitati come questi palazzi di serrande abbassate e vendesi dove prima tintinnavano le porte a vetro dei piccoli empori. Gli intellettuali parlano di paradigmi del virtuale ma la gente è tutta in strada a cercare un lavoro e non ha tempo di ascoltare storie. Dieci ore al giorno battendo tutte le linee della metropolitana sottolineando annunci rifiutandosi a provvigioni a stage non pagati chiudo la chat abbasso il monitor senza arrestare il sistema mi tuffo nel sole malgrado il traffico c’è un cane che abbaia un cinguettio di passeri e usignoli apro la tenda ma non basta, spalanco la finestra ma non basta esco di casa e neanche questo basta i palazzi coprono la vista che mi spetta dovrei alzarmi in piedi erigermi sul più elevato dei tetti sfuggendo alle sfuriate domestiche ai guai condominiali consegnarmi al più assoluto silenzio al più assolato “shhh” chiudere gli occhi e vestire i rumori con la vita che avrei voluto avere in sorte una sega elettrica stanno per abbattere l’abete più anziano del bosco lo misurammo in cinque fratelli dandoci la mano e non riuscimmo a cingerlo come un anello umano a casa riportammo un ciuffetto di viole la nonna le immerse in un bicchiere d’acqua.
Ho camminato lungo la via Pisana alla ricerca di una chiesa l’ho trovata ma non sono entrato. Fuori i da poco nati giocavano a mondi che non ho riconosciuto, nel tempio il parroco comunicava frasi che non riuscii a comprendere ma una pace lucente mi ha dissolto l’anima. Sono tornato sui miei passi e ho incontrato il muro, questo muro che non avevo mai visto prima d’ora. Su di esso il cielo si estende orizzontalmente come una cagna piovosa mentre una tag ne scandisce il tempo. Ho imparato a riconoscere il passare degli anni dallo stato delle vernici spray sulle pareti di cemento, quando una scritta raggrinzisce sono passati cinque anni, quando le rughe iniziano a scrostarla si avvicina ai dieci.
In quindici anni i miei graffiti sono scomparsi da ogni parete della città. Su un muro in mattoncini rossi friabili, un divisorio ad archi del campetto delle Tofare che separa il campo grande da un corridoio laterale dov’era da sempre ancorata un’auto malmessa, i finestrini incrostati di pulviscolo terrestre come gusci di lumache stecchite, dipinsi un albero nodoso e solo dentro la notte lunare. Nudo ma non ancora vinto. Non ne è rimasta traccia. Nuove tag invadono gli spazi del cemento urbano come voci spettrali rintronanti oltre la crosta del mondo in un boato silenziato che sconsola ed agita a sera le fronde cupe dei salici piangenti in coro e gli aceri e i pini marini come una sola e insonne tragedia, un infermo addio precipitato nel buco nero degli abissi stellari dove tutto si ripete a se stesso uguale nel tedio eterno del capitalismo italiano.
C’è mia cugina che mi aspetta al molo io sbarco con questa valigia di sempre, mi accompagna in un appartamento di Pescara a ridosso del mare. Non si vede ma lo senti il fruscio della schiuma che si arrotola l’odore frizzante di rugiada sulla sabbia bagnata. Oltre la muraglia e le lacerazioni urbane ad occhi chiusi puoi sfiorarne la presenza. È a portata di mano, imminente. Mettiamo nello stereo i dEUS, i Placebo ed altri gruppi della nostra adolescenza. I nostri cuori sono ancora uguali. Ma i Blockbuster hanno tutti chiuso. Rimane di quell’epoca un McDonald sulla nazionale. Una grandinante nostalgia di Cocacola con ghiaccio, le patatine da rovesciare su un piatto in comune. Tamoil self 24 h senza piombo 1746 sono 10 Euro più 50 centesimi al benzinaio indiano che ne custodisce abusivamente la grazia. Una giovane madonna con bambino, forse una babysitter di diciott’anni mi chiede un accendino che non trovo, lei sorride e leggermente evade. La città si spopola d’estate e come al solito noi non avremo i soldi per partire. Sarebbe semplice scrivere un romanzo avendo i mezzi necessari per produrre profitto da una terrazza con vista sul mare ma io che non ho mai visto l’Argentina e non ho mai visto la Scozia e non ho mai visto l’Indocina mi accontenterò di questo mare con vista sui palazzi. Io e lo scrittore che non sono ci guardiamo da questa divergenza di sguardo. Oggi la lotta di classe è un conflitto di occhi.
Io scrivo da una panchina di cemento il cui schienale è un’inferriata smaltata di bianco che si sgretola e arrugginisce. Le crepe sono d’oro come un’antica pepita: Eureka.
Aprì la porta e ritrovò la cosa di ieri, col selciato ammaccato, il lampione e la rete che delimitava i campi. Il monastero e quella dolce uggiosità dei pomeriggi autunnali, come nei primi anni del liceo, quando uscendo dal rientro scolastico percorreva una strada trafficata e vaga che lo portava tra le insegne degli empori alla fermata dell’autobus, di fronte ad una chiesa in cui non era mai entrato. Costeggiava per un lungo tratto un parco, la cui visione si manifestava a flussi alterni di luce tra i raggi monocromi della cancellata. Quello era il suo posto, la sua casa. L’altalena in lattice fissata ad una piattaforma di legno industriale era semplice come il suo cuore. Selvagge cavalcate su purosangue a molla, scivoli fluviali e giravolte ancestrali! O le panchine verdi, scrostate fino alla loro anima temporalesca, grigio chewingum pestata… O il tavolo di legno, su cui si era addormentato una sera come in fondo ad una culla, le chiavi scivolanti dalle dita tra gli abissi del prato come ciondoli ciaffosi tra le pieghe del sonno… Con chi stava parlando? Quella connessione interiore sembrava avere a che fare con dei gesti, con delle locuzioni. Aveva letto di esperimenti straordinari in misteriosi laboratori sepolti nel cuore d’Europa. Sfogliava manuali di nuova fisica alla ricerca di avventure interiori. Novembre era il mese della sua esistenza crepitante nell’oscurità melodrammatica della provincia italiana. La posizione di un fotone era determinata dalla sua osservazione. Nei boschi si gonfiavano funghi gialli e marroni. La luce dei lampioni brulicava sul selciato formicolante come uno schermo senza più segnale. Jan aveva la chiara percezione che di fronte a sé si stesse sviluppando il suo futuro come un albero ramificante. La grande madre avrebbe per sempre versato il suo cartone di latte dentro la tazza del tè. Tutto si sarebbe intrecciato in uno sviluppo iridescente, come nelle antiche storie degli avi. Ma nessuno sarebbe dovuto morire.
Un Topolino, un Classico Disney, dicembre 1992. Sulla copertina c’è Archimede l’inventore con una torta in testa e tanti allegri festoni. Io l’ho abbracciato e ho pianto, sotto le coperte, mentre Dana gridava. Dentro ci sono alcune bellissime storie di Natale come la prima per esempio che parla di Topolino bambino che riceve in dono un kit da piccolo investigatore e davanti a un supermercato incontra per la prima volta il Commissario Basettoni. Era dicembre, la scuola stava per finire e io chiesi a mia madre se per Natale avrei potuto ricevere l’abbonamento ai Classici Disney. In fondo si sarebbe trattato solo di un numero al mese per dodici numeri al costo di otto. Lei mi rispose di sì e quel giorno io sono stato il bambino più felice del mondo.
“Piacere, Dana.” – dice la ragazza della cassa.
“Piacere.” – risponde Jan.
“Sei il nuovo?”.
“Sì. Cioè, speriamo di sì.”.
Era il Ciak un piccolo cinema a due sale, resistente alla crisi come un albero che non ha intenzione di seccarsi.
Si ricordò di un abete nel giardino della scuola elementare. Pareva il collo di un decapitato alla cui base prese a germogliare un incendio di rami.
“Ma non era morto?” – chiesi alla maestra.
“La natura non muore mai.” – rispose.
A sette anni lo capii benissimo, che la vita non era la vita, che gli alberi non erano gli alberi e che tutto era il riflesso di una manifestazione più estesa. Vent’anni dopo quel fondo della vita non mi era più così familiare. La realtà produce ideologie e abbagli. I pochi movimenti conosciuti e riprodotti diventano un’abitudine al pensiero. Le teste si fanno dure come scarafaggi secernenti ripugnanze. Chi prova schifo ha paura. Ma chi ha paura è colpevole. E dissimula la colpa nella boria. Non si inginocchia ai piedi dell’amata, ne è ossessionato come uno schiavo impotente della propria tara. Vuole inchiodare Cristo alla croce della tradizione. Mummifica l’anziana madre e la possiede di fronte al camino acceso. Oh sogni osceni di baldacchini spettrali! Tutto deve essere riprodotto senza pietà. Beve del whisky, piange e carica una pistola. Si specchia senza più organi, senza rumore di piscio. Tutta la ferocia umana è questa ossessione di perpetuità. Esce per strada, è scalzo, barcolla nella neve di un paesino montano. Grida “Io sono il barone di Gioia de’ Marsi! Andate via, turistacci di merda! Frociuzzi, maialone, studenti fetentoni! Viva l’Ancien Régime!”. Ha un accappatoio verde e rosso come l’abito di un re. Guarda la luna, sospira e si spara un colpo alla nuca.
Qualche anno dopo tutto è cambiato. Non è morto, la rivoltella era un giocattolo di carnevale. Il barone di Gioia de’ Marsi ha aperto un agriturismo. A sera ci vengono i ragazzi a fare bisboccia, vomitano e pisciano tra le ortiche. Ma adesso l’orrore è una piccola merce e lui beato se ne duole.
Dana lo guarda, ha gli occhi castani e rossi come un mobile arroventato dalla brace. Jan crede che siano profondi perché nascondono una storia. Si salutano con un sorriso lieve e lui procede verso la stanza della direzione.
Un odore di niente, quando la mente volge come un fiore ai ricordi più dolci di un passato mai esistito. Riccioli neri, disegnati dal Botticelli… Lei sorrise e disse: “Magari…”. Perché sfiorava il bordo scheggiato del tavolino? Che direzione indicava quel movimento? Una parete in ombra… Una porta infine? Lui amava la Winterreise di Schubert: “Come uno straniero sono giunto, come uno straniero me ne andrò…”. In auto ascoltava il Requiem di Mozart, hip hop anni novanta e musica da discoteca. Stazioni tecno-dance senza la benché minima pretesa autoriale. Le disse del crocefisso di Donatello. Il Brunelleschi lo aveva trovato volgare. Lei non trovò attinente il paragone. Aveva cercato un lavoro. Aveva trovato un lavoro. Aveva cercato un lavoro. Aveva trovato un lavoro. Aveva cercato un lavoro. Aveva cercato un lavoro. Aveva cercato un lavoro. Non c’era pietà. Non c’era pietà e glielo disse, che non c’era pietà. Non c’era posto per nessuno di loro a ’sto mondo. Dana si alzò a chiedere un altro giro. Lui la guardò voltarsi e immaginò di coglierla a notte in cupi amplessi di puro degrado. Poi continuò a guardare i tubi in lattice delle insegne luminose, i led fluorescenti blu e rosa. Ma lo stupiva soprattutto il verde, il raggio smeraldino delle sue favole perdute.
Dopo l’ennesima vita la vita è finita. Aveva recitato tutte le commedie. Come un eterno ospite per cui fuggire non ha meta, lungo un percorso senza inizio, che non smette di svolgersi.
“Cambiare lingua, cambiare linguaggio. Ciò che è entrato nella realtà come poesia non potrà essere più dato. Ogni mistero è irripetibile. Basta piagnistei, l’apprendistato è finito, uscire! uscire! Basta elegie! Io non sono una sorella né l’amica di un’adolescenza infinita, io sono la visione. C’hai messo così tanto per riconoscermi. Non esistendo puoi vedermi, come un altro te più vivo e vegeto nella seconda vita. Uscire! Uscire!”.
Lui le rispose quasi appuntando nella memoria del cellulare: “Non perdonatemi malvagio dio, mio padre è un uomo, mia madre una pianta. Per inseguire una passione sterile sono giunto ai cancelli dell’aurora. Ma essi non si aprono e indietro non si può tornare.”.
Oggi un ragazzo in autobus, un giovane argentino dai lunghi riccioli neri ed un gilet di pelle, da rocker, mi ha fatto un cenno scendendo. Se ne stava abbracciato alla sua moglie, una tipina bionda e poco vestita, e a una dolce bambina somigliante a entrambi. Io avevo impiegato del tempo a spiegare loro la direzione da prendere e il cambio di linea da effettuare da Trastevere a Termini.
Con quale grazia egli bussò scendendo al vetro del mio finestrino e sorridendo fece il gesto con quel pollice rialzato, un “Grazie, grande amico”, un “Siamo amici adesso”, e quale lungo pianto si levò da un universo soffocato alla vista del mio nuovo alleato che svaniva nella notte delle metropoli crollate nella solitudine dei marciapiedi neri, alla ricerca dell’hotel prescelto, delle reception, ed io che esploso verso un capolinea di siepi bagnate alzavo la mano per rispondere “Ciao, ci vediamo presto” ed eravamo separati per sempre?
L’orrore della metamorfosi ci è data dalla traduzione temporale di un’eternità simultaneamente sviluppata in ogni direzione, come un sistema elettrico in cui la medesima sorgente si dirama lungo un’infinita successione di bivi principali e subordinati specularmente percorsi. La facoltà interpretativa che determina la cognizione di ciò che chiamiamo esistenza è l’intelligenza di una sola direzione per ciascuno degli incroci attraversati e in tale successione di aut aut si verifica la vita di un uomo rigorosamente limitata dai recinti della fisica classica determinata e individuante. Resta un sospiro di melanconia amorosa a testimoniare la memoria di un altrove che ci parve ugualmente possibile e in fin dei conti chiaramente accaduto come la promessa di un passato defunto o il rimpianto di un futuro a venire, di un’avventura.
“A cosa stai pensando?” – chiede Dana.
Sedevano su una panchina in pietra di Via degli Etruschi, davanti al cinema Tibur, tra i pusher della sera e i venditori di rose. Jan stappò con l’accendino una Ceres, il tappo cadde roteando nei pressi di un tombino e si fermò.
Aveva sognato un cavallo bianco.
“Niente. Che mi piace.”
“Ti piace cosa?”.
Uno spacciatore di fumo si stava avvicinando.
“Stare qui. Al cinema. È il lavoro più bello che ho fatto.”.
Lui ricordò lo stupore del raggio che attraversò la goccia di vetro del lampadario a cascata sfavillando in arcobaleno mistico sulla parete della stanza della grande madre. Egli lo venerò come un’annunciazione scortecciata. Ma quando i padri entrarono e lo trovarono nell’estasi dello stucco adombrato non poterono che riderne. E questa era la parabola della sua esistenza.
Alzò la testa e vide l’affresco di un letto sovrastato da un angelo. Ai suoi piedi era il santo in ginocchio e da una porta si avvicinava una donna. Sono sempre uguali le storie dell’uomo.
Dana contrattò per venti euro. Non ne fu convinta. Se ne fece aggiungere un altro po’.
“Sono venuto nel mio giardino, sorella mia, sposa…”.
La videocamera è posata su un mobile della cucina, si vede anche la bretella che passa davanti all’obiettivo. Si vede il frigorifero. Entra una ragazza, si vedono le sue gambe nude, l’intimo e una tshirt lunga, a pigiama. Apre il frigo, lui la segue e si appoggia a lei. Lei si gira e si baciano perché i corpi si stringono. Si trascinano a ridosso di una parete e hanno un rapporto in piedi con le mani, al fianco del frigo che resta aperto, si vede il sedano, il latte, le uova (tre), il frigo è vuoto c’è un po’ di brina. C’è questo frigo aperto e vuoto come protagonista, al suo fianco un sesso anonimo di mani che non emette alcun suono, è freddo come la brina del frigo. Lui esce di campo, lei si gira e si vede per la prima volta il sesso. Torna al frigo prende il latte e avanza verso il tavolo dove c’è la camera. Si versa un bicchiere. In primo piano il sesso nero e il bianco del latte nel vetro. Poi esce di scena e finisce il quadro.
Jan guardava il monitor e non capiva chi fosse. Il barrito di un intercity tagliò in due spazi netti la notte. Poi si ricompose. Nell’antro era appena finita una festa costavoriana. Un odore di capra speziata abbandonava come uno spettro i palazzi sfiorando gli oleandri in fiore, l’arco del portone e la bacheca degli annunci condominiali. In alto, nel quadrato di cielo tagliato dal perimetro dei tetti, era una sera calda d’estate. Lui si affacciò dalla finestra con cui il lungo corridoio poneva fine alle proprie speranze. Erano le undici della sera e qualcosa sarebbe presto iniziato. Ma dietro quale parete? Jan aveva percorso senza un preciso motivo il tragitto che lo portava dalla cucina a quell’altare intangibile di Roma come pura visione.
“Guarda, una rosa.”.
“Dove?” – chiese sua cugina.
“Proprio qui sotto, in quel groviglio di rovi tra i mattoni del palazzo. Sembra che abbia sfondato l’intonaco per affacciarsi.”.
La luna era calda come una favola spagnola. La rosa era rosa e i rovi erano verdi come la vernice delle panchine. Prese fuoco. Piccole fiamme celesti sbocciavano tra i petali mentre il fiore implodeva in sé come un aracnide schiacciato.
“C’è fumo.” – disse Chiara, che non aveva ancora capito.
“Prendi un bicchiere d’acqua, presto!”
Lei trovò una bottiglietta di plastica, da distributore. Jan la rovesciò sul rogo e il piccolo mistero fu estinto.
Mia cugina mi guarda, le chiedo: dove sei stata? Lei mi risponde in giro, non sono riuscita a sposarmi neanche stavolta chissà se Dio vorrà che incontri l’uomo giusto prima dei quaranta. Io la guardo e non capisco di cosa sta parlando.
Il cielo si è coperto e noi avanziamo in questa luce obliqua che attraversa le nuvole sotto queste tegole di vapore giallo una donna insistentemente suona il claxon.
Pescara è bella le dico io non l’avevo mai vista così bianca e disperata come la pelle di una ragazzina in fuga, sopra un treno regionale, lei mi chiede cosa hai fatto a New York? Io le rispondo il proiezionista, montavo le pizze in un multiplex a Broadway. Non è un lavoro facile, quello del proiezionista. C’è bisogno di un amore, di una grazia… Si danza, nelle curve della pellicola che scivola in una successione di fessure chiave, lungo traiettorie invisibili da imparare a memoria. Alla fine si aggancia alla bobina terminale. Il primo fotogramma va allineato e provato per il fuoco. Il tutto è programmato ad un orario prestabilito. Ma l’attimo in cui la pellicola prende a girare, le luci della sala si spengono e finalmente ha inizio la proiezione è magico quattro spettacoli per otto sale al giorno. Tu le sorvegli dall’oblò della stanza segreta, ti accorgi del pulviscolo sedimentato sulle luci e la sporcizia agli angoli della maschera da scrostare con una raschietta. Quindi discendi da una scala coperta e ti siedi con loro, finalmente nel buio indistinto della platea sognante in coro.
Ero di nuovo stanco, inadatto a vivere, inidoneo alle tempistiche del branco. Un giorno mia madre mi comprò un cappello da marinaretto e il futuro mi apparì d’un tratto integro, sarei stato un uomo e avrei avuto un berretto, avrei solcato i mari e raccontato avventure inenarrabili. Il tramonto su Roma si spiaccica come uno smalto sulle unghie di una vecchia zia callosa. I palazzi scintillano come brace destinata ad estinguersi. L’inquinamento emana un fetore caldo di umanità rappresa e infelice. Così il cappello perdette il suo vessillo nautico, si scucì ed andò smembrandosi per le strade polverose del mondo. Tutta la mia vita è stata questo scucirsi inesorabile di abiti e giocattoli, i peluche decomposti, secernenti viscere di cotone sintetico, gli zaini autoptici, le musicassette dissanguate in fiotti di nastri smagnetizzati e torti, le riavvolgevo con le dita ed esse si annodavano per sempre, gli eventi erano per me un segreto imperscrutabile, erano la deriva delle cose che non dovevo avere mai per sempre. Esse morivano se io le amavo, naufragando tra gli oggetti che non potevo stringere, le ore liquefatte in pantani di pomeriggi scaduti nel tentativo di afferrarli per un lembo iniziale, da un principio qualsiasi, il tempo come sabbia continuava a scorrere tra le intercapedini delle mie ossa terrorizzate, era la fine ma io dovevo ancora cominciare.
Me n’ero tornato al capanno cristiano che si erge su uno slargo di asfalto nero vomitato alle pendici di una piccola collina dove sarebbe dovuto nascere un parco e resta invece quest’arida radura di sterpaglie e panche impraticabili, corrose dalla grandine e laccate dalla resina dei pini infelici. Lo slargo avrebbe potuto essere un parcheggio ed è uno spazio invece lastricato a vuoto, recintato da una cancellata plumbea. Due mesi fa ‘sta chiesa fu per me la visione del Messico. Sentivo nella carne il tonfo della portiera di una vecchia utilitaria che si chiudeva in un odore di sedile in lattice rovente e polveroso. Sarebbe stato bello, dico, pregare assieme e andarcene a bere come matti prima di riprendere il cammino verso Città del Messico ed essere investiti da forti bagliori. Ma a cosa serve una visione senza nessuno con cui condividerla? Si lavorava ai fini di una sopravvivenza volta alla catastrofe.
L’ingresso della chiesa era sbarrato da una saracinesca reticolare. Guardai attraverso una delle grandi maglie e vidi me stesso riflesso nel vuoto. Avrei dovuto prendere il primo autobus per Galway, procedere poi verso le scogliere di Moher l’indomani mattina. Essere il vento dentro gli abiti gonfiati dall’oceano, schiacciato contro il suolo essere il volo. Ma mi trovavo a Roma, lungo la via di Bufalotta, e un ripugnante viavai di uomini deformi e tracotanti, in tutto omologati alla parodia dell’epoca, insidiava il mio sguardo ferito e sconsolato. Io non li avrei capiti mai e loro neppure, c’era poco da fingerci amici.
Alcuni anni prima, alla cittadella universitaria, vidi quest’orda di giovani ben posti, meticolosamente organizzati in una precisa gerarchia di ironie e personalità. Rompevano le righe con precisione meccanica, dirigendosi verso le rispettive aule. Il proprio destino di formazione a tappe era elementare e chiaro, e loro obbedivano a tale chiarezza con fedeltà sarcastica, rollando sigarette e accarezzandosi la barba. Io ero in balia di ripugnanti dubbi e non riuscivo neppure a capire quali fossero le lezioni che dovevo seguire. Gli eventi a cui non appartenevo mi respingevano in tale modo, non lasciandosi comprendere.
Sono belle le grandi aree industriali depresse all’uscita di Roma, Mondo convenienza, Porcellanosa Spa… Ho visto dove nasce la via Nomentana come un viottolo rionale all’ombra degli alberi della Salaria. Lei scende le scale, attraversa il parcheggio di pixel google maps risponde: dolorosa è la vita di chi non sa distinguere mille anni fa da domani.
Chi ero io? E loro? Questi pronomi non mi dicevano più niente. Avevo catturato delle immagini, dei movimenti. Ma aveva ancora senso esprimersi in prima persona singolare? Avevo desideri che non fossero i desideri di tutti? Idee e pensieri che non fossero il risultato di un’intersezione di notifiche e dati? Ganci virtuali avevano per sempre dilaniato la mia unità in brandelli di reazioni automatiche. Sognavo? Credevo ancora in Dio? Avevo una patria? C’era qualcosa in questo io mutante che doveva ribellarsi contro un maleficio insanabile. Interpretavo il mondo come un ologramma. In questa selva inodore potevo immaginare un’astrazione della mia fisicità dopodiché mettere in scena il sembiante così come in passato ma senza più lacrime né crolli disperati implorando in ginocchio l’amata una sobrietà plebiscitaria un nuovo Dio sociale si incarnava adesso in questo esercito di luci verdi on line vincenti autoironiche, à la page. Ora eravamo tutti la stessa persona. Dovevo ribellarmi, ma in che modo se io non esistevo?
Cosicché, lungo le pieghe del mio universo fui in grado di attraversare una moltitudine di classi sociali senza appartenere a nessuna di esse in maniera meno arbitraria di quando visitando in escursione montana la grotta della Sibilla mi definii un mago in viaggio da lontane epoche ancestrali, raccogliendo pietre a cui affidare compiti salvifici sui destini dell’intera umanità. La grotta era chiusa per sempre. Una pedante inferriata sigillava la chiusura del crollo. Mangiai un panino con la frittata crepando la membrana di alluminio in cui era riposto. La borraccia aveva un guscio caldo di tartaruga africana. L’acqua che ne sgorgava era ancora fresca ma la sovrapposizione dei dati sensoriali e quell’odore di plastica aderente alle mie narici determinava una sensazione attigua all’esperienza dell’immersione subacquea, quando il respiro intubato risuona come un coma farmacologico amplificato nell’amnio ospedaliero del mare al punto che ogni sorso nutriva in me l’effetto dubitativo dell’esperienza dello stare realmente bevendo. Esistevo? Perché dunque un odore di radiatore e sedile d’auto in sosta mi seguiva sino all’orlo del segreto orfico? C’era questo fagiolino nella mia mente che tornava a farsi vivo come un incubo durante le trasferte domenicali. Compariva come un’idea improvvisa, un’ottusa fissazione di cui dovevo liberarmi. Era un fagiolo bianco, levigato e smaltato, forse derivante da una delle tante cianfrusaglie esposte su una madia della casa della mia prima infanzia. Era un guscio di noce al cui interno era posto un letto in miniatura di cotone e stoffa a quadri, da tovaglia italiana. Sotto le coltri dormiva un fagiolo bianco su cui era stato disegnato un volto simpatico da dormiglione. Questo fagiolo appariva e si fissava come un’ossessione per tutta una parte del viaggio. Poi all’improvviso mantenendo invariata la forma la sua sostanza mutava in una marcescenza ripugnante di muffa e vermi. Quest’ultima visione mi nauseava e le voci dei parenti iniziavano ad apparirmi lente e pastose, sfigurate. Chiudevo gli occhi e in preda al rifiuto degli eventi terrestri cercavo di addormentarmi chiedendo ai miei genitori: “Quanto ci manca?”.
Sotto le muraglie cementizie le saracinesche le ringhiere le grondaie al lume dei lampioni delle candele dei tubi al neon delle torce elettriche interrotte riaccese come un battito di ciglia un glitch un salto logico un sabotaggio io mi sentivo protetto nel labirinto delle possibilità scoscese, era il mio habitat nascosto sotto la pelle rigida del drago, oltre le scaglie oltre le stringhe del rettile gigante noi stavamo volando nell’universo esploso e dovevamo solamente attendere e vedere, vedere, vedere…
In questa solitudine di tubi cigolanti e esofagi di latta di radiatori a ventola fumanti di transpallet di cartoni cinti in cinghie di scotch io mi sentivo a casa. Io qui scrivevo lettere d’amore e questa era la mia semplice vita di inferriate claudicanti e ottuse volanti della polizia.
Su una panchina, ad una curva alta in cui s’apriva tutto il quartiere delle Tofare, a ridosso di una piccola stradina che abbandonava la città sterrandosi in aperta campagna, osservavamo un cielo capovolto in avviti e nembi infernali.
L’immensa eternità degli elementi, sopra il Bar 4 Ruote, sulle scalette ombreggiate della scuola elementare dove Niki regalò un flauto irlandese a Ivan, qualche secolo fa. Qui sognavamo avventure incredibili nei boschi. Giocavamo al Nintendo, affogando tragici abbracci di panna e cacao in fondo a tazze di latte in tempesta. Proprio alle spalle di questa panchina gorgogliava un ruscelletto segreto, a un livello sottostante la strada, come una ferita di terra riaperta oltre la maschera urbana. Qui un giorno noi vedemmo un elfo che fuoriuscendo da un tombino con un grosso ratto catturato in una rete, ci guardò negli occhi e fuggì via, attraversando l’orto di un vecchio contadino. Si nascondeva tra i ciuffi dell’insalata e poi balzò in un solo istante tra le felci smeraldine del bosco, dove lo perdemmo.
“Ma l’hai visto?” – chiesi a Ivan.
“Cazzo, sì.”.
“Ma che diavolo di cazzo era?”.
“Non lo so, dio cazzo, sembrava una specie di gnomo!”.
Scoppiammo in una risata gonfia di eccitazione e terrore.
“Questo è da matti proprio, Jan.”.
“Sì, sì! È assurdo! Non ci crederà nessuno!”.
Ci dicevamo queste cose mentre andavamo a prendere una birra per calmare i nostri nervi elettrizzati dall’adrenalina.
Quella del 2013 è stata l’estate più schifosa della mia vita. Eravamo tutti soli impauriti tutti traditi mostruosi tutti chiusi in bozzoli ripugnanti. Nessuno rispondeva più al telefono. In preda a rancori irreali, invidiosi di noi stessi, a noi stessi ostili, ci escludeva dalla realtà la stessa forza con cui ne eravamo risucchiati e sputati mezzo ammattiti da aspettative aberranti e ambizioni non nostre a cui dovevamo pur obbedire senza scopo e per sempre. Chi ne fuggiva in casolari di campagna o in tossiche metropoli, auspicando la medesima dimenticanza pacificatrice, ne era maggiormente piagato. Opponendo a un sé corrotto e ideale un anti-sé salvato e impermeabile egli rendeva l’invasione un fatto storico inoppugnabile. Nella dialettica dell’ottuso presente egli si crocifiggeva a una funzione che non riusciva a comprendere. La liberazione avveniva dunque come una perdita, un momento stesso della disfatta.
Io uscivo di casa tra mendicanti deformi esibenti moncherini raccapriccianti e streghe che interrompevano il mio cammino scagliandomi addosso atroci maledizioni una selva di ostacoli orripilanti dolorosi visi straziati sdentati corpi traumatizzati esplosi sopra mine antiuomo costruite nel mio paese, tra il tabaccaio e l’orefice, risorgevano per vendicarsi come morti rientrati alla vita per chiedermi uno spiccino per il bambino in un bicchierino di plastica…
Così un giorno, stufo di aggiornare l’homepage di facebook, tradito dai contatti già inghiottiti nell’imbuto del deserto simultaneo, decisi di tornare a fare visita all’antico fiume accompagnandomi al pensiero del mio amico Ivan morto da anni.
Risalimmo la stradina vietata all’accesso che conduce al ponte cementizio della diga di Castel Trosino. Su queste pareti di licheni e muffe dove adesso campeggia una croce celtica adornata dai nomi delle crew degli ultimi anni Silvia scrisse in un pomeriggio di sole: “HAI MAI PARLATO CON I ROSPI NEL BEL MEZZO DELLA NOTTE?” e tutto era stato così perfettamente espresso.
Così affacciandomi lo vidi il verde stagno ai piedi della roccia su cui si innalza come un idolo il campanile del paesino medievale dove ci nascondevamo e Ivan rideva ed era pura luce.
“Ti ho sognato dopo la morte, sai? Eravamo ad un banchetto lunghissimo, come a una specie di matrimonio moldavo. C’era una luce di lago, tu sedevi di fronte a me e ti chiesi: come stai? Sorridevi come chi sa qualcosa che ancora non può essere compresa. Mi dicesti bene Jan, solo un piccolo dolore qui, sopra il costato. Ma è tutto molto più chiaro di quanto possiate immaginare. Sono qui, non mi vedi? Sì, ti vedo, dissi. Poi mi sono svegliato. Ma eri davvero tu?”.
Ivan non rispondeva ma andavamo avanti costeggiando le rive del torrente Castellano. A sera ci sedemmo su una spiaggia di pietre e attendemmo lo sbocciare del coro mistico delle rane. CRA, CRA! CRA, CRA! Quanta allegria ai margini della galassia!
Doveva liberare se stesso. Un’inquietudine lo incollava a ripugnanze connesse all’infanzia. Trovava in sé gli aspetti deteriori del padre, il tedio del controllo, la violenza del vittimismo poi, dove finiva il potere. Quel senso di colpa brandito come una cinghia patriarcale.
Trovava in sé gli aspetti deteriori della madre, quella diffidenza corrosiva, il senso di accerchiamento, l’incapacità di interpretare la realtà senza ridurre ogni circostanza ad un piagnisteo impregnato di pregiudizi irreali.
Da quando era tornato nella casa, dopo gli studi universitari a Perugia, tutti gli insetti che avevano infestato per decenni il suo sistema neuronale si manifestarono esteriormente nei corpi dei suoi cari.
Cose buone gli erano state offerte. I giochi dell’infanzia, i libri di avventura, le gite in montagna alla ricerca di folletti e funghi. Ma tutto il resto era stata nevrosi e Jan ne prendeva coscienza solamente adesso. Una crudele agonia di sevizie interiori lo aveva logorato per sempre. Adesso lui reiterava tutto ciò che aveva appreso contro le vittime predestinate a incontrarlo, come un nefasto apice di precarietà emotiva e desiderio di comando.
Adesso era lui il carnefice. Avrebbe controllato e pianto. Represso, se necessario, con severo amore.
Sua madre lo aveva interrogato sulla natura del suo affetto. Dapprima si era rifiutato di rispondere, poi aveva sbagliato risposta e lei aveva avuto una crisi di nervi.
Come un agente alla ricerca di prove suo padre aveva rovistato tra i cassetti e letto lettere mai inviate. Le aveva chiamate: “Le schifezze che scrivi.”. Era sotto controllo.
Si erano diffamati a vicenda per contendersi la fedeltà del pargolo ai tempi della separazione. Il padre aveva brandito prove, trafugato reperti. La madre urlato atrocità con cadenza liturgica. Era rimasta in casa solo per il suo bene. Avrebbe dovuto sentirsi in colpa anche per questo? Li odiava perché lo avevano messo al mondo per farlo impazzire.
Trovava ristoro nel tempio ombreggiato di sua nonna, dove ogni vita era redenta. Sua cugina gli insegnava a scrivere le lettere. Lui disegnava api e fiori. Scendeva in giardino a cogliere le viole.
La casa fu smembrata, il mobilio suddiviso sotto gli occhi di un garante. La grande madre era stata tumulata. Lui era un colabrodo di traumi. Questioni ereditarie avevano reso non praticabile l’ultimo saluto che mimarono al cospetto di un cadavere intubato.
Anche il suo amico Ivan era morto, seviziato da una cura sperimentale per la malattia contratta nel medesimo ente ospedaliero che lo aveva infine ucciso. Sua cugina aveva lasciato la famiglia da diversi anni. Lui chi era?
Doveva liberare se stesso. Aveva tentato di esistere. La poesia era un cavallo sopra cui fuggire il più lontano possibile. Avrebbe imparato cadendo? Non c’era tempo per prendere lezioni. Ma chi si sarebbe preso cura degli anziani genitori? E se fossero morti? Chi lo avrebbe perdonato?
Cose buone gli erano state offerte. Talvolta gli era parso anche di esserci. Arrivò a Roma con i suoi libri di fantasia. Non avrebbe sentito più nessuno. Non avrebbe più pensato.
“Hai gli occhi traumatizzati.” – disse Dana.
“Come gli orfani.” – rispose Jan.
“Gli orfani?”.
Sedevano su una panchina in pietra di Via degli Etruschi, davanti al cinema Tibur, tra i pusher della sera e i venditori di rose. Jan stappò con l’accendino una Ceres, il tappo cadde roteando nei pressi di un tombino e si fermò.
“Hai presente lo sguardo delle soldatesse?” – chiese Jan.
“No.” – rispose Dana.
“È una voragine di materia oscura. Anche alcune lesbiche lo hanno. Non tutte. È un precipizio di dolore. Non è un elemento del femminile. Trascende la generialità. È un buco nero che guasta il ciclo riproduttivo. Sono in fuga. Vanno a morire altrove. Io amo le soldatesse.”.
“Io sono lesbica.”.
“Tu devi proteggermi.”.
Si abbracciarono.
[Immagine: Trota e Poison, Street art (mg)].
C’è di che pensare a partire da :
“Tutta la ferocia umana è questa ossessione di perpetuità”.
E quel finale… Duro, ma di un’umanità così travolta, ferita.