di Domenico Moro 

1. Sovrapproduzione e crisi

Secondo la maggior parte dei mass media, degli economisti e dei governi, quella attuale è una crisi finanziaria, che successivamente si sarebbe estesa all’economia “reale”.  Con questo tipo di analisi si coglie, però, solo la forma in cui la crisi si è manifestata. Se ne ignora invece il contenuto, che risiede nei meccanismi di accumulazione del capitale. Infatti, le crisi sono la modalità tipica in cui emergono le contraddizioni del modo di produzione attuale. La principale di queste contraddizioni è quella tra produzione e mercato. Lo scopo delle imprese è produrre per fare profitti e per fare ciò riducono i costi delle merci in modo da aumentare il loro margine, cioè la differenza tra costi e prezzi di produzione. La riduzione dei costi di produzione passa per la realizzazione di economie di scala, cioè per la produzione di masse di merci sempre più grandi nello stesso tempo di lavoro. A questo scopo vengono introdotte tecnologia e macchine sempre più moderne al posto di lavoratori, e aumentati ritmi e intensità del lavoro. Astrattamente si tratta di un fatto positivo, in quanto lo sviluppo della produttività mette a disposizione dei consumatori masse di merci più grandi prodotte in un tempo minore. Il problema è che la produzione capitalistica è diretta non verso semplici consumatori ma verso consumatori in grado di pagare un prezzo adeguato a raggiungere il profitto atteso, cioè verso un mercato. Ebbene la questione è proprio questa: la produzione capitalistica è una produzione che si estende progressivamente senza alcun riguardo per il mercato cioè per le capacità di acquisto delle merci prodotte. Inoltre, visto che il profitto è dato dal lavoro non pagato dei lavoratori, la riduzione proporzionale di questi ultimi sul capitale complessivo impiegato provoca una caduta del saggio di profitto [1], che si cerca di compensare con l’aumento dello sfruttamento e quindi producendo un numero maggiore di merci. Tutto questo implica che la produzione tende sempre ad eccedere le capacità di assorbimento del mercato, determinando un permanente squilibrio tra le capacità produttive e la limitatezza del mercato. Una limitatezza che viene accentuata proprio dal meccanismo che sostituisce forza lavoro con macchinari e che conseguentemente provoca l’espulsione di lavoratori dal processo produttivo. Secondo uno studio della Banca dei regolamenti internazionali [2], dagli anni ’80 ad oggi in tutti i principali paesi industrializzati si è avuto uno spostamento del Pil dai salari ai profitti. In Italia la quota andata ai profitti è aumentata dal 23,1% del 1993 al 31,3% del 2005. Si tratta dell’8% del Pil, equivalente a 120 miliardi di euro ossia a 7mila euro per ognuno dei 17 milioni di salariati italiani che annualmente passano dai salari ai profitti. Ma la cosa più interessante dello studio della Bri è che la causa di questo fenomeno viene individuata, non nella concorrenza dei lavoratori dei paesi “in via di sviluppo”, ma nella introduzione di nuova tecnologia che, espellendo lavoratori e destrutturando l’organizzazione del lavoro, riduce le capacità di resistenza e negoziazione dei lavoratori. In questo modo, si è determinata la perdita di capacità d’acquisto dei salari ed i lavoratori si sono trovati costretti al lavoro straordinario con l’effetto di ridurre ancora di più la domanda di forza lavoro e di aggravare la disoccupazione. Inoltre, avendo le nuove tecnologie una forte componente informatica, che diventa obsoleta più rapidamente, le ristrutturazioni sono divenute più frequenti. Dunque, mentre da una parte si moltiplica l’offerta di merci sul mercato, dall’altra parte si riduce la domanda, che per la maggior parte è costituita da lavoratori salariati, o, nel caso migliore, non si permette alla domanda di crescere in modo proporzionale all’offerta. Del resto, nella anarchia della concorrenza, ancorché oligopolistica, che regna nel modo di produzione capitalistico, ogni singolo capitale, per battere i concorrenti, tende a realizzare sempre maggiori economie di scala e a ridurre i salari dei propri lavoratori, trattandoli come costi da ridurre e non come compratori. Si produce così una tendenza alla sovrapproduzione di merci che, però, ha alla sua base la sovrapproduzione di capitale sotto forma di mezzi di produzione. Ciò che è importante capire, però, è che la sovraccapacità produttiva è tale entro il modo di produzione capitalistico, che produce solo per il profitto, e che la sovrapproduzione di merci si determina entro i limiti del mercato capitalistico.

2. Il caso emblematico dell’automobile

La crisi non è una cesura nel procedere normale dell’economia, è il modo violento in cui il capitale tenta di risolvere le sue contraddizioni. Infatti, le crisi non solo bruciano miliardi di capitale fittizio nei crolli borsistici, ma provocano distruzione di capitale reale attraverso la svalorizzazione delle merci, che giacciono invendute nei depositi o sono vendute sottocosto (negli Usa si è arrivati al prendi due automobili ne paghi una), e dei mezzi di produzione, che rimangono inattivi o sottoutilizzati. Le crisi, poi, distruggono forza lavoro attraverso i licenziamenti e, provocando la morte delle aziende più deboli ed il loro assorbimento da parte di quelle più forti, determinano la concentrazione della produzione in sempre meno mani. Soltanto a questo prezzo si generano le condizioni affinché la produzione sia di nuovo profittevole e possa riprendere, riproducendo però le condizioni per replicare la crisi successivamente e su una base più ampia. Il caso dell’auto è emblematico. Si tratta di un settore con le caratteristiche tipiche della grande industria: una progressiva grande concentrazione, e un sempre più forte aumento della componente tecnologica in rapporto ai lavoratori impiegati. Un settore nel quale, secondo le parole dell’amministratore delegato della Fiat, Marchionne, “la sovraccapacità produttiva è un problema generale”. Negli Usa, infatti, la produzione del 2009 sarà di appena il 45% dell’output potenziale, pari 5 milioni di auto in meno rispetto al 2007. Secondo CSM Wolrdwide, l’utilizzazione degli impianti delle prime dodici case produttrici mondiali, scesa al 72,2% già nel 2008, si ridurrà nel 2009 al 64,7%. Le conseguenze saranno pesanti persino per le case leader tedesche e giapponesi: in Germania sono già stati licenziati i lavoratori precari (4500 quelli della Volkswagen), mentre l’orario settimanale di lavoro (ed il salario) è stato ridotto per i due terzi dei lavoratori stabili della Volkswagen e a febbraio e marzo per 26mila della Bmw, in Giappone, invece, la Nissan ha pianificato 20mila licenziamenti. Ancora peggiore la situazione delle case Usa, tra le quali GM e Chrysler sarebbe già fallite senza i 14 miliardi di dollari stanziati dal governo. GM, in particolare, prevede la chiusura di quattro dei ventidue impianti statunitensi e 31mila licenziamenti. Eppure tutto questo si realizza alla fine di un processo in cui le tre major di Detroit avevano migliorato la loro produttività. Secondo l’Harbour report, le major di Detroit hanno ridotto il divario con gli stabilimenti giapponesi in America in termini di tempo necessario alla produzione di un veicolo dalle 10,51 ore del 2003 alle 3,50 ore del 2007. Del resto, ad essere preceduta da un forte aumento della produttività fu anche la crisi del ’29, sebbene, come quella odierna, fosse stata innescata da un crollo finanziario. Infatti, fu proprio negli anni 20 che, col fordismo, si introdusse la catena di montaggio. A partire dagli anni 80, il fordismo si è aggiornato, divenendo tojotismo, che, flessibilizzando i processi, avrebbe dovuto sanare la contraddizione tra mercato e produzione.  Il bel risultato è stato che le auto invendute, solo nei piazzali degli stabilimenti Usa, hanno raggiunto a fine gennaio 2009 quasi i tre milioni, equivalenti a 116 giorni di vendita agli attuali livelli. Prova questa che, entro i limiti dei rapporti di produzione capitalistici, per sanare la contraddizione tra produzione e mercato non c’è tecnica manageriale che tenga. Quali sono allora le risposte che si prospettano alla sovrapproduzione? Il caso statunitense è ancora una volta emblematico. Oltre ai licenziamenti ed alla settimana corta di 4 giorni (working sharing), si prospetta un allineamento di tutte le case americane alle peggiorative condizioni salariali e assistenziali in vigore presso gli stabilimenti giapponesi negli Usa. In secondo luogo, anche questa crisi, come e più di altre, data la sua gravità, vorrà le sue vittime e sarà il volano per ulteriori fusioni ed acquisizioni. Sempre secondo Marchionne, nel mercato mondiale dell’auto ci sarebbe posto solo per cinque o sei produttori che riescano a raggiungere l’economia di scala minima di cinque milioni di vetture. Ed è proprio la Fiat a distinguersi per il suo attivismo, muovendosi in varie direzioni, dalle joint ventures con la Tata indiana, che è entrata anche nel capitale Fiat, alla possibile acquisizione della Chrysler, fino alla ventilata fusione con Peugeot. La crisi fornirà poi un ulteriore stimolo alla internazionalizzazione della produzione, per ridurre i costi e avvicinarsi ai nuovi mercati di sbocco. Già oggi, Ford e GM producono negli Usa meno del 32% del loro output complessivo, mentre Fiat, Renault e Volkswagen producono nei paesi d’origine rispettivamente appena il 34,9%, il 34,7% ed il 33,6% della loro produzione totale. A pagare saranno, comunque, sempre i lavoratori con la perdita del posto di lavoro e con la riduzione dei salari.

 3. Il nesso tra sovrapproduzione e finanza

Contrapporre, in ambito capitalistico, economia “finanziaria” e “reale” non ha senso ed è fuorviante. L’enorme sviluppo del credito e dei mercati finanziari ha alla sua base l’affermazione della grande industria, che ha bisogno di capitali monetari sempre più grandi da investire. La mondializzazione della concorrenza, le fusioni e le acquisizioni, il gigantismo delle imprese, necessario ad economie di scala sempre maggiori, determinano una richiesta di credito sempre maggiore e banche sempre più grandi. Sebbene le crisi non siano causate dal credito e dalla finanza, esiste un nesso molto stretto tra crisi e credito. Tale nesso sta nel fatto che il credito favorisce ed accelera la tendenza alla sovrapproduzione di capitale e di merci. Il credito, infatti, permette l’allargamento della produzione in un modo che altrimenti non sarebbe possibile. Nello stesso tempo le banche, concentrando in poche mani il risparmio della società e trasformandolo in investimento, fanno assumere al capitale stesso una forma “sociale”, favorendo la separazione tra direzione e proprietà. Si crea così una produzione privata senza proprietà privata e una nuova aristocrazia finanziaria e di top manager, superpagata, indifferente ai limiti del mercato, e incline ad investimenti spericolati, parassitismo e speculazione. In questo modo si sviluppa la tendenza ai monopoli e alla sovrapproduzione cronica generale. L’industria contemporanea versa da decenni in una situazione di sovrapproduzione, cui si è risposto favorendo il credito facile e quindi l’indebitamento, sia dal lato dell’offerta, cioè dal lato delle aziende, sia da quello della domanda, cioè dei consumatori-compratori. Per anni, con il beneplacito dei governi Usa, la Fed ha mantenuto un bassissimo costo del denaro, spingendo le banche a prestare oltre ogni ragionevole garanzia. In particolare è stato incentivato l’acquisto delle case, perché la proprietà immobiliare garantiva sull’acquisto a credito di beni di consumo come l’auto. Sono stati concessi mutui fino al 100%, ed anche a chi non aveva né lavoro né altre proprietà, i cosiddetti mutui subprime. La spirale dell’indebitamento si è autoalimentata, grazie alla liberalizzazione dei mercati finanziari e alla abolizione degli steccati e delle regole introdotte dopo la crisi del ’29, ed i mutui sono stati cartolarizzati in titoli – i cosiddetti derivati – venduti alle banche di tutto il mondo. La speculazione si è estesa anche alla cartolarizzazione delle assicurazioni sui derivati dei mutui, i credit default swaps (Cds), che hanno raggiunto la cifra astronomica di 45mila miliardi. Inoltre, sono state introdotte altre forme di incentivazione all’indebitamento come le carte di credito revolving. In sostanza la domanda di beni di consumo è stata drogata, fondando su basi d’argilla l’espansione economica seguente alla crisi del 2001. Negli Usa e nel Regno Unito il debito delle famiglie nel 2007 aveva raggiunto il 100% del Pil. Intanto la leva finanziaria delle banche era cresciuta a dismisura: le banche europee per ogni euro di capitale posseduto avevano dato in prestito 40 euro, quelle Usa ancora di più. Tutto questo non poteva reggere ed infatti non ha retto. Quando la bolla immobiliare ha raggiunto il suo picco e nel 2007 è scoppiata, le abitazioni hanno perso fino al 40% del valore ed i loro proprietari non sono più riusciti a far fronte ai mutui. Il sistema finanziario internazionale si è così reso conto di avere in pancia miliardi di titoli col valore della carta straccia, cui si aggiungeva la massa dei Cds, che avrebbero potuto portarlo al collasso. Numerose banche, costrette a iscrivere le perdite a bilancio, sono fallite, sono state acquisite o salvate dallo Stato, e centinaia di miliardi di capitalizzazione di borsa sono stati bruciati. Inoltre, l’incertezza sulla solvibilità delle banche ha portato alla paralisi del mercato interbancario ed al restringimento del credito, con conseguenze devastanti per le aziende, già pesantemente indebitate ed alle prese con le necessità della internazionalizzazione, della riorganizzazione produttiva e del finanziamento del credito al consumo.

 4. Fallimento del mercato e intervento dello Stato

La sovrapproduzione che attanaglia l’economia è ormai generale. Infatti, secondo la Banca mondiale, al calo, per la prima volta dal 1945, del Pil mondiale si è associato il maggiore declino del commercio mondiale degli ultimi 80 anni, ovvero dalla grande Depressione degli anni 30. L’International Labour Organization prevede dai 18 ai 30 milioni di disoccupati in più, 50 nella previsione peggiore. La crisi ha così dimostrato nel modo più plateale il fallimento delle capacità regolatrici del mercato. Significativa è stata la rapidità della sterzata verso l’intervento dello Stato a partire proprio dai due paesi leader della “rivoluzione” neoliberista, Usa e Gran Bretagna, e la consistenza dell’intervento, soprattutto a favore del credito. Negli Usa il programma di aiuto federale, il Tarp, ha già utilizzato 294,9 miliardi, di cui 250 per la ricapitalizzazione delle banche, su uno stanziamento totale di 700 miliardi, e Obama ha in progetto un ulteriore stanziamento di 2mila miliardi. In gran Bretagna lo stato ha acquisito la Bearn Stearns, il 60% della Royal Bank of Scotland e il 40% di Lloyds-Hbos, mentre la Germania, che ha già dato 90 miliardi alla Hypo e ha acquistato il 25% della Commerzbank, ha varato una legge che consente l’esproprio statale delle banche in difficoltà. Ma, visto che queste misure non sono bastate a rimettere in moto il mercato interbancario ed il prestito ad imprese e famiglie, lo Stato ha assunto il ruolo di finanziatore diretto, più o meno a fondo perduto, delle aziende. In Giappone lo Stato ha stanziato 13 miliardi di euro con cui entrerà eventualmente anche nel capitale delle aziende. In particolare, si è svolta una corsa al soccorso dei produttori nazionali di auto, dai 14 miliardi di dollari dati a GM e Chrysler ai 7 miliardi di euro stanziati per Renault e Psa, di cui una parte andrà alle branche di queste società che finanziano gli acquisti a credito. Tutte scelte che, insieme alla riduzione praticamente a zero dei tassi di interesse praticati da molte banche centrali come la Fed, dimostrano che la soluzione alla crisi viene ricercata in direzioni vecchie e sbagliate, come l’indebitamento e il protezionismo, ritornato prepotentemente in auge con il buy american. L’insieme delle risorse messe sul piatto dagli Usa raggiungono gli 8000 miliardi, pari al 54%  del loro Pil. Se pensiamo che gli Usa in tutta la Seconda guerra mondiale spesero 3600 miliardi e che nel 1944 la spesa bellica fu il 36% del Pil, abbiamo una idea della partita in atto. L’aumento della spesa statale farà esplodere il deficit pubblico, che negli Usa arriverà quest’anno al 10% e nel Regno Unito al 6-8%, mentre la virtuosa Germania porterà il disavanzo pubblico ai massimi dal 1945. L’ingigantirsi dei debiti pubblici, già gravati come negli Usa da decenni di sussidi alle imprese e di spese militari, condurrà all’inasprimento della tassazione, mentre l’aumento dell’emissione dei titoli di Stato, unico investimento rifugio rimasto, sta già conducendo al calo dei rendimenti per milioni di piccoli risparmiatori. Al contempo il prezzo dei credit default swaps sui titoli pubblici si è alzato, segno dei timori del mercato sulla solvibilità di molti stati. Mentre gli Usa, grazie al dollaro cercano di continuare a scaricare il finanziamento del loro enorme debito sull’estero, molti paesi periferici, soprattutto nell’Europa dell’est, presi dalle difficoltà della recessione, rischiano una bancarotta che avrebbe pesanti contraccolpi sulle banche europee e sull’euro.

5. Conclusioni: pianificazione e riduzione dell’orario di lavoro

Se il fallimento del mercato è ormai evidente a tutti, meno evidente è l’altrettanto grande fallimento della proprietà e della produzione privata. In Italia ad esempio assistiamo all’apparente paradosso di chi, Confindustria in testa, chiede e ottiene l’intervento statale sotto forma di aiuti e continua a rivendicare le privatizzazioni, ad esempio delle utility. In effetti è proprio nei momenti di difficoltà che il capitale si rifugia di più nelle rendite di monopolio, fuori dalla concorrenza. In ogni paese, la premessa a tutti gli aiuti pubblici è che lo Stato, anche nel caso in cui entrasse in una banca o in una azienda con quote di maggioranza, rimanga rigorosamente fuori dalla sua gestione, magari comprando azioni senza diritto di voto. Già l’espansione del credito aveva messo a disposizione del privato il capitale sociale (il risparmio della collettività), rendendo la produzione privata una produzione senza proprietà privata. Oggi che lo Stato finanzia le banche private o eroga direttamente alle imprese il capitale impiegato, la proprietà acquista ancora di più un carattere sociale. Si accresce quindi la contraddizione tra il carattere sempre più sociale della produzione e della proprietà e l’appropriazione privata del prodotto di quella produzione, che si concentra in sempre meno mani. Del resto, con sole cinque case automobilistiche a dividersi il mercato mondiale, come prevede Marchionne, si può ancora parlare di proprietà privata? Si tratta di una produzione in realtà già quasi socializzata. Abbiamo invece una produzione privata senza proprietà privata, e che si sottomette lo Stato come erogatore concentrato del capitale della società. La crisi non si risolve con gli aiuti agli imprenditori privati o gettando masse di denaro nel pozzo senza fondo dell’insolvenza di banche che continuano a non prestare. La crisi si risolve solo andando alla sua radice, che certo non sta negli stipendi dei supermanager. In primo luogo, non ha senso mantenere la produzione privata, quando i capitali sono pubblici. Permarrebbero, a spese dei lavoratori-contribuenti, l’anarchia irrazionale della concorrenza e lo squilibrio permanente tra produzione e circolazione delle merci. Tali contraddizioni possono essere risolte solo mediante il coordinamento complessivo, la pianificazione dell’economia da parte della collettività, secondo le priorità della società e dell’ambiente, e cominciando con la ripubblicizzazione delle banche e dei servizi di pubblica utilità. In secondo luogo, va affrontata la contraddizione tra sviluppo delle forze produttive e rapporti di produzione. Le scoperte tecnologiche e l’enorme aumento della produttività che negli ultimi decenni ne è derivato possono liberare tempo vitale invece di essere fonte di disoccupazione. Ma questo è possibile a farsi solo se l’orario di lavoro viene ridotto a parità di salario, liberando tempo vitale, bisogni e la possibilità di soddisfarli, ed allargando così i limiti del mercato. Se è vero che la crisi libera i mostri della xenofobia e dell’autoritarismo e che la depressione del ’29 aprì la strada ai fascismi, quella stessa crisi ebbe anche risposte a sinistra. Negli Usa nel 1932 il senatore Black, in opposizione al working sharing, che redistribuiva solo la povertà e non l’occupazione, propose una legge per la riduzione dell’orario a 30 ore, che fu sconfitta solo di misura per l’opposizione di Roosvelt e degli imprenditori statunitensi. Fu invece in Francia che nel 1936, in piena crisi, fu approvata una legge per le 40 ore, che portò, a parità di salario, l’orario di lavoro annuale da 2496 a 2000 ore. La differenza tra Francia e Usa è che, all’epoca, in Francia era al governo quel grande esempio di protagonismo politico dei lavoratori che fu il Fronte popolare. Un esperimento politico su cui, mutatis mutandis, forse varrebbe la pena di riflettere. Oggi, in conclusione, di fronte ad una crisi eccezionale che evidenzia il fallimento di un intero modo di produzione ritorna d’attualità proprio il fantasma che si è voluto esorcizzare negli ultimi venti anni, il socialismo. La possibilità di rispondere alla crisi economica e alla crisi politica della sinistra passa così per la capacità di prospettare una organizzazione alternativa della società e dell’economia.

 (9 aprile 2009)


[1] Sulla caduta del saggio di profitto, che, ad esempio, nelle corporation Usa è passato dal 28,2% del periodo 1941-1956 al 20,4% del 1957-1980 e al 14,2% del 1980-2004, vedi Andrew Kliman, “The Destruction of Capital” and the Current Economic  Crisis. Sul sito www.aklimansquarespace.com.

[2] L. Ellis – K. Smith, The global upward trend in the profit share, Bank for International Settlements, luglio 2007. Vedi anche M. Ricci, Il declino degli stipendi, la Repubblica, 3 maggio 2008, e M. Mucchetti, Torna il tema della redistribuzione, Corriere della Sera, 24 agosto 2008.

 

32 thoughts on “La crisi non è finanziaria ma del capitale

  1. Dirò a premessa che non pretendo di commentare puntualmente il testo (ora non ne avrei il tempo), ma dico le cose che più mi colpiscono. La mia impressione è che l’autore, pur dicendo cose del tutto corrette nella gran parte dei casi, proprio entrando nel merito dell’argomento, lo rivesta di una pellicola ideologica che gli consenta di tranquillizzarlo: tutto previsto, nulla di nuovo, di quel nuovo che, proprio in quanto sconosciuto, provoca un senso di angoscia.
    Mi chiedo a cosa serva andare a ricercare le caratteristiche tipiche, quelle che ripetendosi periodicamente, ci possono convincere che la nostra teoria funziona ancora, che non abbiamo bisogno di rivedere il nostro modo di pensare.
    Allora, è chiaro che i capitalisti finalizzano i loro comportamenti alla massimizzazione del profitto, questo certo non è cambiato. Ma forse sarebbe il caso di prendere atto che oggi, in virtù degli ultimi sviluppi tecnologici, hanno a disposizione nuovi mezzi e nuove sfide.
    In particolare, le nuove sfide sono costituite dalla concentrazione della produzione mondiale nei distretti produttivi cinesi. Dire che nulla è cambiato, mi pare miope, perchè invece due aspetti del tutto inediti vedo nella situazione odierna. Intanto, paese più ricco non coincide più con paese più indistrializzato, e poi che una tale concentrazione dell’attività produttiva, di tipo sostanzialmente schiavistico, non si era mai vista prima nella storia dell’umanità. Oggi, anche a causa della possiiblità delle delocalizzazioni produttive, i nostri lavoratori si trovano a competere con i lavoratori di tutti gli altri paesi au un mercato del lavoro che improvvisamente ha abbandonato i confini nazionali per diventare un unico mercato del lavoro globalizzato.
    Perfino nel settore primario, la globalizzazione ha portato a una concorrenza insensata, assieme a conseguenze ben più gravi, come si può illustrare con i terreni acquistati dall’Arabia Saudita in Etiopa, utilizzati, assieme alla mano d’opera a basso costo locale, esclusivamente per produzioni destinater alla stessa Arabia Saudita.
    Qui, quindi si viene a creare l’espropiazione perfino dalle risorse agricole delle popolazioni locali, destinate a una permanente sottoalimentazione.
    Infine, c’è la globalizzaizone finanziaria, per cui un signore dall’altra parte dell’oceano determina i tassi di interessi sui debiti pubblici di intere nazioni.
    Questa è la globalizzazione, l’unica esistente. L’immigrazione in Europa non la vogliono, le frontiere sono accuratamente controllate, col risultato che i confini spono tranquillamente attraversati da denaro, titoli e merci, ma non dalle persone, un capovolgimento totale del buon senso.
    Allora, invocare la pianificazione economica a livello nazionale o o di più nazioni, con connesse misure protezionistiche non è un reato, esse costituiscono l’unica realistica forma di resistenza da questa follia della crescita ininterrotta predicata dal capitalismo.
    Questa diffidenza contro misure di ripristino di una sovranità nazionale derivano proprio da un internazionalismo di facciata di natura ideologica che, senza accorgersene, finisce per allearsi con la globalizzazione capitalista.

  2. Caro Cucinotta,

    per essere uno che non ha tempo scrivi parecchio, non oso pensare cosa faresti se ne avessi di più.

    Scherzi a parte, l’articolo è del 2009. Sulle questioni che tu sollevi ho scritto altri articoli e, più recentemente, un articolo intitolato “Le cause della crisi del debito europeo e il che fare” (lo trovi sul sito Marx XXI e su quella de la Gru). In questo articolo si parla esattamente delle conseguenze del trasferimento del baricentro della produzione manifatturiera mondiale nei Paesi “periferici”, un aspetto della “globalizzazione”. Ti invito a leggerlo.

    Detto questo, continuo a ritenere necessario, per chiarire le basi di fondo della crisi, utilizzare le categorie contenute ne “il Capitale” di Marx. E’ ovvio che tale strumento va calato nella realtà attuale. Ed è esattamente quello che ho fatto anche nell’articolo che tu commenti. Fra l’altro ho evitato di entarare in decrizioni troppo tecniche sulla caduta del saggio di profitto. Il punto è che la crisi, sia quando è scoppiata nel 2008-2009 che oggi, ci viene spiegata con l’avidità, la mancanza di fiducia dei mercati, la speculazione delle banche, il costo del lavoro troppo alto, le riforme mancate e altro ancora, tutte cose che però non spiegano nulla. Per questo, a costo di sembrarti ripetitivo e “vecchio” credo che solo il marxismo ci dia la possibilità di capire le cause della crisi e, di conseguenza, individuare le risposte adeguate. Per questo è importante offrire una analisi marxista, non certo per autotranquillizzarci.

    Quanto al protezionismo, questa misura non risolve la crisi del capitale (perché la crisi è del capitale), ma anzi la ingigantisce, aggravando la concorrenza tra frazioni di capitale. Un esempio? Gli anni ’30, quando, insieme alla introduzione del protezionismo, si prepararono le condizioni per la Seconda Guerra Mondiale. Visto che l’anarchia dei mercati di merci e di capitali è la causa della crisi, l’unica soluzione è la pianificazione della produzione e della circolazione.

    Ultima considerazione. La globalizzazione non è solo quella finanziaria ma anche quella della circolazione delle merci e degli investimenti produttivi. Chiedere a Marpionne per conferma.

    Ciao

    Domenico Moro

  3. Pianificazione + Contraddizione (tra forze produttive e rapporti di produzione) + Riduzione dell’orario di lavoro = Rivoluzione.

    Ovviamente, concordo. Il problema è l’assoluta nostra arretratezza politica. Se le condizioni “oggettive” sono mature, non lo sono altrettanto quelle “soggettive”. Il consenso al governo Monti ne è la prova ulteriore. Ma la talpa è tenace …

    NeGa

  4. Analisi perfetta quella di Nega.

    Mai forse come oggi c’è stato un divario così ampio tra condizioni oggettive “mature” e condizioni soggettive “immature”. Parafrasando Lenin sul parlamentarismo, il capitalismo è storicamente superato, ma politicamente no.

    Noto, però, che se la soggettività è così immatura è anche perchè si è affermato il luogo comune del marxismo come strumento “datato”. Il nuovismo è uno dei fenomeni più devastanti intellettualmente degli ultimi anni.

  5. Personalmente non ho le competenze tecniche per entrare più di tanto nel merito delle analisi proposte; però posso parlare soprattutto della prima parte dell’articolo, per quella che è la mia esperienza personale diretta (come credo chiunque possa farsi sul proprio posto di lavoro), alla luce della quale non mi sembra di cogliere alcuna patina ideologica, ma una lettura molto lucida dei fatti. Quanto alle conclusioni, un maggiore controllo sulla finanza viene ormai invocato da molti esponenti dello stesso liberalismo, quindi direi che le contraddizioni stiano venendo a galla… e ciò evidenzia il sostanziale fallimento del mercato nell’autoregolarsi. Prenderne atto significa trovarsi di fronte a un evento di portata ancor più vasta di quello dell’89. Le soluzioni proposte, ovviamente, variano col mutare delle opinioni personali: da un lato, mi pare di capire anche dai commenti, c’è chi propone il ripristino delle autorità nazionali, quindi di socializzazioni particolaristiche (i cui limiti sono ben noti), dall’altro c’è chi, come l’articolista, caldeggia una socializzazione più ampia. Personalmente ritengo la seconda l’unica in grado di fronteggiare i problemi attuali, proprio per via delle sfide poste dalla scala globale delle interazioni economiche, nonché delle ricadute sociali ed ambientali da esse generate.
    A margine di ciò, inoltre, aggiungo che già da prima dell’esplodere della crisi più recente mi sembrava che la riduzione dell’orario a sostanziale parità di salario fosse l’unica soluzione percorribele per uscire dalla spirale della sovrapproduzione: tanto più la ritengo valida anche adesso, malgrado una propaganda battente in senso contrario.

  6. “La colossale concentrazione di ricchezze in Italia determinò una impetuosa, e fino ad un certo grado, artificiale elevazione della vita economica.I valori raccolti nelle province venivano investiti nell’economia agricola, nel commercio e nelle operazioni finanziarie. I profitti del capitale in denaro generarono un lusso insensato nelle alte classi dirigenti e impressero l’orma di una insana speculazione finanziaria. Il grano a basso prezzo dalla Sicilia e dall’Africa rovinò la piccola proprietà agricola, collaborando in tal modo alla concentrazione della proprietà terriera. Così le conquiste romane del III e II secolo affrettarono la trasformazione dell’Italia nel paese della schiavitù classica e impressero un’orma originale sul sistema economico italiano.
    […]
    A Roma l’incremento del capitale monetario non corrispose al livello generale dello sviluppo economico dell’Italia e in misura considerevole fu artificiale. Le fonti di tale anormale incremento, furono, come abbiamo visto, i tributi, il bottino di guerra e, dalla fine del II secolo, il sistematico sfruttamento delle province per mezzo degli appalti.[…] A Roma esisteva l’usanza di concedere in appalto non solo la raccolta delle tasse nelle province, ma anche tutta una serie di attività riguardanti l’economia statale.
    […]
    Tratto caratteristico del commercio romano fu il suo carattere passivo. La bilancia commerciale era passiva poiché le importazioni superavano le esportazioni. Ciò si spiega con una serie di cause. Quando Roma si immise nel commercio mediterraneo, l’economia relativamente arretrata dell’Italia non poteva sostenere la concorrenza con la produzione altamente sviluppata di molte zone del bacino mediterraneo. Come poteva, ad esempio, il cattivo vino italiano, reggere il confronto con quello greco? Solo in alcuni rami, come la produzione metallurgica etrusca, si lavorava non solo per il mercato interno, ma anche per quello estero. A ciò si aggiungeva la grande ipertrofia del capitale monetario che dava la possibilità di comprare le merci necessarie sui mercati esterni. Fino ad un determinato momento questo fatto non rappresentò un pericolo per l’economia italica, poichè la passività della bilancia commerciale era compensata dall’importazione di una grande quantità di denaro. Ma nell’epoca dell’Impero, quando le conquiste cessarono e la politica nei riguardi delle province subì un cambiamento, la passività della bilancia dovette dare risultati negativi per la fuga dall’Italia di metalli preziosi e la conseguente crisi del denaro.”
    (S. I. Kovaliov – Le Cause delle Guerre Civili in L. Canali, Potere e consenso nella Roma di Augusto, 1975)

    In definitiva, la riflessione proposta dal Kovaliov traccia un quadro applicabilissimo a mio avviso alle categorie economiche degli ultimi venti anni, che hanno caratterizzato l’economia occidentale in prima istanza, e poi il suo contatto con quella orientale, e cioè indiana e cinese.
    Il sistema-mondo dell’Occidente classico si reggeva su limiti geografici riconoscibili eppure talmente vasti per l’epoca da potersi ritenere globali, nel senso corrente del termine. Pertanto, quanto accadde alle economie mediterranee non si pone in contrasto, nè in termini di anacronismi nè di dinamiche interne, a quanto accaduto negli ultimi anni sotto i colpi della turbo-economia e della famigerata “invasione” della Cina.
    Kovaliov più volte utilizza l’aggettivo “artificiale” per definire un’economia che per dar conto di sé e della sua opulenza non si riferisce ad una produttività certificabile e implementabile attraverso un miglioramento delle tecniche e delle condizioni di lavoro. La schiavitù, nella storia romana precedente al III secolo, rimane prettamente legata a tre fattori: la deductio a seguito di una sconfitta militare, la schiavitù per debiti, il nascere da una famiglia di schiavi. Ne deriva che fino all’epoca della Prima Guerra Punica, le attività produttive italiche potessero prescindere dal lavoro servile massivo, cosa che in seguito non potrà più essere ammissibile.
    La piccola e media impresa, sia essa agricola o artigianale, di fatto resta viva e vegeta e gode di ottima salute e contribuisce al PIL romano fino a quando le insegne militari non scoprono quel granaio a cielo aperto che era la Sicilia del III secolo – una Sicilia fenicia, greca, assolutamente cosmopolita e mediterranea – e più tardi l’Egitto.
    Già a metà del III a. C. al contadino italico – poco importa se abitasse in un municipium latino o romano – non conviene più produrre grano o miglio o orzo o farro, vende tutto, cambia mestiere, o peggio ancora viene strozzinato dagli usurai e dai debiti.
    La virtualità dell’economia romana è pari a quella dei nostri ormai tristemente conosciuti “derivati”: si spacciano imprese, si vincono gare di appalto, si costruiscono ponti, strade, palazzi senza assolutamente avere i soldi in mano. O meglio, senza utilizzare gli utili, fisicamente presenti e sperperabili in mille status symbol, ma rimettendo sul mercato non la certezza, ma la possibilità potenziale di sfruttare mercati minori – le province più regredite e distanti – oppure l’assicurazione di ottenere appalti ulteriori, utilizzabili a loro volta come garanzia.
    La bilancia commerciale italica a partire del III secolo si regge su sfruttamenti e vessazioni, non solo e soltanto di territori e popolazioni, ma anche di mercati “terzomondisti”: la delocalizzazione delle imprese è cosa molto antica, la nostra Cina, la nostra Polonia, il nostro Est esisteva anche allora, anzi era il motore fuorigiri del flusso di merci che percorreva il Mediterraneo. E la Penisola, oggi come allora, il Made in Italy – tralasciando la Ferrari, la Tod’s e qualche altro bene di consumo di alto lignaggio – non era competitivo con il sistema-mondo mediterraneo, né in termini di costi, né in termini di qualità delle materie prime.
    La legge dell’appalto, della finanza e delle finanziarie – che prestavano, spesso a tassi illegali persino per l’etica e la lex romana – muoveva una realtà sbilanciata soprattutto a livello politico, in quello scacchiere che vedeva Roma come potenza egemone. Ma quando Roma – intesa come brand – occupa ogni centrimetro dell’Occidente conosciuto, quando cioè si estende a tal punto da cadere nel tranello del suo stesso progetto di globalizzazione, d’improvviso non esistono più schiavi a buon mercato, non più merci a buon mercato: tutto, di colpo, diventa Roma. E se tutto diventa Roma, a chi vendere porcherie per comprare materie prime? A chi spillare soldi con la scusa di appartenere ad una terra senza diritti politici e senza cittadinanza? Se di colpo non esistono più extracomunitari?

  7. Analisi molto interessante. Purtroppo in questo momento non ho il tempo di studiarla con attenzione, me ne scuso. Seguo comunque il dibattito. Vista però l’importanza del problema, mi permetto di segnalare questo studio di Wolfgang Streeck sul rapporto tra crisi del debito e occupazione:

    http://www.newleftreview.org/?page=article&view=2914

  8. @Moro
    Che dire quando si riceve una risposta sostanzialmente scortese, distratta ed elusiva, ribadendo le proprie tesi senza tentativo alcuno di argomentare le proprie e il dissenso dalle altrui?
    Che sarebbe inutile insistere, credo…

  9. @ Vincenzo Cucinotta

    1) La concentrazione è una delle caratteristiche principali del capitalismo per come studiato da Marx (qualcun’altro notò che la “concentrazione” è uno dei punti caratterizzanti il capitalismo nella sua fase “suprema”); la nuova determinazione “cinese” non muta la validità della teoria, anzi la conferma.
    2) Esistono studi che individuano le somiglianze tra l’attuale fase “cinese” della produzione “schiavistica” e la cosiddetta “accumulazione originaria” secundum Marx.
    3) La competizione dei “lavoratori” con i lavoratori di altri paesi è una costante del capitalismo; ciò che cambia è la territorializzazione di detta competizione; anche qui, la teoria è confermata.
    4) Anche di mercato del lavoro globalizzato ne parla – e quanto ne parla! – Marx. Per non dire dell’espropriazione delle risorse agricole o dell’allargamento dell’importanza della finanza.
    5) Se la teoria funziona, perché cambiarla?

    Talvolta ho l’impressione che tu faccia fatica a riconoscere ciò che è stato già detto a causa di una tua diffidenza *ideologica* nei confronti di Marx e dei marxismi.

    @ Domenico Moro
    se si scava dietro il velo del “nuovismo” si scoprono teorie che risalgono a prima di Marx e da questi già smerdate.

    Il tuo articolo sgombra il campo dalle analisi, oggi molto di moda, della crisi come risultato della “cattiveria” del solo capitale finanziario; no, alla sua base c’è proprio *tutto* il meccanismo del capitalismo (e infatti trovo che le tue analisi ben si accompagnino con quelle di Vladimiro Giacché).

    NeGa

  10. Nel mio (molto) piccolo avevo cominciato a sviluppare una analisi comparativa dell’imperialismo romano con gli imperialismi moderni e attuali. Effettivamente ci sono delle analogie che il brano citato da Francesco evidenzia. In particolare, sembra sia ricorrente sia lo sviluppo, da parte della potenza centrale, del parassitismo nei confronti della aree periferiche sia, collegata (non casualmente) al parassitismo, la contrazione della base produttiva e della produttività. Nell’Italia romana (piuttosto avanzata secondo altri autori) accadde questo, così come nella Spagna imperiale (per la verità mai eccelsa produttivamente), nell’Italia postrinascimentale (il Paese più ricco del mondo forse non solo occidentale tra XIII e XVI secolo), in Inghilterra e ora negli Usa. Su questo aspetto consiglio la lettura di Braudel e soprattutto di Arrighi, con i suoi cicli storici di accumulazione. Detto questo, bisogna fare molta attenzione alle analogie tra epoche molto distanti e modi di produzione diversi. Dobbiamo perciò sviluppare una analisi specifica del modo di produzione capitalistico per come si manifesta attualmente e, soprattutto, capire a cosa ci sta portando dal punto di vista economico, delle relazioni internazionali e last but not least dal punto di vista dello Stato e delle istituzioni. A questo proposito lo Stato d’emergenza invocato al momento della nomina di Monti è significativo di come la crisi modifichi percettibilmente le istituzioni e il loro funzionamento (a chi fosse interessato segnalo il mio articolo “Monti e le pericolose implicazioni dello stato d’emergenza” su Marx XXI).

  11. @ng
    Naturalmente, considero scherzosa la tesi della diffidenza ideologica, perchè sarebbe ben strano che un’ideologia si definisse in negativo.
    In ogni caso, io non sono marxista per molte ragioni fondamentali.
    Basti considerare qui brevemente (ma sarebbe impossibile argomentare in proposito) tre punti.

    Marx era entusiasta del progresso tecnologico, ed in generale, da buon hegeliano, era convinto che la storia andasse verso un progresso, non dico automatico come pure qualcuno l’ha interpretato, ma comunque tutto il materialismo storico si basa su uno sviluppo delle forze produttive che avrebbe migliorato le sorti dell’umanità.
    Io, pur non essendo a priori contro la tecnologia, non posso nel contempo condividere questo entusiasmo per essa e per l’aumento della produzione che essa comporta.
    Naturalmente, capisco che Marx era un uomo del suo tempo e non poteva prevedere gli scenari di rischio ambientale in cui noi ci dibattiamo, ma non posso non avercela con coloro che non storicizzano Marx, rifacendosi pedissequamente al suo pensiero.

    Per Marx, la società comunista era una società senza politica. Per me, una società così sarebbe un incubo. Oggi di fatto, la politica è già stata estromessa dalla società, e sostituita da un economicismo soffocante a cui pare nessuno sa resistere, neanche paradossalmente coloro che sono per la decrescita. L’economicismo è a mio modesto parere la vera malattia del pensiero contemporaneo, e credo che i marxisti ne siano anch’essi afflitti a partire dallo stesso Marx.

    Infine, la distinzione tra struttura e sovrastruttura appare arbitraria, inutile ai fini dell’azione politica, e soprattutto inverificabile, un assioma che si utilizza quando serve, e si minimizza e metteda parte quando apparirebbe ingombrante.

    Non pretendo certo di essere stato convincente, ma di avere almeno mostrato che non soffro di prevenzione alcuna nei confronti del marxismo, di esserne al contrario lontano per motivazioni fondamentali.
    Ciononostante, non esito a dire che mi trovo molto più a mio agio con i marxisti che con la comune mentalità neoliberista. Rimane tuttavia il problema di come operare per obiettivi comuni che devono necessariamente essere condivisi.
    Un ottimo esempio di difficoltà sta appunto nelle cose che qui si diceva. Io penso che in una globalizzazione portata avanti dal capitale, in cui questo appare svolgere un ruolo dominante, in un mondo tuttora organizzato in nazioni formalmente sovrane, non rimane che opporsi alla corrente dominante proteggendo la propria nazione.
    Così, se si vuole rimettere l’uomo al centro e considerare il lavoro come un mezzo al servizio dell’uomo e non della produzione presa come fine in sè, se si vuole pianificare l’economia per sottoporla alla politica, se si vuole spezzare il circolo della concorrenza insensatamente spietata, si deve proteggere la propria economia anche con barriere doganali (ma naturalmente difendendosi dai mercati finanziari globalizzati.
    Non capisco quale sia la tesi alternativa. Se continuiamo ad importare le magliette cinesi, come potremo evitare la chiusura delle nostre industrie tessili, tab to per fare un esempio comprensibile? Altro che riduzione dell’orario di lavoro!

  12. La tesi alternativa è non porsi come una retroguardia nei confronti dei processi storici, in una posizione regressiva, quanto assumere un punto di vista fondato sulla visione pratica del mondo.

    Domenico Moro scrive in “Le cause della crisi europea e il che fare”:

    In primo luogo, bisogna ripartire dalle basi nazionali di classe nel senso di rinforzarsi nei singoli Paesi europei. Bisogna però estendere il terreno di lotta ad un livello europeo. Se siamo stati sconfitti nella fase storica precedente è stato per due ragioni. La prima sta nel fatto che il capitale ha acquisito una dimensione transnazionale e ha giocato sulle differenze di costo del lavoro e valutarie nelle varie aree e Paesi. La seconda ragione sta nell’affermazione, a livello Ue, dello scambio tra precarietà e occupazione. Se il capitale ha fatto un salto di livello, non c’è alternativa, anche i lavoratori devono farlo. In pratica va intrapreso un processo di collegamento tra le forze politiche e sindacali del movimento operaio europeo. Si tratta di un processo di difficile attuazione, che si scontra con differenze culturali e linguistiche, interessi e resistenze corporative e con le divisioni tra i partiti della sinistra di classe e comunisti. Il fatto è che la storia e il movimento oggettivo dell’economia vanno in una certa direzione e non si può arrestare questo movimento, bensì inserirsi in esso. C’è sempre un ritardo nell’adeguamento della classe operaia al livello del capitale. Anche quando il movimento del capitale ha portato alla nascita degli stati nazionali si è registrato questo ritardo, ma, attraverso un processo più o meno lungo e drammatico, la classe si è adeguata al livello di sviluppo del capitale. La Ue e l’area euro possono rappresentare un terreno di ricomposizione della classe lavoratrice europea. Ciò non è avvenuto, fino ad ora, per le ragioni che dicevamo, ma questa crisi può offrire l’occasione per farlo, sforzandosi di trovare le forme di coordinamento più adeguate e un programma comune. L’errore principale è rinserrarsi su una posizione di difesa, che tende a stabilirsi su una linea sempre più arretrata. Bisogna avere la capacità, anche se si è minoranza, di non essere minoritari e di proporsi come forza, insieme nazionale ed europea, in grado di indicare soluzioni generali, ed aggregare consenso intorno ad esse.

  13. @Nota
    In altre parole, dobbiamo lavorare per l’integrazione tra i lavoratori europei e nel frattempo siamo inermi a subire la loro intehrazione già realizzata.
    Tale integrazione però in ogni caso non risolverebbe nessuno dei problemi in rapporto alla competizione dei prodotti cinesi e di paesi con un analogo basso liivello di costi produttivi.
    Però, sono enunciazioni esteticamente pregevoli, lo ammetto…

  14. Buona analisi, sì, ma un po’ scolastica. In effetti l’unica previsione di Marx che parrebbe ancora attuale è quella riguardo alla caduta tendenziale del saggio di profitto, imputabile alla sempre più massiccia applicazione della tecnologia alla produzione. Ciò presuppone la teoria del valore-lavoro: se il valore delle merci non fosse dato dalla quantità di lavoro vivo incorporato in esse, non ci sarebbe nemmeno quella caduta, dovuta al tasso crescente di lavoro morto, cioè di tecnologia, presente nelle merci. Le crisi periodiche di sovrapproduzione sono una conseguenza. Ciò che nel discorso non tiene, o non tiene più, è che Marx prevedeva anche l’impoverimento crescente della classe operaia, quindi l’intensificazione della lotta di classe che avrebbe posto oggettivamente la questione della pianificazione della produzione, e cioè del socialismo. Ma dove si vede oggi questa intensificazione della lotta di classe operaia? In mancanza di questa, il socialismo è un’utopia. Il che a me va benissimo, ma a Marx no.

  15. @genovese

    L’unica utopia ammissibile e’ la trasformazione virtuosa di ciò che c’è, dunque un’utopia che cercs la propria negazione

  16. Caro Cucinotta,
    non ho le competenze per addentrarmi in una discussione di carattere tecnico e risponderle sul cosa fare, mi par di capire, per conservare l’opulenza in una fase epocale di smottamento dell’economia produttiva da occidente ad oriente. Ho soltanto rilevato, visto che si chiedeva la tesi alternativa, che nel pensiero dell’autore (ma non solo, mi pare che sia una riflessione piuttosto amaramente condivisa) rinserrare le fila nazionali con il protezionismo significherebbe solo spingere il pedale dell’acceleratore verso il conflitto tra capitali nazionali, conflitto che in qualunque direzione si sviluppi condurrà semplicemente ad un riposizionamento delle egemonie interne in uno scacchiere inesorabilmente globalizzato e non ad un ritorno alle economie locali.
    Quindi la tesi alternativa parte sicuramente dai presupposti di 1) non voler entrare in una logica di scontro tra capitali nazionali 2) ritenere impraticabile l’ipotesi regressiva (considerarla cioè una scusante illusoria che conduce alla deriva bellica), 3) capire che per stare al passo con lo scontro di forze reali (che agiscono già su un piano transnazionale) occorre costruire una posizione altrettanto transnazionale, tanto per cominciare europea e tanto per cominciare chiedendo politiche fiscali e leggi sul lavoro europee.
    Questi appaiono evidentemente come presupposti, non come soluzioni a problemi specifici. Detto ciò e scusandomi per le inesattezze o per aver male interpretato i testi, preferirei tornare alla mia posizione, più adeguata, di “pubblico” che ascolta con vivo interesse il dibattito. Ciao.

  17. @Nota
    Non sono un economista, ma da alcuni mesi ho intensificato le mie letture in proposito e la cosa che ho verificato è che i cosiddetti esperti, in questo caso gli economisti, non ne sanno più di me, inteso come un generico lettore attento senza preliminari studi sull’argomento.
    Così, questa questione della localizzazione estrema della produzione mondiale in luoghi remoti, dove sembra pressocchè impossibile stabilire dei collegamenti organizzati con quei lavoratori, dove comunque le condizioni sia di lavoro che di vita non sembrano accettabili per noi europei, non ha una soluzione, almeno nel medio periodo, se non quella di separare in qualche misura le nostre sorti, come proponevo nei precedenti commenti. Ciò non è nè progressivo nè regressivo, è solo differente, almeno per me che non credo alla favola del senso progressivo della storia umana.
    In quanto al problema dei conflitti bellici, è strano affidarne la difesa al commercio internazionale. La stessa Cina, come altri paesi, si sta comprando intere nazioni africane: è questo il modello che ci preserverà da conflitti prossimi venturi? A me preoccupa di più l’attuale fase di stallo tra i paesi europei, che potrei paragonare a coniugi che invece di divorziare se necessario, continuano a litigare, portando in taluni casi ad esiti tragici.
    Ricordo che la mia ipotesi prevedeva, accanto a una severa limitazione alla circolazione di titoli e merci, la libera circolazione delle persone e naturalmente delle idee, e quindi non prevedo alcuna separazione tra popoli, ma soltanto un fatto che dovrebbe apparire perfino banale, che finchè esistono nazioni, esse devono avere una loro sovranità, che non può prescindere dalla libertà di organizzare il lavoro e i modelli di consumo a proprio modo.
    Anch’io preferirei un mondo senza confini, ma questi non possono essere annullati e riconfermati a seconda delle convenienze. Personalmente, non credo che la libera circolazione delle merci sia una priorità tale da dover essere garantita ad ogni costo.
    Mi preoccupa vedere risposte stereotipate a problemi concreti, sbaglio?

  18. Sicuramente scolastica è la visione che qualcuno ha di Marx, probabile conseguenza della lettura di sunti frettolosi o manuali di filosofia mal fatti e di una pressione mediatica trentennale sull’inattualità del marxismo e del socialismo. L’impostazione di Marx, se ne rende conto chiunque lo legga in presa diretta, non è mai deterministica. Il socialismo per Marx non era una conseguenza inevitabile, ma uno sviluppo possibile, sulla base della determinazione di certe condizioni, e necessario sulla base delle contraddizioni del capitale. Ma passiamo pure alle previsioni di Marx. Non è poca cosa che si dimostri valida la legge della caduta tendenziale del saggio di profitto, vista la sua centralità nel discorso marxiano e dopo che molti, anche tra chi ora la sta rispolverando, la pensava un ferro vecchio. Soprattutto, risultano ampiamente verificate le conseguenze della legge come previste da Marx: esportazione di capitali, e quindi mondializzazione, attacco ai salari, aumento dello sfruttamento e soprattutto aumento dell’esercito industriale di riserva. Proprio quest’ultimo e la legge generale dell’accumulazione, cioè la produzione contemporanea di ricchezza e di povertà come caratteristica del capitale, trovano conferma nell’oggi. Contrariamente a quello che sostiene Rino, oggi non riscontriamo solo l’aumento dell’impoverimento relativo dei lavoratori (cioè l’aumento del divario tra salario e profitto), ma anche l’aumento della povertà assoluta. Basta leggere le statistiche Istat o Eurostat, sull’aumento della povertà in tutti i Paesi più “avanzati”, non c’è bisogno di essere geni. Quanto alle lotte, sebbene non siano neanche per Marx un portato automatico della crisi, si stanno sviluppando in tutto il mondo dalla Grecia, alla Spagna, alla Cina. Anche su questo basta leggere i giornali. Quanto agli stereotipi, caro Cucinotta, ce ne sono di vari tipi. I peggiori sono quelli che si travestono di concretezza. Marx ne “il capitale” non ci parla tanto di Manchester del 1865, ci parla molto di più del Guandong di oggi. Sebbene ciò possa sembrare paradossale, la sua descrizione del meccanismo di funzionamento del capitale si attaglia molto al 2011 anni che al 1921.

  19. È vero, caro Moro (tra parentesi, “Moro” era il soprannome con cui veniva chiamato Marx, per cui è un po’ come se fossi Engels che inizia una lettera all’amico), è vero che il pensiero di Marx non è determinista, ma in fondo prevede solo due possibilità: o la catastrofe o il socialismo. In questo senso lo slogan di Rosa Luxemburg “socialismo o barbarie” è una buona sintesi del suo pensiero, anche molto attuale. Solo che, ammesso che questa non sia la solita crisi del capitalismo che poi si risolve come altre in passato, l’alternativa sembra essere soltanto la catastrofe. Non è vero, infatti, che ci sia un proletariato industriale (sottolineo “industriale”, perché, stando a Marx, né il cosiddetto popolo né una generica “moltitudine” potrebbero nulla) pronto a intervenire con una rivoluzione mondiale. L’impoverimento relativo della classe operaia magari c’è, ma quello assoluto non mi sembra, se pensiamo che in Germania – paese all’apice dello sviluppo capitalistico – un operaio della Volkswagen guadagna 2.500 euro in media e, se disoccupato, può godere degli ammortizzatori sociali. L’esercito di riserva, poi, non è quasi per nulla “industriale”: la forza lavoro immigrata è posta in una condizione neoservile, quando non di semischiavitù, come a Rosarno… Inoltre, anche così, la tendenza complessiva per i lavoratori immigrati è piuttosto a un miglioramento della loro situazione economica rispetto alle zone del mondo da cui provengono. Il capitalismo – non la democrazia liberale – conserva un grande fascino, e attira ancora consensi, come dimostra la vicenda dei paesi dell’Est europeo, in cui c’è il capitalismo ma non la democrazia. Resta l’incognita Cina, con il suo capitalismo molto particolare, e da cui effettivamente stanno arrivando notizie di lotte operaie, che si possono supporre legate alle condizioni di ipersfruttamento. Ma, caro Moro, la Grecia e la Spagna non fanno testo in senso marxiano “ortodosso”. Si tratta di proteste giovanili dovute alle restrizioni dello Stato sociale e alla disoccupazione, o di impiegati a cui d’improvviso è stato tagliato lo stipendio. Non hanno un carattere di lotta di classe rivoluzionaria nemmeno in potenza. Vedi, caro Moro, la teoria marxiana può essere riassunta (non scolasticamente) con dei “se… allora”: se è vera la teoria del valore-lavoro (e tu sai che finanche questa è stata messa in dubbio da alcuni marxologi), allora si può parlare di una caduta tendenziale del saggio di profitto; se c’è uno sviluppo industriale che implica un’estensione della classe operaia di fabbrica, allora c’è anche, pronto a infoltirsi, un esercito industriale di riserva, e così via. Ma tutti questi “se… allora” non sono affatto così evidenti: non si vedono limpidamente nella realtà come li vedi tu.

  20. Caro Rino, spesso quando si vuole contrastare una posizione contraria la si estremizza facendola apparire, proprio perché estremizzata, non valida. Questo è accaduto anche con Marx. Se c’è una caratteristica del “Moro” è stata quella di rifiutarsi di offrire ricette e previsioni per l’avvenire. L’espressione socialismo o barbarie è uno slogan del movimento socialista e comunista ed è riferito al periodo durante e dopo la Prima guerra mondiale, in cui effettivamente l’alternativa era tra socialismo o barbarie, come anche l’avvento, di poco successivo, di Hitler ha confermato. Mi sembra, più modestamente, però, che la stessa tecnica si adoperi anche nel mio caso. Non ho mai affermato che la classe operaia sviluppi, ora, lotte immediatamente rivoluzionarie. Se guardi un mio post precedente lamentavo l’esistenza della contraddizione tra condizioni oggettive mature (la crisi sempre più profonda) e condizioni soggettive immature (bassa coscienza di classe, scarsissima autonomia politica della classe lavoratrice). Sull’impoverimento assoluto ti consiglio di avvalerti di una maggiore e migliore documentazione. Infatti, è assodato che il salario reale è in calo da diversi anni in tutti i Paesi avanzati. Anche in Germania, il Paese più forte della Ue, si è avuta una contrazione dei salari reali e nominali. Tu citi, sempre a proposito della Germania un dato assoluto, non una variazione percentuale rispetto al passato. Una ricerca della Banca dei regolamenti internazionali, non l’ufficio studi della CGIL, denuncia dagli anni ’90 al 2005 in tutti i paesi “avanzati” un passaggio di una quota crescente del Pil dai salari ai profitti, che in Italia è arrivato all’8% medio annuo (equivalente a 120 miliardi annui). Quanto ai poveri, secondo l’Istat, questi in Italia nel 2009 erano 7,8 milioni, pari al 13,1% dell’intera popolazione. Secondo Eurostat 81 milioni di europei (17% del totale Ue a 27) nel 2008 erano al di sotto della soglia minima di povertà, in Spagna il 19,6% della popolazione, nel Regno Unito il 18,8%, in Italia il 18,7%, in Germania il 15,2%, in Francia il 13,1%. A questi si aggiungono 42 milioni di europei (4%) che non sono in grado di pagare le bollette dei servizi essenziali. Tutti dati in aumento rispetto al passato. Le prospettive future, specie per le prossime generazioni sono pessime, visto che per la prima volta dalla fine della Seconda guerra mondiale il progresso generazionale si è interrotto, e i figli saranno (sono) più poveri dei genitori (lo si legge anche sul Sole24ore). Con la novità che oggi non si è poveri soltanto se non si ha lavoro, si è poveri spesso anche se lo si ha. Un dato di fatto che i giovani scesi in piazza a Roma, Londra, Parigi e Atene hanno ben chiaro. I giovani scesi in piazza sanno bene che sono o saranno parte dell’esercito industriale di riserva, che, anche secondo Marx, non è fatto solo di quelli che non hanno lavoro, ma anche, e sempre di più, da quelli che entrano e escono continuamente dal processo lavorativo. Specialmente in Grecia, poi, le lotte hanno un carattere schiettamente operaio, con i sindacati operai, a partire dal Pame, in prima linea. Infine, ti do una notizia. Per Marx, i proletari non sono solo quelli della manifattura ma tutti quelli impiegati dal capitale per la sua valorizzazione. Compreso chi lavora nei trasporti, nelle comunicazioni, ecc. (vedi capi XIII Libro I). Compresi quelli che non entrano direttamente nel processo produttivo e non producono direttamente valore e plusvalore, ma senza i quali quel plusvalore non si realizza, come gli impiegati, i venditori, i commessi, ecc. (vedi cap. XVI, Libro III). Se liberissimo di pensarla come ti pare 8ci mancherebbe altro!), ti pregherei, però, per una questione di onestà intellettuale, di non stravolgere la realtà nè quello che realmente ha detto Marx.

  21. Il dato “assoluto” dei 2.500 euro di salario dell’operaio tedesco, che può anche avvalersi degli ammortizzatori sociali, voleva solo indicare che il vecchio neocapitalismo (quello che integrava la classe operaia) in un paese forte come la Germania è ancora in piedi, nonostante tutto, e non va sottovalutato quando si parla di crisi. Quanto alla previsione di Marx sull’impoverimento crescente, se la si applica alla tendenza mondiale, così come bisogna fare, è smentita, non solo dalla cosiddetta società del benessere, ma oggi anche dai paesi del Brics. È l’Occidente, in quanto tale, che vive una crisi del capitalismo (e anche culturale in senso antropologico, aggiungerei), ma il capitalismo industriale è piuttosto in espansione nei paesi cosiddetti emergenti. Questo fa pensare a delle capacità di recupero anziché a un suo crollo. (A proposito, lo slogan della Luxemburg aveva una portata un po’ più ampia, appunto di teoria del crollo, e non si riferiva soltanto alla situazione di Weimar). Restano però i limiti, anche ambientali, dello sviluppo: un fattore di crisi ulteriore non da poco. Infine, gli sfruttati dal capitale (impiegati, venditori, commessi, oggi i “lavoratori della conoscenza”): questi rivestono un ruolo, nella concezione di Marx, se si pensa a una polarizzazione crescente della società in due campi: gli sfruttati, la maggioranza, e gli sfruttatori, un pugno di capitalisti. Ma solo la classe operaia secondo Marx, per la posizione che ha nel processo produttivo, è in grado di sviluppare una coerente coscienza di classe. Del resto lo si vede: in mancanza di una polarizzazione della società in due campi contrapposti, i lavoratori e le lavoratrici di un “call center”, per fare un esempio, non sono capaci di arrivare a una solidarietà “di classe” neanche minima. Si sentono, e sono, dei piccolissimi borghesi: aderiscono in tutto all’immaginario capitalistico, si potrebbe dire. Il modo di produzione postfordista ha poi distrutto in notevole misura la possibilità dell’organizzazione operaia. Dunque: catastrofe sempre possibile, rivoluzione impossibile. Questo significa che il socialismo deve retrocedere dalla scienza all’utopia: ridiventa un’esigenza morale, non qualcosa che è inscritto nella realtà. Su ciò né il “Moro” né Moro possono concordare.

  22. Personalmente, da occupato privo di reddito, ho ben chiaro che la verità è assai più prossima a ciò che scrive Moro rispetto al quadro rassicurante che si sforza – non si capisce bene il motivo – di dipingere Genovese.
    Che permangano in Italia e in Occidente delle aree galleggianti che sono le stesse che fanno dire a Berlusconi che la crisi è un’invenzione dei media perché tutto sommato sì c’è la crisi ma comunque si sta bene, si va al ristorante, niente di drammatico – non impedisce alla realtà di essere se stessa: una realtà drammatica in cui milioni di giovani uomini e donne non possono vivere.
    Quindi Genovese prima di fare il berluschino (= italiano = sottovalutante) si faccia un giro in qualunque quartiere d’Italia, dove i trentenni ormai non cercano neppure più lavoro, tanto sono abituati da 2 o 3 anni a non trovarlo.

  23. Caro Rino, rispetto le tue opinioni, ma il tuo ragionamento mi sembra supportato più da riflessioni soggettive che da dati reali. Proprio negli ultimi giorni, sui giornali economici sono apparse notizie sul rallentamento cinese che ha comportato riduzioni dell’occupazione e salariali e nuove mobilitazioni operaie, il tutto a causa del ripresentarsi della recessione in Usa e Ue, destinazioni principali delle esportazioni cinesi. Quindi, starei attento a come valutare la situazione mondiale, molto interconnessa. Ad ogni modo, il dato del ripresentarsi della povertà e dell’arrestarsi/arretramento della capacità d’acquisto da dieci-vent’anni nei Paesi centrali del sistema economico mondiale (e che producono il 50% del Pil mondiale) è, da un punto di vista non solo teorico ma soprattutto pratico, di straordinario significato. Si tratta di Paesi più forti e, se qui il capitale ha difficoltà, possiamo figurarci altrove…Se migliaia di disperati cercano di sbarcare sulle nostre coste non è per l’attrattività del capitale, ma nella speranza di lasciare quella realtà dove tu dici la povertà sarebbe in via di sconfitta. Fra l’altro, proprio quanto avvenuto nel 2011 in Nord Africa ci dice quanto poco lo sviluppo capitalistico e l’industrializzazione delle delocalizzazioni abbia portato alla riduzione della povertà nei Paesi periferici. Cercherei, inoltre, di evitare certe confusioni. Ad esempio: affibbiare ai commessi la definizione di “lavoratori della conoscenza” (quale conoscenza c’è nello stare 10 ore a far calzare scarpe o seduti alla cassa a passare allo scanner i codici a barre dei salami?), oppure ritenere che i lavoratori del call senter non solo si “sentano”, ma siano piccola borghesia, ecc… Liberissimi di essere utopici, ma almeno guardiamo la realtà. La realtà è che il capitale è in crisi non solo oggettivamente ma comincia ad esserlo anche da un punto di vista “ideale”, nella percezione dei lavoratori. Se pensiamo che, fino a qualche anno fa, questo era non il migliore ma l’unico dei mondi possibili, mi sembra un risultato da non sottovalutare né sottacere.

  24. Solo per precisare che, naturalmente, i commessi non sono lavoratori della conoscenza, pensarlo sarebbe da matti: ma ai tempi di Marx non c’erano, e avrei dovuto scrivere, per essere più chiaro, “oppure oggi i ‘lavoratori della conoscenza’…”. Questa discussione è comunque interessante. Perché tutti e due pensiamo che la crisi sia una crisi del capitalismo molto seria. La materia del contendere è sulle prospettive e sulla questione se Marx abbia avuto ragione o no. Ci sarebbe da organizzarci su un seminario… Un caro saluto.

  25. Sono d’accordo. In effetti, discutendo con civiltà – come abbiamo fatto noi – si riesce a precisare meglio il proprio pensiero e ne viene lo stimolo ad approfondire ulteriormente. Mi farebbe veramente piacere, avendone voglia e tempo, se tu riuscissi a dare una occhiata al mio “Nuovo Compendio del Capitale”, in cui sono affrontati con più spazio e sitematicità diversi argomenti su cui abbiamo discusso, e ad un mio articolo sul lavoro immateriale e improduttivo (commessi, impiegati, venditori, ecc.), intitolato “Sinistra senza aggettivi”, che può essere facilmente scaricato da Internet. Cordiali saluti.

    Domenico Moro

  26. Conflitti ideologici nella transizione verso la societa della condivisione di conoscenza
    vedi in http://www.edscuola.eu/wordpress/?p=8744

    Il Cambiamento della organizzazione e della divisione sociale del lavoro non si ottiene riportando in auge vecchie ricette liberali sulla competitivita’ , valide solo nel caso di un mercato di concorrenza non drogato dalla speculazione finanziaria.
    Il cambiamento che conduce alla transizione dell’ orizzonte della societa della conoscenza condivisa necessita piu che di competizione di collaborazione per la realizzazione di reti tra imprese e ricerca basate su reti di condivisione in ITC , che si realizzano attraverso fenomeni quali la condivisione di funzioni e processi, prima concentrati nella stessa impresa ovvero appaltati come servizi .
    I necessari cambiamenti indirizzati verso una equa adozione di nuove forme di organizzazione e di divisione sociale del lavoro, che condurranno a ridimensionare i nuovi orizzonti di sviluppo della societa della conoscenza , indubitabilmente non si risolveranno o applicando vecchie ricette liberali sulla concorrenza e la competivita’, che finiscono per disgregare ulteriormente il tessuto sociale e renderlo ancor meno collaborativo, cosi che tra i litiganti ottenga vantaggio solo e soltanto l’ accumulo del profitto del capitale anziche favorire la crescita e la ridistribuzione sociale del lavoro e delle ricchezze.
    La crisi strutturale che stiamo vivendo dal crollo del “muro di berlino” e’ stata in vero il frutto della rivincita di una ideologia liberale, fondata sulla competitivita’, che in poco tempo ha fatto emergere la propria contraddizione ideologica in termini di crisi strutturale del sistema guidato da tale vecchia ideologia. La principale di queste contraddizioni è quella tra produzione e mercato in quanto oggi entrambi si riducono in favore del profitto speculativo, dato che quest’ultimo e’ senza alcun riguardo per le capacità di acquisto delle merci prodotte , cosi che a seguito di logiche liberali si e’ cercato di compensare la perdita del sistema produttivo con l’aumento dello sfruttamento del lavoro precario in modo e maniera da poter favorire la sovrapproduzione di un numero maggiore di merci in una logica consumistica oggi in definitiva e irrecuperabile saturazione. La crisi strutturale a cui stiamo assistendo e’ quindi una crisi di una ideologia che come quella contrapposta marxista ha ormai raggiunto il suo culmine.
    Diffidiamo pertanto di chi tenta di risolvere le nuove problematiche di transizione tra la societa industrale e la societa della conoscenza facendo ricorso a regolette e criteri di vecchio stampo liberale ormai non piu coerenti con levidenza storica delle necessita di cambiamento. Paolo Manzelli 06/FEN/12

  27. la crisi
    e il capitalismo che non c’è più

    ho letto il riferimento: sono chiacchiere
    in realtà l’uomo fa il furbo in un altro modo, truffa, soprattutto se sta nella banca

    la crisi finanziaria arriva dalla chiusura dei mercati truffati

    quando si avranno nuove possibilità truffaldine, magari favorite da leggi fatte apposta, il mercato finanziario rivolerà.

    dimmi se ho sbagliato, ciao

    ho riletto, ma lì si parla di crisi canoniche da lavoro e da capitale che ormai nel tempo si è persa ogni traccia
    quella crisi si è omogenizzata.
    Globalizzata, è dispersa in ogni rivolo e risulta essere ininfluente al mercato,

    queste no. Sono crisi dovute alla truffa messa in atto da banchieri che non si comportano da operatori del settore, non si attengono alle regole del capitalismo, che le ha, o aveva, e le faceva rispettare, questi sono veri ladri e le crisi cicliche sono dovute alla capacità di inventare una nuova truffa che lancia l’economia facendo confluire grandi quantità di capitali, da risparmiatori sempre più poveri, fino a quando la truffa regge

    l’indebitamento degli stati è la parte più evidente della truffa

    poi terminato l’effetto dovuto alla conoscenza del raggiro tutto si ferma fino alla invenzione di una nuova forma truffaldina, con la quale di nuovo l’economia di borsa riprende muovendo tutte le attività imprenditoriali, anche quelle lecite

    questa, se è trasformazione, sarà il modo nuovo di essere del capitalismo?
    produrre leggi adatte per rendere legale lo sfruttamento ?
    attuato da uno sparuto gruppo di individui ? su tutti gli altri ?
    una immane catena mondiale che serra tutti indistintamente ?

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