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a cura di Andrea Lombardi

[Negli ultimi vent’anni il campo culturale italiano è cambiato profondamente. Alcuni dei mutamenti più radicali sono stati generati dalla rete. Dai primi forum ai blog fino ai social network, internet ha mostrato una grande vivacità letteraria e ha prodotto dei fenomeni che troppo spesso, per pregiudizio o timore, vengono ignorati. Oggi questo rapporto è giunto a una fase per così dire istituzionale, una fase che consente di definire o quantomeno di interpretare aspetti che fino a poco tempo fa apparivano poco chiari. Di qui l’idea di un’inchiesta sul rapporto fra gli scrittori e Facebook, il social network più usato, quello che racchiude alcune peculiarità delle forme online sorte in precedenza, ma che ha prodotto tipi di scrittura e di interazione nuovi e dirompenti. Le interviste contengono domande fisse e domande legate all’attività specifica degli autori intervistati. Nelle settimane scorse abbiamo pubblicato le risposte di Francesco Pecoraro, di Gilda Policastro e di Vanni Santoni (Andrea Lombardi)].

 1) In che anno ti sei iscritto a Facebook e che cosa ti aspettavi quando l’hai fatto?

Nel 2006 ho aperto un profilo non corrispondente alla mia identità, dal 2008 sono iscritto con il mio nome e cognome. Volevo inizialmente sperimentare gli algoritmi e comprendere fino a che punto si trattasse di un protocollo di possibile militanza culturale, come sempre mi è accaduto svolgendo attività di rete, dal 1994 in poi, poiché all’epoca delle BBS mi interessava avere una sede stabile in cui depositare contenuti e un modo per intrattenere relazioni con utenti altrimenti irraggiungibili dall’Italia, per una persona fuori dai giri accademici. Con Facebook mi sono convinto presto che si trattava dell’impossibilità di intensificare l’immaginario collettivo e, piuttosto, si aveva a che fare con un protocollo che segnalava la polverizzazione dell’immaginario in una inconsistenza nebulare, che al limite avrebbe potuto coincidere con l’effettività di un tempo di tipo diverso, in cui non aveva più senso, almeno per me, tenere presente l’immaginario collettivo come àmbito del lavoro politico, culturale, comunicativo.

2) All’inizio hai pensato di dover gestire il tuo profilo tenendo conto del fatto di avere un’immagine pubblica in quanto scrittore o non ti sei posto il problema?

E’ per me impossibile discutere di un inizio: ci sono due inizi, un profilo non identitario e uno che corrisponde alla mia anagrafe. La questione della militanza culturale è sempre stata il punto qualificante di qualunque intervento sulle reti, per quanto mi riguarda. L’immagine pubblica è un segmento dell’immaginario collettivo che esisteva forse un tempo, qualcosa che io ho conosciuto in un’epoca borghese novecentesca. Quanto all’emissione di pubblicità all’uscita dei libri di cui sono autore: sì, lo faccio, spesso per trovare persone interessate a dialogare intorno ai testi e all’extratesto che sottintendono.

 

3) Che tipo di materiale condividi nella tua bacheca? Quanto è riconducibile al tuo ruolo pubblico e quanto alla vita privata? Si può parlare, nel tuo caso, di una poetica di Facebook?

Utilizzo Facebook come un diario aperto, sottoposto a ritmiche che solitamente non si colgono e sono percepibili soltanto se si legge la mia timeline, il che non è l’uso di massa, poiché moltissimi passano per lo stream della home. Non esiste alcun possibile rilievo pubblico di me. Questo lo penso in assoluto, però qui la considerazione è di ordine storicistico: non ho ruolo pubblico. Che io militi culturalmente, che io abbia pubblicato testi, che io lavori presso il Saggiatore: tutto ciò vale quanto il fatto che presto la mia opera presso una struttura che si occupa di neopsicologia. Pubblico e privato sono distinzioni prive di senso. Ciò non significa che non prenda posizione in nome di certi nuclei del discorso collettivo, però in un tempo privo di dialettica generale, sia in àmbito che una volta si considerava appunto pubblico sia nella vita privata. Il fatto è che la domanda nasce, pur legittima, da uno svisamento di quelli che ritengo essere i protocolli sociali in questi anni di occidente. Non è ovviamente questa la sede di teorizzazioni e fenomenologie, tuttavia mi pare doveroso sottolineare che antinomie e sintesi tra funzioni sociali non sono per nulla efficaci per descrivere o interpretare questo tempo. E’ un po’ come ritenere attivi i dispositivi, che so?, anche etici, mentre Nietzsche è vivente; oppure protocolli fisici oggettivisti mentre stanno operando Planck e Einstein: non si attagliano a quanto sta accadendo. Così, per quanto riguarda ciò che sembrerebbe esprimersi in rete sui social, preferirei dire che tutto è riconducibile a un ologramma che potremmo interpretare come “il me”. Ciò non significa che non sia vero, o anche mimetico di certa realtà che vivo o che viviamo, e tuttavia mi interessa il flusso linguistico, cioè il piano effettivo delle possibilità espressivi: mi interessa sentire la possibilità, è effettiva l’incombenza della possibilità. Il flusso è uno stato. E’ evidente e ovvio che in tale stato prendano vita le concrezioni e le sagome dello stato stesso, delle nature più varie: che siano immagini suoni sintassi lessici ritmi retoriche narrazioni o indefinite manifestazioni altre, davvero, poco importa. Mi interessa la sostanza dello stato, del flusso. Questa sostanza la chiamo “psichica”. Non è detto che essa non sia corporea, ma nemmeno è detto che sia del tutto corporea. Gli algoritmi, da questo punto di vista, pongono una profonda domanda epistemologica, estetica, etica e politica: ovvero filosofica. Si tratta proprio di una poetica personale, vista in questa prospettiva. Fatico a esporre in breve questa propensione e ne accenno con un gergo idiosincratico e impreciso e irritante, anche perché al momento non si dispone di una koinè linguistica affidabile. Mi scuso per la sintesi indebita e il deficit di comprensibilità del mio discorso. E’ un dato che mi avvilisce da anni. C’è un ammanco di teoria e di prassi retorica su questi temi che, per quanto ravvedo, è il medesimo che colpisce un altro àmbito di interesse mio personale, e cioè la metafisica come prassi. Quando ho parlato di metafisica a chi avevo e ho attorno, negli ultimi due decenni, nella quasi totalità dei casi ho ricevuto risposte che vertevano su misinterpretazioni di ordine linguistico. Parimenti, parlando della psichica a proposito dei processi di rete, ho riscontrato difficoltà consimili. Questo fatto è sospetto. Ogni sospetto è interessante.

 

4) I tuoi post scritti sono quasi sempre piuttosto lunghi e sei uno dei pochissimi autori ad utilizzare le Note, in cui riporti brani tratti dai tuoi libri, racconti o recensioni. Si tratta per certi versi di un uso ‘anomalo’ di Facebook – dove si tende a privilegiare la brevitas dei contenuti verbali – ma che sembra essere più confacente, in linea teorica, al profilo di uno scrittore. Puoi approfondire questo aspetto?

La lunghezza dei post è un risultato che cerco appositamente e concerne le soglie di attenzione e il funzionamento degli algoritmi di Facebook (che deselezionano troppo contenuto testuale) e, dunque, degli algoritmi umani, che saltano all’occhio quando gli umani sono a contatto con una strumentazione cognitiva di transizione, come in questi anni. Questa transizione è connotata dall’avvicendarsi di processi di sviluppo. Per esempio, Facebook coincide con un arresto del cosiddetto 2.0, perché si verifica uno spostamento di interesse della ricerca: da un lato si cerca di lavorare non più su Web (per esempio: per anni si lavora sulle app) e d’altro canto si lavora sullo hardware, sui device (i fallimentari glass di Google valgono come metafora, la nanotecnologia applicata alla biologia sta sviluppando un salto che sarebbe impressionante, se già non fossimo all’interno di un colossale processo di adattamento). Ciò significa che si deve prendere atto di un’enfasi data al processo stesso, a svantaggio dei contenuti statici. Il testo è un contenuto statico? No. Tuttavia il testo esce dalla percezione collettiva: è noioso, è meglio distrarsi, a pochi importa della sua elasticità e dei suoi trascendimenti. Quando alcune persone si lamentano che oggi si legge di meno o che oggi i giovani non leggono, si sta in realtà denunciando lo scatto del processo, per cui il testo entra in una modalità di percezione che ne fa una nuvola, instabile e dinamica: una dinamica che non rientra negli algoritmi consueti. L’idea contemporanea di canone è algoritmica ed è ciò che si pensa di opporre agli algoritmi. Quanto allo scrittore, per come io percepisco questo catobleba artistico, è per me interessante questo: si tratta di uno sguardo linguistico. A me interessa: chi guarda? Non si tratta di un’inchiesta psicologica e nemmeno sociopolitica; però non è astrazione.

 

5) L’intromissione del privato quale conseguenze ha, a tuo parere, sui lettori? Lo scrittore perde l’autorevolezza che scaturisce da un rapporto fondato esclusivamente sulla lettura delle sue opere?

Non credo alla categoria dei “lettori” e alle tassonomie che ne derivano. Non credo nemmeno che sia possibile alcuna autorevolezza dello scrittore. E’ tutto molto fine Novecento. Sono enfasi anche queste, però residuali. Comunque non è un’interrogazione che mi interessa, quella attorno al ruolo dello scrittore e del lettore. Sono state impegnate valide menti e splendide analisi, che ritengo definitive, intorno a un paesaggio in cui si poteva porre la domanda sulle funzioni in campi disciplinari che erano all’altezza del tempo, sia pure non all’altezza della direzione di quel tempo, come mi pare che la storia abbia decisamente dimostrato. La questione, continuamente riproposta, delle categorie autorialità e fruizione non ha alcun senso per Dante (e sto citando un autore estremamente politico, tra le molte altre attribuzioni che possiamo fornire alla sua azione testuale ed esistenziale) o per Kafka. Sia in Dante sia in Kafka si danno appelli al lettore, ma non nel senso sociologico e direi strutturale che la domanda qui implica. Se poi si intende ragionare intorno allo scatenamento di certo narcisismo, che influenza e sostanzia i rapporti tra autore e lettore in questi anni, va detto che secondo alcuni riduzionismi e funzionalismi sembra non esistere più alcun disturbo primario del narcisismo, e secondo me hanno ragione: il narcisismo non è un disturbo, oggi, è invece proprio l’aria che si respira a queste latitudini, che sono geografiche e antropologiche. Mi pare che vada da sé che i rapporti sono rivoluzionati, le polarità sono trasformate. L’universo di riferimento è mutato: è un altro universo di senso.

 

6) Il circuito di Internet prevede l’equivalenza degli utenti in quanto produttori di contenuti, il che mette in crisi la gerarchia autore-lettore ponendoli sullo stesso piano nelle sedi online. Come interpreti tale rapporto, anche alla luce della tua esperienza su Facebook?

Non intendo contestare le analisi circa il general intellect, ma mi pare una falsa prospettiva: quali sarebbero gli utenti che producono contenuti? La questione degli UGC viene messa fuori gioco dallo sviluppo rapido del Web e dall’adattamento all’accelerazione che lo sviluppo tecnologico implica ovunque e sotto qualunque aspetto. Già nominare “contenuto” appare oggi un poco vintage, come direbbero le persone più giovani di me. Non è mai esistita questa attività di produzione di contenuti, anche perché il testo non è un contenuto – e però questa è una posizione che comprendo possa suonare provocatoria, essendo comunque personale. Non ho mai compreso nemmeno la distinzione gerarchica tra autore e lettore: o c’è il testo o il testo non c’è, io la vedo così. Emergono scritture in un tempo in cui le valutazioni sul testo mi sembrano molto vacue o, nel migliore dei casi, cautamente incerte. Sarebbe forse più opportuno cominciare a chiedersi chi stia facendo arte utilizzando la materia che è Facebook: modalità, rapporti, digitale, ritmi, algoritmi umani. E’ una questione che gli umanisti non hanno posto circa la televisione: chi ha fatto arte con la televisione? Nel caso se ne sia fatta, che arte era? Quanto poi al rapporto personale tra uno che ha scritto e pubblicato un testo, come posso essere io, e qualcuno che lo legge, anche se si tratta da un rapporto mediato da una scrittura che non lo è (attraverso commenti, o tramite lo sviluppo di subtestualità) – questo rapporto è un’epistolarità, una conoscenza in presa diretta, eventualmente in presenza fisica, più spesso a distanza. Non ha nulla a che vedere con la mia militanza. Il modello più efficace è Giap! di Wu Ming: creazione di dialettica attraverso rapporti reali sia cognitivi sia affettivi, in un momento che è al tempo stesso politico e artistico. E’ ciò che di meglio sia stato fatto nella storia del Web italiano.

 

7) Da tempo si dice che i social network abbiano aperto una nuova fase della storia del web letterario. Qual è la tua posizione a riguardo e come giudichi, in generale, la loro comparsa?

 Già faccio fatica a pensare al Web letterario, figurarsi se penso che esista elaborazione letteraria o intorno alla letteratura sui social J Credo che la domanda funzioni se si parla di “politico”. A me pare che le persone interessate alla letteratura, per come vedo che ne discutono sui social, possano domandare e abbiano tutto il diritto di ottenere una pedagogia all’altezza della testualità. Mi pare che pochi oggi abbiano un’idea complessa e stratificata, o un sentimento profondo, circa il testo. Il mio non è snobismo, ma nemmeno preoccupazione. Sono molto felice quando, postando una poesia di Milo De Angelis o dell’italiano Mario Benedetti, conto molti like o condivisioni: è bello, la pedagogia chiesta e ottenuta è questa, soltanto questa: è il testo.

 

 [Immagine: Facebook]

4 thoughts on “Scrittori e Facebook/4. Giuseppe Genna

  1. Ma perché Genna? Non ha già da più di vent’anni i suoi spazi per imperversare sul web?

  2. Giuseppe Genna è un autore straordinariamente importante. Qualsiasi suo scritto è di grande interesse. La difficoltà di lettura del linguaggio viene comunque compensata dallo comprensione, attraverso squarci illuminanti, di alcune sue fondamentali intuizioni. In questo articolo mi ha colpito – soprattutto e senza addentrarmi negli aspetti specifici – il suo porre in evidenza una percezione della realtà attuata ancora attraverso inadatte categorie di pensiero novecentesco. Sembra una ovvietà, ma l’ovvio è proprio quel che sempre principalmente ci sfugge. Mi ha colpito inoltre l’apparente ossimoro “prassi metafisica”, utilizzato, immagino, come paradosso essenziale.

  3. Correggo:
    “prassi metafisica” = “metafisica come prassi”

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