cropped-Tzvetan_Todorov-Strasbourg_2011_3-1.jpgdi Massimo Raffaeli

[Questo articolo è uscito su «Alias»]

Disse un maestro che l’etica è nient’altro che il nome privato della politica. Questo è vero in senso sia soggettivo sia oggettivo, stando alla eredità greco-latina: se infatti l’ethos dei greci è il comportamento (la sua coerenza, la sua aggettante nudità, senza iato tra il dire e il fare), già il latino mos rinvia al costume e dunque ad una tradizione iscritta nel senso comune (e si pensi al mos maiorum dove si cristallizza l’ordine più arcaico e intangibile della romanità). In ogni caso sulla diffrazione tra il significato e il valore dell’agire individuale e quelli della decisione e della azione collettiva si fonda da Machiavelli in avanti, tutti lo sappiamo, l’autonomia del politico. Ovvio, altrettanto, che laddove ogni legame sociale sia spezzato e ogni prospettiva di azione impedita o negata, l’etica subentri annunciandosi come l’unica parte visibile e praticabile. Perché di etica può vivere soltanto un presente rescisso dalla politica, l’insieme degli individui sottratti al legame sociale, di classe. La cosiddetta “fine della storia” di cui ci si compiacque al declinare della Guerra fredda è probabile non si augurasse altro se non l’eternità dell’atomismo sociale, con la sopravvivenza di individui che fossero tali fino in fondo, appena degli esemplari umani. Nell’antichità, all’esaltazione dell’uomo etico (non necessariamente un vincitore ma spesso uno sconfitto, un reduce) corrispondeva un genere letterario la cui retorica era codificata nella “etopea”. E a un presente disertato dalla politica affida oggi la sua corona di etopee Tzevan Todorov, linguista e storico delle idee, bulgaro di origine e francese di adozione, intellettuale di rango internazionale e di pluridecennale bibliografia, il quale firma Resistenti. Storie di donne e di uomini che hanno lottato per la giustizia (traduzione di Elena Lana, Garzanti, “Saggi”, pp. 221, € 17.00). Sono in tutto otto ritratti, dei veri e propri medaglioni di quanti hanno testimoniato dignità e coerenza sotto i regimi totalitari (il nazismo, lo stalinismo) o di oppositori di regimi più recenti ma comunque caratterizzati dalla disumanizzazione dei cittadini ridotti a schiavi o a sudditi passivi.
Scrive Todorov: “Di fronte all’ingiustizia, all’oppressione, al terrore, queste persone si oppongono senza ricorrere ad altrettanta violenza, senza rispondere al male con il male, ma spostando lo scontro su un altro terreno. In questo modo, sfuggono al manicheismo e al conflitto violento, al desiderio di annientare l’avversario: tentano anche di andare oltre l’imitazione degli altri e la rivalità nei loro confronti”. Costoro si chiamano Etty Hillesum, Germaine Tillion, Boris Pasternak, Aleksandr Solzenicyn, Nelson Mandela e Malcom X (cui si aggiungono, nell’ultimo capitolo, con una concessione forse troppo azzardata al presente, David Shulman ed Edward Snowden). Qui va detto subito che le etopee di Todorov sono ricognizioni svelte e riassuntive, stese con limpidezza, con spirito partecipe, ma mostrano una caratura complessiva che non le distingue troppo da accurate sinossiVi si evocano figure conclamate, notorie anche per il pubblico italiano ad eccezione forse di Germaine Tillion, l’etnologa che entrò Resistenza, fu deportata e nel dopoguerra non esitò ad impegnarsi in prima persona, con lucidità ed equanimità, nel conflitto che divideva la Francia tra pieds noirs e militanti del Fronte di liberazione algerino (come si può evincere dal bel volume complessivo Alla ricerca del vero e del giusto, a cura dello stesso Todorov, pubblicato in Italia da Medusa nel 2006). Ma che cosa tiene insieme, agli occhi dell’autore, fisionomie così ineluttabilmente differenti e così dislocate nello spazio e nel tempo? Che cosa ha da spartire Etty Hillesum, dolce e sororale nelle sue estreme lettere dal campo di Westerbork, con Malcolm X, l’ex militante del Black Muslims convertitosi in punto di morte al credo di una fraternità misericorde? Insomma, che cosa lega Nelson Mandela, la sua implacabile e astuta solarità, alla durezza cupa di chi invece scrisse Una giornata di Ivan Denisovic? Stralciando da biografie molto complesse e talora contraddittorie (è il caso di Solzenicyn ma anche di Pasternak) Todorov opera una reductio ad unum e risponde additando un valore, la compassione, che si coniuga all’assenza di risentimento: Etty, che in campo di sterminio si colpevolizza per il fatto di odiare i nazisti in quanto tedeschi, è simile a Mandela che teme e di fatto impedisce la vendetta dei neri sui bianchi non appena redento il Sudafrica. Per Todorov, essenziale è in tutti costoro l’assenza di risentimento o ciò che banalmente si chiama rendere il colpo: la magnanimità equivale per lui a una forma superiore, e necessariamente inattiva, del comprendere l’alterità nemica. Lo chiama più volte il rifiuto della logica che, nel conflitto, richiama le parti in causa quali “nemici complementari”. Benissimo, questa è una aperta rivendicazione dell’Illuminismo, peraltro già avanzata più volte nei recenti contributi di Todorov, da Lo spirito dell’Illuminismo (2007) a Gli altri vivono in noi e noi viviamo in loro (2011) cui si aggiunge una appassionata difesa del multiculturalismo. Ed è rivelatrice, al riguardo, la nota che l’autore aggiunge quando Resistenti è in bozze, all’indomani della strage nella redazione di “Charlie Hebdo”, dove si legge: “Gli attentati di Parigi hanno messo in luce un conflitto in atto tra numerosi paesi occidentali (nordamericani o europei) e individui emigrati dai propri paesi d’origine, oppure tra due segmenti di popolazione nei paesi occidentali. Certo, non possiamo meccanicamente applicare ai conflitti dei giorni nostri una lezione ricavata dal passato: tuttavia confrontarci con esso aiuta a riflettere sul presente”. Todorov sa a memoria quello di cui sta parlando proprio perché è stato il giovane in fuga dalla Bulgaria stalinista, poi l’allievo di Roland Barthes e lo studioso dei formalisti russi, quindi, grazie alla lezione di Bachtin, il grande intellettuale che a partire dal suo medesimo vissuto ha tradotto la dialettica della alterità nel capolavoro intitolato La conquista dell’America. Il problema dell’altro (1984). Infatti ogni pagina dei Resistenti, ogni suo esercizio di ammirazione, tradisce il terrore che il risentimento, la logica dei nemici complementari (i soldati o i droni contro le stragi, un qualche Patriot Act contro i tagliagole dell’Isis) rendano permanente quel che una sinistra e bugiarda metafora chiama oggi conflitto di civiltà. E tuttavia è come se Todorov, richiamando il credo dell’Illuminismo (e del multiculturalismo che ne consegue), ne scontasse subito e inopinatamente la dialettica. Certo, gli esempi di Mandela, di Germaine Tllion, della dolcissima Etty Hillesum sono ben degni di una accorata etopea come figure esemplari per cui non si ha vergogna a pronunciare la parola “eroi”: giusto è additarne l’esempio, onorarne la figura di testimoni e perciò di martiri, cioè di esseri tanto magnanimi da poter comprendere, alla lettera, la più nemica alterità. Ma comprendere per fare cosa? E con chi? E in che modo? Tutto lascia pensare, leggendo Resistenti, che il deserto della politica sia paradossalmente lo spazio in cui possano meglio rifulgere, qui-e-ora, le icone evocate da Todorov. Anche per questo è maledetto ogni paese che ha bisogno di eroi.

[Immagine: Tzvetan Todorov]

4 thoughts on “Todorov, l’etica senza politica

  1. Sono d’accordo con Massimo Raffaeli sulla messa in rilievo dell’esemplarità della contraddizione che attraversa le posizioni di Todorov e di tanta odierna e confusa etica democratica.

    Mi stupisco ogni giorno che la massa di poveri e di migranti scampata ai muri e alle stragi mediterranee sia nell’insieme, sotto gli occhi stizziti dei miei concittadini, pacifica pur nella palese e immensa disparità nel soddisfacimento dei bisogni elementari. Non diverso doveva essere nel ’44 lo sguardo dei polacchi rivolto ai deportati…

    Mi sembrerebbe più ‘naturale’ venire aggredito, più congruo in una logica darwiniana e anche di lotta di classe, che mi si strappasse il cappuccino di mano e poi il portafoglio di tasca. Invece, checché ne dicano Salvini e i leghisti, va quasi semrpe liscia, e non tanto perché stazionano qua e là mezzi mimetici dell’esercito e dialettali poliziotti “locali”….

    La sinistra marxista nel Novecento ha impugnato i bisogni radicali per un progetto emancipativo che andasse oltre le contraddizioni borghesi e le scissioni fra bourgeois e citoyens , fra uomo d’affari e uomo politico. La tragedia dello stalinismo, da cui Todorov fuggì, può essere criticata e compresa a fondo “da sinistra”, una sinistra dei Consigli (diciamo all’incrocio Serge e Rosa Luxemburg) . In Spagna, del resto, c’era anche il POUM e la sua storia tragica andrebbe studiata e riletta…

    Ma, se vogliamo più “moderazione” , e per ricordare altri “resistenti”, gentili ma non disarmati, anche Silvio Trentin o Leone Ginzburg o Vittorio Foa si contrapposero duramente al fascismo “da sinistra” rispetto agli stalinisti e ai socialdemocratici (numerosi) di casa nostra….

    Oggi da un ventennio almeno tutto questo è polvere o documento d’archivio. Ingoiato dai roboanti “libri neri”…E quasi sempre suscita risatine ciniche…

    Ma il dente della storia è più velenoso di quanto si possa pensare: e cacciata dalla porta la tragedia del conflitto radicale torna dalla finestra, mascherata. E l’illuminismo non basta a rischiararne l’ombra….

  2. Con tutto il rispetto per Todorov, i suoi “resistenti” e la loro magnanimità e anche se di comunisti non ce ne sono più in giro, preferisco ancora pormi e ripormi il problema etico come *premessa* del “che fare” politico. Anche quando nulla pare sia possibile fare (http://www.poliscritture.it/2016/02/29/che-fare-quando-nulla-pare-sia-possibile-fare/). E rileggermi, anche da solo, certe pagine del “superato” Fortini:

    “Lo so bene. Anche chi (o forse: soprattutto chi) sfruttamento, sopruso, violenza, oppressione di classe subisce da sempre, replicherebbe che, meno storie, è orribile e mostruoso (e quasi sempre inutile) ammazzare il prossimo, foss’anche un nemico. Ma tale sacrosanta affermazione procede, non è inutile ricordarlo, da un insegnamento religioso prima che da uno «umanistico». Un insegnamento che ebbe ed ha una sua precisa e complessa sistemazione (sottratta o laterale al potere e al sapere «civile») dei rapporti fra colpa originaria, natura vulnerata, confessione, pentimento, assoluzione, redenzione, divina promessa. Nel cristiano, il raccapriccio per l’assassinio, ha o dovrebbe avere, un fondamento che la tradizione umanistica e illuministica (kantiana, per intenderci) ha ereditato, mal celandone tuttavia l’origine, che è nella trascendenza; onde ha subito un secolo di critiche, da Marx a Nietzsche e a Freud e oltre e fino a noi, che non possiamo fingere inesistite. Ebbene, chiedere ai dissociati [mettete: agli immigrati, ai disoccupati, ecc.] di riconoscere che la democrazia è un valore assoluto non è molto diverso dal chiedere loro il «giuramento» proposto dal ministro della Giustizia o certe dichiarazioni o firme antiterroristiche che furono domandate o proposte qualche anno fa nell’ambito sindacale e di fabbrica. Con una differenza grandissima: che il cattolico collega coerentemente morale, religione e diritto e rimanda al Vangelo e alla dottrina della chiesa; mentre il comunista italiano [mettete: dei loro discendenti “democratici”] di oggi si è preclusa la possibilità di rinviare non solo ai testi e ai metodi marxisti ma persino a tutta una arte della riflessione sullo stato e sulla violenza che è all’origine della borghesia. […] credo di aver passato lo scorso trentennio, lo confesso senza pentimento, a imparare e insegnare partendo dal pensiero di Hegel, Marx, Lenin, Trockij, Gramsci, Mao, Lukàcs, Sartre, Adorno. Da costoro ho appreso che non si oltrepassano i criteri giuridici della società illuministico-borghese – con le sue guerre, ben peggiori dei gulag – senza una modificazione radicale dei rapporti di produzione e di proprietà. […]E se tali prospettive marxiste le consideriamo solo invecchiate, assurde, sporche di sangue e generatrici di intolleranza, di corruzione burocratica e di ospedali psichiatrici per dissidenti, benissimo, si torni allora allo stato di stretto «diritto»; ma vi si torni davvero, se mai è esistito, e ci si risparmino allora […] i sermoni sul «bene comune»

    (F. Fortini, Insistenze pp.223-224, Garzanti, Milano 1985)

  3. Non so, davvero vogliamo dire che quella di Mandela non è un’attività che si colloca nel campo della politica?
    Secondo me, se facciamo così, non riusciamo più a capire nulla. Agire socialmente per modificare la situazione, è fare politica e così o parliamo di una dimensione morale strettamente personale, o nel momento in cui diventa di dominio pubblico, mi pare si tratti pienamente di politica.
    Sarebbe ben strano che ci fosse un monopolio della politica da parte di un certo tipo di prassi. Ovviamente, non dico che il tipo di prassi sia equivalente e quindi indifferente, ma prassi ed obiettivi sono parte tra loro integrate dell’azione politica e come tali vanno commentate.
    In verità, non mi è per niente chiaro perchè l’autore sia così interessato a operare una distinzione che a me pare artificiosa. A me sembrerebbe piuttosto che come uomini siamo così in fondo animali politici che quando i mezzi e le modalità consuete con cui si esprime la politica non sono accessibili, troviamo comunque una via alternativa per soddisfare questo bisogno inalienabile.

  4. ANCORA SU TODOROV

    Per rincarare la dose di “antidoto fortiniano” all’eccesso di “coscienza religiosa”

    «Che cosa sia poi quell’uomo, quell’essere umano di cui parlate, quando a quello sia tolta la dimensione dell’azione comune per la solidarietà, la giustizia, la libertà e l’eguaglianza, io non riesco davvero a immaginarmelo. Che cosa è un uomo ridotto alla mera dimensione della interiorità morale? Ho dalla mia, per non nominare i massimi crstiani, Marx, Nietzsche, Freud e Sartre. Essi mi rassicurano: deve trattarsi di una canaglia. O di una vittima. E che cosa vogliono infatti da noi i custodi della eticità di stato, se non fare di noi delle canaglie o delle vittime? Se non si accetta che tra il momento politico e quello morale c’è una incessante tensione e implicazione reciproca, ne viene che l’unica alternativa polare al momento politico è la posizione religiosa. Manzoni lo sapeva. Ma proprio perché la sfera formale è intermedia fra il contingente e l’assoluto, fra la pratica e la voce dell’Altro è inevitabile che ogni partecipazione della coscienza religiosa alla “mondanità” faccia uso della mediazione della morale. Accade lo stesso anche quando al momento propriamente religioso si sostituiscano miti ideologici, sottratti ad ogni verifca, che si presentino magari come puramente “politici”. È impossibile sfuggire al momento morale. Ma guai a chi non ne avverte la precarietà, l’ambiguità, l’inganno latente»

    ( F. Fortini, «Non è solo a voi che sto parlando», in Disobbedienze II, pag. 38, manifesto libri, Roma 1996)

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