di Stefano Guerriero
[In forma parzialmente diversa, questo intervento è stato letto, il I febbraio 2016, al seminario Il Novecento tra due secoli, organizzato presso la Biblioteca Angelica dal liceo Virgilio di Roma, capofila di una rete per lo studio della letteratura del Novecento a scuola]
Parlare di quale letteratura del Novecento insegnare a scuola, in particolare nei licei, è l’occasione per riflettere sulle istanze schizofreniche che un insegnante cerca di armonizzare nel suo lavoro. Da un lato ci sono le Indicazioni nazionali riguardanti gli obiettivi specifici di apprendimento nei licei (2010), che con un approccio articolato e interdisciplinare indicano anche i “contenuti” di cui occuparsi. Dall’altro c’è la didattica per competenze, il nostro nuovo dio al quale adeguiamo o fingiamo di adeguare le pratiche scolastiche, senza troppo interrogarci sulla sua genesi misteriosa in seno all’Europa, sulla profonda ambivalenza del termine sospeso tra “saper lavorare” e “saper vivere”, sul nostro imbarazzante bisogno epistemologico di fondamenti, che ci fa correre in braccio al tecnicismo e allo scientismo.
Chi si occupa di letteratura si sente inferiore e colpevole rispetto a chi si occupa di lingua, si traveste nuovamente da scienziato, questa volta mettendo i panni del formatore e certificatore di competenze, per giustificare la propria attività, e non si rende conto che tutt’al più è un tecnico e che la didattica per competenze è qualcosa dalla portata ben più ampia: su di essa si fonda l’armonizzazione dei sistemi scolastici, universitari e di formazione europei. Mentre nelle scuole e nelle università si prende confidenza con la nuova didattica (e il nuovo didattichese), è poi in atto un riordino e una formalizzazione delle competenze necessarie nei diversi profili lavorativi, un riordino del repertorio delle professioni sempre più diversificate che sono richieste nel complesso mercato del lavoro europeo. La competenza diventa allora il trait d’union tra formazione e lavoro. È questo un percorso di aggiornamento e raccordo sicuramente necessario, ma che allo stato attuale desta almeno due perplessità: il dubbio che si stia tentando di costruire un fantastico pantografo per misurare l’uso corretto e la versatilità dell’intelligenza, e il rischio che in questa grande opera di misurazione ci si dimentichi del fatto che le scuole non sono luoghi solo di formazione, ma anche di educazione (e senza educazione, chi sa lavorare non troverebbe al termine della sua formazione un luogo civile in cui vivere).
Nel mio percorso partirò dalla questione di quali autori del Novecento studiare a scuola, per poi legarla al discorso sulle competenze.
Esiste di fatto, sancito dalla legge, un canone scolastico. Secondo le Indicazioni nazionali, nell’ultimo anno di corso, oltre a Leopardi, si devono affrontare le vicende della lirica in chiave europea, partendo da Baudelaire, quindi passare a Verga, Pascoli, D’Annunzio, Pirandello e Svevo (a parte i primi due nomi, l’elenco ricorda l’intramontabile Salinari: miti e coscienza del decadentismo). È da notare come gli estensori delle linee guida non ragionano qui né in termini di competenze né – cosa ancor più grave – di scuola, ma solo in termini di conservazione della tradizione letteraria. Pascoli e D’Annunzio per esempio, vanno studiati non perché – mettiamo – allargano la conoscenza dell’essere umano o fanno versi belli ma disonesti, ma piuttosto per “l’incidenza lungo tutto il Novecento delle loro voci, che ne rende imprescindibile lo studio”.
Comunque, dopo aver completato l’Ottocento, “dentro il secolo XX e fino alle soglie dell’attuale”, il percorso poetico liceale prevede “Ungaretti Saba Montale” – una sorta di primo livello del canone –, e a seguire altri come “(per esempio Rebora, Campana, Luzi, Sereni, Caproni, Zanzotto, …)” – tra parentesi, in panchina: canone di secondo livello. Il percorso narrativo comprenderà “autori significativi come Gadda, Fenoglio, Calvino, P. Levi” – ancora primo livello del canone –, e potrà essere integrato “da altri autori (per esempio Pavese, Pasolini, Morante, Meneghello…)” – panchina, secondo livello del canone.
Già così ci sono più autori nominati esplicitamente per l’ultimo anno che per il biennio precedente, che copre la letteratura dalle origini al Romanticismo, e per di più le linee guida chiudono seraficamente dicendo: “Raccomandabile infine la lettura di pagine della migliore prosa saggistica, giornalistica e memorialistica”. Il tutto naturalmente inserito in un complesso impianto storico, tenendo conto di tutte le possibili metodologie di studio e interpretazione (“l’analisi linguistica, stilistica, retorica; l’intertestualità e la relazione fra temi e generi letterari; l’incidenza della stratificazione di letture diverse nel tempo”) e facendo rientrare questa mole di materiali in una più ampia dimensione che mira all’acquisizione di competenze.
Raramente si riesce a costruire qualcosa che abbia difetti così antitetici: è come avere inflazione e deflazione contemporaneamente nella stessa congiuntura, l’incubo di qualsiasi banchiere centrale. È troppo ed è troppo poco. È troppo: quanti CFU varrebbe all’università un corso del genere? E soprattutto, quanto si può effettivamente fare di tutto questo?
Piccola nota a latere sui libri di testo: i manuali di letteratura per l’ultimo anno di liceo viaggiano intorno alle duemila pagine, cui di solito vanno aggiunti un volumetto specifico su Leopardi, il Paradiso di Dante e la parte online, che per legge i libri di testo devono avere (e che credevo fosse stata pensata anche per ridurre la corposità del cartaceo). Mi chiedo se in quelle irrinunciabili migliaia di pagine non venga predigerito tutto, comprese le mitologiche competenze, che magari stiamo già trasformando in contenuti, o peggio ancora in nozioni. Forse quel materiale dovrebbe far parte delle competenze dell’insegnante, più che essere propinato a tutti gli studenti paganti (il mercato librario scolastico costituisce attualmente un quinto del mercato complessivo del libro).
Al di là dello scempio di foreste che nonostante il digitale ancora facciamo con i nostri manuali, le indicazioni nazionali sono anche riduttive sulla letteratura del Novecento. È troppo poco perché mancano in poesia ad esempio Giudici (!), Bertolucci, Gozzano, Quasimodo, Noventa, Fortini, Rosselli, Raboni; Eduardo per il teatro; e ancora Brancati, Flaiano, Sciascia (!!), Manganelli, Parise, Bassani, Arbasino, Savinio, Landolfi, Volponi… E questo è un elenco minimo quasi casuale, che non tiene conto della raccomandata saggistica, si ferma agli autori che raggiungono la piena maturità più di trenta quarant’anni fa, restando lontano dalla “soglia del presente” di cui parlano le indicazioni: mancano nomi che per molti sono importanti e mancano anche gli autori di grandi opere come Conversazione in Sicilia, Il cielo è rosso, La ragazza Carla, Il dio di Roserio, Il Gattopardo, Kaputt… Eppure tutti potrebbero aspirare legittimamente quanto meno alla panchina della Nazionale italiana scrittori.
Non c’è spazio per tutto:[1] sarebbe opportuno pensare a ridefinire la scansione ufficiale, e questo non tanto per problemi di selezione dei singoli autori meritevoli, ma perché manca all’appello una parte fondamentale delle radici del presente, dei motivi per cui siamo quello che siamo. La vera emergenza è l’assenza o la scarsissima presenza di fatto nei programmi scolastici effettivamente svolti del secondo Novecento.
John Dewey osserva che l’unico modo per liberarsi dei sistemi scolastici che insegnano il passato come un fine in sé è non perdere di vista il presente. E a questo si può aggiungere che tenere insieme passato e presente serve a difendere l’esistenza di un futuro accettabile, e a quel futuro deve pensare la scuola (riflessione da fare sommessamente e con ironia, per non passar da retori o idealisti).
Di fatto l’insegnamento della letteratura a scuola propone ancora un canone nazionale (e credo che un autore entri nel canone nazionale solo se si riesce a insegnarlo a scuola). In fondo è necessario un certo numero di letture comuni a tutti, o meglio: è utile che tutti – tutti quelli che vivranno in un luogo, e per quanto possibile non solo chi frequenta il liceo, ma anche chi passa per istituti tecnici o professionali – partano, per quanto possibile, da un insieme di testi e autori comune, sia pure per dimenticarlo.
Persino Edward Said – il grande critico della rigidità del canone occidentale, che insiste sulla necessità della sua mobilità e negoziazione, sulla necessità che un ordine sia il più inclusivo possibile, altrimenti deve essere abbattuto –, persino lui riconosceva in tarda età un valore necessario al corso di Humanities, o Western Humanities, obbligatorio presso la Columbia University (Humanities, una sorta di canone occidentale, non di un solo paese: potrebbe essere una fonte di ispirazione anche per lo studio della letteratura in Europa, settore in cui il trattato di Schengen non è mai entrato in vigore).
Per costruire questo patrimonio comune, che non è ciò che rassicura la nostra identità, ma ciò che la articola, la rende problematica, in una prospettiva che naturalmente non può più essere quella ottocentesca, può bastare il canone che va da Dante al Romanticismo, magari con qualche ulteriore sforbiciata. Del resto, per chi non si occuperà per professione di letteratura, un canone in fondo è una lista di letture e conoscenze più o meno irrinunciabili (tra l’altro è necessario fare entrare in risonanza questo canone, questa tradizione letteraria con il nuovo pubblico che è già molto esteso in tecnici e professionali e inizia ad arrivare anche nei licei).
Per il secondo Novecento comunque, ritengo che non abbia ancora senso cercare di fissare un canone scolastico, pacificato, cristallizzato, sia perché gli autori importanti nell’opinione degli esperti sono ancora molti, troppi per essere insegnati a scuola, sia perché fissare punti fermi spinge a costruire vulgate, ipotesi che diventano mitologie e senso comune, perdendo la componente critica, la più importante, diventando pappa pronta scolastica, cibo predigerito, manuali di insegnamento per competenze…
Meglio in questo caso partire dall’idea di canone che propone proprio Said, ricordando il senso della parola in musica: esso “è una forma del contrappunto dove numerose voci si imitano l’un l’altra; una forma in altre parole, che esprime movimento, gioco, scoperta e, nel senso retorico del termine, invenzione.”[2] Il canone è una forma della polifonia, anzi in essa ci sono vari tipi di canone: diretto, inverso o per moto contrario, per aggravamento e diminuzione, finito, infinito o perpetuo, c’è persino un canone enigmatico…
L’unico canone da evitare è quello cosiddetto cancrizzante. Ne cito la definizione dalla garzantina della musica (da cui vengono peraltro anche gli altri nomi): “un canone in cui il conseguente riproduce esattamente anche nei valori di durata l’antecedente”. Il problema di un insegnante, quando parla di letteratura, è di presentare la propria materia a degli adolescenti come una materia viva e pronta per una riappropriazione guidata da obiettivi (spesso) extraletterari, e non come un deposito inerte e cancrizzato. Anche per questo trovo più interessante il canone polifonico di Said rispetto a quello rigido, degno in sé e per sé, ordinato, di cui parlano altri come Harold Bloom, un canone che in quel caso sembra un baule del tesoro, che basta aprire per diventare ricchi.
Seguire allora il contrappunto delle voci nel secondo Novecento può voler dire almeno due cose: insegnare le tensioni nel campo letterario (o meglio ancora tra il campo letterario e la realtà nei suoi molteplici aspetti: politica, economia, cultura, società, individuo); proporre una visione storica polarizzata, se è vero – come dice Adorno – che “le forme dell’arte registrano la storia degli uomini con più esattezza dei documenti”.
Si possono fare molti esempi di testi e autori adatti a parlare di queste tensioni, esempi che naturalmente non possono avere nessuna pretesa prescrittiva o canonica. Per primo il Pasolini poeta in lingua italiana (Le ceneri di Gramsci, 1957, Poesia in forma di rosa, 1964…), sicuramente migliore del narratore inspiegabilmente preferito nelle indicazioni nazionali, e forse anche più efficace a scuola del Pasolini corsaro. Al di là del suo effettivo valore, forse ancora soprastimato per effetto del suo mito e della sua mitologia, è sicuramente un autore da affrontare a scuola, perché ha una grande efficacia educativa, fa discutere e riflettere (a suo tempo, tutti hanno discusso con Pasolini): è nel cuore del dibattito intellettuale del suo tempo, scava nelle contraddizioni dell’epoca con il suo narcisismo, e soprattutto parla di un mondo reale e della sua personale tensione verso quel mondo reale, parla di passione e ideologia e dei rapporti tra passione e ideologia, parla di che cosa fare dei propri desideri, è vitale e fa i conti con i limiti della propria disperata vitalità.
Giovanni Giudici è un’altra scelta interessante. La vita in versi (1965), ad esempio, è uno dei testi che offrono lo sguardo più limpido e geniale sugli anni Sessanta: il suo autore centra i mutamenti radicali in atto, senza la delusione e l’indignazione dei suoi compagni di strada, descrive il boom come storici e sociologi non avrebbero mai saputo fare, permette di reintrodurre parole che sono erroneamente diventate desuete – come piccola borghesia, decoro – utili a comprendere passato e presente. Da un lato, il concetto di piccola borghesia contribuisce a spiegare le dinamiche di un secolo, che oggi è percepito dai giovani lontano come i secoli che lo hanno preceduto, dall’altro forse è utile a descrivere il presente più del concetto ormai menzognero e ideologico di “classe media”, dietro il quale molti di noi nascondono quella che è diventata la vergogna di non essere ricchi, nella nostra società sempre più sbilanciata.
Giudici inoltre ha una grande ironia e autoironia, dote da difendere in un mondo in cui tutti si prendono troppo sul serio, alimentando una pericolosa “ipertrofia del sé”. Contemporaneamente si solleva con facilità e con un lessico non difficile, con un “linguaggio democratico”, dalla mera contingenza storica, riflettendo sul senso stesso della poesia e della letteratura.
L’uso della letteratura in un contesto educativo – perché la scuola è un luogo di educazione, anche se si tende a dimenticarlo – sarà necessariamente diverso dall’uso che se ne può fare nei dipartimenti universitari di italianistica.
Nelle scelte dei testi, non ci si può nacondere dietro l’“innovazione profonda delle forme e dei generi” come unico criterio. Il solo valore artistico (su cui peraltro sappiamo che il giudizio muta nel tempo) non può essere il metro di cosa fare o non fare in classe. Anzi, il valore del contenuto può essere un grimaldello anche per fare apprezzare il “grande stile”, la perfezione formale. È più facile avvicinarsi a Zanzotto, poeta “orfico-sapienziale” per antonomasia, poeta “ctonio”, passando per una raccolta come Il Galateo in bosco (1978), e nel Galateo, per testi come
Rivolgersi agli ossari (che rimarrà nei manuali scolastici anche quando saranno sfrondati di tutte le pagine inutili).
Rivolgersi agli ossari. Non occorre biglietto.
Rivolgersi ai cippi. Con il più disperato rispetto.
Rivolgersi alle osterie. Dove elementi paradisiaci aspettano.
Rivolgersi alle case. Dove l’infinitudine del desìo
(vedila ad ogni chiusa finestra) sta in affitto
(…)
Quel rivolgersi agli ossari come ci si rivolge a qualcuno quando si è smarrito la strada, quell’“infinitudine del desio”, la cui bellezza desueta risalta tanto più perché legata alle prosaiche case dove viviamo in affitto la nostra vita mortale e desiderante, catturano facilmente l’attenzione. Gli ossari di cui parla – è notorio – sono quelli del Montello, luogo della Prima Guerra Mondiale e di composizione del Galateo di Della Casa, siamo nella patria e nel paesaggio del poeta. La linea degli ossari corre dall’Adriatico alla Manica, i confini degli stati europei corrono sulla linea di faglia degli ossari della Grande Guerra. Continua Zanzotto nella nota alla sua raccolta: “la questione è aperta, come quelle di tutti i boschi, vegetali e umani. E di tutte le stragi, guerre e sacrifici umani: resta l’intimazione a vederne la squallida inutilità e, a un tempo, di patirli a fondo, di ricomprenderli in totale connivenza, «perché possano esserne sventati altri nel futuro». Si fa per dire (mentre continua ogni giorno lo stillicidio del sangue); occorrerebbe fondare il partito del «vomito continuo».”
Un autore difficile da fare a scuola come Gadda può diventare più fruibile quando sui suoi testi si costruiscano dei percorsi che usino la sua opera per fini altri, piuttosto che presentarla come un monumento. Con brani del Pasticciaccio e della Cognizione si può riflettere sul principio di causalità e sulla sua evoluzione, magari avvicinandogli testi di un autore come Calvino, che a scuola ha fin troppo successo ma viene banalizzato (si possono prendere allora i racconti deduttivi, alcune città invisibili, la lezione americana sulla molteplicità…). Riflettere sulla causalità è tanto più interessante oggi che si sta affermando un nuovo modello di pensiero – pseudoscientifico anche quello –, che rinuncia al metodo scientifico tradizionalmente inteso, che rinuncia al principio della causalità in nome del principio di correlazione. Oggi va molto la nuova fede nel dio algoritmo che fa tutto senza che noi ci domandiamo perché, finché non muore in una bolla.
O ancora, nella saggistica di Brancati (“pagine della miglior prosa…”), così ibridata di narrativa, diario e autobiografismo, si possono trovare spunti per una riflessione su quella distinzione tra soggettività e oggettività, sicuramente da aggiornare ai tempi del digitale che si sovrappone alle reti sociali. Nella sua lucidità razionale si possono poi trovare gli antidoti al rischio di un certo sentimento di resa che pervade la nostra cultura. La miglior tradizione letteraria italiana, soprattutto novecentesca, propone una continua messa in guardia contro i limiti dell’intelligenza umana: qualcosa che può essere facilmente frainteso da un ragazzo e diventare un invito a buttare a mare tout court l’intelligenza, affidarsi all’istinto, alla pura vitalità. Brancati, uno dei figli più originali di Leopardi, ricorda che oltre i limiti dell’intelligenza esiste però la vera e propria stupidità; che per ogni intelligente che parla contro l’intelligenza, c’è un cretino che lo prende alla lettera.
Si tratta solo di esempi di come la letteratura possa essere usata impropriamente e proficuamente a scuola, esempi che permettono anche di ritornare alla più importante questione dell’intelligenza, del suo rapporto con le competenze, di quale spazio debbano avere la letteratura e lo studio della letteratura, che è un complesso esercizio di comprensione empatica, nel grande gioco – e grande mercato – della didattica per competenze e delle certificazioni (dentro il quale si stanno disponendo i sistemi educativi nazionali europei, secondo quella procedura “di haud mollia iussa”, di persuasione solo in apparenza gentile e non invasiva, sulla quale si fonda l’operato dell’apparato burocratico europeo).
Competenza è parola ambigua già nella sua etimologia: competere in latino, prima che competere con qualcuno o essere adatto, significa incontrarsi.
E la stessa ambiguità ritorna nell’uso del termine in ambito europeo: si parte con la strategia di Lisbona del 2000, quella dell’Europa come economia della conoscenza, nella quale si parla genericamente di competenze per vivere e lavorare nella società della informazione o società dei saperi (interessante l’uso sinonimico di informazione e saperi). La preoccupazione principale è quella dell’alfabetizzazione informatica, nell’illusione che la sopravvivenza dell’Europa dipenda solo dall’essere competitivi nei settori produttivi più avanzati, nell’illusione forse che il continente diventi una grande colonia a cielo aperto di colletti bianchi e di tecnici, che anestetizzi la lotta di classe, in nome della competizione globale, che si occupi di uno spirito (le conoscenze), asettico e libero dall’ingombro dei corpi e della carne.
Tale impressione negativa viene però ampiamente smentita dalle Raccomandazioni del Parlamento e Consiglio europei del 2006, che elencano le otto competenze chiave per l’apprendimento permanente. Tutti gli insegnanti le conoscono per averle ricopiate nei loro POF, PTOF e programmazioni individuali, ma merita ricordarle: 1) Comunicazione nella madrelingua; 2) Comunicazione nelle lingue straniere; 3) Competenza matematica e competenze di base in scienza e tecnologia; 4) Competenza digitale; 5) Imparare a imparare; 6) Competenze sociali e civiche; 7) Spirito di iniziativa e imprenditorialità; 8) Consapevolezza ed espressione culturale.
Neanche Borges sarebbe riuscito a fare un elenco così eterogeneo e strampalato, comunque ci sono veramente molte cose bellissime, anche solo questo nudo elenco fa intuire che dietro c’è una qualche idea di convivenza e di civiltà. L’unico motivo di perplessità qui è che in qualche modo si presuppone di poter misurare queste cose e per alcune di esse forse non è possibile. Come è noto, anche Sant’Agostino aveva problemi di misura in un celebre libro delle Confessioni, in cui riflette sul concetto di tempo. Dati tali problemi, Agostino rinuncia alla misura per non perdere il suo oggetto, e così facendo fonda la riflessione occidentale moderna sul tempo. Alcune cose non sono misurabili, pena la loro perdita: ritengo che nella scuola alcuni spazi debbano essere salvaguardati dalla misura (alcuni non tutti: è giusto rendere più efficiente la scuola, non è giusto renderla solo efficiente).
“Considerando filosoficamente l’inutilità quasi perfetta degli studi fatti dall’età di Solone in poi per ottenere la perfezione degli Stati civili e la felicità dei popoli, mi viene un poco da ridere di questo furore di calcoli e di arzigogoli politici e legislativi; e umilmente domando se la felicità de’ popoli si può dare senza la felicità degl’individui. I quali sono condannati alla infelicità dalla natura, e non dagli uomini né dal caso: e per conforto di questa infelicità inevitabile mi pare che valgano sopra ogni cosa gli studi del bello, gli affetti, le immaginazioni, le illusioni. Così avviene che il dilettevole mi pare utile sopra tutti gli utili”. Le idee, con cui Giacomo Leopardi corteggia la bella e intoccabile (almeno per lui) signora Targioni Tozzetti, conservano tutta la loro attualità.
Tornando ai documenti programmatici che guidano l’azione degli insegnanti, il problema però è che queste competenze bellissime raccomandate dal Parlamento e dal Consiglio europei, scompaiono dal Quadro europeo delle qualifiche per l’apprendimento permanente (EQF), ratificato nel 2008. Il Livello 5 del Quadro, quello che corrisponde alla conclusione della scuola secondaria superiore, prevede il conseguimento a) di una “conoscenza teorica e pratica esauriente e specializzata, in un ambito di lavoro o di studio e consapevolezza dei limiti di tale conoscenza”; b) di “una gamma di abilità cognitive e pratiche necessarie a risolvere problemi specifici in un campo di lavoro o di studio”, e per le competenze prevede il “sapersi gestire autonomamente, nel quadro di istruzioni in un contesto di lavoro o di studio, di solito prevedibili, ma soggetti a cambiamenti” e saper “sorvegliare il lavoro di routine di altri, assumendo una certa responsabilità per la valutazione e il miglioramento di attività lavorative o di studio”…
In questo trionfo dell’iperonimo e della finta precisione scientifica, non c’è un posto per l’insegnamento specifico della letteratura. Non si riesce a intravedere l’anima dell’autore di questo quadro. Non si vede neanche l’Europa, o almeno un’idea di Europa.
I documenti europei sono molti, i fini sono in parte diversi, ma la scomparsa degli elementi di civiltà e di comunità impliciti nelle Raccomandazioni del 2006 dà comunque da pensare (ci si chiede se per l’Europa la cultura che insegniamo a scuola debba essere qualcosa che ha valore in sé o l’ornato da apporre a un mondo che segue altre regole).
Se nell’EQF non c’è nulla su letteratura e Europa, c’è però un interessante lapsus, dove si parla della “consapevolezza dei limiti di tale conoscenza”. L’espressione viene usata probabilmente per sottolineare la necessità di passare ai livelli di qualifica successivi (laurea breve e specialistica), di salire di livello, come nei videogiochi, ma fa involontariamente pensare a un pensiero – questo sì dotato di anima –, che è quello di Edgar Morin, in cui è più facile trovare un posto per la letteratura del Novecento e non solo.
Osserva Morin: “È sorprendente che l’educazione, che mira a comunicare conoscenze, sia cieca su ciò che è la conoscenza umana (…), sulle sue propensioni all’errore e all’illusione, e che non si preoccupi affatto di far conoscere che cosa è conoscere”.[3] La bellezza e la potenza delle parole usate (educazione, cecità, conoscenza, errore, illusione…) risalta ancora di più vicino ai tecnicismi delle direttive europee, vicino al cuore troppo pallido dei burocrati europei.
E ancora: “l’insegnamento dovrebbe comprendere un insegnamento delle incertezze (…) Bisogna apprendere a navigare in un oceano d’incertezze attraverso arcipelaghi di certezza”.[4] La letteratura, che è una miscela di illusione e disinganno, di desiderio, ritorno del rimosso e formazioni di compromesso, di immaginario e razionale, è uno strumento ideale per insegnare i limiti della conoscenza e dell’agire umano. Conoscere i limiti permette di superare l’incomprensione di sé che è una fonte dell’incomprensione nei confronti degli altri. Tra le molte parole importanti che Morin usa, ce n’è una che è completamente sfuggita alle tassonomie europee e nazionali: comprensione. Forse perché non è quantificabile, nella nostra vertigine classificatoria, tra conoscenze, competenze, abilità, attitudini, skills, certificazioni, non c’è. Eppure è l’unica che può dare un senso non solo all’insegnamento della letteratura, ma al lavoro stesso di insegnante e a ciò che si fa a scuola. Ed è una parola che è necessario iniziare a ricordare – dal basso – a una comunità europea che sembra occupata soltanto dall’esigenza di funzionare a ogni costo, senza porsi la questione di quale è l’obiettivo per cui funzionare.
[1] Non si rimedia più di tanto facendo leggere narrativa del Novecento italiano negli anni precedenti l’esame, spesso anzi questo serve solo a disamorare alla lettura, mentre le stesse indicazioni nazionali giustamente sottolineano che “il gusto per la lettura resta un obiettivo primario dell’intero percorso di istruzione”. Dipende da molti fattori, e sicuramente non è vero in alcuni casi, ma in linea di massima, se io faccio leggere i romanzi di Pasolini o opere simili in quanto letteratura novecentesca, ammazzo generazioni di lettori, senza contare che con le letture è necessario dare non solo un’idea di Italia ma un’idea d’Europa e di mondo.
[2] Edward W. Said, Umanesimo e critica democratica, il Saggiatore, Milano 2004, p. 54.
[3] Edgar Morin, I sette saperi necessari all’educazione del futuro, Cortina, Milano 2001, p. 11.
[4] Ivi, pp. 13-14.
[Immagine: Biblioteca pubblica di Stoccarda (gm)]
Grazie davvero, un intervento importante. Non c’è che da condividere sia quanto detto a proposito del canone del Novecento, sia quanto detto a proposito dell’ambiguità delle competenze (molto bella l’immagine del “fantastico pantografo per misurare l’uso corretto e la versatilità dell’intelligenza”: mi pare che il problema stia proprio qui, nell’hybris tecnocratica che pretende che lo strumento di misurazione possa contenere la realtà in cui in realtà è contenuto, quel “progresso scorsoio in cui non so se vengo ingoiato o se ingoio” di cui scriveva l’ultimo Zanzotto).
Mi permetto solo due chiose, la prima sciocca, la seconda più seria.
1) Il fatto che gli ampliamenti digitali dei manuali non abbiano affatto ridotto la mole del cartaceo dipende, credo, da una precisa (e saggia, aggiungo) scelta delle case editrici. Ridurre la parte di manuale su cartaceo avrebbe di fatto obbligato o a dotare tutti gli studenti di tablet o lettori ebook, o, in assenza di questi, a vedere consumate le cartucce delle stampanti domestiche, con smadonnamenti vari da parte dei genitori, per la spesa, e dei docenti, per i materiali non portati a scuola, persi in fogli volanti, ecc…
Noi di fatto continuiamo a usare i manuali cartacei in classe, ricorrendo solo talvolta alle parti digitali. Non è detto che sia un male, perché, se leggere sul digitale una poesia o un romanzo è quasi indifferente rispetto al cartaceo (quasi), studiare invece non lo è affatto: ed è molto meglio avere sotto mano la carta, su cui sottolineare e scrivere. In Rete si possono fare un sacco di altre cose.
2) Credo che le Indicazioni nazionali per l’italiano (volendo, a complicare le cose, comprendere anche la lingua e non solo la letteratura) non siano solo contraddittore (inflazione e deflazione insieme, come scrive Guerriero), ma, di più, ipocrite. Di fatto sono, o almeno a me paiono, un’enciclopedia impossibile della tuttologia, in cui non si è potuto o voluto rinunciare a niente: l’elenco delle conoscenze, competenze, approcci, tagli e prospettive sulla letteratura è già stato fatto da Guerriero per cui la faccio breve, anche se si potrebbero aggiungere numerose altre richieste.
Ora, anche immaginando che esista un insegnante che sappia padroneggiareegli per primo tutto ciò, non avrebbe né il tempo né la possibilità di usare le Indicazioni nazionali.
In sostanza dunque, è come se noi lavorassimo quotidianamente A PRESCINDERE o NONOSTANTE le Indicazioni nazionali, che stanno là, inutili nel loro iperuranio.
Può sembrare un problema da poco, derubricabile a semplice ottusità burocratica ministeriale, di cui ci sono migliaia di esempi nelle circolari. Io invece credo che si tratti di un problema serissimo e gravissimo di scissione tra teoria e prassi, che non coinvolge solo la scuola, ma la struttura stessa dei saperi, per cui oggi, per gli insegnanti, non sembra più valere il principio nemo tenetur ad impossibilia.
errata corrige: “padroneggiareegli per primo” “padroneggiare lui per primo”
Vorrei ricordare, a proposito di queste tematiche, il bel libro di Azar Nafisi, La repubblica dell’immaginazione.
In questa opera affascinante l’autrice critica con parole severe l’impostazione aridamente tecnicistica della didattica americana e sostiene l’importanza di incoraggiare negli allievi e nelle allieve lo spirito critico e l’immaginazione.
Se si è d’accordo su questo, direi che la questione del canone diventa secondaria. Tra gli autori e le autrici consigliate, ed anche altri o altre (ad esempio, come possiamo in Sardegna ignorare la suggestione che potrebbe derivare dai romanzi di Grazia Deledda o di Sergio Atzeni?), si troveranno di sicuro le pagine, in prosa o in versi, adatte a risvegliare non solo lo spirito critico e l’immaginazione, come consiglia Azar Nafisi, ma anche il puro piacere della lettura.
Per questo mi sembra utile, come sostiene Daniele Lo Vetere, usare il libro tradizionale ed anche frequentare la biblioteca scolastica (e non solo). Credo che sia molto bello per un/a giovane accedere ai libri negli scaffali, toccarli, sfogliarli e sceglierne uno da leggere seguendo il proprio gusto, magari anche soltanto perché ha un bella copertina. Se poi non rientra nel canone, pazienza.
Insegno da tanti anni nelle scuole superiori, i ragazzi sanno tutto di Giolitti, del crack della Banca di Roma, di Crispi, e così via, ma sanno poco o nulla del conflitto arabo israeliano, dell’attentato alle Torri Gemelle, della guerra del Golfo, o per restare in Italia, delle stragi di Mafia tra il 92 e il 93.
Cosa c’entra tutto questo con l’intervento di Guerriero, quello che accade con l’italiano succede pure con la storia, in pratica nella maggior parte dei casi i docenti insegnano quello che hanno studiato all’università, ovviamente ci sono eccezioni di insegnanti che leggono anche autori contemporanei, ma sono eccezioni. Per cui il mio suggerimento è che si dovrebbe partire dall’università e magari avviare un serio aggiornamento professionale.
Intervento molto ricco e interessante, grazie.
Parlo da “incompetente”, perché non insegno letteratura italiana, ma filosofia e storia. Credo però che la soluzione del complicato rebus sia, pragmaticamente, in questi due atteggiamenti: sul lato delle competenze, cercare di darne una interpretazione interna alla propria disciplina, senza prendere troppo alla lettera i documenti ufficiali; sul lato dei contenuti, abbandonare l’idea di esaustività e di continuità, che ci rovina, nelle materie di impianto storico, e scegliere invece pochi autori su cui lavorare in profondità, anche nel novecento, e dai quali “irradiare” verso altri autori. Ma in ogni caso lasciar perdere l’idea che si deve fare tutto, o anche molto.
Concordo pure io con Mauro Piras e non posso che citare di nuovo il saggio di Pier Vincenzo Mengaldo “Contro le storie della letteratura”, in particolare la sua critica di una visione cronologica “dal prima al poi” della letteratura e la sua pars construens:
http://www.mondadorieducation.it/media/contenuti/universita/scrivere_universita_biblioteca_digitale/pdf/PDB%2016.pdf
” la Storia della letteratura italiana come concepita finora induce un’idea troppo lineare e monodirezionale del tempo (sempre concepito come unitario) entro cui si svolgono i fatti letterari; sappiamo invece che per questi come per ogni evento storico, o serie, si mescolano linearità e ritorni all’indietro, circolarità; quanto al tempo in sé, quello di Petrarca non è quello dei suoi contemporanei, né lo è quello di Leopardi.”
“La Storia (esaustiva) della letteratura italiana va a mio parere abolita e sostituita, ferma restando, ma snellita, la lettura di buona parte della Commedia, dalla ulteriore lettura approfondita, lungo i tre anni delle superiori, di una serie di grandi classici − e, attenzione, solo di questi, non è il caso di sprecare − intorno ai quali si può e deve ricostruire il necessario clima storico e anche, per cenni più o meno insistiti, il clima letterario («fonti» e magari derivati, correnti o tipi letterari implicati, testi con cui sia utile un confronto differenziale ecc.). […] Due precisazioni: a) invece che entro un classico si potrà ben leggere entro una corrente, purché poeticamente
e culturalmente istruttiva (mettiamo lo Stilnovo); b) non ci dovrà essere legge che vieti di affrontare anche classici stranieri, s’intende in traduzione, che comunque danneggia assai meno un testo narrativo che uno di poesia; e poi, si ricordi bene, forse che non leggiamo Dante, in gran parte, in un modo che assomiglia da vicino alla traduzione?”
La mia impressione è che sarebbe ideale una didattica di una lettura di al massimo 5 classici all’anno (e, come dice Mengaldo, ciascuno di questi classici può essere non solo un romanzo o comunque un’opera unitaria, ma anche un’insieme di opere brevi, come le poesie dello Stilnovo o i racconti di Edgar Allan Poe). L’importante è che siano tutte opere integrali, per evitare che alla fine lo studio della letteratura sia in gran parte tutt’altro, ovvero lo studio del contesto storico o la biografia dell’autore. Occorrerebbe poi proporre molti esercizi su cosa quel testo può dirci a noi lettori di oggi e anche lavori sulla comparazione di più testi (esercizi che in tal modo evitano lo studio come ripetizione passiva di informazioni apprese in precedenza).