cropped-Copertina-2.jpgdi Daniela Brogi

C’è un bellissimo film, uscito nel 1941, che a distanza di settantacinque anni continua a offrirci varie possibilità di riflessione creativa, non solo in senso cinematografico, sui poteri e sulle scelte che ci assumiamo quando si decide di raccontare una storia. Il film è Sullivan’s Travels (I dimenticati), l’ha diretto Preston Sturges, e la vicenda messa in scena, nelle sue linee essenziali, è questa: John Sullivan è un regista americano di successo, ma a un certo punto si convince di smetterla con le commedie, per realizzare invece un progetto più etico e più impegnato: un film drammatico e realista, intitolato Fratello dove sei?, dedicato alla grande crisi e alla popolazione in miseria. Per conoscere meglio questa realtà, John comincia a vivere da barbone. Al termine del suo viaggio inchiesta, nel corso del quale è iniziata anche una storia d’amore con un’aspirante attrice, John decide, prima di abbandonare il travestimento e ritornare nel proprio mondo, di andare in giro a donare un po’ di soldi; ma viene derubato da un balordo che poco dopo morirà sotto un treno, con addosso le scarpe e i documenti di John. Dato dunque per morto, il regista rimane sul lastrico e senza meta, e resta coinvolto in una rissa; arrestato e processato, sarà condannato a sei anni di lavori forzati – nessuno crede alla sua vera identità. Durante la galera, una sera si svolge una proiezione cinematografica e John resta strabiliato dalla scoperta di quanto i suoi compagni di carcere ridano e si divertano guardando un cartone animato di Mickey Mouse, e di conseguenza capisce che le persone disperate, forse anche più di tutte le altre, hanno bisogno di storie divertenti:

E così John, quando finalmente riuscirà a fuggire e a dimostrare la sua vera identità, sceglierà di tornare a girare commedie che facciano ridere la gente.

L’opera dei fratelli Coen dialoga da sempre con la poetica di Sullivan’s Travels e con il suo tema di fondo, vale a dire con l’idea per cui la più grande risorsa del cinema è quella di farci avere fede nel potere di una storia: nella sua capacità di appassionarci, di farci sognare, anche di illuderci. Perché il pubblico non vuole i fatti: la gente vuole credere.

Del resto, O Brother, Where Art Thou? (Fratello, dove sei, 2000), che tra l’altro rievoca la narrazione occidentale più ammaliatrice di tutte, l’Odissea, è un film intitolato esattamente come avrebbe dovuto chiamarsi anche il lavoro che l’eroe di Sullivan’s Travels voleva girare sulla Grande Depressione; sempre in Fratello, dove sei? i protagonisti, dei galeotti, a un certo punto vanno al cinema, come nel film di Sturges; e pure Barton Fink, lo sceneggiatore di Hollywood (John Turturro) protagonista dell’omonimo film dei Coen (1991), si consuma dall’ansia di scrivere una storia impegnativa, nel momento stesso però in cui, davanti al terrore della pagina bianca, si sprofonda nella promessa di felicità di quell’immagine incorniciata appesa alla parete sopra la macchina da scrivere e ripresa in chiusura del film:

1

2

Ma forse è proprio Ave, Cesare! – l’ultimo film, adesso in sala, e di nuovo interpretato da George Clooney -, l’opera che più di tutte mette in scena un omaggio al cinema come lanterna magica capace di farci rivedere il mondo oltre l’arcobaleno, di farci dimenticare di noi stessi. Per farlo, Hail, Caesar! sceglie come ambientazione l’epoca d’oro di questa avventura, cioè la Golden Age di Hollywood, la grande stagione dei kolossal e dei successi mondiali tra gli anni Quaranta e Cinquanta del Novecento.

Da sempre i Coen si servono del grottesco, rovesciano il rapporto tra realtà e apparenza, tra serietà e finzione, per restituirci, dopo che hanno svuotato e ridato vita al clichè, una storia nuova, magari capace di parlare dei destini di un mondo intero, come succede nell’epos, attraverso personaggi bizzarri, trasognati, malinconici, tonti, idioti. La sceneggiatura, la regia, la recitazione, il montaggio, il sonoro, i costumi: tutti i livelli del linguaggio cinematografico fanno un uso creativo del paradosso, se ne servono per sganciare l’oggetto del racconto dalla retorica che ormai si porta dietro, e per restituirgli, invece, nuova attenzione e capacità comunicativa attraverso uno sguardo deviato, straniante.

Ave, Cesare! ha un intreccio così debole che, in un certo senso, potremmo arrivare a dire che non ha una storia, non è una storia, bensì una giostra di situazioni tenute insieme da due cerchi narrativi. Il primo, che chiude l’inizio e il finale in un giro perfetto di trecentosessanta gradi, consiste nella vicenda di Eddie Mannix, che entra in scena con una postura e un gioco di luci e ombre tipici da film noir e che, se non fosse per il colore, quasi ci avrebbe preparato all’arrivo di un nuovo Humphrey Bogart con la sigaretta a mezza bocca; ma l’umorismo dei Coen è già pronto a bucare le nostre previsioni e a ricomporre tutto un altro sguardo, perché in realtà siamo in una Chiesa, e in particolare all’interno di un confessionale, dove Eddie (Josh Brolin), che è un cattolico fervente, tornerà due volte, a distanza di ventisette ore, per confessare niente meno che: la sua incapacità di smettere di fumare! La seconda situazione narrativa paradossale che dà occasione e tenuta al racconto nasce dal lavoro di Eddie, modellato sul vice presidente leggendario della Metro Goldwin Mayer – la casa di produzione dei divi, come spiega Billy Wilder nella sua autobiografia scritta da Hellmuth Karasek (Mondadori, 1993). Eddie, difatti, è un fixer, vale a dire una specie di incrocio tra un direttore di produzione, un capo ufficio stampa e un detective; è un agente speciale che sorveglia e garantisce il funzionamento della macchina della Capitol Studios, passando tra i vari set per porre riparo, per così dire, ai peccati degli altri, controllando l’insorgere di terribili e reconditi sospetti o impedendo l’esplosione di scandali (per esempio, la circolazione di foto osé, la notizia di gravidanze extramatrimoniali, o di relazioni omosessuali). In particolare, Eddie dovrà risolvere il misterioso caso del rapimento di Baird Whitlock (George Clooney) una star famosa per i Biblio e i Peplum Movies, vestito da centurione perché impegnato nelle riprese del film Hail, Caesar! A Tale of Christ (il sottotitolo è il medesimo di quello veramente usato per Ben Hur, nel 1955). Man mano che andremo avanti, scopriremo che Baird è stato rapito, per ottenere un riscatto, da una banda di sceneggiatori comunisti aiutati da un altro divo, Bert Gurney, famoso interprete di tip tap.

La storia di Eddie e quella del rapimento di Baird tengono insieme un carosello di passaggi da un set all’altro degli Studios, dove intanto si stanno girando, al ritmo furioso di produzione dell’industria del cinema di quegli anni, i generi di film più spettacolari e famosi dell’epoca: il peplum movie; la commedia musicale (con un bravissimo Channing Tatum che balla vestito da marinaio come Gene Kelly in Due marinai e una ragazza, 1945, e in Un giorno a New York, 1949); il musical “nuotato” (con Scarlett Johansson che fa rivivere il mito di Esther Williams nelle coreografie acquatiche di Bellezze al bagno, 1945); il western – dove Alden Ehrenreich interpreta un cowboy completamente incapace di recitare che raggiungerà effetti di grottesco umorismo quando la produzione decide di fargli interpretare una commedia romantica (assomiglia un po’ ai lavori di George Cukor) diretta dal maniacale regista Laurence Laurentz (Ralph Fiennes). Ecco, infatti, cosa accade:

Ma, come molte altre, questa scena, diretta e interpretata così perfettamente, spiega anche come Hail, Caesar!, rischiando pure di tanto in tanto di esagerare, si serva del registro mimetico spinto fino al caricaturale non per svalutare il modello di partenza ma, al contrario, per restituirgli, per via del paradosso, un valore aggiunto di ritorno. È così, per esempio, che George Clooney, mentre interpreta il personaggio di un attore incapace di ricordarsi la parte fino in fondo, in realtà ci consegna la sua più grande prova d’attore: quella di un monologo ai piedi di Cristo Crocifisso che non riesce mai, e che deve terminare proprio sul termine «fede». Verso questo medesimo effetto di iperrealismo che produce una passione raddoppiata per l’oggetto su cui si fa ironia va anche la scena della montatrice (Francis McDormand) che rischia di morire strozzata dal foulard impigliato nella moviola; o l’attore rimasto sulla croce mentre la troupe è in pausa pranzo; o il personaggio che va all’assalto della luna buttandosi nella cisterna in cui la luna si rispecchia. «Tu hai un valore se servi al film!» griderà Eddie mentre prende a schiaffi Baird. In questo film così affollato di spunti e rimandi sulla fede (quella cattolica, protestante, ebraica, ortodossa evocata dal dibattito teologico; quella del denaro dell’industria del cinema; quella del comunismo sovietico) l’unica fede, la sola vera luce eterna che Hail, Caesar! fa resistere e trionfare, sotto forma dell’amore incondizionato che le si rivolge, è la fede riconoscibile come la più falsa, ma che, proprio per questo, rimane la più vera di tutte, quella in cui continuiamo di più a voler credere: la fede nelle illusioni del cinema.

[Joel e Ethan Coen, Ave Cesare, 2016 (db)]

2 thoughts on “La commedia delle illusioni umane: Ave, Cesare! (Hail, Caesar!, Joel e Ethan Coen, 2016)

  1. Durante lo spettacolo In carcere il protagonista è il solo che cerca di resistere: per non ridere come un bambino come fanno invece gli altri detenuti davanti alle goffe e cocciute piroette di Pluto. Poi cede al piacere del riso e si lascia andare al “potere delle illusioni”. La scena è assai emblematica. Riguarda il piacere delle finzioni. Riguarda anche, tuttavia, le specifiche modalità della domanda e offerta di intrattenimento e spettacolo di massa…Quel carcere è allegoria della fruizione estetica allargata e il protagonsta è allegoria dell’intellettuale…

    E, tuttavia, non solo piacere ma anche riflessione è stata chiamata a restituirci l’arte: e forse, anche, un compromesso e un confltto insanabile tra questi due opposti vettori. Creedo insomma occorra distinguere, e distinguere non significa di necessità trattare l’industria hollywoodiana di metà Novecento con le sole categorie di Adorno.

    Rimanendo al riso: per indicare ciò che fa ridere in letteratura si parla indifferentemente di comicità, di spirito, di arguzia, di umorismo. Tuttavia, nel passaggio fra Otto e Novecento si producono le opposte teorie sul riso che ancora oggi appaiono determinanti per produrre conoscenza e distinzione: Le rire di Henri Bergson (1899) e Der Witz di Sigmund Freud (1905). La chiave di lettura di Bergson è pressoché opposta a quella impiegata da Freud. Il fondatore della psicoanalisi infatti ravvisa nel Witz qualcosa di simile a ciò che aveva già descritto nelle forme del sintomo, del lapsus e del sogno. Il Motto tuttavia, a differenza delle altremanifestazioni dell’inconscio, è un’ istituzione, una convenzione sociale: a partire da questa prima differenza, è possibile mettere a punto una terminologia di riferimento e una triade di distinti concetti: comicità, Witz e umorismo. Per Bergson, invece, il riso si produce come antidoto alla rigidità: s è visto come un sano castigo. Bergson ricorre infatti al termine souplesse e utilizza “rigido” e “flessibile” : in Le rire si passano in rassegna le molte forme del rigido riconoscibili in una pluralità di gesti, discorsi e atteggiamenti mimici e la commedia risulta in tal modo la forma artistica più vitale e vicina alla vita.
    Per Freud il motto di spirito, al contrario della comicità, è assolutamente artificiale, non si dà in natura: per Freud il segreto del riso provocato dal Witz risiederebbe nell’allentamento di freni, nel rilassamento conseguente alla regressione a logiche e a usi della parola da lungo tempo superati perché infantili. Se, grazie alla convezione che presiede al Motto, si accettano forme di pensiero infantili che la vita adulta ha ripudiato, il piacere di questo rilassamento sarebbe provocato proprio da questa felice, temporanea e autorizzata regressione.
    Vi è inoltre nella modernità una forma umoristica del riso più filosofica e “artificiale”, quella teorizzata da Pirandello nel suo celebre saggio del 1908: conseguente cioè a una sorta di disposizione vigile, decostruttiva, critica e “militante”. E’ questa disposizione sospettosa quella più vicina allo straniamento proposto da Brecht.

    Se oggi, nell’egemonia dello spettacolo permanente , ogni insistenza sulla natura univocamente alternativa, contestativa o libertaria del comico rischia di affogare nella banalità , una più oculata considerazione dei difformi modi di ridere in letteratura mi induce a privilegiare, nell’interpretazione, la contraddittorietà dei significati, la coesistenza conflittuale di istanze opposte. Non a caso, mentre i motti di spirito più semplici o “innocui” producono in chi li ascolta un effetto di piacere moderato, i motti più elaborati o tendenziosi diventano poderose fonti di piacere e ottengono un successo irresistibile, attestato dalle esplosioni del riso nei destinatari. Come questi motti di spirito più complessi e potenti, la buona letteratura (e il buon cinema) è sempre doppiamente tendenziosa….

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *