cropped-100412_damien_hirst_3.jpgdi Alessandra Sarchi

[Dal 25 dicembre al 6 gennaio LPLC sospende la sua programmazione normale. Per non lasciare soli i nostri lettori, abbiamo deciso di riproporre alcuni testi e interventi apparsi nel 2011, quando i visitatori del nostro sito erano circa un quinto o un sesto di quelli che abbiamo adesso. È probabile che molti dei nostri lettori attuali non conoscano questi post. L’articolo che segue è uscito il 2 dicembre 2011].

“Il cranio rasato, le braccia tatuate dalla spalla fino al polso, anelli infilati nelle orecchie, addosso pantaloncini da cui spunta il bordo delle mutande e una canottiera che lascia scoperto il torace peloso e puzza di sudore, quest’uomo, pancia in fuori, aspetta insieme a un migliaio di altre persone di fare il suo ingresso al Louvre. Sembra una di quelle figure rappresentate sulle tavole di un’atlante di criminologia ottocentesco. Per quale strada contorta è riuscito a  infilarsi tra i neofiti, come se il secolo passato non fosse servito a niente?”

 Cosa aggiunge di nuovo l’ultimo pamphlet di Jean Clair, L’inverno della cultura, (tr. it. Skirà, 2011, ed. orig. Flammarion 2011) a quanto già argomentato nei precedenti Critica della modernità e La responsabilità dell’artista? A chi non si è fatto persuadere dalla vis polemica del critico francese contro la pratica artistica post-moderna trovando che le sue ragioni fossero quelle del passatista, poiché disgusto e previsione di apocalittiche desertificazioni della cultura sono da sempre le armi spuntate di chi, nella querelle tra antichi e moderni di qualunque secolo, sta con gli antichi, converrà leggere questi nove paragrafi. Se non altro perché alle ragioni storiche, da conoscitore delle avanguardie, – il suo primo saggio edito era su Duchamp – qui Jean Clair connette la débacle economica mondiale del presente e la peculiare postura degli occidentali del ventunesimo secolo, a suo modo di vedere, schiavi della propria immanenza.

Partiamo da quest’ultima. Che di immanenza si tratti nelle sue forme più deiettizie non v’è dubbio, la carrelata di opere che rivoltano l’interno del corpo all’esterno è impressionante: dalla merda di artista di Piero Manzoni, al secchio di vermi rovesciato in faccia di Gina Pane, agli intestini attraversati da microsonde di Mona Hatoum, allo sperma spruzzato su metallo di Anselm Kiefer, ai video in cui Paul McCarthy dipinge con escrementi su un muro, per non parlare dello sfinente catalogo della body art. L’insistenza sulla zoe, vita bestiale, o residuale, in contrasto con il bios degli animali intelligenti, secondo la distinzione di Agamben, rivela agli occhi di Clair quanto paventato da Freud nel 1912: “Ci si dovrebbe abituare all’idea che un adeguamento delle pretese della pulsione sessuale alle esigenze della civiltà non sia affatto possibile, che la rinuncia e la sofferenza nonché, in lontanissima prospettiva, il pericolo di estinzione del genere umano in seguito alla sua evoluzione civile non possano venire allontanati.”

L’umanità che l’artista contemporaneo esprime gode dei propri escrementi e fluidi come ne gode il bambino che crede di possedere tutto il mondo in potenza. L’arte antica e moderna si è svolta, secondo Jean Clair, sotto il segno del sacrificio di Abramo, della fiducia nel padre-arché a cui viene chiesto l’impossibile e che obbedendo ottiene la grazia per il figlio, ossia la propria continuità; un’allegoria potente e fondativa, iconograficamente molto diffusa, oggi accantonata invece a favore di un altro mito, quello di Edipo che elimina il padre per possedere la madre. L’autorità, la trasmissione, la tradizione sono diventatate impensabili per l’artista contemporaneo; le riflessioni del critico d’arte francese suonano complemetari a quelle sullo svuotamento del ruolo e della figura del padre di Luigi Zoja (Il gesto di Ettore: preistoria, storia, attualità e scomparsa del padre, Torino Bollati Boringhieri, 2000).

Ma veniamo alla questione economica che costituisce la parte più nuova e affilata del testo. Il valore estetico e  commerciale attribuito alle opere d’arte contemporanea, e le procedure che ne permettono la promozione, sono assimilate da Clair a quelle criminose che nell’immobiliare e nella finanza consentono di vendere il nulla: subprimes, cartolarizzazione, hedge funds, termini con i quali la crisi in atto dal 2008 ci ha tristemente familiarizzato. Galleristi e musei agiscono come promotori economici e agenzie di rating che decretano, quasi sempre in maniera decorrelata rispetto alla realtà materiale, il valore delle opere. La BMW dipinta di colori sgargianti da Jeff Koons, esibita prima nel cortile di Versailles poi al Pompidou, il teschio tempestato di diamanti, l’opera contemporanea più costosa al mondo, esposta da Damien Hirst a Palazzo Vecchio, la scultura di papa Wojtila abbattuto da un meteorite di Maurizio Cattelan venduta per tre milioni di dollari, sono solo alcuni degli esempi più eclatanti del patto stretto tra grandi capitali monetari e gesti artistici di esclusivo contenuto spettacolare. La loro quota estetica e il loro valore economico si nutrono del prestigio della cornice in cui si mostrano, del marchio che esibiscono. Togli Versailles, togli Palazzo Vecchio e rientrano nella paccottiglia industriale da cui siamo sommersi. Il dilagare del termine culturale, appiccicato a qualsivoglia produzione e situazione, è indice di quella che il filosofo francese Michel Clouscard definiva la totale assimilazione di ogni attività umana al sistema capitalistico in cui “la cultura sarà espressione dei bisogni ideologici del mercato”.

E quando non vi sia uno spazio antico da saccheggiare per investire di sacralità e prestigio le opere, e soprattutto per legittimarne il valore economico, ecco moltiplicarsi i musei d’arte contemporanea definiti da Clair mattatoi culturali, anche nell’aspetto ‘un miscuglio di scialba modernità e di imprestiti arrischiati, quel kitsch che invaderà l’architettura delle megalopoli, da Las Vegas a Dubai’. Il contenitore che determina il contenuto – tutte le archi-star devono fare almeno un museo nella loro carriera! – al punto che senza lo spazio artificiale, iper-tecnologico e asettico così acutamente individuato da Brien O’Doherty (Inside the White Cube. The Ideology of Gallery Space, ed. orig. 1976, in uscita presso Johan & Levi in traduzione italiana) c’è da domandarsi se tanta produzione contemporanea avrebbe luogo d’esistere. Chi vorrebbe nella propria casa le opere esposte negli show room in cui sono stati trasformati Palazzo Grassi o la Punta della Dogana? Clair non ha dubbi: non il visitatore che paga il biglietto e fa le code, non potrebbe permetterselo, e nemmeno lo concepirebbe al di fuori di quelle mura che gli garantiscono che ciò che sta guardando è arte, piuttosto quella microsocietà di ricchissimi che può creare dal nulla caveau per contenere tali opere, come lo Shaulager di Basilea, un immenso bunker di cemento, né museo, né deposito, in cui un’istituzione privata dichiara di dedicarsi alla trasmissione della creatività, con i criteri e la discrezione di una banca, per l’appunto.

Val la pena notare che Peter Sloterdijk si esprime in termini analoghi, se non sovrapponibili: “dopo l’emergere del potere di esposizione durante la prima età moderna, iniziata con l’esposizione di un orinatoio e sfociata alla fine nel museo che esibisce se stesso, attualmente viviamo l’emergere dell’arte come potere di mercato, che conferisce tutto il potere ai collezionisti” (P. Sloterdijk, Devi cambiare la tua vita, ed. orig. Frankfurt am Main, 2009; trad. it. Raffaello Cortina Editore, Milano 2010, pp. 535-6).

Che esista dell’altro nell’arte contemporanea Jean Clair lo sa, ma a spingerlo a uno sguardo impietoso è la consapevolezza che questo altro rischia, ora più che mai, di rimanere fuori dai circuiti di ciò che si conosce.

[Una versione più breve di questo articolo è uscita su «Alias»]

[Immagine: Damien Hirst, The Physical Impossibility of Death in the Mind of Someone Living (gm)].

 

12 thoughts on “L’inverno della cultura

  1. Nel famoso saggio “Analisi linguistica di uno slogan” (uscito sul “Corriere” nel 1973) Pasolini interpreta “Non avrai altri jeans all’infuori di me”, uno dei primi, celebri manifesti pubblicitari di Toscani e Pirella, in cui la lingua evangelica è piegata al commento di un’immagine sessualmente provocatoria, ad alto tasso “realistico” e mimetico. Per i più, si tratta di una dolorosa e allarmata (e nostalgica) constatazione che il marketing stava colonizzando le enclaves “vergini” della religione e della corporeità. A rileggere oggi il testo, ci si avvede viceversa che così non è: in più punti l’autore rivela il dubbio esplicito che la propria idea di “fine del mondo” sia legata alla sua stessa disperazione e che quello slogan possa implicare un contraddittorio barlume di “mondo nuovo”, una inattesa, sorprendente “espressività” nuova, “un’intensità” e perfino “un’innocenza”, celate dal cinismo. Non la mera necessità del consumo mercantile e culturale, dunque, ma una sorta di “nemesi”. Sto leggendo questo saggio con i miei studenti: e ne collego d’istinto le pluralità di senso al lucidissimo saggio di Alessandra Sarchi, che farò leggere a questi stessi studenti. Anche Clair come Pasolini appare “apocalittico”, e dunque si tenterà di bollarlo come elitario, nostalgico o regressivo. Mi chiedo: esiste nel suo discorso qualche crepa o interstizio dentro il mattatoio culturale oppure il solo destino possibile per la ricerca di forme etico/estetiche è la marginalità/ estraneità da tutti i circuiti?

  2. Alla domanda di Zinato viene da rispondere che chi continua a percorrere il tragitto di ricerca ha e sempre avrà una posizione marginale nel contesto sociale, è questa resistenza (“resilienza” mi pare un termine più congruo, visto che di mondo-materia andiamo trattando) a contraddistinguere un percorso di conoscenza da un adattamento alle regole sociali (così importante il riferimento a Zoja, cui aggiungerei il più recente “Contro Ismene”, ripudio della violenza nella stessa misura in cui “Il gesto di Ettore” era contrario ad ogni autorità, in pratica resistenza alle dinamiche aggressive di potere contrastanti la presunta fragilità della dinamica relazionale orizzontale).
    Il “mondo nuovo” è la posterità in cui viviamo ma “l’accoglienza” che si profila non va ricercata, a mio avviso, nell’accettazione di una possibilità di adattamento, piuttosto in una scelta di austerità (vedi Illich) che non ci estranei dal contesto ma ci renda vigili rispetto alle nostre colpe, come succede al Bucky protagonista di “Nemesi” di Philip Roth.

  3. Vorrei partire dagli appunti, pieni di verve argomentativa e stilistica, di Donnarumma in gita alla Biennale, http://www.leparoleelecose.it/?p=2206 (se ne ha voglia Donnarumma può accomodarsi in questo provvisorio salon des refugés). La noia e l’aridità provate davanti alla coazione al nuovo dell’arte contemporanea sono il tema su cui più ha lavorato Jean Clair cercando di dare e darsi delle spiegazioni. L’associazione fra leggi di un mercato totalmente autoreferente e decorrelato (dal lavoro dei critici, da quello degli storici, dalla ricerca degli artisti, ma anche dal gusto del pubblico, ammesso che possa formarsene uno) è l’ultima tappa di un percorso in cui prima ha esplorato la perdita di manualità, di un sapere che tiene uniti testa e sensi, e di una pratica legata all’imitazione. Di certo il Novecento artistico tra l’Elogio della mano” di Focillon e il decimo comandamento del manifesto futurista (bruciare biblioteche e musei, forse anche le donne, o certe donne femministe) ha mediamente scelto per la seconda opzione. Togli l’apprendistato, togli l’imitazione con l’infinita ricchezza che ne deriva, togli la conoscenza storica, cosa ti rimane? La serie di gesti eclatanti con cui stupire il mercato. Tutto questo nel mondo delle arti visive, ma non del cinema come notava Donnarumma e nemmeno della fotografia aggiungo io, è molto più evidente che in quello della produzione letteraria perché i libri costano relativamente poco, viaggiano di più e hanno un legame con la geografia meno stringente delle opere d’arte. E qui c’è un altro paradosso: l’arte partorita dal Novecento voleva fuggire il museo e invece si ritrova ad anelare a qualsiasi spazio possa essere musealizzato, è esplicitamente pensata per il museo.
    Per una figura come quella di Jean Clair che di formazione è critico, e di mestiere ha fatto il direttore del Musée Picasso a Parigi, nonché il Conservateur du Patrimoine, questo paesaggio non può che essere apocalittico, ma proprio il suo tono disperato nel denunciare l’impotenza del suo ruolo (e la fine di un mondo) a costituire una crepa nel discorso. Clair vorrebbe essere smentito, non solo da una riscossa dei tanti artisti che in questo sistema sono stati schiacciati, ai quali peraltro ha dedicato il libro, ma anche da un rivolgimento in cui sa di non poter aver parte, per ragioni anagrafiche e non solo. Due sono gli spiragli che lascia, o interstizi, per riprendere l’espressione di Zinato. La scena della danza contemporanea e, meno prevedibilmente, gli stadi che dal punto di vista architettonico gli sembrano in certi casi proprio belli. Se un elemento comune si può trovare è quello del coinvolgimento attivo e partecipe del pubblico, anzi direi di più: fisico. Il ballerino non può mentire, deve lavorare duro su di sé, il calciatore anche, il progettista che fa lo stadio pure (oddio, qualcuno ogni tanto crolla). La prova del nove avviene in senso perfomativo, e questa è un patente di credibilità che se non salva l’arte contemporanea quanto meno indica la strada di una riappropriazione di spazi. Ci sono altre strade per mettere a verifica l’arte contemporanea, penso ad esempio alle artoteche, molto diffuse in Francia e pochissimo in Italia, potendo prendere a prestito a casa un’opera come si fa con un libro si riattivano circuiti di confronto più autentici, credo. provate a tenervi in casa per un mese l’asino appeso di Cattelan, poi se ne potrebbe riparlare.

  4. Non ho capito se il pezzetto all’inizio dell’articolo ha l’intenzione di indirizzare i lettori pro o contro Jean Clair. Comunque, se l’inverno della cultura serve a isolare le cariatidi come Jean Clair, ben venga; e ben vengano i camionisti tatuati, unti e sudati nei musei, nei teatri, nelle gallerie, magari anche direttamente coi loro autotreni, se possibile a velocità sostenuta.

  5. Molto interessante Alessandra. Non credo vi sia molto di più da aggiungere all’analisi tagliente e lucida di Jean Clair. Quello che oggi viene esposto in musei, biennali e gallerie (cioè quello che si decide di esporre, compiendo una precisa scelta) non è che un’enorme bolla gonfiata ad arte con la complicità di “artisti”, critici, mercanti e investitori. E’, appunto, una pratica “criminosa”, una vera e propria truffa a scapito dei ricconi, ricconi ma ignoranti, del globo pronti a pagare bei soldoni. Ma anche un bel giro d’affari fra sovvenzioni, donazioni e commissioni e molto altro.
    Per il resto, come tu dici, Clair (e noi con lui) sa bene che questo è solo una parte – e nemmeno così ampia – di quanto si fa. Il problema è che ciò che viene tenuto accuratamente fuori da questi circuiti, diventa invisibile.

  6. P.S.
    L’esposizione di deiezioni, escrementi, viscere, ossa, o le mutilazioni o modificazioni del corpo, mi sembra siano chiare manifestazioni di una regressione a una fase preverbale, primordiale. E’ una dichiarazione di guerra alla, o un rifiuto della “civiltà” come l’Occidente la può intendere e come l’ha costruita. Non mi pare che tutto questo, come ho già detto, sia in contraddizione con quello che ci vediamo crollare attorno. L’Occidente, come lo conosciamo e lo intendiamo, ha fatto il suo tempo.

  7. Che i calciatori non possano mentire è una tesi interessante. Sarebbe interessante se in questa discussione intervenisse Luciano Moggi.

  8. Un po’ OT rispetto al problema principale, mi incuriosisce questa frase: «L’insistenza sulla zoe, vita bestiale, o residuale». A me pare di vedere quasi ovunque operazioni concettuali; se è vita bestiale, quella su cui insiste l’arte contemporanea, è passata per parecchi lavaggi. Anche, o forse soprattutto, la body art mi sembra vada nella direzione del corpo tecnologico, della protesi, del superamento o comunque della manipolazione, che di bestiale hanno assai poco. Ma è una perplessità da osservatrice esterna e potrei grandemente sbagliare.

  9. @Alcor: questo è quanto afferma Clair, (e si può non essere d’accordo o avanzare il sospetto che la categoria non sia giusta, e come lei ipotizza si tratti, in molti casi, di altro: di un corpo tecnologico, o post-umano etc..).
    D’altronde Clair si concentra su linee di tendenza che gli sembrano particolarmente sterili, o già troppo sfruttate e la sua è una polemica con il main stream dell’arte occidentale degli ultimi venti trent’anni. é possibile che in una visione globalizzata come quella che si sta imponendo questi discorsi abbiano un valore più limitato, o comunque da relativizzare. Come è possibile che vada relativizzata la portata, l’applicabilità e la durata dell’umanesimo che è la cultura di cui Jean Clair vede la fine. Da più parti ci si interroga su questo e forse, non sempre con categorie adeguate ai cambiamenti in corso.
    @Cortellessa: in effetti avrei fatto meglio a dire: gli atleti non dopati, non venduti etc.., ma bisognerebbe chiedere a Jean Clair in persona cosa intendeva.

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