di Francesco Pecoraro
Nelle librerie d’occasione e sulle bancarelle dell’usato comincio a vedere intere biblioteche che hanno un’aria familiare: sono i libri che leggevo, che avrei voluto leggere, che mi pareva necessario leggere, a venti-trent’anni. Mi fa una certa impressione vederli riapparire all’improvviso e tutti assieme. Opere che fecero o che contribuirono a fare – e che ancora rappresentano – la cultura della mia generazione, anno più anno meno.
Sono i lavori dei nostri padri e maestri, molti dei quali oggi quasi completamente dimenticati, nel senso di calati al di sotto dell’orizzonte culturale contemporaneo, ammesso che ne esista uno. Credevamo che la verità fosse racchiusa nei libri: bastava procurarseli, aprirli, leggerli. Avevamo il mito della scrittura saggistico-filosofica e cercavamo anche noi, segretamente, di scrivere. Erano per lo più frammenti di vagheggiate opere complesse. Non andavamo mai oltre la seconda pagina di quadernoni a spirale, lasciati poi intonsi e inevitabilmente ritrovati a distanza di anni.
Il mio primo pensiero è che i titolari di queste biblioteche non se ne siano volontariamente sbarazzati: non è il tipo di libri che dai via (oppure sì?). È più plausibile che siano invece morti. La mia generazione comincia ad andarsene. Lo dimostra la morìa di artisti pop-rock del secolo scorso, avanguardia di un’estinzione naturale, che probabilmente comincia a saldare il conto di una giovinezza di eccessi.
Cumuli di copertine e titoli un tempo assai noti che, messi lì tutti assieme, mi costringono a fare quasi un salto indietro. Sono i libri che cominciammo a leggere nella seconda metà dei Sessanta e poi per quasi tutto il corso dei Settanta: Marx-Engels-Lenin, naturalmente, e molta saggistica psicoanalitico-marxista, lo strutturalismo, e poi Benjamin Marcuse Adorno Horkeimer Lukács Barthes. Ma anche, cito alla rinfusa, vecchie edizioni di Calvino Ginsburg Levi Arbasino Cassola Bassani Vittorini Parise Gadda Fenoglio. Molto Pavese, di cui rivedo tutte le opere, nel cofanetto grigio elegantissimo (Pavese reggeva le sorti del nostro dover-essere emotivo: il fascino irresistibile e postumo del suicida). Ed ecco i grandi casi editoriali: Il gattopardo, Il partigiano Johnny, Il Maestro e Margherita, Lessico famigliare. Ecco la doverosa e moltissima narrativa americana. La poesia beat, i testi delle Pantere nere. Fummo la prima generazione cui l’America colonizzò l’inconscio, secondo la formulazione di Wim Wenders.
Nelle nostre librerie c’erano per esempio Günther Grass e Heinrich Böll: chi tra di noi li aveva letti? Bernhard e Sebald sarebbero venuti dopo, ma c’era molto Nietzsche (allora riscoperto come filosofo «del negativo») e curiosamente molto Hölderlin. C’era tutto Pasolini, com’è ovvio, e molti altri autori che ora non mi tornano in mente. Allineati tutti assieme su uno scaffale, quei volumi funzionano come una macchina del tempo, scagliandomi nel caos che regnava nella mia mente di allora. Un’accozzaglia disordinata di letture che ancora oggi determina le mie enormi manchevolezze.
Ritrovo titoli Einaudi Pbe, che allora andavano molto. E poi l’Universale Laterza. Editori Riuniti. Le Edizioni Dedalo, i tipi di Samonà & Savelli. I primi titoli Adelphi, la collana Il Pesanervi Bompiani. Fascicoli di Quaderni Piacentini, di Marcatre, persino della Monthly Review. I saggi rossi Einaudi. C’è Huizinga, Homo ludens, libro da me inspiegabilmente molto desiderato e poi, dato il costo, rubato: esauritasi l’emozione dell’atto criminoso, non l’ho mai più aperto, perdendolo infine da qualche parte, probabilmente dimenticato in una delle case che abitai.
Nella confusione mentale di quegli anni in cui – strattonati in ogni direzione da impulsi e desideri e curiosità apparentemente incontenibili – cercavamo di capire qual era il nostro dover essere, quale sarebbe stato il nostro saper fare, quali i nostri saperi di piccolo-borghesi schiacciati nello scontro tra capitale e lavoro, un conflitto allora molto evidente violento drammatico. Non potendo e soprattutto non volendo farci operai, non sapendo e soprattutto non desiderando farci imprenditori, restavamo nello strato sociale dove eravamo nati, ma in veste di intellettuali sé vedenti come traditori della propria classe.
E fu ciò che, nelle diverse competenze, cercammo di diventare, come testimoniano ancora gli scaffali delle nostre librerie, che allora andavano riempiendosi di volumi contenenti la corretta interpretazione del mondo. Era una cultura che dava per scontata la triade Marx-Darwin-Freud. Einstein diceva cose inaudite del mondo fisico, ma i nostri interessi, secondo il dettato del liceo, erano rivolti all’umano. Nella confusione del generale non-approfondimento, colui che si leggeva di meno era proprio Darwin. Quale supponente stupido errore! Le case editrici nutrivano (forse determinavano) questa aspirazione all’essere (intellettuali), più che a un effettivo dubbioso competente sapere.
Ora eccole qui, le biblioteche che accompagnarono le nostre vite. Residui novecenteschi spiaggiati sulle rive del presente, dispersi sulle bancarelle come resti disarticolati di un lento, non-drammatico, forse meritato (forse no) naufragio collettivo. Interi pacchetti di una cultura abbandonata che si riciclano in un mondo dove pochi sanno riconoscerli e quei pochi li hanno già letti e dimenticati.
Insomma nella civiltà presente, che è andata altrove, ricompaiono questi libri e tutte quelle parole ti sembrano ormai perse. Non sai, non ti va di sapere, di verificare se ancora dicono, se hanno ancora un senso. Temi di riaprirli a caso e di scoprire (ti è già successo) che questo o quel testo sono invecchiati fino ad aver perso spessore qualità importanza. Temi di scoprire la lontananza, forse l’inconsistenza, di quelle che (incerte e confuse) consideri le tue radici. Hai l’impulso di ricomprare qualcosa. Ma poi pensi che magari quel titolo l’hai sempre avuto e non l’hai mai aperto.
Opere che facevano sistema, rimandavano l’una all’altra, si citavano a vicenda, denotavano una libreria, una casa, una persona, una vita, una posizione politica, soprattutto un’appartenenza. Compito di molti libri non è di essere letti, ma di starci vicino. Molti di quei volumi sono ancora lì, presso di noi, a dire e a dirci cosa eravamo e non siamo più. Racchiudono verità che si davano per intere e definitive, ma erano invece parziali, temporanee. Opere un tempo preziose, sovente dure, molto ideologiche. Inevitabilmente e giustamente ideologiche. Niente avrebbe avuto senso senza giustizia sociale: ci fu un momento in cui questa proposizione sembrò diventare senso comune, ma non era così. Le certezze si rivelarono convinzioni provvisorie e, a dispetto dell’aspirazione alla completezza, inevitabilmente parziali, difettose, abbandonabili: e di fatto oggi abbandonate.
Per quanto quei libri cercassero di criticare compiutamente il presente, pochi ci riuscivano e solo a tratti, a frammenti, lasciandosi sfuggire le conseguenze a lungo termine della modificazione in atto. Quella stessa modificazione ormai sempre più accelerata nella quale annaspiamo ogni giorno. Tutti i parametri interpretativi sono saltati assieme agli strumenti di misura, lasciandoci inermi in compagnia delle nostre vecchie inutili biblioteche, già virtualmente dismesse.
Lotti omogenei di libri, fino a ieri introvabili, dati via per quattro soldi, che riaffiorano accuratamente ri-prezzati, titoli magari un tempo bramati perché troppo costosi, volumi rubati, copertine amate da lontano, collane idolatrate, autori mitizzati, molti dei quali ormai completamente sommersi, mai più letti né citati da nessuno: tutto questo ricompare improvvisamente. Ora sono lì, costano poco, praticamente nuovi, carta non molto ingiallita, potremmo finalmente comprarli, portarceli a casa. Ma poi? Li leggeremmo? Scorreremmo di nuovo le pagine di Dimmi quando è partito il treno di James Baldwin? Riapriremmo Rose e cenere di James Purdy? E Stella rossa sulla Cina di Edgar Snow lo troveremmo forse meno noioso? Cosa ce ne faremmo, non ostante il contenuto (allora) profetico, di Eros e civiltà di Herbert Marcuse?
Mentre osservo questi dorsi familiari allineati per collane – come usava allora tra i giovani che costruivano le loro biblioteche (solo apparentemente) personali: innamorati della forma-libro, del colore, della grafica, orgogliosi delle serie che facevano cultura e status e appartenenza politica –, mi piace pensare che gli ex proprietari non siano morti ma, ormai sazi e disillusi e dopo essersi disfatti di ogni cosa, siano partiti per i Mari del Sud, oppure per Tangeri, o per un’isola dell’Egeo, o per il Costarica, a godersi quel po’ di pensione cui immagino abbiano novecentesco diritto. Leggermente inebetiti dall’assunzione di tre o quattro farmaci giornalieri, nell’oblio del trascorso, dediti allo snorkeling mattutino su quello che resta delle barriere coralline, ormai del tutto noncuranti degli antichi fallimenti che fino a qualche anno fa ancora bruciavano.
[Immagine: Tilda Swinton in Only Lovers Left Alive di Jim Jarmusch (gs)]
Mah, non capisco se si tratti di nostalgia per la giovinezza o per un tempo in cui l’intellettualismo aveva senso (oggi ne avrebbe, ma non ha).
In ogni caso ho trent’anni e ho letto te quarti dei libri e degli autori citati, e come me diversi miei amici. Praticamente tutti a parte quelli citati nel penultimo paragrafo, e a parte quelli sono tutti abbondantemente ristampati. Capisco l’impressione di vederseli tutti insieme, ma siamo onesti, non provengono da un mondo ctonio e obliato, ma dal nostro comune sapere.
Alé, memory! “it’s so easy to leave me/all alone with the memory”
Biblioteche dei morti, di titolari morti, o sopravvissuti “leggermente inebetiti dall’assunzione di tre o quattro farmaci giornalieri, nell’oblio del trascorso” per “saldare il conto di una giovinezza di eccessi”.
Perché “resti disarticolati di un lento, non-drammatico, forse meritato (forse no), naufragio collettivo”. Perché quelle opere “facevano sistema, rimandavano l’una all’altra, si citavano a vicenda, denotavano una libreria, una casa, una persona, una vita, una posizione politica, soprattutto un’appartenenza.”
Be’, se “la confusone mentale di quegli anni”, la “confusione generale del non apprendimento” non ha rinnovato la testa e la biblioteca, selezionando e integrando, si capisce bene che i libri siano rimasti solo “vicini” ma “dismessi” come “the withered leaves collect at my feet”.
Sono un “contemporaneo” di Francesco Pecoraro e ho condiviso in buona parte le sue impressioni leggendone l’articolo. Credo che le persone come Bidé e i suoi amici siano una ristretta élite (?), forse culturale, certo non sociale, visto il ruolo oggi assegnato alla cultura e i ridotti spazi partecipativi. E il risultato del referendum è un chiaro segno dei tempi che, a mio parere, Marco Travaglio fotografa molto bene nel suo odierno editoriale.
Il vezzo incurabile di quelli che hanno attraversato l’ultima fare davvero effervescente della storia sociale italiana (’68-’77 insomma) è di proiettare sull’universo mondo presente passato e futuro la loro insoddisfazione. E’ un’abitudine odiosa perché auto-accecante: intanto, “Eros e civiltà” è ancora nel catalogo Einaudi (ventidue euro). Non c’è struttura complessa del sapere che non sia stata messa in discussione e riveduta, fa parte della coscienza critica.
@jacopo
questo pezzo mi piace molto anche perché non ci trovo nessuna particolare autoindulgenza.
PS: ho trentadue anni, non settantadue.
Cara bidè, mi piace particolarmente ciò che hai intuito, ecco, sì, intuito…, nella massa aggrovigliata di non capire, nel “corale autismo” (una koinè di Erminio, il poeta) che sommerge oramai e non minaccia più, ma è immanente, e oramai ha un rizoma perverso.
I libri erano (da inizio secolo, per rimanere nel contemporaneo, agli anni 80 compresi) molti di più, troppi di più… di quelli appena citati (anzi, lasciti imamaginare, quindi evocati , ecco , appena evocati, da quelli citati: un rapporto di 1 a 500, credo, almeno, fuor di iperbole volgare e massificata, e, ovviamente parlo di autori, non ti titoli, per rimanere agli essenziali) en passant e, quindi, con approssimazione per “eccesso di difetto”. Li ho ,incrociati per gioia, caso (e non certo per anagrafia, sono sui 40 ancora), caos o destino, o addirittura kairos (identici talora, una cosa rarissima).
“Strana”, ovvero impredittibile ma non impossibile vedo, la tua età, una generazione ancora possibile, soggetta a rinascita se volesse, e non abortita, dunque, tout court, per forza. Ma dove sta? E cosa fa , soprattutto cosa pensa? E …sente? E …”quo usque tandem…”?
E’ domanda forte ed interlocutoria coem le vere domande soltanto possono solamente essere, in dia-logos. Ponendosi nell essere. Come statuto dell’umano.
Un saluto di umanità completa, verace, pregna, densa di qui e ora e non effimera e transuente (olezzosa oltre ogni limite di sopportazione o assuefazione) malintesa “quotidianità”.
Pierluigi Pettorosso (humanaconditio@gmail.com)
Non appartengo alla generazione di Pecoraro – ho trentasei anni, potrei essere suo figlio – ma è un pezzo commovente. Come già segnalato nei commenti è riconducibile quasi a un genere letterario a sé del nostro Paese, il rimpianto di una famigerata rivoluzione perduta, mito che affascina anche tanti narratori e narratrici trentenni/quarantenni contemporanei restii a scrivere invece del loro/nostro tempo. Enzo Monteleone (1954) e Gabriele Salvatores (1950) venticinque anni fa del resto l’avevano sintetizzata così la malinconia di Pecoraro nel loro film Mediterraneo (1991): “Non si viveva poi così bene in Italia, non ci hanno lasciato cambiare niente… e allora gli ho detto… avete vinto voi, ma almeno non riuscirete a considerarmi vostro complice… così gli ho detto, e son tornato qui…”. In Grecia, non a caso.
Mi spiace che il pezzo abbia evocato in qualcuno il film Mediterraneo, che considero bruttissimo.
@Francesco Pecoraro
Ciao Francesco, quel qualcuno sono io. Il tuo pezzo mi ha rammentato la frase del monologo finale di Mediterraneo scritta da Monteleone e Salvatores, se non ti ci ritrovi grazie per averlo precisato, ci penserò sopra.
Appartenendo alla generazione di Francesco Pecoraro ho trovato veritiero, bello e commovente il suo articolo. Specialmente mi riconosco nella parte: “Opere che facevano sistema, rimandavano l’una all’altra, si citavano a vicenda, denotavano una libreria, una casa, una persona, una vita, una posizione politica, soprattutto un’appartenenza. Compito di molti libri non è di essere letti, ma di starci vicino. Molti di quei volumi sono ancora lì, presso di noi, a dire e a dirci cosa eravamo e non siamo più”.
Per me, insegnante alle prime armi, erano imprescindibili anche La grammatica della fantasia di Gianni Rodari, la Lettera a una professoressa, La storia di Elsa Morante e Paura di volare di Erica Jong, Una stanza tutta per sé di Virginia Woolf, Memorie di una ragazza perbene di Simone de Beauvoir.
Tuttavia mi confortano gli interventi dei trenta-quarantenni che rivendicano oggi la propria soggettività. E mi pare che la triade Marx-Darwin-Freud stia destando nuovamente grande interesse. Apprezzo anche tutte le iniziative per la diffusione della poesia e la Street Art, cose che mancavano ai nostri tempi.
Grazie a Francesco Pecorario
Provato a considerare i libri e la lettura come dei vettori (di qualità)? Le risparmierebbe tutta questa malinconia. Lo dico perché queste anime morte fanno paura a tutti, prima o poi. Bisogna ricordarsi di ridare loro alimentazione.
Tra un monumento e l’altro cresce l’erba, libri mai colti che provengono dal passato. Non si può pretendere che i mattoni del tuo fortino fossero i soli mattoni disponibili. La metafora del moto superficiale dotato di maschera per osservare il fondale mi sembra azzeccata. Se non lo era, metafora, allora estenderei le nuotate anche al pomeriggio.
Appartenendo alla generazione di Francesco Pecoraro, ho trovato veritiero, bello e commovente il suo articolo. Specialmente mi riconosco nelle parole: “Opere che facevano sistema, rimandavano l’una all’altra, si citavano a vicenda, denotavano una libreria, una casa, una persona, una vita, una posizione politica, soprattutto un’appartenenza. Compito di molti libri non è di essere letti, ma di starci vicino. Molti di quei volumi sono ancora lì, presso di noi, a dire e a dirci cosa eravamo e non siamo più.”
Essendo all’epoca giovane insegnante, per me erano imprescindibili anche La grammatica della fantasia di Gianni Rodari, Lettera a una professoressa e L’erba voglio, La storia di Elsa Morante, pubblicata in edizione tascabile da Einaudi al prezzo di sole 2000 lire, e poi Una stanza tutta per sé di Virginia Woolf, Memorie di una ragazza perbene di Simone de Beauvoir, Paura di volare di Erica Jong.
Tuttavia mi confortano gli interventi dei trenta-quarantenni che protestano oggi la loro soggettività. Mi pare anche che la triade Marx-Darwin-Freud stia risvegliando nuovo interesse.
E apprezzo le iniziative di diffusione della poesia fuori delle sedi deputate che, come la Street Art, mancavano in quell’epoca.
Grazie a Francesco Pecoraro
@Scrivano
Scusate, ma li leggete gli interventi prima di commentare? Pecoraro non dice che i mattoni del suo fortino fossero gli unici disponibili. Dice il contrario: “nella confusione del generale non-approfindimento, colui che si leggeva meno era proprio Darwin. Quale supponente stupido errore!”, “temi di scoprire la lontananza, forse l’inconsistenza di quelle che consideri le tue radici”.
Dio mio come mi ritrovo in questo articolo! Ne condivido ogni sillaba e il suo mood corrisponde perfettamente a quello che provo nel mio pellegrinare per bancarelle del mercatino
E io ho ventiquattro anni e quei libri li ho comprati quasi tutti. Alcuni li ho rubati perché non è vero che adesso costano poco, anche se sono ingialliti, secchi come merluzzi li paghi come quelli in catalogo. Se non di più. Anch’io sono affezionato a certi tipi editoriali, a quelle vesti grafiche; perché sono la mia attualità (o inattualità quotidiana) – anche se hanno fibre pregne di un vissuto che posso solo vagheggiare, e di un tempo smesso. Accanto a quelli ci sono i nuovi, che il loro riconoscimento sembra tanto impossibile che hai paura svaniscano materialmente dagli scaffali. Per noi (c’era più sopra chi si chiedeva se pensiamo e sentiamo) il dubbio e competente sapere, assieme alla ricerca disperatissima, è tutto ciò che ci rimane. Ci piacerebbe certi libri vestirli come panni o sbandierarli magari, ma sarebbe inutile; anzi ci è impossibile. Nessuna appartenenza se non a qualcosa che non potete capire. E magari al secondo dottorato lo pubblichiamo da qualche parte.
“ 24 marzo 1994 – « Libri vecchi »: per me sono solo certi libri. Diciamo 1890-1940. Gli altri, per esempio i miei anche di trent’anni fa, non invecchieranno mai in quel certo senso. “
Una delle riflessioni che cerco continuamente nel tentativo di riuscire a capire chi è stata la generazione di mio padre. Un pezzo che schiude davanti a me diverse immagini…di volti, di luoghi, di conversazioni. Ma dopo un lungo pensare, mi sono fermata davanti a coloro che sembrano essere coinvolti qui indirettamente: gli eredi. E mi riferisco qui molto prosaicamente se vogliamo al legame di sangue. Nella speranza condivisa con l’autore, che i proprietrai dei libri non siano morti, mi chiedo, perchè disfarsene. Manca un racconto di sè a coloro che sono venuti dopo? Forse allora i fallimenti bruciano ancora?
Chapeau bas! Magnifico articolo accattivante e ironicamente affettuosamente nostalgico. Sono credo piu’ giovane, nato nel 1961 di Gagarin e del muro di Berlino ma mi ci sono liricamente riconosciuto. Grazie!
@bandini
Caro, lo sa meglio di me che a volte i grandi scrittori spiattellano delle incompatibilità, che fan più forte l’emozione. «Opere che facevano sistema, rimandavano l’una all’altra, si citavano a vicenda, denotavano una libreria, una casa, una persona, una vita, una posizione politica, soprattutto un’appartenenza. Compito di molti libri non è di essere letti, ma di starci vicino», si legge anche. Cosa che a me sembra fare un po’ fortino. Magari mi sbaglio, però leggo.
bel pezzo.
Molti di questi volumi (e edizioni) me li ritrovo in casa, vera e ingombrante eredità lasciatami dai miei genitori. Se li guardo, dagli scaffali più alti dove ho collocato le opere di Lenin e Togliatti, a quelli più bassi e accessibili, dove avviene una congiunzione generazionale coi libri acquistati da me, mi riesce quasi di ricostruire una piccola storia della cultura di sinistra, e delle sue letture, nel secondo Novecento. Ai Lenin e Togliatti già citati (per fortuna manca il Breve corso di storia del PcB) si affianca la prima edizione Platone/Togliatti di Gramsci, e poi (insieme all’eterodosso Salvemini), Labriola, De Sanctis: siamo in piena politica culturale-nazionale comunista, negli anni ’40 e ’50 del secolo scorso. Poi, scendendo, affiorano i testi del dubbio, le revisioni: Gramsci adesso è nella biografia di Fiori, e nell’edizione di Gerratana, negli scaffali della filosofia non più solo Marx e Engels, né Lukács o Sartre: ecco dottrine eterogenee, pensieri eclettici, altri saperi: la Scuola di Francoforte, Barthes, Foucault, Lévi-Strauss, Freud, persino il Groddeck portato in Italia da Adelphi. La politica culturale proposta dal Pci non basta più (ma non bastava dal principio, era troppo angusta quella traiettoria Labriola-Croce-Gramsci, la cultura italiana dopo 20 anni di fascismo avevano bisogno di cosmopolitismo). Nei territori di storia e politica compaiono le opere di Trockij e Luxemburg, le biografie di Deutscher, le memorie di Gilas, i testi di Medvedev: dopo Budapest e Praga, nell’eurocomunismo, si fanno largo le opere del dissenso e le vite dei comunisti eretici. Altrove, negli scaffali di letteratura, tra i russi Solženicyn scalza Gor’kij. Ancora letteratura: tra gli americani Hemingway cede il passo a Saul Bellow, anni ’60 e ’70: Bellow dominus totale, decine di volumi di Bellow (e Updike). Tra gli italiani il re è Moravia, seguito da Pasolini. Tra i francesi: dopo Gide e Alain, maestri per mio padre negli anni ‘30, esempi di scrittura apolitica, non di regime, a-fascista verso l’antifascismo, entra Queneau (anni ’60, mia madre) e poi Proust in tutte le sue versioni italiane (sempre mia madre). Mi fermo qui. Sono file di libri che comunicano abbastanza chiaramente una serie di politiche culturali (da Einaudi a Feltrinelli, da Laterza a Bollati Boringhieri) che incidevano sulla vita intellettuale e sociale degli italiani, sui libri che acquistavano e socializzavano discutendone autori e idee. L’ultima politica culturale editoriale in questo senso mi sembra quella di Adelphi, che dalla fine degli anni ’70, e poi negli ’80 e ’90, egemonizza i nostri scaffali, così che arriviamo “persino” a leggere Brodskij e Cioran (ed eravamo partiti da “Conversando con Togliatti”). Se confronto questi libri coi miei (cioè coi miei acquisti), con i libri che ho comprato negli ultimi 20 anni, noto non solo che, specie negli ultimi tempi, mi interessano più le proposte dei piccoli editori (mentre i miei genitori avevano già quasi tutti i loro bisogni soddisfatti dai grandi), noto non solo che, specie anni addietro, ho perso tempo anche con autori di sostanza diciamo leggera (gli Hornby, i Coe), ma noto soprattutto che nei miei libri non c’è traccia di politiche culturali collettive, ortodosse o eterodosse, filosofiche o letterarie: sono solo il frutto casuale oppure ostinato, frammentario oppure coerente, di miei interessi e ossessioni personali; questi libri saranno anche sugli scaffali di molte altre persone, ma non stanno in una direzione comune, mi pare. Unica eccezione i testi di storia, specie del ‘900, specie del comunismo: qui riconosco una politica culturale, un revisionismo inevitabile: gli spazi lasciati liberi da Medvedev o Deutscher (autore che in realtà continuo a leggere con piacere immenso) sono ora occupati da Service, Pons et alii, la storia va avanti ma questa è un’altra storia.
“ 4 marzo 1986 – Benjamin, Parigi capitale del XIX secolo, Einaudi, 1986, costa lire centomila. Vale molto più di una messa. “
Frequento anche io le biblioteche dei morti, in gran parte miei contemporanei e anch’io compro dai morti i libri che mi mancano e che avrei voluto leggere nel secolo scorso.Ultimamente mi sono imbattuto in una bellissima biblioteca in cui mi riconoscevo totalmente. Ho chiesto al mio amico libraio : ” ma chi è questo morto? “.
Risposta: “..ma quando mai è muorto! Ha cunusciuto ‘na brasiliana e s’è vennuto tutto cosa ”
I libri di questo finto morto,almeno quelli che ho acquistato io, avevano segni di lettura molto meditata
Le cose a volta finiscono meglio del previsto .Un esempio per tutti quelli del secolo scorso?
Ottimi gli spunti di Davide Orecchio. Suggeriscono una riflessione seria sul succedersi delle nostre culture fino all’approdo del presente. I miei coetanei già non leggevano più Togliatti, per esempio: non solo per una differenza generazionale, ma anche perché i movimenti giovanili della seconda metà dei Sessanta avevano sottoposto a critica durissima la cultura social-comunista di statuto, portando o ri-portando a galla testi nuovi e differenti. La mia generazione rimase incastrata in una sorta di stallo messicano tra l’indelebile formazione umanistico-emozional-cattolicante indotta dal liceo gentiliano, la cultura marxista e l’impatto verbo-visivo della cultura americana, che all’epoca era soprattutto cinema.
“ Lunedì 1 febbraio 1999 – « È probabile che la predilezione brasiliana per l’ostentazione polposa della carne, le natiche in particolare, rientri più nel campo del commestibile che in quello sessuale. Per le società cannibali sono le parti più ghiotte, e lo sono rimaste per lo sguardo, più antropofago, forse, che lussurioso. [1987-1990] » (Jean Baudrillard, Cool memories, cit.) “.