di Arrigo Stara

 

[Pubblichiamo il saggio conclusivo del volume Le attese, a cura di Elisabetta Abignente ed Emanuele Canzaniello, uscito in questi giorni per Ad est dell’equatore. Come il precedente Delle coincidenze, il volume nasce dal lavoro dell’ “Opificio di letteratura reale” ideato e diretto da Francesco de Cristofaro e Giovanni Maffei]

 

 

Questa era la sua vocazione: attendere sempre di cominciare, restando fuori dalla realtà, come se l’inizio delle cose non facesse parte di questa, non dipendesse da noi
(S. Satta, Il giorno del giudizio)

 

  1. proponimenti e attese

 

Negli anni di apprendistato che precedono la definizione della teoria psicoanalitica, Sigmund Freud viene invitato da due celebri medici viennesi, il dottor Breuer e il dottor Lott, al capezzale di un’ammalata che già aveva avuto modo di conoscere “fin dall’infanzia”. La donna è appena divenuta madre per la seconda volta, e il desiderio di allattare il neonato ha nuovamente scatenato in lei quei sintomi isterici che già glielo avevano impedito in occasione della precedente gravidanza, tre anni prima. Freud viene invitato a visitarla in qualità di medico specializzato nella suggestione e nell’ipnosi: ogni altro metodo è infatti fallito e, senza molta convinzione, superando anzi forti vergogne e resistenze, la paziente è stata convinta a provare anche questo. «Non fui certo accolto calorosamente come un taumaturgo» scrive Freud nel 1892 redigendo una breve nota sul caso clinico, «piuttosto con una certa aperta ostilità e non potei contare su una eccessiva confidenza» (Freud, 1967: 124). Il risultato è però sorprendente: dopo due soli trattamenti la paziente riesce ad allattare il bambino al seno, quanto continuerà a fare negli otto mesi seguenti. Un successo che si ripeterà in occasione della terza gravidanza, la seconda in cui Freud verrà invitato ad assisterla: anche in questo caso, dopo due sole sedute, «la donna potè proseguire senza disturbi l’allattamento di questo bambino, che oggi ha diciotto mesi, e attualmente si compiace del suo ottimo stato di salute».

 

Il felice esito del trattamento costituisce per Freud l’occasione per interrogarsi una prima volta sul “meccanismo psichico del disturbo” che gli è riuscito di risolvere mediante l’ipnosi: cosa lo aveva provocato? Cosa aveva reso inefficace la ferma volontà della donna di allattare i propri bambini? E lui stesso, come aveva potuto liberarla da quel blocco? Nella propria esposizione, Freud anticipa come le successive teorizzazioni debbano essere considerate ancora provvisorie: «posso solo formulare ipotesi» (Freud, 1967: 126), scrive. Ma esse ci introducono per la prima volta all’interno di quel grumo psichico, di quella sindrome opaca dell’isteria, studiando la quale egli avrebbe fatto negli anni successivi, insieme a Breuer, alcune delle sue scoperte più importanti. «Vi sono» scrive Freud «rappresentazioni alle quali è collegato uno stato affettivo di attesa; queste sono di due tipi: rappresentazioni del tipo “io farò questo o quello”, cioè i cosiddetti proponimenti, e rappresentazioni del tipo “mi accadrà questo o quello”, cioè vere e proprie attese». I proponimenti, sui quali Freud si soffermerà molto più a lungo nel seguito dello studio, corrispondono a intenzioni coscienti dell’ammalato, che però all’improvviso, nel corso dell’esecuzione di un determinato compito (ad esempio l’allattamento per la sua paziente), vede sorgere in se stesso, non si sa da dove, una sorta di “controvolontà” (Freud, 1967: 128). Questa può provocare una scissione, e dunque un indebolimento della sua volontà cosciente, come nella nevrastenia; oppure un suo radicale “pervertimento” che la devia verso un fine radicalmente opposto rispetto a quello che si era prefissa, come appunto accade nell’isteria, scatenando “sorpresa e disperazione” nel paziente, che si trova a non potere fare ciò che voleva, anzi a fare esattamente il contrario: la madre che vorrebbe, ma non riesce ad allattare il suo bambino, le monache costrette a bestemmiare e a ripetere ossessivamente frasi sconce, i bravi ragazzi che «presentano attacchi isterici in cui ogni monelleria, ogni birbonata e sgarbatezza viene attuata con estrema facilità» (Freud, 1967: 131).

Questo dominio, questo prevalere della controvolontà costituisce, dice Freud, la chiave di “quel tratto demoniaco” dell’isteria che fa sì che ogni proponimento dell’ammalato si risolva nell’opposto. Nella sua psiche, infatti, questa determinazione antitetica a quella della volontà cosciente si era conservata fino ad allora «in una specie di zona d’ombra», da cui viene fuori con l’insorgere della malattia; a quel punto i sintomi si scatenano, uscendo dal corpo del paziente “come folletti” e “impadronendosi” di esso.

 

Come è noto, Freud continuerà a studiare i fenomeni dei quali nello studio presenta una prima ricognizione fino al 1895, quando pubblicherà insieme a Breuer gli Studi sull’isteria. La debolezza della volontà dell’isterico, la presenza nella sua psiche di questa misteriosa “controvolontà”, la “perversione” del proponimento originario di cui essa è all’origine, verranno trattate nell’opera in modo tendenzialmente sistematico, a partire da una serie molto più ricca di casi clinici, a cominciare da quello celeberrimo di Anna O. Mentre estremamente trascurata, quasi lasciata cadere nel seguito della ricerca, rimarrà l’altra metà dell’embrionale tipologia che Freud aveva abbozzato nello studio del 1892, quella cioè che si legava non all’analisi dei proponimenti (“io farò questo o quello”), ma a quella delle «vere e proprie attese» (“mi accadrà questo o quello”). Su di esse, sullo “stato affettivo” collegato all’attesa, nel seguito del saggio Freud aveva aggiunto solo poche parole: il suo tenore emotivo dipendeva soprattutto da due fattori, l’importanza più o meno grande rivestita per l’ammalato dal fatto atteso, e il «grado di insicurezza di cui è carica l’attesa. L’incertezza soggettiva, la controaspettativa, è data da una somma di rappresentazioni che possiamo designare come ‘penose rappresentazioni di contrasto’» (Freud, 1967: 126). Più queste sono diverse e minacciose, più la fantasia dell’ammalato è costretta a ipotizzarne in continuazione di nuove, più l’attesa si carica di un sentimento angoscioso: «la controaspettativa trae fondamento dalla considerazione di tutte le altre eventualità che possono capitarmi prima di raggiungere quello che desidero. L’ulteriore disamina di questo caso» conclude rapidamente Freud, per ritornare a discutere dell’isteria «ci porta nel campo delle fobie, che rivestono così grande importanza nella sintomatologia delle nevrosi».

 

La fenomenologia di questa che, in assenza di una definizione migliore, possiamo intanto chiamare nevrosi di attesa, non verrà ulteriormente ripresa da Freud nel seguito dello studio. Lo stato quasi passivo di un paziente che, lasciata cadere ogni volontà di azione cosciente, si dispone ad attendere che quanto deve accadere accada; e che, in questo intervallo cronologicamente indefinito, ma potenzialmente interminabile, tra l’anticipazione del fatto e il suo realizzarsi temuto o sperato vede intanto moltiplicarsi enormemente quanto Freud ha battezzato come “controaspettative”, la possibilità cioè che qualcosa di imprevedibile, di minaccioso, faccia nel frattempo franare l’intero edificio dell’attesa, viene semplicemente sospinto verso il territorio delle fobie. Il paziente in attesa, a differenza dell’isterico o dello stesso nevrastenico, sembra non avere volontà, capacità di proponimento, disposizione all’azione, neppure debole, contrastata o pervertita; la sua volontà è come paralizzata, che desideri o tema il futuro egli appare convinto di non potere agire su di esso, di non avere la capacità di determinarlo: lo deve soltanto subire, qualunque esso sia. “Mi accadrà questo o quello”: la nevrosi di attesa, anticipata da Freud nel suo scritto, lascia l’ammalato in balia del tempo, vietandogli non solo la possibilità di determinare il futuro ma anche quella di contrastarlo, di sottrarvirsi, di scansarlo. Da qui il timore, che può sconfinare nel panico, nella fobia appunto, nella paura ossessiva di un pericolo indeterminato, dalle molte possibili facce. Di questo stato patologico di attesa, di sospensione – uno stato relativamente nuovo, tipico della civiltà moderna, senza una grande letteratura clinica alle spalle – Freud non parlerà più molto spesso nella propria opera, neppure quando la “scienza” della psicoanalisi, da lui fondata, avrà oramai ridefinito per intero la classificazione delle malattie psichiche: l’attesa allora (secondo una tradizione legata più alla filosofia che alla psichiatria, o all’intersezione fra le due, da Kierkegaard a Jaspers a Minkovski) prenderà posto nel quadro clinico dell’angoscia. Freud ne parlerà brevemente molti anni dopo, nel 1925, in uno dei suoi saggi più ricchi e tormentati, Inibizione, sintomo e angoscia (Freud, 1978: 231), sul quale dovrà tornare più volte: proprio in una delle appendici del testo (“Aggiunta circa l’angoscia”, in Freud, 1978: 310) il nesso fra questa e l’attesa verrà definito una volta per tutte, distinguendo l’angoscia dalla semplice paura: l’angoscia, scrive Freud «ha un’innegabile connessione con l’attesa: è angoscia prima di e dinanzi a qualche cosa. Possiede un carattere di indeterminatezza e di mancanza d’oggetto; nel parlare comune, quando essa ha trovato un oggetto, le si cambia nome, sostituendolo con quello di paura». L’angoscia fa tutt’uno con l’attesa proprio perché anche questa, come egli stesso aveva anticipato nel saggio del 1892, divenuta ossessiva, una condizione estrema che prefigura la legge più intima e rigorosa dell’intera personalità, non riesce tuttavia a dare un nome, una determinazione realistica alla minaccia che la paralizza: «L’angoscia nevrotica è angoscia di fronte a un pericolo che non conosciamo. Il pericolo nevrotico è dunque un pericolo ancora da scoprire; l’analisi ci ha insegnato» scrive conclusivamente Freud «che esso è un pericolo pulsionale» (Freud, 1978: 311): proviene dunque da dentro e non da fuori, come invece è proprio del “pericolo reale”.

 

  1. «mi accadrà questo o quello»

 

Di questa nevrosi di attesa, anticipata nel 1892, Freud non propone alcun esempio tra i diversi casi clinici presentati nello studio, tutti legati alla patologia isterica. Né ancora in quegli anni gli era “venuto in mente”, come icasticamente scriverà nel saggio del 1906 sul Delirio e i sogni nella Gradiva di Jensen (Freud, 1972: 302), per supplire a quell’esemplificazione mancante, di interrogare le opere della letteratura. Se solo lo avesse fatto, anticipando di qualche anno un primo giro di orizzonte tra le pagine delle opere contemporanee – rispetto non solo all’attenzione per i sogni contenuti nel racconto di Jensen che gli verrà suggerito da Carl Gustav Jung, ma anche alla riflessione sul testo teatrale di Hermann Bahr L’altra che avrebbe proposto nel primo dei suoi saggi dedicati all’arte, Personaggi psicopatici sulla scena (Freud, 1972: 227), del 1905, rimasto a lungo nei cassetti di Max Graf – Freud si sarebbe certamente accorto di come il tema dell’attesa, la cui importanza aveva intuito attraverso l’analisi di alcuni dei suoi pazienti, stesse rapidamente diventando centrale nella letteratura a cavallo fra i due secoli. Quell’irretimento della volontà cosciente da parte di una controaspettativa che pareva fiaccarne tutte le forze; la condizione di sospensione, di paralisi, nella quale nulla sembrava potesse essere fatto per sollecitare il futuro, per costringerlo a pronunciarsi più in fretta; la rinuncia a ogni proponimento o azione, in nome di un’attesa che lasciava il soggetto in balia del tempo, di quanto esso, di sua iniziativa, gli avrebbe portato, si stava trasformando proprio allora in una delle figure più utili per intendere la natura e il destino dell’uomo contemporaneo.

 

Certo, non si può dire che, per la letteratura, quello dell’attesa fosse un tema nuovo: nella sua duplice ascendenza, greca ed ebraica, una condizione per vari aspetti simile all’attesa, sia pure con nomi diversi, aveva costituito da sempre una sorta di controcanto, di versante in ombra rispetto alla fame di avventure e di azione del soggetto letterario occidentale. A fianco delle peripezie di Achille o Ulisse, la storia di Penelope; a margine degli eroi partiti per le Crociate o per qualche altra missione, in terra o in mare, le donne e gli uomini che rimanevano in patria, nelle case, attendendone il ritorno; in mezzo a coloro che lottavano concretamente per migliorare la propria sorte terrena, le condizioni della propria vita mortale, quanti si affidavano invece a una legge al di là da venire, alla giustizia divina, lasciando che nel frattempo, nel mondo, quanto doveva accadere accadesse, disinteressandosi della propria effimera condizione presente. Laica o religiosa, millenaristica o metafisica, la storia della letteratura è attraversata da innumerevoli specie di attesa; essa ha dato forma anche ai propri luoghi deputati, come il Purgatorio, “sala d’attesa” del Paradiso (ma anche “inferno a tempo”), “luogo dei medi” dove l’anima individuale fa esperienza di una condizione di sospensione, di mancato pronunciamento del giudizio divino, che rischia di prolungarsi all’infinito1. La letteratura romantica ne rielabora radicalmente il concetto, ponendolo al centro della propria immagine dell’uomo; pure, dell’attesa non pronuncia quasi mai il nome: il campo semantico che a essa fa riferimento si consolida attraverso i motivi, variati all’infinito, dell’abitudine (o della leopardiana “capacità di assuefazione”), della noia e della speranza. Solo verso la fine dell’Ottocento quella condizione diventa tanto comune da avere bisogno di una parola tematica univoca che la riassuma: l’attesa si trasforma in uno degli stati più caratteristici dell’uomo nella città moderna, emblema della sua solitudine, della sua povertà di esperienza; è la condizione di quanti, confusi nella folla, nella massa metropolitana, sentono di non avere più la forza per determinare mediante la volontà il proprio destino individuale, ma si abbandonano invece a una sorta di fatalismo, di accettazione indiscriminata della quotidianità del vivere: basta aspettare e qualcosa capiterà comunque, “mi accadrà questo o quello”.

 

Con il Freud di quegli anni, ad esempio con quello che riflette, nel marzo del 1908, sulla “morale sessuale civile” e il “nervosismo moderno” (Freud, 1972: 407), potremmo dire che la condizione di attesa è tipica dell’uomo che si è trovato a dovere sacrificare le originarie richieste del principio di piacere agli obblighi che la società ha assunto in suo nome in vista dell’affermazione sempre più perentoria del principio di realtà. L’attesa è l’altra faccia, quella in ombra, della fretta, dell’agitazione, dell’improcrastinabilità con la quale la moderna civiltà tecnologica richiede che tutto si adegui ai ritmi incredibilmente accelerati del suo dominio; riprendendo nel saggio le parole di studiosi come Erb, Binswanger o Krafft-Ebing, Freud si fa ripetere da loro come «attraverso la smisurata intensificazione del traffico e le reti delle comunicazioni telegrafiche e telefoniche che abbracciano tutto il mondo, le condizioni del commercio sono radicalmente cambiate: tutto viene fatto nella fretta e nell’agitazione, la notte è impiegata per viaggiare e il giorno per gli affari […] Grandi crisi politiche, industriali e finanziarie diffondono l’agitazione in strati della popolazione molto più vasti di prima […] La vita nelle grandi città diventa sempre più raffinata e inquieta. I nervi esausti cercano ristoro in stimoli più intensi, in piaceri piccanti, per stancarsi così ancora di più. La letteratura moderna si occupa prevalentemente dei problemi più scabrosi, che sommuovono tutte le passioni, incoraggiano la sensualità e la sete di godimento, il disprezzo di tutti i principi etici e di tutti gli ideali; essa presenta allo spirito del lettore figure patologiche, problemi di psicopatia sessuale, rivoluzionari e d’altro genere» (Freud, 1972: 413). Contro questa accelerazione parossistica, contro il dominio della fretta e dell’agitazione, la società moderna definisce anche la figura opposta, quella di chi cede davanti alle sue pretese essendo consapevole di non farcela, abbandonando ogni proponimento, ogni fiducia di potere ottenere un qualche successo con le proprie deboli forze. Insieme alle figure dei grandi lottatori, degli appassionati, di quanti si sottomettono all’imperativo estremo che li sospinge inesorabilmente verso l’azione, la lotta per la vita, l’affermazione di sé, la letteratura contemporanea comincia a dare forma a un personaggio che, seppure in modo antitetico, costeggia anch’egli la patologia: l’eroe della resa, dell’abbandono, della rinuncia a tempo indeterminato alle richieste del principio di piacere. Un eroe che, dalla metà dell’Ottocento, nella letteratura occidentale, si era già incarnato in figure che avevano tutte alle spalle il grande archetipo dell’Hamlet shakespeariano, campione dell’irresolutezza e del dubbio, del conflitto interiore che rende impossibile l’azione e la fa fallire quando alla fine ha luogo; una scintilla del quale si ritrova in modelli diversissimi come Bartleby o l’Uomo del sottosuolo, Oblomov o gli innumerevoli “uomini superflui” o “inetti a vivere” che popolano le pagine della letteratura occidentale. Ma l’attesa come tale, la “vera e propria attesa” quale Freud la descriverà nel saggio del 1892: un rimanersene immobili aspettando angosciosamente che il destino prenda forma al di fuori di ogni proponimento, da ogni sforzo di conoscerlo, di prevederlo, di andargli incontro, il puro “mi accadrà questo o quello”, non era una condizione che la letteratura avesse ancora tematizzato in modo tanto radicale. Di nessuno di quei protagonisti, da Bartleby in poi, si poteva dire che egli ‘aspettasse’: Bartleby stesso non domanda nulla al futuro, è anzi tutto nel presente, la speranza per lui viene sostituita dall’ostinazione; Bartleby vorrebbe essere lasciato fuori dal tempo, preferirebbe non essere costretto a fare nulla indipendentemente da qualunque immagine di un dopo, di un domani, di un futuro quale che sia, idee tutte che ugualmente non lo riguardano. Mentre la condizione di chi aspetta è radicata nel tempo. Un futuro c’è, ci sarà, ma su di esso è impossibile agire: bisogna solo lasciare, come più avanti dirà Eugène Minkovski, che il tempo nella sua marcia “in senso inverso” gli si faccia incontro e infine lo raggiunga, risentendo “fino alle viscere” la violenza di quell’attesa (Minkovski, 2004: 83).

 

  1. «una grande avventura negativa»

 

È dalla fine dell’Ottocento che vicende di questo tenore hanno iniziato a diventare frequenti; ma sono solo i primi anni del nuovo secolo a consegnare alla storia della letteratura alcune opere che intorno alla condizione di attesa costruiscono un’immagine inedita dell’essere umano. Un tema tradizionalmente volto al femminile – l’uomo parte per una qualche impresa, per un remoto altrove, mentre la donna attende il suo ritorno – viene ora declinato al maschile: nell’uomo che aspetta il proprio destino si riconosce un versante sorprendente, sconosciuto di quell’avventura, nella quale alla donna viene adesso riservato un ruolo non solo di compagna ma di esperta, di guida, quasi di indovina. Sull’enigma dell’attesa la donna ne sa di più; grazie all’esperienza che ha accumulato nel corso di una tradizione millenaria è in grado di sopportarne meglio l’angoscia, decifrando in profondità il problema che essa rappresenta. Negli stessi anni di Bartleby, Melville aveva dato vita a personaggi come quelli di Agatha, il carattere da lui “donato” a Hawthorne e mai portato a compimento, che rimarrà quale una sorta di passaggio segreto fra le loro opere, oppure come la Hunilla delle Encantadas. In entrambe una storia simile a quella dello scrivano che “avrebbe preferito di no” si trasforma in quella di una condizione di attesa sopportata oltre ogni ragionevolezza e ogni speranza: sull’isola remota dove il marito la ha abbandonata, Agatha si reca ogni mattina a visitare, per diciassette anni, la cassettina vuota della posta, fino a quando l’usura non la fa marcire, «vi crescono tutt’intorno erbe rigogliose. Alla fine un uccellino ci fa il nido. E alla fine il paletto crolla» (Melville, 1990: 1042). Mentre Hunilla, la meticcia indiana che si ritrova abbandonata su un’isola, come Robinson Crusoe, dopo la morte per affogamento del fratello e del marito, riesce a sopportare la sua condizione inventandosi una sorprendente «matematica della disperazione» grazie alla quale sormontare il «labirinto» del tempo, dove altrimenti si sarebbe «completamente smarrita». Hunilla decide che una baleniera immaginaria è appena salpata per venire a salvarla, e inizia a calcolare da quella «data precisa», ma assolutamente fantastica, la successione dei giorni: «ora che posseggo una certezza, non mi resta che attendere. Adesso sì che vivo, e non mi sento più affondare nella follia»2.

 

Come le protagoniste di Melville, come la Madama Butterfly pucciniana e molte altre figure femminili della fine dell’Ottocento in tutte le arti, le donne sembrano possedere delle ricette segrete per sopportare l’attesa, anche se quasi mai si dimostrano disposte a rivelarle: «Essa non ci mostrò che il coperchio della sua anima» scrive il narratore melvilliano dopo l’incontro con Hunilla «e le strane cifre che vi erano incise, ma tutto ciò che nascondeva all’interno, con la timidezza dell’orgoglio ce lo sottrasse» (Melville, 1990: 567). Mentre gli uomini da questa condizione appaiono spiazzati, sgomenti, quasi travolti; all’inizio del secolo l’attesa sembra metterli di fronte a un tipo di avventura che per loro è del tutto nuova e sconcertante. «Una grande avventura negativa», la definisce nelle Prefazioni per l’edizione newyorkese delle proprie opere Henry James (James, 19861: 290): è quella che tocca a uno dei suoi personaggi più enigmatici, John Marcher, il protagonista di La bestia nella giungla, il racconto pubblicato nel 1903 nel quale si può dire che il tema dell’attesa si affacci per la prima volta, nel Novecento, come quello in grado di riassumere emblematicamente l’enigma di una condizione fino ad allora sconosciuta. Quella dell’uomo che non su un’isola deserta, ma in una città come la Londra dell’inizio del secolo, è costretto ad attendere che il destino gli riveli cosa ha in serbo per lui; e che in questo intevallo potenzialmente interminabile sente di non potere assolutamente agire per accelerare quella rivelazione, riconoscendosi in balia di una forza che lo lascia privo di risorse e di volontà più ancora di Agatha o Hunilla nella loro prigionia. John Marcher è il modello letterario perfetto di quella condizione di ‘vera e propria attesa’, di quella nevrosi per la quale, nello studio del 1892, Freud non aveva ancora trovato alcun esempio adeguato; ed è un peccato che qualche anno più tardi, iniziando la propria corrispondenza con lui, fra le opere pubblicate all’inizio del secolo – addirittura in quello stesso 1903 – Carl Gustav Jung gli abbia suggerito di leggere non il racconto di James, che probabilmente neppure lui conosceva, ma la infinitamente meno importante “operetta” di Wilhelm Jensen Gradiva. Una fantasia pompeiana. Certo, John Marcher non sogna, come Norbert Hanold. Ma nella sua ossessione, nel suo presentimento di dovere attendere una “cosa”, una “bestia”, «qualcosa che devo incontrare, affrontare, che esploderà all’improvviso nella mia vita; forse distruggendo ogni ulteriore consapevolezza, forse distruggendomi; a meno che non si accontenti di alterare ogni equilibrio, colpendo alle radici tutto il mio mondo e abbandonandomi alle conseguenze, quali che siano»3, Freud non avrebbe potuto non riconoscere la presenza della sindrome che egli aveva anticipato qualche anno prima, sorprendendosi anzi di come essa, alla pari dell’isteria, si stesse progressivamente volgendo dal femminile al maschile e rivelasse, proprio in questa estensione del contagio all’uomo, una potenzialità, una virulenza inaspettata. John Marcher non solo è sano ma è ben inserito nel proprio gruppo sociale poco meno che aristocratico, ama le cose belle, l’arte, il lusso, è in grado di ragionare con profondità su se stesso e sugli altri, di sostenere relazioni di amicizia anche intime; bisogna scavare molto a fondo in lui per riconoscere quanto quella misteriosa “nevrosi di attesa” lo abbia scavato interiormente, facendo della sua persona sociale, della faccia con cui si presenta agli altri, una sorta di maschera, di guscio vuoto.

 

Più ancora, se immaginiamo che Jung avesse proposto alla lettura di Freud non l’uno o l’altro dei due racconti – la Gradiva di Jensen e La bestia nella giungla di James – ma entrambi, questi non avrebbe potuto non rilevare come essi, nelle prime battute della trama, partissero da un plot sorprendentemente simile. C’è un protagonista maschile ancora giovane, uno scienziato come Norbert Hanold o un esperto di arte come John Marcher che, al di sotto di una facciata di normalità, cova in modo latente una patologia misteriosa; che gli consente di vivere un’esistenza da persona adulta apparentemente normale, ma lo costringe segretamente a una sorta di anaffettività, di solitudine coatta, di vita sentimentale segnata dal vuoto e dalla rimozione. Norbert Hanold ha dimenticato tutto della sua amica d’infanzia, Zoe Bertgang; mentre John Marcher ha cancellato dalla sua memoria il ricordo di avere parlato per un’unica volta nella vita del suo segreto – il presentimento di essere condannato ad attendere per tutta la vita il salto di quella bestia dalla giungla – proprio con quella May Bartram il cui viso, quando la incontra di nuovo casualmente durante una visita a Weatherend, gli appare invece pressoché sconosciuto, «una vaga reminiscenza più che un vero e proprio ricordo» (James, 1984: 138). John Marcher ha rimosso l’incontro con May e la confessione che le ha fatto; al posto di quanto accaduto allora ha invece inserito nella memoria una zeppa, patisce una paramnesia che proprio May dovrà smantellare punto per punto restituendo a John il ricordo autentico del loro incontro, proprio come Zoe Bertgang, con una strategia ancora più lunga e complessa, dovrà fare con Norbert Hanold. Anche l’ambientazione di quella rivelazione è simile: come per i due protagonisti della Gradiva, anche per John Marcher e May Bartram il colloquio decisivo aveva avuto luogo in Italia, durante un viaggio a Napoli, in una gita a Pompei nel corso della quale un “violento temporale” «li aveva costretti a rifugiarsi in uno scavo» (James, 1984: 140). Ce ne sarebbe stato abbastanza perché Freud, leggendo i due racconti, ne sottolineasse le somiglianze. Notando però subito dopo come, a partire da quei punti di contatto, le due opere prendessero poi una piega completamente diversa, addirittura opposta: se la cura di Zoe Bertgang avrebbe avuto successo, tanto che il suo comportamento con Norbert Hanold gli sarebbe apparso come il modello stesso di una psicoanalisi perfettamente riuscita, egli non avrebbe potuto al contrario non rimanere sconcertato dal fallimento della lunghissima azione terapeutica intrapresa da May Bartram con John Marcher. Una relazione dall’esito catastrofico che si sarebbe conclusa con la morte di May e la permanenza di John in uno stato di sofferenza e dolorosa inconsapevolezza, fino al momento in cui, proprio nelle battute finali del racconto, quando oramai è troppo tardi per salvarsi, i lineamenti del viso sconvolti dalla passione di uno sconosciuto gli avrebbero svelato il segreto della sua attesa, la natura della bestia che lo aveva atterrito e costretto a quella vita di rinunce: lui era stato «l’uomo del suo tempo, l’uomo, il solo, al quale doveva capitare che non succedesse nulla […] la verità, vivida e mostruosa, secondo cui per tutto il tempo della sua attesa la sua parte era stata proprio quella di attendere» (James, 1984: 195-196). Certamente Freud avrebbe riconosciuto non solo la perfezione stilistica del racconto di James, ma anche l’esattezza della sua diagnosi: John Marcher gli sarebbe apparso affetto da quella sindrome misteriosa, la nevrosi di attesa, per la quale, in assenza di conoscenze sicure e dunque di terapie efficaci, l’esito non poteva essere che catastrofico. A differenza di Norbert Hanold, John Marcher non poteva essere salvato; la stessa dedizione della donna, May Bartram, che aveva accettato di condividerne la malattia, di farsi contagiare a sua volta da essa per tentare di guarirlo, e che a un certo punto ne aveva intuito la natura senza però volerla rivelare al proprio paziente, si era dimostrata inefficace: per quella patologia inedita neppure lei possedeva una ricetta o terapia adeguata, e nemmeno le era stato possibile giovarsi dei repertori e degli archivi segreti delle donne, che su di essa non dicevano nulla.

 

  1. la cifra nella giungla

 

Di cosa soffre John Marcher? Ed Henry James dove è andato a scovare quel suo protagonista? Nelle Prefazioni all’edizione newyorkese, la ricostruzione che egli propone della genesi della Bestia nella giungla è molto succinta, forse reticente: «io risalgo attentamente la corrente del tempo» scrive James, «ma solo per tornare a mani vuote». Il soggetto del racconto, ricorda, si trova anticipato «in dieci righe d’un vecchio quaderno d’appunti solo come idea registrata e fatto compiuto» (James, 19861: 289): anche lì insomma non è annotato nulla dell’affiorare dell’idea, quasi essa gli si fosse presentata come un blocco compatto, già formato. La trama della storia, si legge nei Taccuini alla data del 27 agosto 1901, ha preso forma da una «fantaisie piccola piccola»: quella «di un uomo ossessionato per tutta la vita, e sempre più, dal terrore che qualcosa gli accadrà: ma cosa non ne ha idea. La sua vita sembra sicura e regolata, responsabilità e rischi (conseguenza della sua paura) notevolmente limitati e ridotti, per cui passano gli anni e la folgorazione non arriva. «Eppure “arriverà, eh, se arriverà”, si sorprende a pensare» (James, 19862: 397). A questo punto il protagonista decide di parlarne con qualcuno, forse con una donna, «una sorta di seconda coscienza dell’aneddoto». Alla fine sarà lei a comprendere, a dimostrarsi più “lucida”: «lei vede che la cosa non accade» e intuisce, annota James, che proprio quell’attesa costituiva l’esperienza essenziale che lui avrebbe dovuto affrontare; mentre l’uomo riuscirà a comprenderlo solo quando sarà ormai troppo tardi, lei «è morta, l’ha perduta», e la possibilità che avrebbe avuto di scansare grazie all’amore di lei il proprio destino è perduta anch’essa: «Tutta la sua meschina sicurezza e ritrosia lo avevano accecato. Ecco cosa avrebbe potuto accadere, mentre ciò che è accaduto è che non è successo niente» (James, 19862: 398).

 

Ricondotto alla sua idea primitiva nelle pagine dei Taccuini, il nucleo narrativo della Bestia nella giungla appare non frainteso ma come sottovalutato da James, o forse abbassato ad arte; ricondotto a una di quelle vicende contrassegnate dal «troppo tardi» – «di un’amicizia, una passione o un vincolo», della «vita in genere», emblematiche dello «spreco della vita» (James, 19862: 243) – che dovevano avere per lui un inquietante risvolto autobiografico. Nelle Prefazioni al contrario, una decina di anni dopo, James riconoscerà l’oscuro valore di parabola che aveva assunto nel frattempo la «grande avventura negativa» di John Marcher, «cercatore bendato»4 che la vita ha collocato ai margini, ad attendere il proprio destino; tutta la sua esistenza trascorre «sotto la stella così mista del massimo di apprensione e del massimo di fiducia», sicché egli si ritrova alla fine nella stessa condizione dalla quale era partito, in attesa, salvo che ogni cosa è ormai trascorsa. Quanto egli stesso riconoscerà nell’illuminazione finale: «Un tal corso di esistenza implica naturalmente un climax – il lampo finale della luce che gli fa leggere l’eterno enigma della sua vita e confermata la sua convinzione. Egli è stato davvero segnato e ha davvero sofferto il suo destino – che è precisamente quello d’essere stato il solo uomo al mondo al quale non sia accaduto nulla» (James, 19861: 290). Non il solo forse ma certamente il primo, almeno fra quelli il cui destino è testimoniato nelle opere letterarie di quegli anni; il primo cui sia toccato sperimentare il versante feroce, selvaggio (la Bestia nella giungla, appunto; André Green parlerà del racconto come di un testo «d’une extraordinaire cruauté», L’Attente, cfr. Green 1986: 210) di quella nevrosi, di quella condizione di attesa che fino ad allora non era mai stata rappresentata con una violenza altrettanto estrema, ma che proprio attraverso il racconto di James fa il suo ingresso nel novero delle patologie legate alla città, al suo potere annichilente, distruttivo. Se Hawthorne, Melville o Poe avevano riconosciuto cinquant’anni prima, nell’«uomo della folla», il soggetto che la massa avrebbe estraniato da se stesso trasformandolo in un escluso, un reietto dall’identità debole e minacciata, abbarbicato al proprio posto miserabile come all’unica dimora possibile, ora James svela, attraverso il caso di John Marcher, come anche in soggetti tutt’altro che marginali quell’infezione avesse proceduto rapidamente rendendo in breve impossibile ogni esperienza, ogni proponimento individuale, l’idea stessa di un’azione efficace, orientata dalla volontà cosciente. Con John Marcher «il volto vuoto e terribile dell’attesa pura» (Bompiani, 1988: 30), scrive Ginevra Bompiani commentando il racconto, si materializza in un quadro di normalità, di esistenze apparentemente piacevoli e ricche di relazioni, di relativa agiatezza economica. La “giungla” si lascia intravedere subito dietro il salotto, come la sua faccia oscura, e la presenza selvaggia della “bestia” è proprio quanto in esso non può essere mostrato: la minaccia indeterminata ma assoluta che essa porta a quell’ordine, l’ospite che ne svela la realtà (il “reale” in senso lacaniano, per la Bompiani) che proprio quelle apparenze avevano tentato di nascondere: «l’attesa di John Marcher viene esattamente compiuta, e tuttavia la sorpresa lo annienta» (Bompiani, 1988: 29-30). Lui e tutto il suo mondo, almeno quale gli era apparso fino ad allora.

 

La vicenda del protagonista della Bestia nella giungla ci pone di fronte ad alcuni enigmi che il tessuto compatto della narrazione di James finisce con il rendere meno evidenti. Proviamo a riepilogarli. Il primo: da dove John Marcher ha potuto ricavare quella sua convinzione, quel “presentimento”, «la sensazione di essere destinato a qualcosa di raro e di strano, prodigioso e forse terribile» che lo avrebbe «colpito, e magari sopraffatto, presto o tardi» e che lui poteva soltanto “attendere”, non “fare” né sollecitare in alcun modo? (James, 1984: 146-147). Cosa dentro di lui gli si è rivolta con questo linguaggio enigmatico, oracolare, imponendogli di attendere, di rimanere vigile, di sorvegliarsi, e intanto di non fare nulla? Quale parte della sua psiche ha potuto interpellarlo con una simile parola ambigua, duplice, che lo invitava a provare per sé e per il proprio caso, come dirà James, allo stesso tempo il massimo di “apprensione” e il massimo di “fiducia”? Da dove John Marcher ha tratto quel rapporto ambivalente con l’esistenza, che lo destina contemporaneamente all’eccellenza e all’inerzia, a una sorte straordinaria e miserabile, a un futuro luminoso e nello stesso tempo alla stagnazione, all’abisso del presente? È una voce nuova e misteriosa perché, poco conosciuta fino a questo momento, essa si lascerà invece udire molto spesso d’ora in avanti, dopo la sua avventura: è la stessa che ascolteremo in Conrad, in Walser, in Kafka, persino in Beckett, quella che manda in rovina il presente perché è il futuro il tempo in cui si ha fiducia. Questa sorprendente convinzione, il “presentimento” del protagonista di James, stabilisce con la dimensione del tempo un doppio legame che è il cuore stesso dell’attesa moderna: all’“angoscia” prima e di fronte a qualcosa, quanto in essa aveva visto Freud, si aggiunge ora una nota in parte diversa, che la rende allo stesso tempo materna, ospitale, protettiva. L’attesa elegge, l’attesa chiama. Se quella voce fosse stata soltanto negativa, se avesse obbligato a rinunciare e a soffrire per le occasioni andate perdute senza averne saputo approfittare, non prestarle ascolto si sarebbe dimostrato molto più facile; mentre per John Marcher e per quanti più avanti ne condivideranno il destino l’attesa metterà in mostra anche un versante rassicurante, fiducioso, lascerà intendere di avere in serbo una promessa impossibile, una rivelazione che «esploderà all’improvviso» solo per chi le ha dato ascolto; una sensazione di certezza, di beatitudine nell’attesa, della quale Kafka offrirà una formulazione perfetta qualche anno più avanti, in uno dei più celebri fra i suoi frammenti: «Non occorre che tu esca di casa. Resta al tuo tavolo e ascolta. Non ascoltare nemmeno, aspetta soltanto. Non aspettare neppure, restatene tutto solo e in silenzio. Il mondo verrà da te a farsi smascherare, non può farne a meno, si voltolerà estatico ai tuoi piedi» (Kafka, 1988: 117)5.

 

Nel presentimento che John Marcher ha della propria destinazione all’incontro con la bestia c’è questa nota doppia, ambivalente, che sgomenta ma nello stesso tempo seduce, irretisce. Tuttavia quella vocazione è forse troppo enigmatica per potere essere sopportata da soli. Si ha bisogno di un complice, di un confidente per reggerne il peso. Non si spiegherebbe altrimenti il secondo enigma che la narrazione di James trascura, facendolo scivolare senza apparire all’interno del discorso che John e May intavolano fra loro a Weatherend, all’inizio del racconto, per “rifare conoscenza”. Allora, lei è costretta più volte a correggere le paramnesie, le toppe che alterano le vaghe reminiscenze di John, ristabilendo con le proprie parole la verità di quanto accaduto nel loro primo incontro, «come la torcia di un lampionaio che trasforma in fiamma, sfiorandoli uno ad uno un lungo filare di lampioni a gas» (James, 1984: 140). May ricorda tutto con precisione, ma neppure lei può spiegare il motivo per il quale John, dieci anni prima, si fosse deciso a parlarle; come mai per un’unica volta nella vita, durante quella gita a Pompei, lui le avesse svelato il proprio segreto, per poi dimenticarsene subito dopo: «la circostanza di averle sussurrato un segreto così gli era inspiegabilmente svanita dalla mente» (James, 1984: 145). Qui certo Freud, se avesse potuto leggere il racconto di James, avrebbe notato quanto fosse rivelatore quell’avverbio, “inspiegabilmente”, e quanto invece spiegabilissime le circostanze alle quali esso fa riferimento. Avrebbe considerato quello di John Marcher come un tipico caso di rimozione, e le reminiscenze erronee di lui quali ricordi di copertura destinati a nascondere una lacuna, un vuoto che, per mantenersi, aveva bisogno che tutto intorno a esso fosse cucita una rete di parole approssimative e parziali. Ma forse persino Freud sarebbe rimasto sorpreso dalla circostanza che John Marcher, per parlare per la prima volta nella vita del proprio segreto, avesse scelto una donna che era per lui una perfetta sconosciuta: – «Così, io sarei l’unica persona a sapere?», May chiede a John nel corso del colloquio di Weatherend. – «L’unica al mondo», le risponde lui in modo perentorio.

 

Come ha potuto John confidarsi con May, per poi dimenticarsene per dieci anni? Più ancora, perché le ha parlato, con quale fine? – «Dirle quello che le aveva detto…» commenta il narratore, rimarcando le intenzioni nascoste del personaggio, «cos’altro era stato se non chiederle qualcosa?» (James, 1984: 146). Implicita, reticente domanda d’amore certo, quale potrebbe farla un uomo come John Marcher; più ancora però “domanda” in senso lacaniano, domanda incondizionata rivolta all’altro, richiesta di senso, di confidenza, di riconoscimento. Nelle parole sfuggite a John Marcher appare evidente come l’attesa sia impossibile da sostenere da soli; come essa spalanchi nella vita una souffrance dalla quale sarà possibile uscire solo per mezzo dell’Altro, di un’altra. È questo il ruolo di May, il posto della donna nella «grande avventura negativa» dell’attesa che incombe su John, sull’uomo dei primi anni del Novecento. May lo interroga subito dopo, chiedendogli se per lui la soluzione, quanto avrebbe potuto risolvere quell’attesa, quella «sensazione di pericolo», potesse essere il fatto di “innamorarsi”; reticente, allusivo, egoista, ipocrita (almeno agli occhi del lettore, mentre viene falsamente blandito dal narratore) John le risponde immediatamente di no, di avere già provato, ma che l’amore «non era come dovrebbe essere la mia cosa» (James, 1984: 147). Nonostante tutto forse John su questo ha ragione e, opponendo un rifiuto all’ipotesi di May – e alla sua stessa implicita offerta – le sta dicendo la verità. L’amore non basta a sciogliere l’attesa; per quella condizione inedita, “strana”, come John stesso la definisce, la risposta non può essere un’esperienza al contrario tanto comune («una cosa piacevole, una cosa deliziosa, una cosa disperante […] ma tutt’altro che strana»), che la ricondurrebbe verso gli stereotipi del passato. La sua situazione potrebbe ricordare piuttosto quella di un altro celebre protagonista di James, il giovane critico che, in The Figure in the Carpet, ha anche lui udito pronunciare dal grande scrittore, Hugh Vereker, delle parole oracolari, che contengono la traccia di una possibile rivelazione che però non gli è riuscito di comprendere6. Il compito che Vereker gli ha assegnato si è rivelato inesauribile; come John Marcher anche lui è costretto ad aspettare, ad attendere che la “ruota” completi il proprio giro, sperando che prima o dopo essa gli conduca la risposta che non è stato in grado di trovare con le proprie forze. Prova a fare delle ipotesi, a chiedere un ulteriore aiuto allo scrittore, a barare con il destino, a denigrare il segreto, a minacciare, a corrompere; sposerebbe perfino Gwendolen Erme, la vedova di George Corvick (i due critici che forse sono venuti a capo di esso) se solo lei fosse disposta a rivelarglielo. Ma anche in questo caso, come in The Beast in the Jungle, l’amore non sembra essere una risposta sufficiente: alla fine del racconto il giovane critico è ancora fermo al punto di partenza aspettando che la risposta arrivi, o che qualcuno – magari il secondo marito di Gwendoleen, Drayton Deane – sia disposto a rivelargliela, a qualunque condizione. Ma neppure lui la conosce: la souffrance, l’attesa, rimane incompiuta e il giovane critico si ritrova, come John Marcher, a incarnare il ruolo di osservatore coatto della vicenda di cui aveva sperato di potere essere invece protagonista; anche lui un “blinded seeker”, il cercatore accecato di una risposta, di una risoluzione dell’enigma che si è trasformata a questo punto nel vaticinio che solo gli consentirebbe di smuovere qualcosa nei meccanismi inceppati del proprio destino. Per intendere qualcosa di quella risposta bisognerà invece spingersi molto in avanti nel Novecento; ascoltare molte altre voci, intendere numerose altre storie che, come denominatore comune, avranno proprio quella “nevrosi di attesa” della quale Freud aveva potuto soltanto prefigurare l’incombente minaccia.

 

 

Note

 

1 J. Le Goff, La naissance du Purgatoire, Gallimard, Paris 1981 (trad. it. Einaudi, Torino, 2006); di Le Goff cfr. anche i saggi “Les Limbes”, in L’attente, «Nouvelle Revue de Psychanalyse», n. 34, Gallimard, Paris 1986, p. 151 ss. e “L’attente dans le Christianisme: le Purgatoire”, in «Communications», a. 70, n. 70, 2000, p. 295 ss.

2 H. Melville, “Le Encantadas”, in Opere scelte, II, cit., p. 517 ss. La vicenda di Hunilla è narrata nell’“Ottavo bozzetto”, “L’ isola di Norfolk e la vedova ciola”, 561 ss; le citazioni sono alle pp. 569-571.

3 H. James, “La bestia nella giungla” (1903), in La bestia nella giungla e altri racconti, Garzanti, Milano, 1984, p. 135 ss. Tutte le citazioni ss. sono prese da questa edizione; la presente è a p. 147. Per una lettura di questo racconto di James nella prospettiva dell’attesa, rimando pure al mio saggio “‘Interpretare! Che brutta parola!’. Leggendo The Beast in the Jungle di Henry James”, in «Contemporanea», 10, 2012, pp. 35-44.

4 H. James, Prefazioni, cit., p. 290. Insistono su queste due espressioni utilizzate da James nelle Prefazioni alla Bestia nella giungla: “grande avventura negativa”, “cercatore bendato” (“blinded seeker”) le pagine che al racconto ha dedicato André Green nel suo saggio “L’aventure négative”; per esso cfr. il volume della «Nouvelle Revue de Psychanalyse» dedicato all’ Attente, cit., pp. 197-224.

5 Il frammento dovrebbe essere dei primi mesi del 1918, scritto da Kafka nel corso di una lettura insistita delle opere di Kierkegaard.

6 H. James, The Figure in the Carpet (1896), in The Complete Tales, vol. 9, 1892 – 1898, a cura di L. Edel, Rupert Hart-Davis, London, 1964, pp. 273-315; trad. it. La figura nel tappeto, Sellerio, Palermo 2002.


nota bibliografica

  1. Bompiani, L’attesa, Feltrinelli, Milano 1988.
  2. Freud, “Un caso di guarigione ipnotica” (1892), in Opere, vol. I, 1886 – 1895, Boringhieri, Torino 1967 (1984).
  3. Freud, “Personaggi psicopatici sulla scena” (1905), in Opere, vol. 5, 1905 – 1908, Boringhieri, Torino 1972 (1985).
  4. Freud, “Delirio e sogni nella Gradiva di Jensen” (1906), in Opere, vol. 5, 1905 – 1908, Boringhieri, Torino 1972 (1985).
  5. Freud, “La morale sessuale ‘civile’ e il nervosismo moderno” (1908), in Opere, vol. 5, 1905 – 1908, Boringhieri, Torino 1972 (1985).
  6. Freud, “Inibizione, sintomo e angoscia” (1925), in Opere, vol. 10, 1924 – 1929, Boringhieri, Torino 1978 (1985).
  7. Green, “L’ aventure negative”, in L’attente, «Nouvelle Revue de Psychanalyse», n. 34, Gallimard, Paris, 1986.
  8. Le Goff, La naissance du Purgatoire, Gallimard, Paris, 1981 (trad. it. Einaudi, Torino 2006).
  9. Le Goff, “Les Limbes” in L’attente, «Nouvelle Revue de Psychanalyse», n. 34, Gallimard, Paris 1986.
  10. James, La bestia nella giungla e altri racconti, Garzanti, Milano 1984.
  11. James, “Prefazione a L’altare dei morti”, in Le prefazioni, Editori Riuniti, Roma 19861.
  12. James, Taccuini (1947, 1974), Theoria, Roma – Napoli 19862.
  13. James, The Figure in the Carpet (1896), in The Complete Tales, vol. 9, 1892 – 1898, a cura di L. Edel, Rupert Hart-Davis, London 1964.
  14. Kafka, “Quarto quaderno”, in Lettera al padre. Gli otto quaderni in ottavo. Considerazioni sul peccato, il dolore, la speranza e la vera via, Mondadori, Milano 1972 (1988).
  15. Melville, “[La storia di Agatha]”, in Opere scelte, II, Mondadori, Milano 1975 (1990).
  16. Minkovski, Il tempo vissuto (1933), Einaudi, Torino 1971 e 2004.
  17. Satta, Il giorno del giudizio, Adelphi, Milano 1979.

 

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[Immagine: Lucio Fontana, Concetto spaziale: le attese (gm)].

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