cropped-wiki1.pngdi Edoardo Lombardi Vallauri

[Questo intervento è uscito su «Il Mulino», marzo 2016]

In linguistica, la «Teoria delle Onde» del tedesco Johannes Schmidt (1843-1901) spiega come un cambiamento, irradiandosi da un centro, raggiunga la periferia dell’area che coinvolge. Ad esempio, l’uso di piuttosto che nel senso di «oppure» è partito da Milano negli anni Ottanta, e si è propagato per imitazione nella penisola; sicché adesso si può sentir dire a Napoli: vado sul Rettifilo e mi compro una canotta, piuttosto che dei leggings, piuttosto che un borsa. Spesso però accade che, mentre l’innovazione raggiunge la periferia, al centro le cose cambino di nuovo, cosicché l’innovazione diventa a sua volta una fase superata, che si conserva solo in luoghi marginali. Questo fu descritto da Matteo Bartoli (1873-1946) come Norma dell’area più recente: «L’area di più recente colonizzazione conserva la fase più arretrata».

Il fenomeno si osserva ad esempio nell’impero romano linguisticamente latinizzato. In diversi casi l’Italia attesta parole divenute di uso comune nel latino degli ultimi secoli, mentre le aree più periferiche conservano il termine del latino precedente, che le ha raggiunte quando a Roma si stava già imponendo un uso nuovo.

Questo fenomeno non riguarda solo la lingua, ma ogni attività umana in cui giochi un ruolo l’imitazione. Ad esempio, gli epigoni di un grande artista (scrittore, musicista, pittore o altro) tipicamente adottano elementi della sua arte che poi perpetuano in modo passivo, mentre il grande artista li supera in direzioni nuove. Cosicché quei modi espressivi sopravvivono negli epigoni anche quando il centro di irradiazione li ha sostituiti.

 La mentalità aziendale nella sua forma più pura sopravvive nell’università e nella scuola. Anzi, sta conoscendo in esse la sua stagione di maggior furore, mentre le aziende leading, che l’avevano creata alla fine del secolo scorso, ne hanno poi preso le distanze, e oggi ne adottano forme meno rozze. Propagandosi con l’onda dell’imitazione la fase più arretrata ha raggiunto di recente la periferia dell’impero, cioè la componente della società che era più lontana da quella aziendale: il sistema dell’istruzione; e ora, ad opera di chi lo governa, vi si dispiega senza freni.

Qui per mentalità aziendale non intendo l’insieme complesso di caratteristiche che informano l’agire di tutte e di ciascuna azienda; ma il loro aspetto più tipico: la precedenza data al parametro economico. Questo è ciò che caratterizza le aziende rispetto ad altre imprese umane, come le famiglie, le amicizie, i club sportivi, le associazioni di volontariato, verrebbe voglia di dire la politica, ma chissà se ancora si può. È la priorità del fine economico, e la prevalenza del quantitativo sul qualitativo. Le due cose sono collegate, perché il denaro, che rappresenta il centro dell’agire aziendale, è la realtà che per eccellenza espelle il giudizio qualitativo, per esprimere tutto in termini quantitativi. Il denaro nasce per sopprimere le differenze qualitative, e per permettere di tradurre tutte le cose nei termini di un’unica realtà, su cui la domanda «Quale?» perde ogni senso, lasciando solo la domanda: «Quanto?». Tutto può diventare denaro, e il denaro può diventare tutto, quindi l’unica cosa che rimane sensato chiedersi è: Quanto Denaro.

Dunque la domanda fondamentale che ogni azienda pone a ogni suo dipendente è: Quanto denaro produci? Sulla risposta a questa domanda si basa la carriera che si fa nelle aziende. A questa domanda si ispira l’agire di ognuno all’interno di un’azienda, e l’agire complessivo dell’azienda. Della scuola, e in particolare della cosiddetta «Buona Scuola» di questo governo, con i suoi prèsidi manager e simili cose, non parlerò perché non la conosco direttamente. Ma posso descrivere un paio di esempi del prevalere del paradigma aziendale nell’università.

Che cosa deve produrre l’università? Sapere e capacità. Più ne produce, meglio è. Questo perché una popolazione forte di sapere e capacità sarà più felice, più reciprocamente rispettosa, e anche più ricca. La civiltà e la prosperità dei popoli più civili e più prosperi è direttamente proporzionale al loro tasso di istruzione. Quindi il modo più lungimirante di governare l’università è investirci molti soldi, pretendendo indietro molto sapere e formazione di alto livello. Non è pretendere che si atrofizzi su bilanci striminziti, e concentri ogni suo sforzo nel non andare in perdita. Non è pensare solo a quanto denaro entra e quanto denaro esce, ma a quanto sapere esce. L’università deve essere in grave perdita (economica), per poter rendere al meglio in sapere e capacità. È questo il suo pareggio di bilancio. Altrimenti è inutile. Invece l’università italiana viene governata da vent’anni come se la sola cosa fondamentale fossero i suoi conti economici.

Di questa tendenza fa parte l’accento che la governance mette sul fund raising. Fra i parametri in base a cui si valutano e si premiano i professori universitari, acquisisce sempre più importanza la capacità di organizzare progetti di ricerca finanziati da entità esterne. Così i docenti universitari vengono costretti ad accantonare i problemi scientifici e l’attenzione didattica, per concentrarsi su modi di ottenere soldi dall’esterno. Poi chi li ottiene deve dedicare il tempo rimasto a fare ricerca su qualcosa che servirà a produrre o risparmiare rapidamente soldi; perché nessuno dall’esterno dell’università finanzia ciò che non promette di rendere presto ancora di più. Chi avrà perso lo stesso tempo ma non avrà ottenuto i soldi dovrà fare ricerca senza soldi, perché la ricerca in sé e per sé non viene quasi più finanziata dallo Stato; e chi li ha ottenuti ne perderà ancora moltissimo nell’amministrarli e rendicontare con estenuante burocrazia. Questo meccanismo marginalizza ogni attività non diretta a generare soldi. È un meccanismo aziendalista (appunto nel senso ristretto e superato), che danneggia gravemente la ricerca e l’istruzione.

Emblematico e rivelatore è anche il caso recente della linguista italiana Roberta D’Alessandro, che ha vinto un sostanzioso finanziamento dello European Research Council. La giovane ha intimato al ministro Stefania Giannini di non gloriarsi del suo successo come di un successo italiano, perché lo ha ottenuto solo grazie al centro di ricerca olandese dove lavora. In Italia, ha detto, non venivo premiata e ho dovuto emigrare. Ho partecipato a concorsi da ricercatore, e li hanno vinti altri: altri che questo finanziamento non lo saprebbero vincere! Probabilmente vero, e non entriamo nella polemica. Ma è interessante notare che in tutto il putiferio dei commenti sulla vicenda si è sempre dato per scontato che quei concorsi li avrebbe dovuti vincere lei, se ci fosse stata giustizia. Perché chi ottiene super finanziamenti è certo più bravo di chi non li ottiene. Questa è appunto la mentalità aziendale: chi alza più soldi è il più bravo.

Invece, chi ha un po’ di esperienza di ricerca e di cultura sa che non sempre ciò che attira più soldi è migliore di ciò che non li attira. E chi abbia esperienza di finanziamenti europei sa che i soldi vanno di preferenza ai progetti di scienza applicata, che producono subito ricadute economico-pratiche, mentre tendono a restare non finanziate le idee nuove senza ancora un visibile versante applicativo, e in generale la ricerca di base.

In un concorso da docente universitario, bisogna far vincere chi appare più intelligente, più preparato, più capace di fare ricerca e più adatto a insegnare. Non sempre questo coincide con l’essere bravo a proporre progetti fortemente applicati, con ricadute economiche o sociali dirette, che attirano molti soldi. Leggendo l’esposizione che fa del suo progetto la D’Alessandro mi sembra brava; ma dal suo avere ottenuto un grosso finanziamento UE non traggo davvero la conclusione che lei fosse più brava a fare ricerca e didattica universitaria di coloro che hanno vinto i suoi concorsi. Non è vero che chi riesce a drenare più soldi è il più bravo. Il fiore all’occhiello del progetto della D’Alessandro, a suo stesso dire, è l’idea del crowdsourcing, cioè di ottenere le testimonianze linguistiche dialettali da soggetti coinvolti mediante una raccolta in rete, anziché recandosi sul posto a intervistarli direttamente. Un’idea (anche se non nuova, e scientificamente discutibile) essenzialmente economica.

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[Immagine: grafico aziendale]

14 thoughts on “Mentalità aziendale tardiva

  1. Sono esterrefatto. E’ un articolo indecente e meschino che si basa solo su un non argomento capzioso e baronale.

  2. Ben detto. Solo una cosa: le aziende non hanno preso per niente le distanze dall’aziendalismo nel senso da te descritto. Tutt’altro. Nell’epoca della finanziarizzazione dell’economia l’aspetto del ritorno immediato dell’investimento, del risultato trimestrale, s’è vieppiù accentuato. Senza badare più di tanto (anzi per niente) ai contraccolpi sociali e macroeconomici. Il resto (di quello che asseriscono) è propaganda.

  3. L’articolo a me non pare né indecente né meschino: perché purtroppo le cose stanno più o meno nei termini descritti da ELV (e anzi sarei felice che qualcuno potesse dimostrare il contrario). Senza toccare qui il caso di Roberta D’Alessandro (che per altro conosco e ammiro), un punto in particolare del discorso di ELV mi pare sacrosanto: l’equazione tra la capacità di far ricerca e la capacità di attrarre – o meglio vincere, come in una specie di suprema lotteria – grandi finanziamenti è una sonora sciocchezza. Talvolta “chi alza più soldi” non è affatto il più bravo.

  4. Che nella scuola stia trionfando la mentalità aziendale, sotto la guida dei “presidi manager”, è pura retorica. Quanto all’oggetto specifico, la capacità di portare soggetti privati e non statali a investire in istruzione e ricerca è una cosa positiva, anche se certo non è l’unica cosa che dovrebbe contare nel valutare una ricerca. Evitiamo quindi di demonizzarla. Deve essere tutto il sistema sociale a investire, non solo lo Stato.

  5. Resto sempre un po’ perplessa quando i docenti universitari criticano il sistema universitario. Qui certo la critica è rivolta ad un’ideologia che definirei “monetaristica” (“monetarismo” infatti mi parrebbe parola più adatta di “aziendalismo”, se la tesi è che il denaro è lo sterco del diavolo) penetrata nella mentalità accademica. Ma resto perplessa perché mi è molto difficile immaginare il docente universitario come vittima del “sistema”, giacché l’Università di questo “sistema” è uno dei centri, e dei più potenti. O almeno tale dovrebbe essere, perché dovrebbe essere l’accademia, con il suo potere, a dettare le linee della politica culturale di uno Stato, definendone il più alto profilo possibile. Se in Italia questo non accade, vuol dire che gli accademici non sono propriamente all’altezza di questo compito, perché o sono dei mediocri, incapaci di visioni e di azione politica, o sono perfettamente conniventi con il “sistema”, dal quale sperano di ottenere comunque privilegi personalissimi, in linea con la tradizione del baronato già evocata da Emanuele Coccia qui sopra. Che Lombardi Vallauri sia dissenziente, e con lui pochi altri, è una benedizione; ma non muta né sana la mala pianta.

  6. Bellissimo. La logica mercantilistica è penetrata ormai nei luoghi che un tempo resistevano all’assoggettamento e permettevano un pensiero critico. Inoltre, insieme a ttuuto ciò si accompagna la burocratizzazione, che deve gestire il capitale. Entrate in un ospedale, in una scuola, nell’università, in un museo, vi accorgerete di quanto tempo si deve “spendere” per le scartoffie. Altro che meritocarzia: sarà di nuovo il regno dell’impiegato mediocre.

  7. Io sono invece perplesso da questo astio, vagamente sessantottino, nei confronti dei baroni universitari. Non metto in dubbio che dietro di esso ci siano dei seri e reali problemi – problemi vecchi e mai risolti, evidentemente – ma non lo vedo molto pertinente nel contesto dell’articolo, almeno per come l’ho capito io, se non come strumento di polemica. Tanto più che alcuni di questi “baroni” sono anche e soprattutto stati dei capiscuola, anzi dei maestri, nelle loro discipline. E voler porre sullo stesso piano dei manager – giusto per tornare al senso dell’articolo – con dei maestri nel senso di cui sopra, è un’insulsa sciocchezza.
    Il mondo cambia, il lavoro cambia, la società cambia, la scuola e l’università, di conseguenza, devono cambiare, viene ripetuto come uno stolido mantra. E’ vero che cambiano, ma nessuno sta dimostrando che stiano cambiando per il meglio. E una delle direttrici di questo cambiamento è proprio l’aziendalizzazione pervasiva della società (e la sua privatizzazione) e pazienza se qualcuno non è d’accordo.
    Aziendalismo, meglio ancora di monetarismo, che comunque, dal punto di vista ideologico, si sposa abbastanza bene con il primo, visto che è la dottrina che informa l’agire degli Schäuble e di tutti i falchi neoliberisti che imperversano in Europa. Con buona pace del pensiero critico da qualcuno prima evocato, della libera ricerca che non produce subito valore, tutte cose violentemente bandite dalle aziende.
    Per non parlare della democrazia, che da sempre rimane fuori dai cancelli della fabbrica e dagli uffici.

  8. Sì, quella dei presidi manager è una bufala. I presidi sono dei poveretti (in senso buono, dico) che guadagnano un cazzo con sul groppone delle responsabilità che il 99% di noi non si prenderebbe mai neanche per uno stipendio alto dieci volte il loro. E non hanno tutto questo potere, come si vuole far credere. In fin dei conti sono uno contro 100 150 docenti, e metterti contro così tanta gente non è mai una buona idea.
    Ciò non toglie che alcuni presidi – ce ne sono – siano nepotisti, incompetenti, paraculi, ecc… e approfittino di ogni minimo refolo di autorità loro concessa. E che siano a volte ostaggio dei docenti non è una ragione sufficiente per giocare a fare i Tatcher di sinistra, lei sì che i minatori e i sindacati nullafacenti li ha rimessi in riga! (Com’è che la Tatcher è diventata simpatica anche a sinistra? Miracoli del progresso)

    Però l’autore ha anche detto che della scuola avrebbe taciuto per ignoranza. Dimostrazione di onestà intellettuale, che non si è voluto cogliere.
    Perché ci piace giocare sempre alla guerra dei bottoni di apocalittici e integrati (il ci non è pleonastico né retorico: mi ci metto dentro fino all’ultimo poro dell’epidermide. Naturalmente mi schiero con gli apocalittici, perché credo che se pensi che tanto andrà tutto male, ma intanto fai il gioco dei bambini “ora facciamo che il mondo è bello”, poi tutto quello che ottieni è divino; e l’hai ottenuto pure evitando di suonare – involontariamente, sia chiaro – il piffero a parole d’ordine politiche che non sono sciocche perché liberiste o criptoliberiste o socialfasticoliberiste, ma perché sono una tumescenza retorica del linguaggio e della comunicazione che ormai cancella DEL TUTTO la realtà. E sentire che il linguaggio che ti circonda non ti dà un di più di realtà, ma te la allontana infinitamente, è una cosa che non può provocare che ripugnanza, dolore, sgomento in chi cerca di impigliarne appena qualche frammento nelle proprie parole per far capire ai ragazzi che il linguaggio è una cosa straordinaria e che potrebbe servire, pensa te, addirittura a cambiare la realtà).

    Io so due cose: che finché sto bene quando entro in classe coi ragazzi c’è speranza per me e per loro. E io quando entro in classe sto bene, benissimo. So che sono Renzi Giannini Faraone e molta altra gente che parla, rileva statisticamente, fa leggi, esorta, impone, indirizza, vincola, valuta, premia e sputa in faccia, ad essere dei fantasmi e io e i miei studenti siamo Veri.
    Ma appena esco dalla classe mi sento aggredito, sì proprio aggredito (forse sono troppo sensibile, ma magari sono un canarino che sente la fuga di gas nella miniera): ridotto a fantasma inattuale insieme ai miei allievi (e ai loro genitori, anche; e persino ai presidi, guarda un po’), mentre Renzi Giannini Faraone e molta altra gente che parla ecc… occupano tutta la scena e diventano Veri, così veri che le loro parole hanno il potere di modificare la mia realtà (e quella dei mieis studenti) e di renderla sempre più snervante, impazzita, incomprensibile.
    Nel mio caso particolare, questa aggressione ha forme ben precise: “hai tre mesi di vacanza e lavori 18 ore alla settimana”, “a che cazzo serve precisamente il latino e leggere Manzoni?”, “voglio che lei insegni per competenze, le conoscenze sono vetuste”, “se lei non fa una scuola inclusiva lei è un nazista! Come dice? Vuole che le spieghi come farla la scuola inclusiva? Saprà ben lei, caro professore, lei è o no un professionista?” “ah, non vuole essere valutato?! Quindi lei è di quelli che…”, “si valuteranno i meritevoli! i soldi a pioggia col cazzo che continuiamo a darveli, avete sprecato troppo, statalisti!”, “la scuola italiana o forse quella universale fa schifo, è morta, è superata e superabile” (dunque, io sono un morto vivente, un ologramma, un poltergeist), “in che posizione è la tua scuola nella classifica della Fondazione Agnelli? Ah, così in basso? Sai che c’è? Io mio figlio da voi non ce lo porto”, “in che posizione è nella classifica Ocse l’Italia? Ah, così in basso? Quindi i ragazzi…”, “e la classe 2.0 non ce l’avete? Ah, dicono che possa essere persino dannosa? Ma alla tv ho sentito…”, “ancora alla classe 2.0? Matusa!!! E non lo sapete che ormai siamo già a quella 3.0?”

    (Devo continuare? Chiedo scusa per i troppi “cazzo”. Volevo essere pittoresco. Si è capito?)

  9. Sì, il termine anziendalismo è appropriato, ma se visto dal punto di vista dei singoli docenti/ricercatori dovremmo dire managerialità, o insomma, visto che si tratta di neologismi, di pretendere che i docenti universitari si comportino da manager.
    Per quanto riguarda le scienze sperimentali, c’è anche da considerare quanto la ricerca scientifica ed i suoi risultati dipendano dalla disponibilità di adeguate risorse finanziarie, visto che la ricerca sembra empre più identificarsi con un fattore quantitativo, visto che si ha sempre più bisogno di disporre delle apparecchiature scintifiche sempre più sofisticate e quindi di recente realizzazione e di tanti collaboratori che possano raccogliere quella messe di dati sperimentali che costituiscono l’ossatura della ricerca.
    Quindi, un docente di successo dovrà possedere doti di capacità di attrazione di fondi della più svariata natura, capacità di trovarsi collaborazioni con altri ricercatori in giro per il mondo, capacità di “vendere” i prorpi risultati.
    Insomma, direi che il docente preferito oggi debba avere molti delle caratteristiche richieste ad un politico, come ad esempio una buona dose di conformismo, perchè per avere successo, devi mostrarti come gli altri ti vogliono, con una grande dose di omogeneità,ed infine avere anche una buona dose di estroversione, capacità di attirare su di sè l’attenzione generale, dovesse anche consistere nel raccontare barzellette, anche questo conta e tanto.
    Insomma, direi che oggi la figura dello scienziato che la tradizione ci consegna, al limite della follia, solitario e tendenzialmente misantropo, geniale ma con capacità di comunicaizone estremamente concentrate sul proprio settore d’indagine, è morta e sotterrata. Lo scienziato non è più un mestiere a parte come pure in passato è stato, ma è divenuto un mestiere come un altro, oggi potresti fare il docente universitario, e domani dirigere un’azienda.
    Secondo me, così si disincentiva l’ingegno puro, in cui la devianza aiuterebbe. La tendenza sociale generale è verso il più stretto conformismo, e tale tendenza non risparmia certo l’università, ma così non si capisce come un’idea davvero innovativa possa trovare adeguato finanziamento per essere portata avanti. Si privilegerà sempre i filoni principali di ricerca che poi coincidono con le esigenze dell’industria, e questo a livello europeo è un fatto incontestabile, la commissione europea prende praticamente ordini dall’industria.
    Si potrebbe riflettere sul fatto che ormai la scienza è ferma agli anni venti del secolo scorso, si raccolgono dati, ma sul piano teorico non è più venuto fuori nulla di davvero nuovo dal sorgere della meccanica quantistico-ondulatoria.

    Su ciò che dice Mariangela Caprara, concordo, non si tratta di un contrasto tra i docenti universitari e il potere politico, il contrasto che pure c’è è tutto interno allo stesso mondo universitario, dove i docenti manager hanno sempre più successo nel marginalizzare tutti coloro che in realtà amano davvero il lavoro così atipico della ricerca scientifica, che quindi diventano una specie in via di estinzione. Naturalmente, il successo di questo specifico tipo di docente gode di potenti alleanze politiche e sociali in generale, e questo in fin dei conti determina l’esito del confronto.

    Come mi pare di aver scritto anche su questo blog già una volta, per l’università questo è un periodo storicamente fondamentale, perchè viene a cadere in maniera clamorosa il suo ruolo che un millennio fa ne aveva giustificato la fondazione. Dovevamo aspettare il neoliberismo come fase suprema dell’ideologia liberale per assistere alla distruzione di una istituziuone di così lunga data e di così grandi meriti nello sviluppo delle nostre società europee.

  10. Frasi come ” l’Università di questo “sistema” è uno dei centri, e dei più potenti”, oppure “dovrebbe essere l’accademia, con il suo potere, a dettare le linee della politica culturale di uno Stato”, sono oggi frutto di idealismo astratto, o semplicemente dell’essere del tutto all’oscuro della realtà. Quale potere dell’accademia?? Le decisioni strategiche sull’università non le possono prendere i docenti universitari più di quanto non possano prenderle sulla scuola i professori di scuola. Le decisioni le prendono i politici e i burocrati del ministero, e i professori possono solo subire. Non hanno alcuno strumento reale di pressione. E decenni di berlusconismo (ora renzismo) hanno reso gli universitari del tutto inascoltati. Per “volontà” degli elettori. La stessa “volontà” che continua a condurre alla rovina il paese da molti altri punti di vista. Finché si continuerà a ripetere – per partito preso e senza saperne niente – che gli universitari sono potenti e chissà perché non usano il loro potere, si continuerà a fare il gioco sordido dei politici che cercano di annientarli.
    Una prova che gli universitari non hanno potere? Sono l’UNICA categoria di TUTTO il pubblico impiego a cui è stato cancellato il quinquennio di carriera 2011-2015. Protestano da anni, ma non hanno niente con cui fare leva. A meno che non si decidano a danneggiare gli utenti, cioè gli studenti.

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