di Carlo Mazza Galanti
Ciò che mi colpisce dell’opera di Moresco non è tanto quello che Antonio Franchini, in una recente intervista, ha definito il carattere “estremo” e “massimalista” dello scrittore, quanto piuttosto la maniera in cui è Moresco stesso a voler continuamente sottolineare l’estremismo e massimalismo della propria scrittura, come spostando l’attenzione dall’opera in sé all’enunciazione che la sottende, e fino nello spazio infalsificabile della vita e della figura dell’autore. Un autore la cui ombra lunga incombe gelosamente sul testo, lo protegge, lo promuove, ne regola la ricezione. Salta all’occhio l’insistenza con cui Moresco sembra volerci persuadere del fatto che i suoi libri non sono semplici libri, che sono il prodotto di uno sforzo eccezionale e che richiedono un’attenzione di diverso genere: poiché Moresco è uno scrittore diverso. Non mi riferisco solo alle dichiarazioni esplicite, alla presenza diretta della voce narrante, ai paratesti o alle interviste. Quasi ogni pagina sembra volerci ribadire come quell’inchiostro ha vampirizzato un’intera esistenza, ed ora è lì, quell’esistenza, palpitante tra le nostre mani, a testimoniare se stessa. In Moresco sentiamo riaffiorare in forme esasperate il culto creazionistico dell’opera e la celebrazione romantica della personalità autoriale, rinata dalle ceneri delle poetiche testualiste, strutturaliste e post-strutturaliste della seconda metà del novecento.
La storia critica e la vicenda editoriale di Moresco rispecchiano questo ordine di idee. Dopo anni di scrittura solitaria, di rifiuti editoriali, di “clandestinità”, finalmente lo scrittore viene riconosciuto. Il discorso critico che lo riabilita riflette mimeticamente le caratteristiche della estetica moreschiana. Un autore inclassificabile, fenomenale, diverso da tutti gli altri. Biografia e opere si accavallano, si intersecano, si scambiano di posto surrettiziamente. La sfortuna iniziale alimenta il culto presente, come in un racconto agiografico. I rifiuti diventano paradossalmente le stigmate di una difformità che di per sé vale la lettura. Un libro come “Lettere a nessuno”, dove lo scrittore espone il suo difficile rapporto con il mondo editoriale, ha contribuito significativamente a costruire e diffondere questo tipo di narrazione. D’ora in avanti il discorso critico e promozionale su Moresco si farà carico di ribadirlo e rilanciarlo in un crescendo continuo, sempre meno controllato. Risvolti, commenti, giudizi saranno il controcanto che accompagna le sue dichiarazioni di poetica, implicite ed esplicite. Come risarcimento al passato disconoscimento, e in virtù della sua ormai conclamata incomparabilità, la sua grandezza diventa autoevidente: chiede solo che il lettore si faccia cassa di risonanza, che si lasci contagiare dal potere taumaturgico dell’opera. Molte delle critiche che sono state portate ai suoi libri, non di rado feroci, sarcastiche e umorali, riflettono involontariamente la temperatura emotiva che sprigiona dall’autore: ne esaltano il carisma. La parabola per così dire sociologica della scrittura di Moresco sembra consumarsi tra il paradigma vittimario e lo stato di eccezione. Il risultato, in parole povere, è che o lo si ama o lo si odia, spesso senza neppure averlo letto.
La mitezza, il carattere schivo e anti-esibizionistico del Moresco in carne e ossa sembrano contrastare con la virulenza dei suoi scritti e deporre a favore della sua autenticità. È il deus absconditus, l’anti-divo. È difficile trovare lavori critici su Moresco che non risentano di questo fanatismo autoriale, che siano liberi da una presa di posizione preventiva, da un giudizio pre-testuale. È quasi impossibile leggere commenti “tecnici” ai suoi libri, perché dove si tratta di vita, di viscere e sudore, di ispirazione e lotta per la sopravvivenza, la tecnica è un ospite indesiderato. Se l’arte è emanazione mistica, se l’opera è partenogenesi, lo scrittore è uno sciamano, un eletto. Niente a che vedere con la generalità di un codice condiviso, con un sistema di incastri, con delle regole sociali, con un “campo letterario”. Moresco è la nemesi dei corsi di scrittura, è colui che sfugge alla produzione meccanica e seriale, al sistema, ai modelli preconfezionati: è l’outsider aureolato di cui si nutre la cattiva coscienza dell’industria culturale.
Qua di seguito alcune considerazioni “tecniche” intorno al suo ultimo libro. Cercherò di parlarne facendo la tara dell’ingombrante sovrastruttura discorsiva che circonda l’autore. Non mi interessa Moresco, mi interessa L’addio.
L’ addio è presentato dalla introduzione dell’autore come un congedo, la sua ultima fatica. Riprende molti temi de Gli increati (che già l’autore descriveva in corso d’opera come un testo definitivo, ultimativo, di difficile se non impossibile realizzazione – qui) e lo immerge in un romanzo poliziesco, a modo suo. La storia, in sintesi, è la seguente: D’Arco è un poliziotto che vive nella città dei morti. Un giorno si accorge che tutti i bambini della città dei morti si ritrovano in gruppo, la notte, e cantano. Indaga e scopre che lo fanno perché nella città dei vivi è in atto un infanticidio di massa. I bambini innocenti vengono ammazzati dai grandi, che sono cattivi e perversi. Accompagnato da un bambino morto che conosce i luoghi del delitto e della perversione, D’Arco si “trasferisce” nella città dei vivi per giustiziare, armato fino ai denti, i grandi cattivi sterminatori di bambini. Li snida, li cerca nei loro ricettacoli sordidi e viziosi, li ammazza freddamente. L’impresa tuttavia è impossibile poiché i cattivi sono troppi. Inoltre alcuni di essi dichiarano di operare contro se stessi: se uccidono i bambini è perché l’umanità è orribile e ha bisogno di autodistruggersi.
Il cuore del libro è la domanda filosofica. Un’ossessione che qui si stempera rispetto alle mille pagine de Gli increati ma conserva il centro della scena. La città dei vivi e quella dei morti, la vita che trapassa nella morte, la morte che trapassa nella vita (la “tracimazione” de Gli increati): viene prima questa o quella, viene prima il bene o il male? La teodicea e la metafisica moreschiana sono i veri protagonisti del romanzo, protagonisti che prendono la parola di continuo, sprezzanti di qualsiasi principio di verosimiglianza, di continuità narrativa, di armonia interna, di coerenza psicologica dei personaggi. La trama è insistentemente interrotta dalle domande “essenziali” e ossessive di D’Arco sulla condizione degli uomini vivi e morti. Il discorso del narratore (ovvero lo stesso poliziotto protagonista), come già nel romanzo precedente, è un continuo, incalzante susseguirsi di interrogativi, tutti sostanzialmente identici, o meglio costruiti e ricostruiti secondo una combinatoria basata su dicotomie elementari (vita/morte, bene/male, giorno/notte, prima/dopo) dove cambiando l’ordine dei termini il risultato è quello di suggerire una sorta di misterioso spaesamento della ragione davanti all’ambiguità irriducibile dei fondamenti morali e ontologici della vita umana. Anche i dati ambientali tornano di continuo nelle descrizioni e puntano tutto sulla ripetizione: la città cupa, i grattacieli, il buio, la nebbia, la pioggia. Uno scenario stereotipato e tirato all’estremo che non si capisce se debba, se voglia, convincere il lettore, immergerlo a furia di repliche in quell’universo mentale che è proprio dell’autore (e credo sia così) o piuttosto straniarlo, spostarlo a lato del delirio, come quando ripetendo tante volte una parola si finisce per dimenticarne il senso. In questo caso la ripetizione interrogativa si avvicinerebbe a una sorta di preghiera, di litania religiosa, un mantra, una specie di ipnotica sospensione della parola. Se questa è l’intenzione, non credo comunque che raggiunga lo scopo: il risultato più vistoso è piuttosto un netto appesantimento della lettura. Gli elementi filosofici, oltre a essere piuttosto noiosi e pletorici, risultano come strappati dalla storia e tutti esplicitati in quelle domande, tutti affidati al commento. Credo che un lavoro di revisione avrebbe potuto proficuamente correggere calibrando meglio lo spazio dedicato all’azione e quello della riflessione filosofica, o meglio cercando di integrarli.
La dimensione visionaria del romanzo si muove in bilico tra il marchio di stile e il limite oggettivo: il problema dell’onirismo spinto de L’addio è che il sottotesto, il significato latente, resta troppo visibile. I simboli si approssimano all’allegoria, veicolano significati rigidi, parlano una lingua troppo esplicita. I cattivi si drogano, sono pieni di piercing, dediti a sregolate pratiche di sesso sadomasochistico, disprezzano la vita, ammazzano i bambini innocenti e si muovono in un mondo sotterraneo tecnologico e teatralmente vizioso che sta a metà strada tra la bisca criminale e il rave party. I contenuti sociologici sono tutti al servizio di un discorso prevedibilmente moralista, e nell’insieme la storia somiglia a un collage di temi apocalittici piuttosto logori, appena personalizzati. D’altronde, come in numerosi altri luoghi della sua scrittura, anche nell’introduzione Moresco non nasconde la sua tranciante concezione del presente come tempo di assoluta decadenza: “Non riesco più a sopportare i rapporti umani così come si sono configurati in questa epoca… il cinismo dominante, la ristrettezza di orizzonti, la mancanza di grandezza, di sentimento, di libertà, di invenzione…”. Il presente fa schifo all’autore del libro, questo è chiaro a chiunque lo legga. Ma le ragioni del suo rifiuto, e le forme che assumono nella sua immaginazione letteraria, non sembrano all’altezza del potente sentimento che le nutre. A un certo punto delle sue peregrinazioni, D’Arco s’imbatte in un uomo di luce che rappresenta una specie di super-cattivo, un demonio luminoso composto di impulsi e connessioni elettroniche e che pare fin troppo un’immagine figurata del web, dei big-data (“sterminato archivio di parvenze” lo definisce Moresco stesso in un’intervista). La ricorrenza del tema della luce è impossibile per un lettore mediamente immerso nell’enciclopedia del sapere occidentale non associarlo alla modernità, al pensiero positivo, laico, illuministico, quindi a una presa di posizione ostentatamente reazionaria. La sintassi narrativa risente di questo schematismo massimalista (per riprendere il termine di Franchini). La costruzione, diversamente da altri libri di Moresco, è estremamente semplice. Dovrebbe contribuire a darle spessore la rete dei simboli, ma questi vengono incontro al narratore nella forma stilizzata di personaggi bidimensionali, didascalici come pannelli esplicativi, o come infernali carri allegorici il cui significato è tutto vincolato a un’esigenza di denuncia, o meglio a una condanna che si affida soprattutto all’enfasi feroce della rappresentazione, come se questa da sola bastasse a giustificarla.
E qui veniamo a quello che mi sembra il più evidente punto debole del libro: se la rappresentazione del male è schematica e manicheistica (nonostante lo sforzo continuo di mischiare le carte per creare cortocircuiti filosofici sul piano del commento), L’addio è ostaggio di un’emotività che tutto appiattisce e divora. La funzione emotiva, che secondo la classica distinzione jacobsoniana consiste nel mettere l’accento sul mittente, ovvero sull’enunciazione dell’io del narrante (e dell’autore, dov’è concesso di sovrapporli), sovrasta e ingloba le altre funzioni del testo. Questo vale sia per l’andamento ripetitivo che dovrebbe creare intensità, sia per il valore delle immagini, interamente concentrato nel tratto esasperato, nel carattere eccessivo di una raffigurazione che sul piano intellettuale tradisce una certa povertà di visione. Non basta alzare i toni in chiave espressionistica per dare spessore e credibilità al racconto. Non basta affidarsi al volume di una enunciazione megafonata per produrre senso. Eppure sembra proprio questo il modo di procedere di Moresco: una espressività abnorme che dovrebbe garantire l’intensità di un sentire a cui siamo invitati a credere. Una passione più dichiarata che comunicata attraverso contenuti articolati degni della nostra attenzione, più testimoniata che assimilata ed elaborata nel corpo del testo e nella creazione di scene, personaggi, simboli davvero inediti e memorabili. Anche il gioco sui codici della rappresentazione, dove convivono elementi di genere (tra cinema, fumetto e letteratura fantastica) è sottomesso a un’intensità vocale che non riesce a trascendersi. Il sovraccarico della rappresentazione è sintomo di una mancanza che ha continuamente bisogno di essere compensata. Servirebbero molte righe di citazione per elencare tutti i punti in cui D’Arco sente il bisogno di ricordarci la sua sofferenza, il suo coraggio, il suo disgusto del mondo, come se Moresco dovesse dire, e ribadire continuamente, quello che non è capace di mostrare in modo davvero efficace.
L’addio non mi convince né come romanzo di pensiero, né come romanzo fantastico. Moresco è lontano sia dall’acutezza di una visione inedita e penetrante della realtà contemporanea, sia dalla durezza e opacità icastica della fiaba e delle opere più riuscite di letteratura fantastica (penso, per esempio, al libro di racconti di Thomas Ligotti pubblicato recentemente da Il Saggiatore dove la complessità e l’immediatezza riescono quasi sempre a convivere, dove lo sguardo dell’autore affonda nella presenza viva dell’immagine e del racconto).
Tutto ciò che appare alla mia analisi grossolano qualcun altro potrebbe considerarlo preziosamente naïf, quello che a me sembra un semplice collage di cliché apocalittici ad altri potrà sembrare un geniale patchwork postmoderno dove i generi si confondono eccetera. Anche il difetto può diventare marchio di qualità, scarto dalla norma, parte di una coraggiosa crociata contro la medietà, appena si consideri il suo autore come qualcuno che non si è adattato, che lotta contro tutti, che scrive nonostante tutto. Torniamo all’adesione cultuale che ha suscitato Moresco e che grava come un pesante pregiudizio sui suoi libri. La bellezza di certe opere ormai classiche, idiosincratiche, incatalogabili e visionarie, come La nube purpurea, Locus solus, Hilarotragoedia (le prime che mi vengono in mente) ha senza dubbio un rapporto con la personalità poco conforme dei loro autori, e con una sorta di sovrana indifferenza alle forme canoniche della narrativa e al pubblico dei lettori (qualcosa che oggi, nella progressiva scomparsa della scrittura come pratica privata e solitaria, diventa sempre più raro). È giusto riconoscere una certa onestà di Moresco, la sua fedeltà a se stesso, il suo rifiuto dei compromessi. Moresco è senz’altro un “persuaso” che avanza sulla propria strada. Ma come essere weird o marginale non è garanzia di qualità letteraria, così i libri non vanno giudicati in base alle intenzioni da cui prendono le mosse. Anche se questo romanzo, come altri suoi, possiede una coerenza rispetto alla poetica dell’autore, non significa che meriti la nostra adesione. Di fumetti, cinema, arte visionaria in circolazione oggi ce n’è tanta, spesso di alto livello, e priva dei cascami romantico-decadentistici che appesantiscono la scrittura di Moresco. Verrebbe voglia di dirlo allo scrittore quando, alla fine dell’introduzione a L’addio, con “un estremo gesto di autoesaltazione che precede il congedo (ma sarà davvero un congedo?), apostrofa il lettore descrivendo il proprio romanzo come qualcosa di diverso (e ovviamente moltomigliore) dalle storie che “vi continuano a rifilare per intrattenervi in attesa della vostra morte e per ripetere e riconfermare un’idea astratta e convenzionale della vita, della morte, di voi stessi e del mondo”.
[Immagine: Giulio Paolini, Essere o non essere]
Antonio Moresco col suo “estremismo” non fa che ricordare l’assoluta necessità dell’impegno politico e sociale degli intellettuali. Che fine ha fatto oggi questo impegno?… Sepolto a suon di incarichi ben remunerati?…
Che fine ha fatto l’impegno, per esempio, dei superstiti del Gruppo 63?
Suggerirei un po’ di cautela: analizzare un libro minore, per bene (?) che lo si faccia, non legittima giudizi sull’opera omnia di chi l’ha scritto.
Di analisi tecniche se ne trovano eccome, anche bizantinissime, p. es. quelle di Luca Cristiano, ma valgano anche Donnarumma, Tarabbia, Casagrande fra gli altri: basta non cercarle fra le recensioni. Se proprio vogliamo parlare di un difetto degli studi moreschiani, al contrario, è proprio l’eccessiva compromissione con lo strutturalismo: con l’idea che a decretarne il valore basti studiare a fondo l’intima coerenza retorica dei testi, astraendoli dalla contingenza storica (e non solo storico-letteraria) in cui sono immersi. Io stesso mi ci metto dentro, visto che mi è capitato in passato di studiare persino le sfumature aspettuali dei verbi, di fare grafici sulla distribuzione dei tempi verbali, di compitare letteralmente la prosodia delle frasi.
Tutte operazioni che restituiscono l’idea di testi stilisticamente e tematicamente coesissimi (soprattutto se stiamo alla trilogia); e che a mio avviso proprio in questa coesione quasi medioevale trovano semmai il sintomo del loro limite, non in una presunta ingenuità vitalistica.
Quanto a Jakobson (con la k), secondo me sarebbe l’ora di destinare le sue funzioni linguistiche al loro luogo elettivo, che non è la scrivania.
Questo pezzo mi pare curioso. Critica Moresco non in qualche aspetto specifico ma proprio in ciò che Moresco, da sempre e sempre, è. Inoltre, avvertendo di voler prescindere dal Moresco “personaggio”, finisce per ritorcere il personaggio contro i testi.
Due considerazioni. Prima: Moresco non è affatto un filosofo. La sua vuol essere piuttosto una visione; riuscita o meno, tocca discuterne; ma Moresco non fa mai, secondo me, filosofia; non più di quanto la facesse Kafka.
Seconda: tacciare Moresco d’ingenuità stilistica è un bell’azzardo – penso a Gli esordi, dove nelle parti più riuscite lo stile fluisce nel sogno. In misura forse minore questo accade anche ne L’addio, uno scritto più brusco ma ugualmente in grado di slittare dal reale al più reale. Lo stile di Moresco è come un occhio sbarrato: quasi sempre si stanca e si chiude per primo l’occhio del lettore, ma non mi sento di considerarlo un difetto. Non in una narrativa del genere.
Una postilla sulla letteratura fantastica. Moresco mi sembra davvero uno dei pochissimi, fra gli scrittori italiani attuali, a battere questo territorio decisivo. La lucina è pura fiaba, Gli incendiati febbre, L’addio un incubo “dantesco”. Ma per scrivere letteratura fantastica un po’ di sana ingenuità è fondamentale. Non si tratta di negare l’ambiguità del mondo e del cosmo – cosa che Moresco non fa mai, mescolando Bene e Male con ardimento. Si tratta dell’ingenuità che consente di spingersi oltre tutte le costruzioni e decostruzioni, in un posto nuovo, semplice e ignoto.
@Macioci
probabilmente, come Mazza Galanti argomenta benissimo, nell’Addio quell’occhio sbarrato è un po’ stanco di suo. Io ne ho letto solo metà, andando rapido in poche ore, ma basta conoscere un po’ Moresco per sapere subito dove andrà a parare, e dopo l’interruzione non ho avuto voglia di riprenderlo. Ci ho visto stanchezza e frettolosità, malgrado qualche affondo visionario dei suoi che rimane memorabile. Ma ciò che alla lunga, dopo migliaia di pagine della trilogia, rischia di essere davvero poco sostenibile, è la continua tensione dichiarativa (e interrogativa) di cui parla Mazza Galanti – che mi pare una via di fuga facile all’enormità di ambizioni messa in campo, e una regressione rispetto a certe posizioni conquistate dal suo genuino furore distruttivo e visionario. Da Moresco spero qualcosa di più.
@dp
A me invece L’addio è piaciuto, né ci ho ravvisato stanchezza, anzi un’energia snella, che va dritta al punto. Ciò che nell’articolo di Mazza Galanti trovo bizzarro è questo: criticare Moresco per il fatto di essere… Moresco. Nell’articolo L’addio mi pare più un mezzo che un fine, insomma.
ps: la tensione interrogativa in un romanziere non è una via di fuga; un romanziere non è un filosofo, pone domande ma non fornisce risposte. Lei forse ricorderà il memorabile incipit de Gli esordi, uno dei più belli della nostra letteratura (“Io invece mi trovavo a mio agio in quel silenzio”); lì, in quell’ “invece”, c’è tutto Moresco, tutto il suo fuggire non certo facile, ma necessario.