di Federico Bertoni
[Esce in questi giorni, per Laterza, Universitaly. La cultura in scatola di Federico Bertoni, un «libro sull’università del XXI secolo, e forse su altre cose del mondo in cui viviamo». Ne anticipiamo un estratto]
In principio erano due numeri, anzi un’addizione: 3+2. È la formula con cui viene designata comunemente la riforma voluta dall’allora ministro Luigi Berlinguer, che ha cambiato radicalmente gli ordinamenti didattici e la struttura di fondo dell’università italiana. Dico «cambiato» in senso astratto, per sentito dire, perché rispetto al cambiamento non ho mai vissuto un prima e un dopo: ho preso infatti servizio nel novembre del 2000, proprio quando entrava in vigore il nuovo assetto concordato a livello europeo nel cosiddetto «Processo di Bologna» (giugno 1999) e poi sancito dal Decreto Ministeriale 509 del 3 novembre 1999. Come i prigionieri di Platone nella caverna delle ombre, non conosco dunque altra realtà che questa. La mia vita accademica si è sostanzialmente svolta tra le costanti e le variabili di questa formula: un primo ciclo di tre anni concluso dalla Laurea e da un epiteto fondamentale in terra italica, «dottore»; e un eventuale secondo ciclo di due anni che inizialmente si chiamava Laurea Specialistica e che in seguito (potere magico dei nomi!) si è nobilitato in Laurea Magistrale. Poi, nei meandri tecnici di questo impianto generale, una complicatissima ingegneria burocratica fatta di tabelle e classi di laurea, ordinamenti e regolamenti, curricula e piani didattici. Ci siamo letteralmente spaccati la testa. E l’università italiana ha dato i numeri: 180 crediti al triennio, 120 al biennio, 60 all’anno; quote fisse di crediti definite dalle tabelle ministeriali e ripartite in discipline «di base», «caratterizzanti», «affini e integrative», con un certo margine di manovra lasciato alle singole facoltà. Un puzzle, un rompicapo, un Risiko per ammazzare la noia (e forse gli ultimi cervelli pensanti). Ho visto cose che voi umani… Colleghi che schieravano le truppe per annettere tre crediti in più alla loro disciplina; altri che lottavano come dannati perché volevano stare tra le «caratterizzanti» (o forse tra le «base», mai capito quali contassero di più); altri ancora che tessevano alleanze per sgominare un nemico o attestarsi in un punto strategico. I rapporti di forza si consolidavano con la sanzione implacabile dei numeri. Chi era un po’ somaro in aritmetica era fregato: se ti distraevi e non facevi bene i calcoli ti tagliavano fuori, e buona notte. La cosa più impressionante era lo sfrenato, abissale scollamento tra il nostro vero lavoro e ciò di cui si discuteva per ore e ore nelle commissioni e nei consigli di facoltà. Era la distanza siderale che separava i contenuti, i metodi, la passione e l’esperienza vissuta del nostro sapere dagli scatoloni più o meno vuoti in cui cercavamo di stiparlo, costruendo corsi e master come mobili dell’Ikea[1], e con l’unica preoccupazione di far tornare i conti.
Perché il 3+2, soprattutto all’inizio, è stato davvero un grande business: scelte politiche e provvedimenti legislativi hanno fornito il quadro giuridico in cui far scorrazzare l’imperdonabile irresponsabilità del corpo docente italiano. Crediti in più per la propria disciplina, possibilmente obbligatori, significavano un maggior numero di studenti, corsi sdoppiati, esami, tesi – e dunque nuovi posti da rivendicare, e maggior potere. Gli effetti immediati, impliciti nel sistema e assolutamente prevedibili, sono stati quelli che hanno legittimato le riforme delle riforme e i tagli finanziari successivi: proliferazione delle sedi didattiche e dei corsi di laurea, moltiplicazione e frammentazione estrema degli insegnamenti. Fai crescere in modo indiscriminato la foresta e poi affili la scure. Genio strategico di prim’ordine. Trappola perfetta.
Ovviamente la riforma aveva un senso e una giustificazione storica. Nasceva da obiettivi condivisibili e dal tentativo di emendare vizi cronici dell’università italiana – modernizzare, aumentare il numero dei laureati, ridurre i fuori corso, ricondurre i curricula italiani agli standard internazionali, inseguire il cosiddetto «mondo del lavoro». Però è stata applicata con pressappochismo, miopia, stupidità congiunturale e una buona dose di malafede. In sostanza, i primi anni di vita della “nuova” università hanno impostato il perverso schema di fondo che ritroviamo anche oggi: un cambiamento potenzialmente positivo, e probabilmente necessario, ideato e realizzato nel modo più stupido possibile. Criticare questo stato di cose non significa rimpiangere il passato ma pretendere che il presente sia governato con un minimo di intelligenza. Io non ho alcuna nostalgia della “vecchia” università. Ne ho conosciuto gli ultimi strascichi da studente, gli inverosimili programmi da migliaia di pagine, la burocrazia ostile e cartacea, le code interminabili in segreteria, i professori come figure un po’ aliene e remote che sparivano a maggio e riapparivano a ottobre, e che a volte si eclissavano per un intero anno sabbatico, per me pura fantascienza. Ma non ne ho alcuna vera esperienza in quanto ricercatore e docente. Sospetto che le accuse dei detrattori siano fondate, e che quel pittoresco castello in rovina fosse in gran parte un concentrato di inefficienza, feudalesimo e privilegio, legato a una forma di vita ormai estinta e a una visione del mondo anacronistica e obsoleta. In verità ricordo anche alcuni corsi memorabili tenuti in quelle aule malandate, tra cui quelli del mio maestro, Mario Lavagetto, una delle cose certamente buone uscite dalla vecchia università. Ricordo lezioni di letteratura e di vita, e ore passate a discutere nei seminari o a leggere libri su libri per cercare (o fingere) di essere all’altezza. Ma è più o meno tutto. Non credo che si potesse invocare il dispositivo retorico di Sodoma: «forse ci sono cinquanta giusti nella città…». E quando sono riuscito a intrufolarmi nel castello, alla svolta del millennio, ho visto che gli interni erano assai meno fascinosi delle torri merlate visibili in facciata, piene di crepe ma ancora slanciate verso il cielo: mucchi di ciarpame, scartoffie, robaccia, caricature del dipendente pubblico imboscato, studiosi mediocri cooptati con l’ope legis, vecchi tromboni che concionavano in cattedra senza capire che l’edificio stava crollando. Certo qualcosa bisognava cambiare. Non per la gloria del solito ministro iperattivo ma perché erano cambiati gli studenti, le tecnologie, le enciclopedie, gli orizzonti condivisi, le modalità di relazione, i modelli di sapere e molte altre cose. Però non così. Non con questo fanatismo ideologico. Non con questa idiozia.
Tra le mille sciocchezze che abbiamo commesso io vedo soprattutto due errori, uno teorico e uno psicologico. Il primo è un vizio di fondo implicito nello schema 3+2 e nella finalità primaria che ne ha plasmato l’ideologia e la prassi: creare percorsi «professionalizzanti» (orrenda parola magica di quegli anni) per ridurre lo scarto tra formazione e lavoro e immettere sul mercato laureati già pronti per l’uso, senza quel fastidioso bagaglio di nozioni teoriche e sapere critico di cui il tardo capitalismo, soprattutto in Italia, non sa proprio che farsi. Che l’obiettivo sia sostanzialmente fallito nella prassi (riuscendo però a meraviglia nell’intento di sterilizzare curiosità scientifica e senso critico) è in fondo meno grave rispetto alla contraddizione logica di tutto il progetto, concepito e realizzato come un edificio a testa in giù. Lo ha spiegato lucidamente Raul Mordenti:
il DM 509 propone e impone che la Laurea triennale sia già professionalizzante, cioè che essa prepari immediatamente a una professione, mentre rimanda al successivo, ed eventuale, biennio della Laurea specialistica (o magistrale) l’approfondimento della teoria e dunque l’attività di ricerca; ma pensare questo è come pensare di costruire una casa cominciando dal tetto, rimandando a un secondo tempo la costruzione delle fondamenta. […] La verità è che per i saperi specialistici a cui l’Università prepara […] la teoria e la ricerca non sono affatto un lusso, non sono un “di più” facoltativo ed eventuale; esse sono – al contrario – il cuore, il contenuto professionale stesso di tutte le professioni intellettuali, senza eccezioni[2].
Il secondo errore attiene invece a quel volatile insieme di giudizi, abitudini e rappresentazioni psichiche che chiamiamo mentalità, e che a dispetto del nome produce effetti rilevanti sulla vita pratica e materiale. Ho intuito subito che l’interpretazione della maggior parte dei docenti collimava con il vizio ideologico del 3+2: una base larga, in cui fare il lavoro sporco e giocare inevitabilmente (?) al ribasso, riducendo e banalizzando i programmi, trattando gli studenti come mandrie al pascolo, e un vertice elitario a cui riservare il distillato del proprio sapere e attività più selezionate e gratificanti come seminari, ricerche individuali o percorsi personalizzati. Quando sentivo scattare questa trappola mentale cercavo inutilmente di sfuggire; e dicevo: colleghi, stiamo attenti, gli studenti della laurea magistrale non piovono dalla luna ma sono i nostri stessi studenti del triennio, solo più vecchi di un anno. Li abbiamo laureati noi. Se li alleviamo come somari non potranno volare. Se non investiamo innanzitutto sul livello più basso non andremo da nessuna parte. Ma allora ero giovane e ingenuo. Non capivo che la finalità intrinseca del sistema, voluto e istituito da un ministro di sinistra, era esattamente questa: divaricare i livelli, contrapporre massa e qualità, rinsaldare i privilegi di origine e classe, e in fin dei conti smantellare quel confuso ma glorioso progetto di emancipazione sociale che l’Italia repubblicana aveva tentato di realizzare, anche e soprattutto attraverso l’università, fedele all’articolo 3 della Costituzione. Ma quel progetto era fallito, e gli anni successivi l’avrebbero ribadito a oltranza. Il Sessantotto era lontano come il Giurassico. Stava iniziando l’era dell’Eccellenza.
[1] Traggo l’immagine, indubbiamente efficace, dal titolo di un pamphlet di Maurizio Ferraris del 2001 poi ripubblicato in edizione aumentata nel 2009, Una ikea di università. Alla prova dei fatti, Raffaello Cortina, Milano 2009.
[2] R. Mordenti, L’università struccata. Il movimento dell’Onda tra Marx, Toni Negri e il professor Perotti, Edizioni Punto Rosso, Milano 2010, pp. 44-45.
[Immagine: Aula magna].
GUARDA LE COINCIDENZE!
Proprio ieri su POLISCRITTURE abbiamo pubblicato questo articolo di Marco Gaetani:
Poesia come gadget (http://www.poliscritture.it/2016/05/04/poesia-come-gadget/). E oggi, prendendo a volo questo di Federico Bertoni – grazie! – ho lasciato (sotto quello di Gaetani) questo commento:
AH, LA KULTURA CHE DI NULLA SI CURA!
Per un’analogia tra quel che succede alla poesia e quel che succede all’università e per verificare quanto «la cultura sa difendersi benissimo da sola. Sa di essere appannaggio di una minoranza e di tutto il resto poco si cura» (Rizzi), date un’occhiata a questa testimonianza di Federico Bertoni (http://www.leparoleelecose.it/?p=22839#more-22839). Che si potrebbe intitolare anch’essa quasi “università come gadget”.
Ecco uno stralcio:
E quando sono riuscito a intrufolarmi nel castello, alla svolta del millennio, ho visto che gli interni erano assai meno fascinosi delle torri merlate visibili in facciata, piene di crepe ma ancora slanciate verso il cielo: mucchi di ciarpame, scartoffie, robaccia, caricature del dipendente pubblico imboscato, studiosi mediocri cooptati con l’ope legis, vecchi tromboni che concionavano in cattedra senza capire che l’edificio stava crollando. Certo qualcosa bisognava cambiare. Non per la gloria del solito ministro iperattivo ma perché erano cambiati gli studenti, le tecnologie, le enciclopedie, gli orizzonti condivisi, le modalità di relazione, i modelli di sapere e molte altre cose. Però non così. Non con questo fanatismo ideologico. Non con questa idiozia.
[…]
Il secondo errore attiene invece a quel volatile insieme di giudizi, abitudini e rappresentazioni psichiche che chiamiamo mentalità, e che a dispetto del nome produce effetti rilevanti sulla vita pratica e materiale. Ho intuito subito che l’interpretazione della maggior parte dei docenti collimava con il vizio ideologico del 3+2: una base larga, in cui fare il lavoro sporco e giocare inevitabilmente (?) al ribasso, riducendo e banalizzando i programmi, trattando gli studenti come mandrie al pascolo, e un vertice elitario a cui riservare il distillato del proprio sapere e attività più selezionate e gratificanti come seminari, ricerche individuali o percorsi personalizzati. Quando sentivo scattare questa trappola mentale cercavo inutilmente di sfuggire; e dicevo: colleghi, stiamo attenti, gli studenti della laurea magistrale non piovono dalla luna ma sono i nostri stessi studenti del triennio, solo più vecchi di un anno. Li abbiamo laureati noi. Se li alleviamo come somari non potranno volare. Se non investiamo innanzitutto sul livello più basso non andremo da nessuna parte. Ma allora ero giovane e ingenuo. Non capivo che la finalità intrinseca del sistema, voluto e istituito da un ministro di sinistra, era esattamente questa: divaricare i livelli, contrapporre massa e qualità, rinsaldare i privilegi di origine e classe, e in fin dei conti smantellare quel confuso ma glorioso progetto di emancipazione sociale che l’Italia repubblicana aveva tentato di realizzare, anche e soprattutto attraverso l’università, fedele all’articolo 3 della Costituzione. Ma quel progetto era fallito, e gli anni successivi l’avrebbero ribadito a oltranza. Il Sessantotto era lontano come il Giurassico. Stava iniziando l’era dell’Eccellenza.
“creare percorsi «professionalizzanti» (orrenda parola magica di quegli anni) per ridurre lo scarto tra formazione e lavoro e immettere sul mercato laureati già pronti per l’uso, senza quel fastidioso bagaglio di nozioni teoriche e sapere critico di cui il tardo capitalismo, soprattutto in Italia, non sa proprio che farsi.”
Scusate, ma per definizione la laurea *deve* essere professionalizzante, il “bagaglio di nozioni teoriche e sapere critico” invece è compito delle scuole superiori, la mia impressione è questo guardare con molto sospetto ed ostilità ai tentativi di connessione, che non equivale a subordinazione, tra educazione e mondo del lavoro, due mondi oggi fortemente distanti, è un atteggiamento che si può spiegare solo in un paese come il nostro ancora abituato a una forma mentis ostile al dato empirico e ai saperi scientifici come l’Italia, dovuti alla nefasta influenza idealista di Croce e Gentile. Sorprende peraltro che la sinistra abbia non solo assorbito e fatte sue queste concezioni idealistiche ma che abbia perfino dimenticato totalmente i suoi originari orientamenti sul riservare un rapporto molto stretto tra scuola e il lavoro e le pratiche sociali, presenti nella tradizione marxista, da Marx stesso (“I filosofi fino ad ora hanno solo interpretato il mondo, si tratta ora di cambiarlo”) allo stesso Gramsci, filosofo della prassi.
Segnalo comunque un articolo del 2008 sulla laurea breve e i suoi risultati, tanto per sentire un’altra voce:
http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2008/05/14/sorpresa-la-laurea-breve-funziona-cosi-lo.html
@Michele de Russi, se non si hanno nozioni di base sufficienti qualsiasi competenza pratico-tecnica acquisita rimane fine a se stessa, dato che il soggetto sarà difficilmente in grado di acquisirne altre e dunque di rimanere aggiornato. Di converso un laureato con eccellenti conoscenze di base potrà apprendere di volta in volta le competenze necessarie a svolgere le mansioni affidategli.
Questo, beninteso, se si parla di lavori idonei a laureati, o a quelli che una volta si chiamavano “impiegati di concetto”.
La sua ipotesi si scontra inoltre anche con la realtà dei fatti: la professionalizzazione dei curricula è servita a ridurre l’investimento iniziale operato dalle aziende al momento dell’assunzione di nuovo personale (ormai i corsi aziendali sono perlopiù un ricordo) scaricandolo sulla collettività e a permettere a dette aziende di poter effettuare frequenti ricambi di personale (non avendo da investire per la sua formazione…).
Tutto ciò a discapito della preparazione degli studenti, che si trovano con competenze iper specializzate, del resto destina a rapida obsolescenza specie nell’ambito scientifico che lei porta a modello, ma incapaci di aggiornarsi.
Per quanto riguarda Gramsci e Marx, non confonda prassi e tecnica.
@Carlo Tirinanzi,
rifiuto del tutto questa concezione che all’Università basti imparare un sapere teorico e che poi usciti da essa si sia per questo motivo totalmente capaci di “apprendere di volta in volta le competenze necessarie a svolgere le mansioni affidategli.” Sapere teorico e agire pratico sono da pensare come due aspetti inscindibili del conoscere, l’uno alimenta l’altro e viceversa, è una lezione che dovremmo aver imparato fin dai tempi di Galileo, che non limitiva certo la sua attività del conoscere le leggi del mondo in un sapere teorico sui libri e sul riflettere astratto, trascurando del tutto l’agire pratico con strumenti di laboratorio come cannocchiali e piani inclinati.
Io sinceramente comunque stento ancora a vedere una così radicale “professionalizzazione dei curricula”: a me ad esempio risulta che nell’Università italiana manchino del tutto ad esempio lauree magistrali a numero chiuso destinati ai futuri docenti di lettere, filosofia e storia e dunque oggi una laurea magistrale in lettere moderne, dato che è a numero aperto, la può prendere chiunque, e solo una minoranza di questi laureati finisce per insegnare italiano, si veda qui:
http://futuredem.it/blog/perche-non-ha-senso-opporsi-al-numero-chiuso/
“AlmaLaurea, che ami citare, sottolinea che a 5 anni dal conseguimento del titolo il 94% di coloro che hanno una laurea in ambito Medico/Sanitario, Scientifico o in Ingegneria è occupato, contro il 72,5% di coloro che hanno una laurea in ambito Letterario. Tuttavia oltre a questa discrepanza quantitativa il vero problema si colloca a livello qualitativo: i laureati in ambito Medico/Sanitario, Scientifico o in Ingegneria infatti lavorano quasi sempre nel settore per cui possiedono il titolo, mentre gli occupati con laurea umanistica non lavora quasi mai nel settore per cui ha studiato. E’ vero che i laureati hanno più possibilità di trovare lavoro, ma è vero anche che i laureati in materie umanistiche concorrono spesso nel segmento di mercato del lavoro dei diplomati, assumendo ruoli dequalificati rispetto al loro titolo”
Segnalo un altro link che evidenzia l’alto livello di materie teoriche nell’Università italiana rispetto ad altre estere come quella tedesca e le sue conseguenze negative:
http://berlinocacioepepemagazine.com/lo-studente-universitario-in-germania-produce-in-italia-memorizza-ma-non-impara-nessun-lavoro-34343/
“In Italia siamo valutati tramite esami, spesso orali, durante i quali i professori pongono qualche domanda su un programma vastissimo…dopo l’esame spesso ci rimane poco, i concetti che abbiamo appreso, rimangono senza applicazione… Lo studente in Germania produce. L’impostazione dei seminari (classi con un numero ristretto di partecipanti) prevede tanto lo studio teorico quanto la sperimentazione pratica.”
“Nel mio corso di studio a Lingue e Letterature straniere, non è mai prevista una preparazione di un testo scritto, di uno studio personale, se non per la tesi finale. Il merito degli studenti è valutato solo con prove estemporanee, in cui tanto la fortuna quanto la “simpatia” del docente giocano un ruolo fondamentale. Personalmente preferisco il tipo di insegnamento che “semina” le conoscenze e le fa germogliare, piuttosto che quello made in Italy che ci “riempie” di conoscenza troppo spesso fine a se stessa.”
A questo si può facilmente aggiungere che un’università totalmente concentrata sulla teoria finisce per rendere del tutto uguali un diplomato in ragioneria e un laureato in economia, finendo magari per farli lavorare entrambi come contabili in azienda o come cassieri in una banca e stessa cosa si potrebbe dire per un laureato in lettere moderne e un diplomato al liceo classico che potrebbero lavorare come bibliotecari o giornalisti, insomma sono tutti casi, ampiamente documentati da statistiche come AlmaLaurea, di sottooccupati rispetto al titolo e che smentiscono la tesi che una laurea solo teorica farebbe dare più possibilità di imparare lavori pratici in breve tempo e con facilità. Questi mi sembrano i fatti.
Credo che qui nessuno stia difendendo una formazione universitaria puramente teorica (come non si auspica una formazione puramente pratica). Ciò che è da porre in risalto è la schizofrenia sia del sistema universitario sia del “mondo del lavoro” (odiosa e abusata espressione che indica un qualcosa che è insieme vago, distante e minaccioso, soprattutto per gli studenti universitari). Il mercato richiede lavoratori pronti all’uso (anzi, meglio usa e getta e che possibilmente siano disposti a fare gli “apprendisti con esperienza”). L’università avrebbe il compito di formare queste fantomatiche figure (o almeno qualcosa che ci si avvicini) ma sta fallendo clamorosamente. Il giovane laureando o neolaureato si trova a dovere e volere acquisire delle esperienze lavorative ma né l’università né il “mondo del lavoro” gliene danno l’opportunità. In tutto ciò, il 3+2, oltre a non riuscire nel suo scopo di creare corsi professionalizzanti, ha anche creato una frattura nel percorso universitario. Non voglio difendere il vecchio modello universitario (considerando che ho iniziato l’università quando il 3+2 era in vigore già da tempo, non saprei neanche cosa starei difendendo), sto semplicemente constatando che, poiché nella maggior parte dei casi una laurea triennale non offre alcuna possibilità concreta di lavoro e quindi la laurea magistrale è un obbligo, con questo modello si è andato a perdere quello che poteva essere un vantaggio del vecchio ordinamento, ossia la continuità del percorso di studi. Credo che sia stato quanto meno scriteriato il modo in cui questo ormai famigerato 3+2 è stato applicato: per alcuni corsi di studio si è mantenuto il modello definito di Laurea Magistrale a Ciclo Unico, a riprova del fatto che evidentemente dei vantaggi in esso ci sono. Per la maggior parte dei corsi è stato applicato il 3+2, ma in base a quali princìpi? Parlo da studentessa di Italianistica: la mia Laurea Triennale vale meno della mia pagella di quinta elementare. A quale scopo, quindi, creare una frattura nel percorso di studi?
L’università italiana è carente per quanto riguarda le opportunità di formazione pratica che offre agli studenti? Sì. C’è un forte divario fra università e “mondo del lavoro”? Sì. Ciò non vuol dire che non ci sia qualcosa di tremendamente malato nelle pretese del mercato lavorativo (che poi coincidono con gli obiettivi con cui il 3+2 è nato). E non vuol dire che si debba accantonare la formazione teorica che, anzi, andrebbe coltivata soprattutto da un punto di vista qualitativo più che quantitativo.
Sono stato portato qui da due ricerche:
1)
la prima, che si protrae dal 1969, di uno “spin off” dell’Università di Bologna nel mondo dell’informatica, dopo una tardiva laurea in fisica;
2)
la seconda, appena sollecitata dall’intento di farsi un’opinione sulla presentazione del libro via sito http://www.roars.it …. di un “consumatore recalcitrante di cultura in scatola”.
Sceglierei di commentare via uso sperimentale di Google +
@Luigi Bertuzzi [mio alter ego “reale”]
Un consumatore recalcitrante [di cultura in scatola] sa, in qualche modo, che lo stato dell’arte della rete [l’odierno “internet + web”], non è quello che avrebbe potuto essere.
Indicarne la causa in un errore ulteriore dell’università, oltre ai due citati in questo articolo, significa risalire alla preistoria dell’uso dell’informatica come strumento per la ricerca scientifica.
Le lauree professionalizzanti allora non c’erano, quindi l’errore era inevitabile.
Qui andresti fuori tema.