di Franco Buffoni
[Sabato 14 maggio, al salone del libro di Torino, in sala Argento h 12, Franco Buffoni presenta la nuova edizione accresciuta del suo saggio Con il testo a fronte (Interlinea). Questo è una delle nuove parti aggiunte al volume].
Negli anni settanta, quando i formalismi novecenteschi – strutturalismo, semiotica, linguistica teorica – giunsero all’apice della loro diffusione, parve che la riflessione sul tradurre dovesse appartenere in toto alla linguistica. Personalmente nutrivo molti dubbi sul fatto che la riflessione teorica sulla traduzione consistesse nell’analisi di un processo di decodifica dalla lingua di partenza e di ricodifica nella lingua d’arrivo. Un meccanismo che, certo, funzionava se applicato alla traduzione di un testo di tipo tecnico o di un libro giallo di tipo dozzinale, ma che mostrava subito qualche crepa se ci si volgeva alla letteratura in senso stretto.
Non ero per niente soddisfatto di ciò che allora si diceva e s’insegnava riguardo alla traduzione: capivo che mi mancava un aggancio. E quando nel decennio successivo ci fu l’esplosione di After Babel di George Steiner, sostenuta dal provocatorio slogan “tradurre significa rivivere l’atto creativo che ha informato l’originale”, capii che se avessi insistito in quella direzione avrei forse trovato la soluzione al mio problema.
Contemporaneamente scrivevo poesia e mi era stato assegnato un ricercatorato in anglistica: ero un giovane poeta di lingua romanza (operavo dunque su metriche di tipo quantitativo) ma traducevo principalmente da una lingua forgiatasi su metriche accentuative. Cercavo quindi un denominatore comune alle due branche del mio operare. Lo trovai nella riflessione teorica sulla traduzione letteraria.
Se l’incontro con la scuola neofenomenologica anceschiana, sul piano teorico, era già avvenuto negli anni settanta, dalla collaborazione con il primo allievo di Luciano Anceschi, Emilio Mattioli, vennero le ricadute pratiche. Fu con lui che decisi l’impostazione teorica di “Testo a fronte”: la rivista non doveva mirava a cancellare l’importanza delle grandi eredità formalistiche del novecento, ma a coniugarle con istanze di tipo estetico.
Quando nasce una nuova scienza si verifica sempre una confluenza di competenze da altre scienze. E in Italia, negli anni ottanta, la traduttologia si trovò ad avere due nutrimenti fondamentali, sinteticamente riconducibili alla linguistica teorica e alla filosofia estetica: in estrema sintesi, Humboldt e Baumgarten.
Per quanto riguarda la traduzione letteraria proponemmo allora di ancorare la riflessione teorica a cinque concetti di fondo, agili da un punto di vista operativo: i concetti di poetica, di intertestualità, di ritmo, di movimento del linguaggio nel tempo e di avantesto.
Come ho detto, sono un convinto “anceschiano”: credo fermamente nei concetti di “poetica” e di “progetto”. Non comincio a scrivere un libro di poesia se non ho chiaro il “progetto”. Racconto sempre delle storie, anche nei libri di poesia. So di avere davvero qualcosa da dire e lavoro molto sul frammento. La mia scrittura in versi consiste di frammenti poetici che continuo a produrre, come un flusso di lava più o meno forte, ma costante. Poi i frammenti si compongono divenendo le tessere di un mosaico, e io stesso stento a capacitarmi della precisione con cui esse finiscono col combaciare. Col tempo mi sono convinto che il collante misterioso – la forza unificante – che mi permette di inanellare i frammenti (o gli intermezzi, come li definiva Schumann) e quindi di scrivere dei libri in poesia – è la mia “poetica”. Come diceva Pasolini del film montato e finito: solo allora quella storia diventa morale. Solo quando i frammenti naturalmente si compongono, mi rendo conto dell’estrema pertinenza per me della definizione anceschiana di poetica: “La riflessione che gli artisti e i poeti compiono sul loro fare, indicandone i sistemi tecnici, le norme operative, le moralità e gli ideali”.
Una poesia originale non è una poesia che parli di cose di cui nessuno abbia mai parlato prima. Leopardi è unico quando parla della/alla luna, non perché l’oggetto sia originale (lo troviamo persino nelle lettere che il Colletta gli scrive), ma perché la sua poetica è immensamente pulsante e vitale. Keats – quando nel distico conclusivo dell’Ode on Grecian Urn associa Beauty a Truth e Truth a Beauty – non compie un’associazione originale: sono due termini che l’estetica inglese del Settecento frequentemente pone in connessione. Ma Keats rivive febbrilmente quell’associazione all’interno della sua poetica. E quei versi, letti una volta, non si dimenticano.
Questo avviene perché la poesia è un linguaggio: un linguaggio diverso da quello che usiamo per comunicare nella vita quotidiana e di gran lunga più ricco, più completo, più compiutamente umano. “Un linguaggio”, come scrive Giovanni Raboni, “al tempo stesso accuratamente premeditato e profondamente involontario, capace di connettere fra loro le cose che si vedono e quelle che non si vedono, di mettere in relazione ciò che sappiamo con ciò che non sappiamo”.
Ho molto tradotto nella mia vita e sono andato sempre più convincendomi che la vera differenza non sia tra prosa e poesia, ma tra una scrittura provvista di un proprio ritmo interno e una scrittura che tale ritmo non lo possiede.
Lo sosteneva già Beda il Venerabile: “Il ritmo può sussistere di per sé, senza metro; mentre il metro non può sussistere senza ritmo. Il metro è un canto costretto da una certa ragione; il ritmo un canto senza misure razionali”. Una distinzione che ritroviamo modernamente espressa nel Traité du rythme di Meschonnic e Dessons: “Il ritmo non è formalista, nel senso che non è una forma vuota, un insieme schematico che si tratterebbe di mostrare o no, secondo l’umore. Il ritmo di un testo ne è l’elemento fondamentale, perché ritmo è operare la sintesi della sintassi, della prosodia e dei diversi movimenti enunciativi del testo”.
Con i poeti (ma uso il termine in senso anceschiano, molto ampio: meglio sarebbe scrivere “con gli artisti”) ciò che conta del ritmo è il momento in cui esso si fa parola, cioè diventa linguaggio, e dunque si realizza attraverso una particolare intonazione. (In quanto il ritmo è soggetto, se un poeta trova il ritmo, trova il soggetto; se non lo trova, i versi che sta scrivendo non sono arte).
Il ritmo è dunque un respiro interno alla scrittura che idealmente ingloba tutte le metriche. Perché le metriche sono un fatto storico, possono mutare, sono legate alla moda nel senso leopardiano del termine. Mentre il ritmo è ancestrale: è quel respiro che viene dall’imparare a parlare, dal battito del cuore materno.
Certamente non a caso Meschonnic, al riguardo, cita esempi sia dall’ambito letterario sia da quello delle arti figurative. In questo secondo caso, basta sostituire al termine “parola”, i termini “tratto”, “immagine” o “raffigurazione”. La differenza non è dunque tra pittura astratta e pittura figurativa, ma tra una pittura (astratta o figurativa) provvista di un proprio intrinseco ritmo, di una propria misura, e una pittura (astratta o figurativa) che invece ne è sprovvista. La seconda non è arte. Punto.
E’ evidente che le difficoltà di ordine traduttologico che incontro traducendo The Four Quartets appartengono alla stessa famiglia di difficoltà che incontro traducendo The Waves, anche se ad occhi ingenui T.S. Eliot ha scritto in poesia e Virginia Woolf in prosa.
Riprendendo una celebre riflessione di Bachtin sulla traduzione come rapporto dialogico tra due entità artistiche – un rapporto che diviene non più “di rango, ma di tempo” – l’opera non è immessa nel movimento del linguaggio e nella temporalità della ricezione solo nella lingua d’arrivo, ma anche nella lingua di partenza. Questo incontro-scontro scava una differenza e quindi rinnova anche l’opera di partenza.
In sintesi, potremmo prendere le mosse dalla questione della ritraduzione: perché diamo per accettato che sia “lecito” ritradurre? Perché riteniamo che ogni generazione voglia avere il proprio Goethe, il proprio Dante, il proprio Shakespeare in grado di parlare nella lingua letteraria di quella generazione. Io ho tradotto Keats nel 1980, la mia traduzione è ancora in circolazione, ma sono sicuro che un altro poeta (o io stesso) tra qualche anno ritradurrà Keats e lo riproporrà. Perché la ritraduzione è comunemente accettata? Perché diamo per scontato che la lingua sia in movimento nel tempo: dunque che il nostro italiano sia costantemente in trasformazione. Il passaggio teorico ulteriore, che si compie ampliando la riflessione al concetto di Sprachbewegung, è volto a includere anche il testo scritto nella lingua di partenza in questo movimento del linguaggio. Perché quel classico antico o moderno che andiamo a tradurre si è spostato anch’esso nel tempo.
Non solo “diviene” la lingua d’arrivo – cosa ovvia dal tempo di Humboldt – ma diviene anche quella di partenza, perché nei decenni, nei secoli, le strutture che compongono quel testo sono andate modificandosi: il corpo sintattico, quello grammaticale, i valori semantici, la pronuncia. Come si può pensare che quel testo sia rimasto lo stesso? E qui interviene il concetto di traduzione come incontro “poietico”, come incontro di poetiche. Se tradurre letteratura porta alla realizzazione di un incontro tra la poetica del traduttore e la poetica del tradotto, questo incontro – che avviene in un punto x del tempo e dello spazio – è unico e irripetibile, perché unico e irripetibile è lo stato delle due opere e delle due lingue che in quel momento si incontrano.
Lo stesso traduttore, a distanza anche di poco tempo, traduce in un modo diverso. È un esperimento che, tra l’altro, ho fatto con me stesso, ritraducendo Seamus Heaney senza controllare le traduzioni che avevo steso dieci anni prima. Come due frecce che si intersecano – e solo in quel preciso momento si intersecano in quel modo – avviene l’incontro poietico tra testo di partenza e testo di arrivo. In un altro momento – successivo o precedente – le due frecce (i due testi) si sarebbero intersecati in modo diverso.
Impostando la riflessione teorica in questo modo, abbiamo coniugato il concetto di movimento del linguaggio nel tempo con il concetto di poetica. Naturalmente qui preme alle porte anche il concetto d’intertestualità: i cinque concetti che abbiamo elencato all’inizio sono coniugabili tutti tra loro, per produrre il nuovo in traduttologia.
Potremmo chiederci: la traduzione può essere considerata come un’operazione di “secondo grado”? E se sì in che maniera? Julia Kristeva affermava che “ogni testo si costruisce come un mosaico di citazioni”, quindi, semplificando, si potrebbe sostenere che anche la traduzione, infine, non è che una lunga “citazione” in un’altra lingua.
Questa posizione concettuale nasce da un convincimento: che letteratura nasca da letteratura, che non esista creazione letteraria assolutamente originale. La creazione letteraria assolutamente originale è di per sé un’affermazione indecente, una contraddizione in termini, perché significherebbe assoluta incomunicabilità, monologismo. È evidente che la letteratura assorbe la letteratura precedente e la trasforma. È evidente che Dante non sarebbe Dante se non ci fossero stati prima i provenzali, la filosofia araba eccetera.
Torniamo al distico finale dell’Ode on a Grecian Urn di Keats (“Beauty is truth, truth beauty”, – that is all/ Ye know on earth, and all ye need to know) e domandiamoci: che cosa aggiunge Keats di proprio a quell’associazione così comune nell’estetica inglese del Settecento? Aggiunge quella pulsione naïve che nutriva – non sapendo il greco – verso il mondo greco, e in particolare verso le arti plastiche.
Un poeta è poeta non perché compia una creazione assolutamente originale, ma perché sa fare rivivere una tradizione alla luce della sua poetica.
Il vero punto è se esiste una poetica motivata e profonda in un autore. Dicendo “letteratura nasce da letteratura”, noi parliamo di qualcosa di molto teso sul piano concettuale. È per questo che non possiamo prescindere dal concetto di poetica quando parliamo di intertestualità.
In questo senso possiamo considerare la traduzione come uno strumento dell’epoché. Perché la traduzione, intervenendo sul testo “originale”, pone in crisi la poetica di quel testo, la modifica, cioè rivela quell’opera – che voleva darsi come un “essere” – soltanto come una “forma”. Riprendendo in qualche modo la dialettica pirandelliana o lukacsiana tra “vita” e “forma”, si potrebbe affermare che la traduzione lavora per la vita, cioè per il movimento, per il tempo, di contro a un’illusoria volontà dell’essere dell’opera “originale”, che si rivela invece semplicemente poetica, cioè classificazione simbolica o forma.
Sintetizzando ulteriormente, si potrebbe parlare anche di traduzione come Überleben, come Afterlife di un testo. Al riguardo c’è un’illusione da cancellare: l’idea che la traduzione possa costituire la riproduzione di un testo. Anzitutto perché non è mai trasmissibile soltanto un contenuto prescindendo dalla forma; quindi perché significherebbe porsi nei confronti del testo di partenza in una posizione ancillare, laddove l’obiettivo è quello di raggiungere un risultato estetico autonomo. E non si raggiunge l’autonomia estetica attraverso una riproduzione, ma attraverso un incontro tra poetiche: un incontro tra pari.
A mio avviso è illusorio cercare di arrivare a “riprodurre” il ritmo dell’originale, quando invece si tratta di far fuoruscire – da quell’incontro poietico coniugato con gli altri elementi citati – un respiro dell’opera adeguato alla lingua d’arrivo in quel dato momento storico.
Mi pare evidente che – parlando di traduzione a questo livello – parliamo di Valéry che traduce le Bucoliche, o di Giorgio Orelli traduttore di Goethe; insomma di quelle che Meschonnic definisce “traductions-text”. Parliamo cioè di ciò che dovrebbe essere la traduzione.
Il fatto che nella consueta prassi editoriale tutto ciò stenti a realizzarsi non è un buon argomento per dire che non si debba tendere all’obiettivo della perfezione. Se il traduttore non è adeguato, non significa che non funzioni il concetto.
In questo modo, il processo della traduzione potrebbe assomigliare, in maniera diacronica, a ciò che sincronicamente gira attorno al testo teatrale nell’analisi neostoricistica di Greenblatt. Greenblatt dice che tutto ciò che si trova attorno al testo va a demolire l’illusione dell’unico principio generativo di quel testo. In questo modo, invece, diacronicamente, la traduzione va a demolire l’illusione dell’unico principio generativo anche del testo “originale”.
Testo originale sul quale ci sarebbe molto da dire, introducendo nella nostra riflessione anche il concetto di avantesto. Perché è vero che l’Ulisse di Joyce esce nel 1922. Ma il 1992 non rappresenta un momento d’inizio, bensì un punto d’arrivo. Nel ’22 giunge infatti a compimento un lungo processo che ha portato alla formazione di quel testo. A me interessa questo processo nella sua interezza.
Per un traduttore di letteratura poter accedere agli avantesti – cioè a tutto quel materiale che precede la prima edizione a stampa di un’opera – è estremamente utile, perché significa poter visionare il processo di germinazione di un testo: quello che Pareyson definisce il processo di “formatività”. Nel suo saggio Proust. Dall’avantesto alla traduzione, Lorenzo De Carli mette a confronto vari passaggi proustiani nelle diverse traduzioni italiane e mostra bene la differenza tra quei traduttori che hanno avuto la pazienza di consultare i Cahiers e quelli che hanno preso in considerazione solo il testo della Recherche dato come canonico in quel momento.
Al riguardo, credo che solo un ingenuo possa continuare ad affermare che Shakespeare non cambia e rimane fermo nel tempo, mentre le traduzioni cambiano: lasciamolo alla pia illusione che Shakespeare non muti nel tempo.
[Immagine: Giulio Paolini, Mimesis (gm).]