di Mirko Lino
[È da poco uscito, per Le Lettere, il saggio di Mirko Lino, L’apocalisse postmoderna tra letteratura e cinema. Questa è l’introduzione].
1. Apocalisse e Postmoderno
Affrontare il tema culturale dell’apocalisse nelle produzioni letterarie e cinematografiche del Postmoderno segna un percorso molto affascinante, ricco di suggestioni e visioni riguardo all’umanità e il suo modo di rispecchiarsi nelle immagini della propria fine: catastrofi sempre più devastanti, improbabili quanto terribilmente verosimili; distopie che preparano l’immaginario collettivo al peggiore dei futuri immaginabili; il rischio costante di vedere il mondo esplodere con le armi di distruzione di massa; epidemie e contagi che rendono indistinguibili la vita dalla morte. L’apocalisse nel Postmoderno genera un denso immaginario di figure e situazioni dove la minaccia di veder finire il mondo si lega a quella della scomparsa culturale dell’umanità, garantita da una costellazione di crisi che investono le nozioni tradizionali, come quella di Storia, di visibile e lo stesso concetto di umano.
Il Postmoderno utilizza in maniera massiccia i codici espressivi e figurativi ereditati dall’Apocalisse di Giovanni per raccontare le crisi culturali ereditate da una modernità incompiuta, ribaltata dagli orrori della storia della prima metà del Novecento (guerre mondiali, Auschwitz, ma anche il naufragio del Titanic e l’incendio dello Zeppelin Hinderburg), rendendo l’apocalisse un simbolo, un’immagine, un modo di pensare, una modalità della visione, qualcosa che non smette di produrre significati ma, soprattutto, di rivelare l’aspetto nascosto delle cose (apocalyptein = rivelazione, disvelamento). Il rischio a cui può andare incontro un’analisi della fascinazione postmoderna nei confronti della fine del mondo e delle sue (auto)rappresentazioni nei romanzi e nei film è quello di lasciarsi sedurre da una deriva provocatoriamente estetica: piuttosto, l’utilità di analizzare le apocalissi postmoderne sta nel mostrare come testi letterari e cinematografici insistendo su immaginari della catastrofe e dell’estinzione dell’umano diventano il laboratorio dove la cultura tardocapitalistica guarda se stessa. Una considerazione che stimola un’analisi critica che non si ferma ai soli contatti figurativi di superficie, retti sulla ripetizione di immagini e figure del disastro, facilmente riconducibili a quelle del testo biblico, ma indica la necessità di spingere gli strumenti dell’analisi più in profondità, dove i legami tra i due termini si stringono tra loro sino a confondersi. Guardando alla grande quantità di narrazioni letterarie e cinematografiche postmoderne che insistono su immagini e figure dell’apocalisse, emerge in maniera evidente l’esigenza della cultura di confrontarsi con racconti che descrivono la fine del mondo. Questa necessità diventa rilevante soprattutto nel sistema culturale postmoderno, perché, da una parte, è un sistema costantemente impegnato a nascondere e rimuovere i traumi, i lutti e le minacce della fine dell’esistenza, promuovendo pratiche di consumo che appagano i desideri e i bisogni di una materialità edonista e narcisista che ha soppiantato l’astrazione dello “spirituale”; mentre, dall’altra parte, è un sistema culturale che garantisce il ritorno del fobico, di ciò che prova a sotterrare e dimenticare, affidandosi ai linguaggi della merce e dello spettacolo (in senso debordiano), organizzando la spettacolare rivelazione del rimosso con i codici del massimo di visibilità dell’estremo, e dare il via a un’ipertrofia rappresentativa, tale da dare forma al collasso di paradigmi culturali e sociali storicamente affermati.
Il più grande rimosso culturale del Novecento, su cui ruota la retorica della superficie, del citazionismo e del pastiche di generi e stili narrativi tipico dalle narrazioni apocalittiche postmoderne, è la morte: raccontare e immaginare la morte sancisce la scaturigine di una temperie culturale in cui i tabù della rappresentazione cadono mostrando una forte attrazione verso le tematiche con cui costruire i discorsi dell’immanente, dello scatologico e anche dell’osceno, invece di riflettere sul trascendente, l’escatologico e ciò che è moralmente accettato.
L’utilizzo tematico dell’apocalisse nella cultura postmoderna raccoglie due possibilità retoriche con cui relazionarsi al concetto di morte biologica della Terra e dei suoi scenari culturali: esorcizzare la fine attraverso strategie rappresentative e narrative che mantengono l’immagine di un’umanità capace di salvarsi anche davanti alle catastrofi apocalittiche più imponenti; rivelare la fine attraverso il racconto del fallimento di ogni forma di salvezza e protezione culturale, mostrando il collasso di strutture sociali, economiche, forme rappresentative e soggettive consolidate senza garantire forme di palingenesi.
Per comprendere come l’apocalisse nel Postmoderno produca le proprie figure culturali è utile tornare, seppur brevemente, su alcune considerazioni che riguardano il suo testo di riferimento, l’origine di ogni immaginario apocalittico occidentale. Quando si parla di apocalisse viene chiamata in causa la fortunata ricezione dell’Apocalisse
Giovanni, da cui ha preso nome il genere letterario dell’apocalittica: termine entro il quale rientra quell’insieme di scritti profetici di provenienza giudaica, canonici e apocrifi, che a partire dal II secolo a.C. ebbero un’ampia ricezione a livello popolare per la natura visionaria dei propri contenuti. Il fondamentale testo di Giovanni, composto durante l’esilio presso l’isola di Patmos alla fine del I secolo d.C, venne scritto con il fine di consolare e promettere una magniloquente salvezza spirituale alle comunità cristiane decimate dalle persecuzioni di Domiziano; il testo, nonostante gli orrori descritti, agisce da balsamo in grado di alleviare le sofferenze dell’uomo, promettendogli la prossima parusia del Cristo e l’avvento del regno dei Cieli simboleggiato dalla visione finale della nuova Gerusalemme che scende dal cielo, senza però risparmiarsi una ben dettagliata narrazione della distruzione del mondo.
Il testo di Giovanni sconvolge un lettore che, abituato all’immagine del Dio misericordioso dei vangeli, si ritrova davanti quella del Dio vendicativo del Vecchio Testamento, intento a trasformare la vita sulla Terra in orrore, rendendolo unica condizione necessaria per la salvezza. Quello che Giovanni di Patmos descrive nelle sue visioni è una dimensione mondana proiettata in un regime temporale astorico, impegnata nella percezione di un tempo che deve ancora venire ma, tuttavia, ricco di presagi e anticipazioni: catastrofi, cataclismi, crolli di imperi, figure mostruose, come le due bestie, dietro le quali si celano raffinate metafore politiche del mondo a lui contemporaneo e che ben si prestano a descrivere la sfera del potere politico ed economico del mondo postmoderno. L’Apocalisse si presenta come un racconto che procede per visioni, con una struttura narrativa a “blocchi” di orrori e devastazioni che affliggono i quattro angoli del mondo, poco lineare, con cui si ha esperienza della catastrofe della storia (i settenari dei sigilli, della tromba e delle coppe).
A questo punto, è utile estrapolare le caratteristiche principali del racconto apocalittico tradizionale per incontrarle nuovamente nel confronto con l’apocalittica postmoderna e con le strategie narrative e rappresentative che mette in atto. Secondo John Collins, l’apocalittica è:
Un genere di letteratura di rivelazione con una cornice narrativa, nel qua- le da un essere soprannaturale viene mediata a un destinatario umano una rivelazione che dischiude una realtà trascendente. Questa è sia temporale, in quanto riguarda la salvezza escatologica, sia spaziale, in quanto implica un altro mondo, quello soprannaturale.
Uno degli elementi che caratterizza il rapporto tra Apocalisse biblica e rappresentazione postmoderna è l’irrappresentabilità delle sue strutture temporali, ovvero la possibilità di creare una forma narrativa della temporalità apocalittica.
Per Massimo Cacciari l’esperienza apocalittica è difatti rivelazione di un tempo autentico: «rivelazione del simbolo del tempo vero, revelatio di un tempo inconsumabile da Chrónos-Krónos; se si vuole, morte di Krónos onnivoro, ma salvezza del Chrónos rivelatore»; in questa maniera, l’esperienza della visione apocalittica si trova orientata a ri– velare il nascosto e portarlo al culmine della propria manifestazione. Il racconto apocalittico, nonostante abbia delle sue tematiche specifiche, semina il caos per quanto riguarda la forma, poiché astoricità e culmine del tempo sono concetti che possono essere suggeriti tematicamente con la costruzione di un sentimento della fine dei tempi, ma senza trovare una stabilità in una forma narrativa. Una considerazione, questa, che viene sottolineata nell’analisi di Michele Cometa della struttura testuale e formale delle due versioni di Apocalipse Now di Francis Ford Coppola. Nell’analisi viene dimostrata l’impossibilità di riuscire a rappresentare il Chrónos apocalipseos e l’astoricità del suo tempo con gli strumenti della narrazione filmica. Coppola utilizza il contesto storico-culturale della guerra in Vietnam per mostrare il “cuore di tenebra” dell’uomo moderno, e realizza nei due finali del film l’adesione a una costruzione mitologica invece che apocalittica:
La struttura narrativa in questo caso è molto più significativa e ci costringe ad ascoltare non solo una narrazione di mitologemi, ma una narrazione mitica essa stessa. È una narrazione infatti che si basa su una temporalità ciclica, circolare. E ciclico è eminentemente il tempo mitico. Esso è ripetizione, eterno ritorno dell’uguale, indifferente rispetto agli attori che lo abitano che sono pura parvenza […] non solo non vi sono catastrofi (vere catastrofi) finali, ma anche la struttura del racconto non corre verso la fine ma verso l’inizio come si addice a ogni racconto mitico. La sua struttura è protologica, non escatologica.
Quello che avviene con l’apocalittica postmoderna è inquadrabile nel– la traiettoria finale di un lungo viaggio metaforologico dell’Apocalisse biblica: la catastrofe abbandona la sua originaria appartenenza divina e diviene conseguenza dello scollamento tra evoluzione biologica e cultura. I simboli del testo di Giovanni vengono sostituiti da pratiche culturali, come il consumo, e da oggetti simbolici, come quelli tecnologici, la nuova Gerusalemme si confonde con la vita nelle metropoli e le sue promesse di salvezza non appaiono dissimili dalle stesse offerte da un qualsiasi shopping mall. Apocalisse e Postmoderno sembrano condividere la medesima attenzione nei confronti della manipolazione di simboli già preesistenti: se si osserva la funzione testuale dello scritto giovanneo all’interno della Bibbia, prevalentemente orientata a creare continuità tra il Vecchio e il Nuovo Testamento, grazie al riuso di uno stile tipicamente veterotestamentario anacronistico rispetto allo stile del Nuovo Testamento, ci si accorge di come questo testo si carichi di simbolismi ripresi dalle apocalittiche dei grandi profeti della tradizione giudaica (Daniele, Ezechiele, Isaia, Geremia) con il fine di aumentarne la carica simbolica, esattamente come opera un regista o uno scrittore postmoderno con il double coding. Come scrive Eugenio Corsini, l’Apocalisse di Giovanni è:
Un’esegesi, si capisce, che non consiste, come noi siamo portati a intendere, nel trasferire i contenuti dal piano espressivo simbolico a quello logico razionale. L’esegesi fatta da Giovanni opera direttamente sui simboli, manipolandoli e modificandoli in se stessi, nel loro aspetto formale, e trasformandone così il significato.
Quello che rimane nella distruzione dei simboli originari è la persistenza di codice apocalittico che permette di osservare le paure, i sogni, i traumi della società postmoderna come una rivelazione, un’epifania dello sguardo sull’inconscio di una società complessa e decentrata che si è fatta carico dell’incompiutezza dei progetti della modernità, e guarda alle promesse di rinnovamento culturale dell’era digitale con il sottofondo apocalittico della crisi del sistema economico mondiale.
Il Postmoderno si caratterizza per essere una stagione culturale che scrive la propria storia con l’inchiostro ricavato da distruzioni, flagelli e catastrofi con cui rivelare l’inefficacia dell’euforia del consumo e delle sicurezze individuali garantite da un ambiente tecnologico progettato per alleviare l’umanità. Le esperienze dell’apocalisse nella letteratura e nel cinema lasciano allo scoperto i traumi dell’affermazione di un sistema culturale retto su concetti ondivaghi ma totalizzanti, come simulacro e simulazione, illustrando un ampio catalogo di resistenze culturali ai cambiamenti sociali e soggettivi; sembra quindi che la descrizione della quotidianità postmoderna non possa prescindere dal costante sottofondo dell’attesa della fine, di una catastrofe totale e di altri momenti in cui il desiderio della salvezza e quello della distruzione definitiva del mondo si scontrano e confondono tra di loro: basti pensare alla scena del film Independence Day (1996) di Roland Emmerich, dove l’arrivo degli alieni che distruggono il mondo viene accolto come una liberazione da una sgangherata comunità losangelina di hippies.
La narrazione di un’apocalisse mette allo scoperto le strutture più intime della psiche e della cultura: lasciarsi abbandonare a una fine di cui si percepisce l’irreversibilità, e al tempo stesso l’occorrere di una resistenza antropologica dell’uomo all’interno di un contesto socio- culturale orientato allo sradicamento delle nozioni tradizionali di storia, identità, spazio-tempo e causa-effetto.
Il sistema culturale postmoderno si sviluppa su un apparato di crisi ereditate dall’incompiutezza del progetto modernista, portando le fratture e le problematiche già presenti a un grado di non risoluzione estremo e caotico che diventa il terreno culturale e psicologico fertile per il proliferare di un immaginario apocalittico sempre presente nella storia della cultura per decretare le crisi delle istituzioni sociali, politi- che, economiche e il collasso delle forme culturali. È il passaggio stesso dal modernismo al postmodernismo, inteso come crisi delle strutture formali delle rappresentazioni artistiche, a richiedere l’intervento di un codice apocalittico per raccontare a quale livello allegorico è giunta la rappresentazione dell’uomo e della sua cultura.
Quella appena descritta appare come una tipica malattia dei periodi di fine secolo che ha accompagnato assiduamente la storia della cultura, e fa in modo che il Postmoderno «venga interpretato anche come una di quelle fasi, più o meno ricorrenti, di decadenza “fisiologica” del decorso storico»; ma quello che appare rilevante osservare è che il Postmoderno ha radicato il tradizionale senso di fin du siécle nella gabbia temporale di un eterno tempo presente, trasformando quest’ultimo in un eterno tempo dell’Apocalisse. A questa costellazione di crisi si deve aggiungere la consapevolezza che la storicizzazione del Postmoderno, per lo più identificata a partire dal secondo dopo- guerra, viene fatta coincidere da Lyotard con l’orrore di Auschwitz, un trauma della storia definito dal filosofo come «il nome paradigmatico per l’“incompiutezza” tragica della modernità». La società postmoderna, dunque, nasce dall’orrore della storia e prosegue attraverso ulteriori apocalissi in modo da intensificare la costruzione della propria identità nella storia. Se Auschwitz è la degenerazione di un eccesso di metodo e razionalità di operazioni per un fine che affonda le proprie radici nell’illogico più oscuro, ora è la totale assenza di metodo il principio guida dell’apocalisse della storia; ad esempio, Apocalypse Now accosta a una guerra senza senso come quella in Vietnam la parola “orrore” ripetuta più volte dal Colonnello Kurtz non solo per riferirsi alla guerra ma, soprattutto, per guardare con disprezzo alla cultura occidentale che lo ha portato a creare il proprio regno privo di qualsiasi forma di metodo. Se la cultura crea un forte choc, rivolgersi all’apocalisse diventa lo strumento rappresentativo più estremo per osservarne con il giusto livello di voyeurismo e senso critico i lati più oscuri e sulfurei.
2. L’apocalisse della letteratura e del cinema.
In cosa consiste il passaggio di consegne per certi versi così traumatico avvenuto tra modernità e postmodernità?
Come scrive Massimo Fusillo a proposito dell’estetica letteraria postmoderna:
Una serie di grandi opposizioni del passato sembra dunque sfumare: quella fra essenza e apparenza, che proviene dalla dialettica marxista (le- gata quindi ai concetti di sovrastruttura e ideologia); quella fra latente e manifesto, di derivazione freudiana; quella fra autenticità, di derivazione esistenzialista (legata al concetto di alienazione); e infine quella fra signifi– cante e significato, che ha animato la stagione semiotica e strutturalista.
Tra i diversi generi letterari, la fantascienza, nata dalle necessità culturali di raccontare i repentini cambiamenti nelle strutture sociali e soggettive generati dall’accelerazione dei processi di tecnologizzazione e industrializzazione del vissuto, propone una vasta riserva di tematiche con cui affrontare la fine delle grandi opposizioni concettuali, raccogliendo importanti metafore di apocalissi cucite sul tessuto socio-culturale; in questa maniera la narrazione e la descrizione della realtà viene spostata in mondi futuristici che permettono di guardare criticamente il presente storico. Antonio Caronia, in un saggio dall’emblematico titolo Il cervello messo a nudo dai suoi scapoli virtuali, fa riferimento a due capisaldi della letteratura postmoderna, The Simulacra (1964) di Philip K. Dick e The Atrocity Exhibition (1970) di James G. Ballard, con cui possiamo inquadrare lo scenario narrativo entro il quale la fine della tradizionale opposizione tra spazio interno, privato, psicologico e spazio esterno, pubblico, di massa, diventa una delle esperienze più profonde dell’Apocalisse postmoderna: quella dove il concetto di umano guarda il tramonto delle sue caratteristiche univoche, organiche e naturali, per cedere il passo a forme ibride, frutto di un’inestricabile continuità tra corpo umano e mondo tecnologico.
Nel romanzo di Dick viene descritto un mondo dall’aspetto geopolitico speculare a quello della Guerra Fredda (da una parte gli Usea – Stati Uniti d’America e d’Europa, in pratica Usa e Germania Ovest – e dall’altra parte il resto del mondo) dominato da una sovrastruttura del potere composta dalle reti di multinazionali e monopoli industriali che agiscono per perpetuare un modello politico autoritario retto sull’inganno del simulacro. Infatti, sia il presidente degli Usea, chiamato suggestivamente der Alter, sia la first lady Nicole sono due entità posticce: il primo è uno dei tanti androidi assemblati dalla Karp & Sohnen; la seconda è interpretata da alcune giovani attrici che ne conservano l’aspetto esteriore in un’eterna bellezza e giovinezza, armi con cui mantenere un forte consenso tra la massa. In questo contesto, in cui il potere politico della società del futuro viene retto sul principio di contraffazione del reale e della sua derealizzazione, uno dei personaggi paranoici di Dick, forse il più estremo di tutti, il musicista psicocinetico Richard Kongrosian, è afflitto da numerose e originali fobie sociali (definisce se stesso come “odorefobico”) che ne mettono a dura prova la sopravvivenza antropologica. Ma tra le sue ironiche quanto spaventosamente comprensibili fobie egli sviluppa la capacità di scambiare porzioni del proprio corpo con l’esterno: incorpora oggetti reali e li restituisce nello spazio come grovigli di materia organica (carne e vasi sanguigni), disponendo un potere rivoluzionario che lo rende capace di distruggere la simulazione su cui si regge il mondo politico, provocando un’apocalisse da cui emergerà un nuovo ordine sociale, possibilmente rimasto sino ad allora ai margini della società, come quello dei Chupper: esseri mutanti vittime delle guerre nucleari del passato (il figlio di Kongrosian è uno di loro).
Se Dick è ossessionato dal raccontare i paradossi di una tecnologia simulativa, e come questa restituisca diversi livelli di illusorietà, Ballard scrive una fantascienza che abbandona l’esplorazione dello spazio cosmico, luogo prediletto della sci-fi, o lo spazio sociale del futuro, argomento di Dick, per guardare morbosamente all’altrove, all’ignoto delle geometrie del corpo e del cervello contenute all’interno di cornici temporali dai labili riferimenti, tuttavia molto vicine alla percezione di dimensione astorica del racconto apocalittico originario, restituito dalla psicopatologia e altre derive del pensiero razionale. The Atrocity Exhibition restituisce la scivolosa continuità tra cervello e mondo esterno come perversione della società dei media. Lo spazio del reale è ricostruito come un perturbante medialandscape dove vengono sovrapposte immagini oniriche pronte a cogliere lo spirito simbolico del periodo storico-culturale postmoderno. Non a caso il titolo del paragrafo con cui Ballard apre il romanzo è intitolato Apocalypse e racconta una mostra di disegni fatti dai pazienti di una clinica psichiatrica. La descrizione si concentra su un disegno che raffigura l’immagine del fungo atomico di Eniwetok, a cui si sovrappone il volto di Liz Taylor. Per tutto il romanzo un luna park di immagini pop viene mescolato alle immagini dell’orrore del Novecento (il fungo atomico, il Vietnam, l’assassinio di Kennedy) creando un’angosciosa continuità tra la dimensione psicologica e la realtà esterna mediata da dispositivi (cartelloni pubblicitari, immagini televisive, fotografie di morte) confondendo sanità e insanità mentale, immaginazione e rappresentazione mediale, allucinazione e realtà – volutamente per tutto il romanzo non viene fatto comprendere se lo schizofrenico protagonista, il soggetto T., sia un medico o un paziente della clinica.
Accanto alla continuità e alla giustapposizione tra termini tradizionalmente opposti tra loro vengono disposte le crisi formali della letteratura e del cinema: da una parte, la perdita di esclusività del discorso letterario sempre più contaminato dai codici di altre forme espressive, soprattutto cinema e televisione; dall’altra, la crisi formale della rappresentazione cinematografica dinnanzi alla proliferazione dei new media. Le profonde incertezze identitarie che attraversano i due medium culturali aprono una stagione della narrazione e della rappresentazione che trova nel confronto con il concetto di fine la possibilità di raccontare le proprie crisi formali.
La perdita di centralità nel sistema delle arti della forma letteraria davanti alla concorrenza della rappresentazione cinematografica produce una letteratura in cui le esperienze della società tardocapitalista vengono mediate dalla presenza di una forte impronta filmica. Di conseguenza, la letteratura assorbe e rimodula i nuovi linguaggi espressivi, come quello cinematografico, adeguandosi alle necessità rappresentative di una società la cui produzione culturale, come ricorda Frederic Jameson, è sempre più prevalentemente visiva e auditiva e, come già affermavano prima di lui Marshall MacLuhan e Jean Baudrillard, soprattutto “tattile”, al fine di garantire la sopravvivenza del proprio linguaggio. La letteratura postmoderna si affaccia sul tramonto apocalittico della modernità e si serve di codici e istanze cinematografiche per descrivere il nuovo catalogo delle apocalissi postmoderne, rendendo visibile gli aspetti inusuali ed eccezionali del vissuto quotidiano assieme alla destrutturazione delle identità soggettive dei personaggi narrativi. The Day of the Locust (1939) di Nathanael West in questo senso è un romanzo emblematico, poiché descrive l’impatto dell’industria dei sogni del cinema nella psicologia dell’americano medio diventato succube della congenita postmodernità di Los Angeles e della sua industria dei sogni e dell’immaginario (come si vedrà nel capitolo III). West mette in scena un cinico e folle “trionfo della morte” metropolitano allestendolo proprio davanti a una première cinematografica, innescato dal linciaggio dell’ingenuo Homer Simpson (che, però, prima lascia esplodere la sua rabbia repressa uccidendo brutalmente un bambino che lo stava deridendo). West trasforma il clima di frustrazione per le premesse di fama e successo del cinema nel soggetto di un’esperienza dell’Apocalisse che produce una visione estrema e crudele della società dello spettacolo, dell’affermazione dell’apparente sull’esistente, la cui caratteristica verrà delineata dall’analisi di Guy Debord, e conseguenza dell’antagonismo tra scrittura letteraria e rappresentazione cinematografica: un attrito che esprime il malessere della letteratura per l’aleatorietà di una società dell’immagine e investe su un’aspra dimensione antiletteraria scandita da un percorso visuale di codici grafici (disegni, allestimenti, scenografie); una visualità ribadita dalla centralità narrativa nel finale del romanzo del disegno di un fondale scenografico a cui lavora Tod, L’incendio di Los Angeles (vedi il capitolo III): il trionfo di un’immagine apocalittica fatta di caos e violenza cieca, disegnata guardando la decadenza sociale che lo circonda.
Questo è uno dei motivi per i quali la narrativa postmoderna lavora sull’invenzione letteraria del cinema creando le proprie riserve di immagini cinematografiche; non è raro trovare tra le pagine dei romanzi postmoderni film inventati che coprono ruoli cruciali negli intrecci– si pensi, solo per citarne alcuni, al film “Infinite Jest” dell’omonimo romanzo di David Foster Wallace a “Unterwelt” in Underworld (1997) di Don DeLillo e “Alpdrücken” in Gravity’s Rainbow (1973) di Thomas Pynchon che nel testo creano uno spazio narrativo da negoziare con le rappresentazioni di altri codici linguistici. Ci si trova davanti tendenza della letteratura che Wallace, in E Unibus Pluram (1993), uno scritto sul rapporto tra letteratura americana, televisione e il futuro dei media, ha definito narrativa d’immagine, ovvero un resoconto dell’abbattimento della separazione tra reale e finzione che diventa il cardine di gran parte della retorica letteraria del Postmoderno:
La narrativa d’immagine è in pratica un ulteriore involuzione della relazione tra letteratura e cultura pop sbocciata negli anni ’60 con i postmodernisti. Se i padri della chiesa postmoderna pensavano che le immagini pop fossero dei validi referenti o dei simboli efficaci nella narrativa, e se negli anni ’70 e nei primi anni ’80 questo ricorso agli elementi della cultura di massa passò dall’utilizzo letterario al riferimento diretto – cioè, alcuni scrittori sperimentali cominciarono a trattare il mondo del pop e la televisione come materiale interessante di per sé – la nuova narrativa d’immagine usa l’effimera mitologia della cultura pop come se fosse un mondo in cui immaginare storie con personaggi “reali” anche se mediati dall’immaginario pop.
Il cinema diventa l’oggetto che favorisce la perdita di centralità della letteratura nel sistema delle arti, e in virtù di tale effetto, occupa un posto centrale nella finzione letteraria sia su di un piano tematico sia sulle influenze formali che apporta alla struttura del testo narrativo. Che si tratti di citazionismo o invenzione letteraria di film – a volte attraverso intere filmografie inventate come quelle di James O. Incandenza in Infinite Jest di Wallace, quella di Gerhardt von Göll in Gravity’s Rainbow di Pynchon – viene mostrata la vertigine del letterario nei confronti della visualità cinematografica, generata dalla possibilità di descrivere la complessità del mondo attraverso la creazione di altri mondi rappresentativi: un processo che determina il passaggio da una dominante epistemologica per interpretare il mondo moderno a una ontologica postmoderna. Come spiega Brian McHale nell’analisi della postmodernist fiction:
The movies and television appear in postmodernist writing as an ontological level: a world-within-the-world, often one in competition with the primary diegetic world of the text, or a plane interposed between the level of verbal representation and the level of the “real”. Postmodernist fiction at its most mimetic holds the mirror up to everyday life in advanced industrial societies, where reality is pervaded by “miniature escape fantasies” of television and the movies […] TV and the movies constitute a privileged source for the sort of conceits that threaten to overwhelm the primary, literal reality.
Del resto, il rapporto tra le due forme culturali è storicamente ricco di intersezioni e inclusioni, ma pur riuscendo ad adattare i due differenti codici attraverso determinate tecniche linguistiche, letteratura e cinema mantengono una forte identità distinta dal punto di vista formale che, però, tende a passare in secondo piano da quando i loro contenuti culturali sono diventati sempre più transmediali, cioè circolano contemporaneamente tra diversi media rappresentativi (per cui una narrazione seriale come il graphic novel The Walking Dead di Robert Kirkman diventa indistinguibile dalla serie tv a esso ispirato, dall’omonima web serie che circola in Rete e dal videogame con cui potersi identificare e agire virtualmente nella storia).
Storicamente il cinema ha attinto all’immaginario letterario per ritagliarsi un posto legittimo all’interno del sistema delle arti, cominciando ad adattare i grandi romanzi del passato per scrollarsi di dosso la nomea di mero intrattenimento per le masse e conquistare così l’interesse della borghesia. Coerentemente con il postmodernismo estetico delle forme rappresentative, il medium cinematografico ha intensificato la componente sensazionalistica delle sue immagini (dall’immagine-traccia di André Bazin si è passati all’immagine-sensazione illustrata da Laurent Jullier) ripercorrendo il medesimo coinvolgimento sensoriale che avevano già provato gli spettatori del cinematografo dei fratelli Lumière alla visione di L’Arrivée d’un train en gare de La Ciotat (1896). All’affascinante scoperta della realtà in movimento dell’origine del cinema si aggiunge la visualizzazione di mondi che non esistono, incrementata nel cinema postmoderno e, recentemente, l’opportunità di espandere in maniera significativa l’ambito culturale prodotto storicamente dal cinema attraverso gli sviluppi di nuove testualità audiovideo rese possibili dalle nuove tecnologie digitali applicate ai media. Gran parte delle caratteristiche del cinema postmoderno che sono legate alla raffigurazione di esperienze dell’apocalisse si trovano in determinati generi, come il disaster movie, l’horror e il fantasy (presi in considerazione nel prossimo capitolo) che diventano veri e propri laboratori per la ricerca delle possibilità visive offerte dalla tecnologia digitale, ma anche officine narrative per sondare gli spazi intimi e segreti delle psicologie individuali e di massa. Se la letteratura comincia a trasudare cinematograficità, il cinema contemporaneo si presenta come medium tra il declino delle forme narrative tradizionali e le nuove possibilità offerte dall’utilizzo delle tecnologie digitali e informatiche per archiviare la produzione di tutta la cultura. L’idea di cinema come archivio multimediale di altre forme culturali, soprattutto la letteratura, è al centro di Prospero’s Books (L’ultima tempesta, 1991) di Peter Greenaway. Il film presenta una riscrittura postmoderna del classico shakespeariano The Tempest (1610-11) e assume nella sua missione di opera d’arte totale (al suo interno, nella forma video convergono le rappresentazioni di tutte le arti) la feticizzazione del libro come fascinazione moderna e postmoderna del catalogo, lasciando trasparire in maniera esplicita, come ci ricorda Lev Manovich nell’analisi del film, la logica del database come modello della nuova cultura digitale, mostrando come questa logica reclami le sue possibilità formali all’interno del medium cinematografico. La possibilità offerta dai nuovi media che guardano al cinema è quella di archiviare il mondo in dati informatici, e Greenaway la rende possibile visualizzando la pratica dell’archiviazione grazie a una costruzione fraseologica dei piani sequenza attenti a seguire il susseguirsi delle pagine dei libri di Prospero. Dunque, attraverso l’oggetto-libro vengono indicate tre modalità di scrittura delle storie, una letteraria, una elettronica e una digitale, nel momento della loro convergenza, suggerendo la presenza di una metodologia descritta dallo stesso Greenaway come possibilità di riscrivere il cinema:
Un’opera che potrebbe prefigurare la possibilità dei nuovi linguaggi, che cambieranno radicalmente il nostro modo di pensare così come le nostre idee sulla narrazione, la rappresentazione, la percezione dell’esistenza del mondo, la realtà reale e la realtà virtuale, e che determineranno e guideranno l’avvenire di un cinema nuovo.
Siamo arrivati al significativo passaggio dal cinema al post-cinema: «il cinema nel momento in cui la sua centralità è persa, il cinema assorbito dal linguaggio informatico, il cinema che circola libero e lascia tracce di sé nella Rete, sui siti, nei social network, nei diversi luoghi del contemporaneo».
Sembra essere molto forte l’idea di una sopravvivenza del cinema che, nonostante attraversi una crisi d’identità all’interno del sistema dei media, vede la persistenza del proprio modello visivo e linguistico come orientamento fondamentale per muoversi nell’universo in continua evoluzione di forme, scritture e contenuti registrati a partire dal digital turn.
3. Distruzione e persistenza: i riusi dell’apocalisse biblica.
Dopo aver attraversato i campi rappresentativi della letteratura e del cinema è necessario fermarsi a osservare la sopravvivenza del testo originario all’interno della temperie postmoderna. Possiamo riconoscere due modalità d’impiego nei confronti dell’Apocalisse biblica: la “distruzione” del testo originario, attraverso banalizzazioni, rappresentazioni ludiche, rovesciamenti parodici di simbologie, scene e motivi principali; la “persistenza” del modello conoscitivo-rivelatorio già inscritto nella fortunata ricezione del testo composto da Giovanni.
Nel primo caso si tratta di una postmodernizzazione del testo originale; nel secondo caso si assiste allo sviluppo di un vasto repertorio simbolico e visivo composto da esperienze rivelatorie prodotte dal discorso dell’Apocalisse giovannea, e con i quali si costruiscono, secondo diverse tipologie di registri, critiche mirate alla società tardo capitalista colpevole di trasformare troppo in fretta l’immagine del mondo e dell’uomo.
Quello che caratterizza l’apocalisse postmoderna è un duplice atteggiamento verso l’originale biblico, che, se nel caso della postmodernizzazione presuppone una certa aderenza al modello letterario originale, nell’altro insiste maggiormente sulle componenti simbolico- visuali. Possiamo riferirci alla postmodernizzazione quindi come a un riuso narrativo del testo biblico, rivolto in maniera autoreferenziale al racconto di apocalissi, le quali istanze rivelatorie vengono sovrastate da una costruzione simile a una “favola” che gioca su sostituzioni e combinazioni tra figure bibliche e figure postmoderne, rifigurando le prime secondo le esigenze estetiche delle seconde. Ci si trova davanti a quella cornice culturale che Daniel Bell ha definito furia contro l’ordine, e che Remo Ceserani riconosce essere una strategia della sostituzione, della banalizzazione, della messa in scena superficiale di argomenti che hanno storicamente una tradizione concettuale profonda: «la tendenza a sostituire l’ordine tradizionale dei valori religiosi razionali con un nuovo sistema fondato sull’esperienza (estetica) e le sensazioni soggettive». In virtù di tale procedimento prendono forma narrazioni di apocalissi ludiche, ironiche, in cui i personaggi biblici vengono sostituiti da personaggi della tv, del cinema e dell’industria culturale (come avviene nel film Dogma di Smith in cui Dio è interpretato dalla cantante pop Alanis Morissette) e il carico psicologico della fine viene alleggerito ironicamente. La tragicità della distruzione del mondo, finalizzata alla realizzazione del messaggio salvifico dell’Apocalisse di Giovanni, viene disinnescata per lasciare spazio a una narrazione che si avvicina agli schemi e alle finalità gnomiche di una favola. Il cinema, grazie alle messe in scena dell’apocalisse nel disaster movie, nell’horror e nel fantasy, mostra il ritratto, a volte semplicistico, di una società divisa parossisticamente tra buoni e cattivi, dove si costruiscono eccezionali continuità tra l’altrove sovramondano dell’Apocalisse biblica e la mondanità della terra, tra divinità, dèi, angeli e l’umano. L’apocalisse diviene un ornamento favolistico nel film Artificial Intelligence: A. I. (2000) di Steven Spielberg che racconta le avventure di un Pinocchio cyborg alla ricerca della fata turchina sino alla fine dei tempi, in un mondo in cui l’umanità ormai si è estinta e solo il suo simulacro tecnologico sopravvive come unica testimonianza della sua specie e della sua cultura. Uno degli esempi più rilevanti di costruzione favolistica dell’Apocalisse si trova nella narrativa fantastica di Neil Gaiman, spesso giocata sulla continuità tra l’altrove di un mondo mitologico-religioso con le nuove mitologie contemporanee, confondendone i culti e le credenze. In Good Omens, scritto assieme allo scrittore fantasy Terry Pratchett, l’Apocalisse e tutto il suo ufficio liturgico vengono riscritte al fine di parodiarne la funzione salvifica stessa. Esseri celesti come l’angelo Aziraphale e il demone Crowley sono perfettamente integrati nella società umana, e più volte manifestano apertamente la loro contrarietà nei confronti del disegno divino di distruzione del mondo. La cornice ironica e ludica di Good Omens è molto ampia: l’Apocalisse stessa viene ridicolizzata, presentata come un videogame; coinvolge il mondo del gioco e della fantasia di un gruppo di bambini – tra di loro c’è Adam Young, creduto dai due esseri sovramondani l’incarnazione dell’anticristo – che sconfiggono con dei giocattoli i quattro “motociclisti” dell’Apocalisse e scambiano il Metatron (la voce di Dio) per un giocattolo (il Megatron) senza risparmiare l’Apocalisse da una serie di ironiche demistificazioni. Gli esempi sono numerosi e insistono su un piano caricaturale per cui scrivere apocalissi significa rincorrere una delle prime mode letterarie, considerata stravagante per la modalità di scrittura: «in a climate-controlled cabinet in one corner was the original scroll in the shaky hand- writing of St John the Divine of Patmos, whose “Revelation” had been the all-time best seller. Aziraphale had found him a nice chap, if a bit too fond of odd mushrooms». Alla fine, l’Apocalisse viene revocata e il mondo, una volta salvato, è pronto per ripetere simbolicamente la sua storia daccapo, partendo proprio dal dramma del peccato originale, raccontato come il divertente dispetto di un bambino:
Adam looked up. Above him hung an old apple tree, gnarled and heavy. It might have been there since the dawn of time. Its boughs were bent with the weight of apples, small and green and unripe. With the speed of a striking cobra the boy was up the tree. He returned to the ground seconds later with his pockets bulging, munching noisily on a tart and perfect apple.“Hey! You! Boy!” came a gruff voice from behind him. “you’re that Adam Young! I can see you! I’ll tell your father about you, you see if I don’t!” […] he couldn’t see why people made such a fuss about people eating their silly old fruit anyway, but life would be a lot less fun if they didn’t. and there never was an apple, in Adam’s opinion, that wasn’t worth the trouble you got into for eating it.
Donnie Darko (2001) di Richard Kelly è un teen drama fantascientifico in cui universi paralleli collassano tra loro minacciando l’esistenza del mondo. Il tranquillo microcosmo della provincia americana del film, reso anche qui caricaturale nella caratterizzazione di alcuni personaggi, è popolato da figure che richiamano direttamente quelle dello scritto giovanneo: Cheelita, la goffa ragazza orientale, si presenta come «la donna vestita di sole con la luna sotto i piedi e sul suo capo una corona di dodici stelle» (Ap, 12, 1) che siede vicino alla “Bestia” (la mascotte di bronzo che troneggia nel piccolo campus) a cui Donnie precedentemente ha conficcato un’ascia nella testa – «una delle sue teste sembrò colpita a morte, ma la sua piaga mortale fu guarita» (Ap, 13,3); l’imbonitore di insegnamenti di vita Jim Cunningham è l’anticristo, mentre l’insegnante di ginnastica, Mrs. Farmer, è il suo “falso profeta”. Le azioni teppistiche di Donnie sono il frutto di messaggi che gli man– da Frank, un essere ultraterreno con le fattezze non di un angelo ma di un mostruoso “Bianconiglio”, per prepararlo all’imminente fine del mondo. In questo caso è evidente l’aderenza tra la definizione di un racconto apocalittico, secondo quanto scritto da John Collins, come racconto di una visione rivelatoria «con una cornice narrativa nel quale da un essere soprannaturale viene mediata a un destinatario umano una rivelazione che dischiude una realtà trascendente», e la sua messa in scena postmodernista fatta di una miscellanea di musica pop, pastiche di immaginari fantascientifici di viaggi nel tempo, universi paralleli e un’immancabile festa di Halloween, per presentare Donnie alla stregua di un veggente, ma anche di un supereroe dei fumetti che si sacrifica per tornare indietro nel tempo e salvare la vita dei suoi cari.
In questi esempi si assiste all’adesione di un’apocalittica postmoderna con la mitologia biblica, per cui la distruzione implica una forma di salvezza esplicitata nella ripetizione di una dimensione spazio temporale mondana: non più una salvezza verso «un nuovo cielo e una nuova terra» (Ap, 21, 1) ma proiezione della salvezza palingenetica verso il cielo e la terra di sempre.
Come si vedrà nel prossimo capitolo, è compito della catastrofe postmoderna rompere lo schermo rassicurante, infantile e giocattoloso di salvezze proiettate sulla terra, per rivelare ciò che non si vede: paure e angosce nell’epoca della cultura tardocapitalistica. Ciò ci porta alla seconda possibilità di utilizzo dell’apocalisse biblica: il riuso simbolico. Questi non è rivolto alla diegesi biblica, bensì esclusivamente al suo fine rivelatorio. Infatti riguarda un investimento nella capacità dello scritto giovanneo di fare vedere le “ultime cose” attraverso simboli, figure e scene che illustrano e raccontano la distruzione del mondo non per l’avanzare di nuove possibilità dell’umano, bensì come consapevolezza della fine di una cultura antropocentrica. Dunque, la forza suggestivamente apocalittica del riuso simbolico risiede nell’operare direttamente sui simboli e i loro significati.
In questo caso, l’apocalisse postmoderna si presenta come un testo che innesca una serie di esperienze visuali con cui comprendere il mondo, grazie a uno sguardo in grado di vedere oltre la realtà percepibile in superficie: l’apocalisse postmoderna attraverso il riuso simbolico e la creazione di esperienze della fine rende conto del sommerso che pulsa, freme e richiede la propria visibilità tra le crepe di una superficie culturale adagiata sulle retoriche del superficiale, dell’effimero e del banale, espressi al massimo della loro straordinaria eccezionalità; inoltre, permette di rileggere la storia del mondo come racconto dell’accelerazione verso una fine totale: un catalogo delle “migliori” distruzioni del mondo ed estinzioni dell’umano possibili, il cui fine è rivelare il percorso che l’esistenza culturale sta compiendo. Riconosciamo nelle apocalissi postmoderne che lavorano sul piano del simbolico e del visivo la persistenza del fine rivelatorio del testo biblico originale, come strumento di analisi delle rappresentazioni culturali del Postmoderno.
Distruzione e persistenza non sono un’esclusiva del rapporto tra il testo dell’apocalisse tradizionale e i testi apocalittici del Postmoderno, bensì sono i termini di due strategie che riflettono il rapporto tra sostenibilità dell’umano e le possibilità di trasformazioni culturali offerte dalla società tardo capitalista e i suoi più recenti sviluppi. Attraverso gli argomenti selezionati in questo libro (catastrofe, tecnologia, consumo, metropoli e corpo) verranno illustrati i discorsi e le strategie sui quali si costruiscono i desideri e le paure, i sogni e gli orrori, le speranze di sopravvivenza dell’uomo e della sua essenza culturale. Per questo motivo si insisterà maggiormente sul riuso simbolico, capace di spingere le riflessioni oltre alla considerazione, spesso sbrigativa, che il rapporto tra Postmoderno e Apocalisse si esaurisca con la banalizzazione e la distruzione delle istanze derivate dal testo originale. Si proverà, quindi, a comprendere come una società che non smette di essere attratta dal raccontare e mostrare le storie delle sue distruzioni, indichi il continuo e infinito, quanto tormentato, lavoro di confronto con il rischio di scomparire come entità culturale.
[Immagine: Immagine: still-cg, Alien Attack (gm)]
complimenti! veramente un saggio molto molto molto bello!!!
Un’introduzione molto illuminante, sicuramente il saggio merita di essere letto per intero. Complimenti!
Poiché il saggio è del 2014, la notazione “È da poco uscito” esemplifica bene quanto il tempo più passa più diventa relativo. Saluti! Coda.