di Clara Ranghetti
[Domenica prossima Marilynne Robinson riceverà il premio Mondello. Sta per uscire un saggio italiano dedicato alla sua opera, Angoli di mondo, luoghi dell’anima. I romanzi di Marilynne Robinson (Artemide) di Clara Ranghetti. Ne presentiamo in anteprima alcune pagine. ].
Se per un gioco crudele fossi costretta a salvare non più di tre romanzi contemporanei, uno sarebbe l’inquietante opera d’esordio di Marilynne Summers Robinson, Housekeeping (1980), vicenda al femminile guidata da una poetica del plein air e tutta sapientemente giocata sull’alternanza biblica tra tenebre e luce che resiste ai marosi del tempo e non finisce di stupire.
Scrittrice magistrale, tanto fine e concreta da meritare l’appellativo di «George Eliot d’America», Robinson è una delle più interessanti figure letterarie del nostro tempo. Si è imposta ai critici e ai lettori italiani con l’assegnazione del premio Mondello 2016, riconoscimento che contribuirà ad espanderne la fama, il fascino, le doti narrative, già così spiccate e di gran pregio sin dagli inizi della sua carriera. Il segreto, la forza recondita, l’originalità delle sue pagine, che si leggono con un piacere e una serietà che pochi autori oggi sanno ispirare, risiedono nella capacità di accostare con accento genuino e sicuro, su un crinale impervio, l’ovvio e l’ineffabile, meritando perciò di essere prese ad esempio per la ricerca di essenzialità, per la fisica aderenza alle piccole cose di vita ordinaria e, allo stesso tempo, per le risonanze mitiche, le implicazioni metafisiche. Minimo il linguaggio, minimi i personaggi, minime le storie che restituiscono però solidali l’immagine di un’America – e di una condizione umana – molto più ampia, icastica e pervasiva di quanto si potrebbe, forse, pensare a prima vista.
Con una fedeltà a se stessa rara nel repertorio dei valori di un’epoca postmoderna che si è persa in un attivismo senza costrutto intestardendosi con evidente controsenso in idee perlopiù sterili, mediocri, Robinson sente forte la seduzione del divino afflato: lo narra, lo evoca, lo spiega, lo difende – se ne lascia guidare al pari di una vela gonfiata dal vento. Un bisogno di trascendenza spoglio, cordiale, quello di questa teologa da romanzo e predicatrice occasionale nella Chiesa Unita di Cristo, che non fa della religione una somma di dogmi da ripudiare o in cui credere acritici, né un inerte modello di aspirazione etica destinato a perdere via via la sua energia innovativa, ma una manifestazione privilegiata della vita interiore, un respiro in grande dove Dio è natura come è persona, cielo purché anche terra, materia oltre che spirito, madre tanto quanto padre. Vien da pensare a un sacro vissuto, reale, che, come ebbe a dire a suo tempo quel Mircea Eliade per cui lei stessa, un tantino polemica, non si è profusa in parole di ammirazione, trascende questo mondo ma in questo mondo si rivela. Ogni cosa perciò è latrice di senso nelle sue storie, c’è sempre un messaggio da ascoltare. Inaspettato, sorprendente, naturale. Come un prato che si riempie di margherite in primavera.
Quattro, finora, le pluripremiate opere di narrativa che Robinson, apprezzata e intervistata dal presidente Obama per la sua avvolgente complessità, ha dato con parsimonia alle stampe; docente di scrittura creativa allo Iowa Writers’ Workshop, le ha volute alternare a raccolte di saggi nodosi, talora poco convincenti, comunque mai banali. Dopo il romanzo con cui si è presentata ai lettori, libro di una densità inesauribile, i successivi Gilead (2004), Home (2008) e Lila (2014) sono tre rami dello stesso albero, trilogia di un mutuo, dilatato rinvio.
Housekeeping, si diceva, è un autentico gioiello della letteratura, il «romanzo perfetto», estraneo alla ricerca del successo a tutti i costi, che la sua autrice avrebbe sempre desiderato leggere. L’ha scritto, invece, quasi a quarant’anni, per il puro piacere di scriverlo, redigendolo interamente a mano – era sprovvista di computer e il continuo picchiettio dei tasti della macchina da scrivere, ha confidato in un’intervista, l’avrebbe sicuramente distratta. Le è valso il P.E.N./Ernest Hemingway Foundation Award per la migliore opera prima e il Richard and Hinda Rosenthal Award, conferitole dall’American Academy and Institute of Arts and Letters, mentre il regista scozzese Bill Forsyth, estremamente rispettoso della sua intima sostanza, nel 1987 l’ha trasposto con buoni esiti al cinema, conquistando il premio per la migliore sceneggiatura al Festival Internazionale di Tokyo.
Tra le sue pagine ipnotiche, focalizzate sulle vite eccentriche e precarie di tre generazioni di donne della famiglia Foster, a Fingerbone, immaginario paesino di un Idaho scopertamente autobiografico, si insinua il dubbio, incuneato come il fiume in una gola rocciosa, che le spiegazioni ultime risiedano nelle origini prime, che tutto, in questo «mesto burlesque del mito della fondazione degli Stati Uniti», sia reversibilmente palingenesi o apocalisse. Ambientato nella prima metà degli anni Cinquanta del secolo scorso, il libro narra attraverso «un linguaggio limpido e chiaro come la luce, l’aria, l’acqua», la storia di due fanciulle orfane, Ruth e Lucille Stone, e di Sylvie, la zia materna, un po’ fuori dai binari, che se ne prende cura dopo la morte della nonna vedova con cui sono cresciute. Padri e mariti sono inspiegabilmente assenti, a fronte, invece, di una onnipresenza sovrana di genealogie femminili. Unica eccezione, Edmund Foster, il nonno delle bimbe, che Robinson decide però, fin dalle primissime pagine, di inabissare nel gelo notturno del lago di Fingerbone, a bordo di un treno nero e lucido. È la stessa sorte che viene riservata a Helen, madre di Ruth e Lucille, secondogenita di tre figlie femmine, che pone termine alla sua vita una domenica mattina, al volante di una Ford presa in prestito da un’anziana vicina di casa, tuffandosi nelle scure acque lacustri dall’alto di una scogliera chiamata Whiskey Rock, dopo aver sistemato le bambine sulla panchina in veranda.
È uno straordinario serbatoio di simboli che in più passi riesce a far mancare il fiato Housekeeping, una storia che appaga intanto che turba, toccando non di rado punte di poetica commozione che strizzano l’occhio a concetti e cadenze del taoismo più arcaico. E sembra trovare piena cittadinanza in una sintesi superiore dove il mito cosmogonico viene riscritto dall’energia schiacciante che si sprigiona dalla terra, dall’acqua, dall’aria, dal fuoco, quaternitas perfecta e risentita che rovescia con enigmatica forza di visione prospettive antropocentriche e maschiliste. Senza inutili fronzoli affronta, dal primo all’ultimo capoverso, argomenti inquietanti, dai risvolti dolorosi, drammatici: a suggerire il senso di una costitutiva inesorabilità è l’incalzare di una trama intessuta nell’orizzonte dell’impermanenza, della morte che attende al varco, che tallona da vicino, che spezza le abitudini consolidate e a tutto dà e toglie peso e importanza. La fine ineluttabile, passaggio obbligato da cui già l’incipit prende le mosse, ritma il tempo dell’esistenza – non solo umana ma di ogni cosa creata. Scopo della vita è vivere, ma morire ne è il processo: questo aspetto trapela in Housekeeping più – e meglio – che in ogni altro libro, fino all’estremo, per questo è così importante nella parabola dell’oeuvre robinsoniana, e in un certo senso sufficientemente autonomo. Lutto qui fa rima con tutto, per quanto la distruzione che la morte provoca suggerisca via via un’evoluzione, un desiderio di rinnovamento profondo, magari talvolta un po’ affrettato.
Pubblicato nel 2004 e risultato vincitore, l’anno successivo, del National Books Critic Circle Award e del Premio Pulitzer, Gilead è «un profondo studio delle radici protestanti dell’anima americana» con cui la scrittrice ha superato la sua prova del nove. Attesissimo, è stato scritto, come Robinson ama ripetere, dopo più di vent’anni passati a «darsi una nuova istruzione» sul movimento abolizionista e sulla natura monotona, lievemente ondulata dell’Iowa, che riproponendosi identica per miglia, offre il destro per avviare i protagonisti alla ricerca di orizzonti intentati: sconfinate praterie ultrapiatte e colline bassissime o appena arrotondate, capaci di riempire lo sguardo soltanto con i colori dei campi di mais e dei fagioli di soia a perdita d’occhio. Così, a metà strada fra l’omiletica e uno spontaneo naturalismo, il romanzo – il più sereno e il più largo d’orizzonti di Robinson, un libro dal cuore teologico pregno di una radiosità e un’innocenza davvero insolite – appare, pur nella sua «severità dottrinale», una «meditazione appassionata», finemente modellata sul continuum di ricordi del bernanosiano curato di Ambricourt, con la sua umanità universale, non meno che sui vigorosi saggi trascendentalisti di Ralph Waldo Emerson, saturi di ottimismo e self-reliance, in cui prende lentamente corpo il grande spazio dell’America.
La vicenda, narrata in prima persona, in forma epistolare, da John Ames III, predicatore della Chiesa congregazionalista al crepuscolo della vita, è ambientata negli anni della cattiva coscienza americana, quelli del maccartismo e della guerra fredda, e più precisamente nel 1956, anno in cui a Montgomery, in Alabama, fu proclamato il boicottaggio degli autotrasporti pubblici, dopo che alla fine del 1955 la sarta di colore Rosa Parks venne arrestata per disordini, essendosi rifiutata di cedere il proprio posto su un autobus a un bianco.
Ma Gilead, cittadina nel sudovest dell’Iowa dove il reverendo si trova a vivere, è anche uno di quei nomi che raccontano, che parlano da soli. Fondata a metà Ottocento da un gruppo di fieri abolizionisti intenti ad accogliere solidalmente gli schiavi fuggiaschi dal Kansas, Gilead si traduce Galaad, nome che nasce da tanto lontano, da un legame indissolubile, rigoroso con la terra dei profumi e delle resine menzionata da Geremia, il più incompreso e solitario dei profeti, in una delle sue invettive metaforiche: «Non v’è forse balsamo in Galaad? Non c’è più nessun medico? Perché non si cicatrizza la ferita della figlia del mio popolo?». Passano cent’anni e questo piccolo baluardo antischiavista perde completamente la singolare funzione balsamica scaturita dall’eco biblica delle sue origini gloriose, l’Iowa non è più «la fulgida stella del radicalismo», come ebbe a dire un giorno l’indomito Ulysses Grant. Ora, in una rappresentazione allegorica e traslata, Gilead, la città dell’unguento risanatore, lontana dal suo spirito fondatore quanto può esserlo la Terra da Nettuno, o da Ogle, muta in spazio in cui la violenza riesce a generare ferite così laceranti che raramente si rimarginano, metonimia di un’America intollerante su cui s’innestano pregiudizi roventi, scontri razziali esplosivi. «Sali a Galaad, prendi del balsamo, o vergine, figlia d’Egitto! Invano moltiplichi i rimedi; non c’è medicazione che valga per te».
Ripetizione che sorprende invece di annoiare, Home, compagno contiguo di Gilead, svela, ripresentando la stessa melodia un’ottava sopra, il luogo che sta maggiormente a cuore alla scrittrice, quella dimora – in cui freudianamente si cercano e si scoprono le cose più care e insieme più sinistre – che con abbondanza di declinazioni continua a fare da spina dorsale a tanti suoi discorsi sulle dinamiche decisive della Storia e della società. Perché Home, «casa», l’ha ben puntualizzato Caterina Ricciardi in un’accorta recensione dell’edizione italiana, «significa anche “patria”». E se è vero, come insegna Simone Weil, che «bisogna fare della propria patria non già un idolo, ma un gradino verso Dio», allora, in una trama assai scarna è racchiuso un senso dello spazio che è tra i più intimi e grandiosi. Qui Robinson rimescola abilmente le carte con richiami e accostamenti tra un’opera e l’altra che si sfiorano di continuo nelle vaste aree di contatto. Ne risulta un romanzo costruito in prevalenza a grandi scene che narra, stavolta dal punto di vista di Glory, la figlia minore del morente Robert Boughton, il pastore presbiteriano amico di una vita di John Ames III, «tragedie troppo grandi perché se ne possa anche solo discutere», scarnificando ogni aspettativa con una forza interna intransigente e inarrestabile.
Anche se ricco di nuovi contrasti e sorprese, Home prende in prestito dal romanzo che lo precede tempi, luoghi, personaggi. Si tratta di una sottrazione dovuta a nostalgia, ha provato a spiegare Robinson in un’intervista rilasciata a Sarah Fay, di un furto legittimo provocato dall’incapacità di separarsi dalle proprie creature, una vera e propria condizione di limite e di vuoto interiore che la scrittrice avverte in modo tangibile ogni volta che porta a termine una storia – «Mi sento come orbata», ha confessato. Ma il lutto a cui allude e su cui molto insiste è una costante dalle ricadute non solo personali, che fa pensare, con un’arbitraria estensione, a un esempio lontano: il drammatico cordoglio che aveva colpito l’inconsolabile Apollodoro quando, alla morte di Socrate, era scoppiato in lacrime non tanto per l’impossibilità di saturare una propria mancanza, ma perché all’amico, al maestro, al filosofo che non c’era più, adesso mancava la vita. Ecco, è proprio quando una figura appare incompiuta, priva di evoluzione, tratteggiata magari solo in modo essenziale, non troppo costruita sul piano narrativo, che non la si può abbandonare, dichiara perentoria Robinson. E se la sua promettente vicenda viene interrotta in modo prematuro, occorre riprenderla, lavorando di pazienza come un restauratore di mosaici. È ciò che è accaduto ai fratelli Boughton e al loro anziano padre in Gilead, abbozzi appena sgrossati, divenuti, quattro anni più tardi, memorabili personaggi di primo piano in Home, perché bisognosi di una nuova messa a fuoco che li completasse e li rendesse profetici.
Gli antecedenti della storia dei Boughton vanno ricercati sulla strada biblica della salvezza – nel Vangelo di Luca, nell’ultima delle tre parabole della misericordia, quella del figliol prodigo. Focalizzato su Jack, narrato dal punto di vista di Glory, alimentato dall’archetipo bruciante del nostos – il complicato ritorno a casa di due anti-eroi costretti a soffrire per ferite che si rinnovano di continuo – Home è un libro emotivamente difficile, una riscrittura per nulla scontata che si sottrae a ogni previsione. Diversamente dal suo evangelico ipotesto non rassicura, non offre consolazioni, non concede scampo; sgomenta, invece, perché erode – e perché «è di una profondità feroce», come si legge nella recensione di Livia Manera.
«Figli ingrigiti, un padre decrepito». La storia, ancora una volta, è tutta qua, prosaica quanto basta, immersa nel vécu, nel vissuto di una povera quotidianità fatta di rapporti basilari tra le persone. La prima a far ritorno a Gilead, tradita da un fidanzato sogghignante e fulvo di capelli, rivelatosi poi già sposato, è l’ingenua Glory dal pianto facile, dal palpito cocente, la piccola di casa che prende sempre «tutto troppo a cuore».
Il secondo è Jack, avventuriero sventurato, che di certo sottoscriverebbe, con Lev Grossman, che la casa non è dove sta il cuore, ma dove sta il dolore. Poco gregario e impacciato in più di un’occasione, il suo comportamento suggerisce la figura di un estraneo da dover ospitare. Sensibile all’imbarazzo e «predisposto, dall’abitudine e dall’esperienza, a dubitare di essere il benvenuto», il figlio difficile di Robert Boughton non ricorda la pecorella smarrita cercata senza posa che, una volta ricondotta amorevolmente all’ovile sulla spalla del pastore, riesce ad assaporare insieme a lui il gusto della salvezza, della festa; anzi, nella migliore delle ipotesi, potrebbe far pensare a un «randagio» che pare aver abdicato al suo vero io mentre «impara le condizioni dell’addomesticamento». Ma le regole dell’addomesticamento, lui, personaggio tutto espressionista, simile alle figure nervose che giganteggiano sugli sfondi urbani di Ludwig Meidner, le impara da svogliato. In fondo, come un destino ormai scritto, questo Boughton così ribelle porta già nei suoi occhi febbrili di ragazzo, nelle gambe che a malapena si sforzano di stare composte, l’irrequietezza che più tardi tenterà inutilmente di reprimere. La storia – non si può fare a meno di chiedersi – sarebbe stata diversa, se la vita fosse stata madre e non matrigna per Jack Boughton? Il futuro, in fin dei conti, altro non porta se non il frutto del seme affidato al passato.
Nonostante il «lento passo narrativo», generato da «scene domestiche ripetitive», e alcune, evitabili, dispute teologiche che lo appesantiscono, Home, tradotto anche in arabo, è riuscito a guadagnarsi, nel 2009, l’Orange Prize for Fiction, il premio che una giuria di sole donne è solita assegnare, ormai da quasi trent’anni, all’eccellenza e all’innovazione femminile in campo narrativo, nell’ambito delle sole lingue anglofone.
La storia di Lila Dahl, la protagonista dell’ultimo romanzo, compie, tra analessi e prolessi, in un ordine senza ordine, parecchi passi indietro nel tempo. Ambientata, come già The Grapes of Wrath di Steinbeck, il romanzo-simbolo della Grande Depressione americana, negli anni politicamente molto forti che sono seguiti al tracollo finanziario del 1929, è anche l’unica a consegnare, nel titolo, un nome proprio di persona, anziché un riferimento allo spazio. Per pareggiare subito i conti però, la scrittrice ha pensato bene di dedicarla interamente a «quel vasto, dolce nulla» che è l’Iowa, orizzonte aperto, scritto a lettere maiuscole, che sfonda tante sue pagine e dialoga solo con i campi di granturco e il cielo. Sì, in un secolo di anelito al movimento, di esodo dalle campagne, di dominio inopinato della tecnica, di modernizzazione del lavoro agricolo, Lila decide di riprendere il dibattito su un’indispensabile unità conciliata di mente e corpo che soltanto la nuda terra può restituire: saggezza antichissima, mai dimenticata, in virtù della quale l’humus bruno-nerastro dell’orto, del giardino, persino di un fazzoletto di terra occupato da due tombe al cimitero del paese, si trasforma in luogo, privo di ogni resistenza, in cui abitare. È, in fondo, la prospettiva più familiare, la meno inventata.
Ecco, allora, che una volta di più il lettore dovrà confrontarsi con il continuo porsi e riproporsi di una «trilogia sulla fede», ristretta a poche cose, che dal 2004 «si aggira per il mondo». Vincitore del National Book Critics Circle Award, Lila, in cui si trova l’antefatto di Gilead e di Home, è un ennesimo ripresentarsi di ambienti, di volti, di tormenti chiamati a diventare occasione universale – e ostinata – d’interrogazione e di crescita. Ancora la fittizia Gilead, «la solita cittadina biblica e costipata» situata a una settantina di kilometri da Des Moines, «nel cuore del cuore del Grande Paese», ancora gli stessi protagonisti, ancora l’identica, controversa tensione tra radicamento e impulsi di fuga, ancora una trama imperniata sulla condotta dell’individuo che potrebbe infastidire, se Robinson non fosse così abile a non cadere nei lacci del moralismo.
Un’opera, Lila, che dà il meglio di sé quando ci fa dono dei suoi personaggi: donne e uomini «che hanno un’incandescenza speciale», che rimangono impressi come un marchio a fuoco, suggeriti completamente, fin dall’inizio, da descrizioni evocative, particolareggiate, precisissime, ereditate per via diretta dall’insuperabile Henry James. Il che risulta perfettamente in linea con le premesse – e le promesse – della scrittrice che, non lo si sottolineerà mai abbastanza, alle sue amatissime figure ha scelto di dare assoluta priorità. Quando Robinson narra il passato di Lila Dahl, la giovane moglie del reverendo Ames che nei due romanzi precedenti non aveva svelato nulla di sé, la storia diventa fluida come lo scorrere delle ore in una giornata ordinaria. Lila, bambina poverissima, rapita da una vagabonda tutta gesti e sguardi con il viso cotto dal sole e dal vento, in una notte di luna, mentre siede sui gradini del tugurio in cui vive. Sono giorni bui in cui tutto è miserando, difficile: contadini immiseriti dalla crisi, ricatti da parte delle banche, calamità atmosferiche – i ricavi agricoli compromessi dalla lunga siccità, le tempeste di sabbia che soffiano fortissimo, «lasciandosi dietro nient’altro che sfasciume». Stringono il fiato Lila e Doll, una mucca col suo vitellino, «poveri pagani cenciosi ai quali non sarebbe mai venuto in mente che l’Onnipotente potesse nutrire il minimo interesse per loro», due dei tanti diseredati mancanti di tutto che attraversano il Paese alla ricerca di un futuro migliore. Nella loro elementare semplicità, questi episodi di vita insieme che suonano strani, terribili, sono tra i brani più riusciti: pagine in cui è possibile sentire lo stile altamente personale, innovativo di Robinson, la rapsodia ritmata della sua prosa, l’emozione che suscita. Robinson allo stato puro.
Questo, scrive Nadia Terranova, «è un romanzo che finge di parlare di Dio, e intanto racconta i precipizi di quelli che lo cercano», quelli che non si accontentano di credere per abitudine o per paura. «Lila – conclude Terranova – racconta il solo aspetto del divino che può interessare la letteratura: l’umano». E il dolore in Lila è sovracuto – ci si scontra con un muro di impotenza, con una perduta capacità d’emozione, con un’estraneità alimentata dalla solitudine, ci si addentra con ferocia nei vicoli bui del sangue, dell’affetto. Non c’è stato Dio nell’infanzia desolata e impotente di Lila. C’è stata soltanto una bimba sola, disperata che implorava aiuto. Da adulta, dolore, paura e una maledetta vergogna continueranno a spegnere le parole sulle sue labbra, creando vita non vissuta. Ma lei le serberà intatte nel cuore. E tenterà di attraversare il pathos distruttivo che la inabita limitandosi a ripetere, scrivendole, quelle di Ezechiele, di Giobbe, di Mosè, perché «non siamo noi ad avere segreti; sono essi, i segreti veri, che ci possiedono». «L’esistenza può essere spietata». Una spietatezza che preparerà il terreno alla pietà – toccare il fondo per risalire più in alto.
Davvero una dura scuola di vita, la famiglia. Nei suoi aspetti più crudi e dolorosi sta al centro della narrativa di Robinson, come il tuorlo nell’uovo. Ma è al tempo stesso quel legame elementare, inalienabile che può cementare la solidarietà più profonda. «È una cosa terribile rompere una famiglia. Se capirete questo, capirete anche tutto ciò che segue».
Scene di quotidianità domestica osservate e raccontate con partecipazione dall’interno, consumate in case avite che l’edera copre più di una muffa e che persistono come simbolo, hanno guidato per oltre trent’anni il pensiero disincantato e ironico di Robinson su un tracciato in equidistanza tra il disinganno, che porta a considerare compiute e irreversibili la dispersione e la perdita dei membri di una famiglia, e la speranza, che sembra invece indicare, in Lila e più ancora in Glory, cifrata di numinosità nel suo infinito accoglimento, lo spunto per un possibile riscatto tenuto alto come una bandiera.
Restituire nel particolare l’universale è dunque la posta in gioco, nel finito l’infinito. E sempre in chiave metafisica, improntando ogni criterio alla conoscenza delle cose ultime. L’irrisolto tormento che Marilynne Robinson aveva iniziato, per lampi, in Housekeeping, senza presumere il sollievo di una risposta, è in realtà una sorta di conio unitario che s’imprime ininterrotto in tutta la sua scrittura costituendone l’ingranaggio, l’identità, la permanenza. Home lo ha portato a termine, rinfocolandolo prima nell’energia risorgente di Gilead, con una svolta pacificata anche se mai consolatoria, poi in Lila, sotto forma di una fede che non si può suscitare e di un accadere avverso, terribile, assolutamente ripugnante che non si capisce e che si sottrae – perché va sottratto – all’umano giudizio.
Housekeeping, Gilead, Home e Lila sono quindi tutte opere che fanno il pieno di immagini, abbandonandosi interamente al loro dinamismo; molte sono considerevoli perché reiterate, polivalenti, marcatamente spaziali, danno efficacia e sapore alla scrittura. Oggi che una sorta di «an-esteticità ci anestetizza» da cima a fondo, impedendoci di riconoscere il genius loci con la sua inconfondibile personalità, quella di Robinson suona come una vera e propria dichiarazione di topofilia, un divagare appassionato e in punta di piedi intorno all’anima dei luoghi che permette, in una continuità strutturale capovolta, d’incontrare i luoghi dell’anima.
[Immagine: Marilynne Robinson.]
Sono di quei noiosoni che se gli dici uno dei tuoi tre romanzi contemporanei preferiti vuol subito sapere quali sono gli altri due, e comunque è frustrante che della Robinson abbiano tradotto tutto tranne che il suo riconosciuto capolavoro “Housekeeping”. Alla Einaudi devono avere degli strateghi editoriali finissimi. Un saluto! Coda
Libri assolutamente meravigliosi. Tanto da mettersi in cammino per, domani a Torino, “vederla”. Il suo primo bellissimo “Housekeeping” fu pubblicato a suo tempo da Serra e Riva, lo si trova facilmente in biblioteca. E, sì, saremmo felici venisse ristampato.