cropped-wolf_08_01.jpgdi Riccardo Donati

[Anticipiamo un capitolo del volume di Riccardo Donati, Critica della trasparenza. Letteratura e mito architettonico (Rosenberg & Sellier, 2016). La trasparenza è uno dei miti culturali che consentono di riflettere sulla modernità a partire dalle sue radici, indagandone gli sviluppi e le polarità fondamentali. Nato in ambito architettonico alla metà dell’Ottocento, il tema è stato ed è ancora fortemente discusso dalla letteratura, dal cinema e dalle arti, ed entra spesso in relazione con il dibattito politico e sociale. Il volume ne ripercorre storia e fortuna, spaziando da Ruskin a Joyce, da Dostoevskij a Bontempelli, fino al secondo Novecento di Calvino, Ballard, Stephen King (ns)].

 I reclusi

Arrivo ancora vicino al parallelepipedo. È una scatola diafana, il parallelepipedo, con l’uomo chiuso dentro, con gli occhiali, chiuso come in una gelatina, collocato come in una vetrina, che fa il gesto di uno che sale le scale. Fa il gesto di uno che pensa, anche, l’uomo con gli occhiali. C’è il parallelepipedo diafano, sopra, che è vuoto. È diviso in due scomparti, sopra, da una lastra di vetro.

Edoardo Sanguineti, Il giuoco dell’oca

 

L’ipotesi di una prigione perfettamente trasparente è un’ossessione tutta moderna, legata alle esigenze di sorveglianza e controllo che caratterizzano le società occidentali moderne, da Bentham in poi. Si è già visto nel corso del presente volume come l’immagine del palazzo diafano sia presente nelle narrazioni fiabesche di tutto il mondo, compresa l’Italia, solo che si pensi a I tre castelli, una favola tradizionale del Monferrato che Italo Calvino ha antologizzato nella sua celebre raccolta Fiabe italiane (1956), dove si parla di un «castello tutto di cristallo». Pochi anni dopo, il maggiore e più popolare favolista italiano del Ventesimo secolo, Gianni Rodari, riprende il tema della trasparenza incrociandolo con quello della condizione carceraria in un testo intitolato Giacomo di cristallo, contenuto nella celebre raccolta del 1962 Favole al telefono.

Se un altro Giacomo, Jean-Jacques Rousseau, in più luoghi della sua opera parla metaforicamente di un cuore transparent comme le cristal, si può dire che quello di Rodari sia un personaggio russoviano al quadrato: la particolarità di questo angelico bambino consiste infatti nell’avere membra che lo sguardo penetra «[…] come attraverso l’aria e l’acqua» e un cervello parimenti trasparente cosicché «ognuno poteva leggere nei suoi pensieri e indovinare le sue risposte, quando gli facevano una domanda, prima che aprisse bocca» (Rodari 1962, p. 85). L’incapacità, da parte del bambino, di nascondere un segreto o mentire è una virtù universalmente ammirata, che gli procura l’amicizia e la simpatia di tutti. Sennonché, un giorno, il paese dove Giacomo vive cade in balia di un «feroce dittatore», il quale impone un regime di terrore e violenza, fucilando i ribelli e facendo sparire – «senza lasciar traccia», scrive Rodari: e occorre sottolineare quanto il concetto di traccia sia importante, via Benjamin, quando si parla di trasparenza – coloro che osano protestare.

Adottando i toni e le forme della favola, il tema del dispotismo si manifesta dunque qui in stretta connessione con quello della trasparenza. Gli strumenti attraverso cui le dittature mantengono la presa sulla società richiedono infatti, come poi ricorderà anche George Orwell nel suo celebre 1984, un controllo assoluto e una totale assenza di segreti, in modo che niente possa sfuggire alla macchina poliziesca: «La gente taceva e subiva, per timore delle conseguenze. Ma Giacomo non poteva tacere. Anche se non apriva bocca, i suoi pensieri parlavano per lui: egli era trasparente e tutti leggevano dietro la sua fronte pensieri di sdegno e di condanna per le ingiustizie e le violenze del tiranno» (Rodari 1962, pp. 85-86). Così il despota deve trovare il modo di neutralizzare la pericolosa presenza parlante del bambino, potenzialmente sovversiva perché «di nascosto, poi, la gente si ripeteva i pensieri di Giacomo e prendeva speranza» (Rodari 1962, p. 86). Lo fa dunque arrestare e gettare in una prigione buia. Ed è qui che si introduce, nella storia, il tema della cella di vetro. Una volta che il ragazzino viene incarcerato, infatti, accade una cosa straordinaria:

I muri della cella in cui Giacomo era stato rinchiuso diventarono trasparenti, e dopo di loro anche i muri del carcere, e infine anche le mura esterne. La gente che passava accanto alla prigione vedeva Giacomo seduto sul suo sgabello, come se anche la prigione fosse di cristallo, e continuava a leggere i suoi pensieri (Rodari 1962, p. 86).

Che Rodari conoscesse o meno l’opera di Černyševskij e Zamjatin, autori entrambi trattati in questo libro – è molto probabile che avesse familiarità con la casina di cristallo di Palazzeschi – è tutto sommato secondario; ciò che conta è che qui la sua favola rovescia completamente l’immagine benthamiana di una galera panottica concepita per spiare il prigioniero. Quel che lo scrittore lombardo immagina, infatti, è l’esistenza di un prigioniero di vetro la cui trasparenza sia in grado di modificare e trasformare il paesaggio circostante.

In questo modo, gli apparati di regime non solo non hanno modo di esercitare il proprio controllo sul detenuto, ma finiscono per soccombere al loro stesso meccanismo repressivo: «Di notte la prigione spandeva intorno una grande luce e il tiranno nel suo palazzo faceva tirare tutte le tende per non vederla, ma non riusciva ugualmente a dormire» (Rodari 1962, p. 86). La morale contenuta nell’apologo rodariano – non si può imprigionare la verità, che risplende sempre: «Giacomo di cristallo, anche in catene, era più forte di lui, perché la verità è più forte di qualsiasi cosa, più luminosa del giorno, più terribile di un uragano» (Rodari 1962, p. 86) – celebra la gloriosa tradizione italiana degli scrittori dal carcere (da Pellico a Gramsci, ai condannati a morte della resistenza), offrendo al contempo una visione decisamente ottimista del mito della trasparenza. Nella favola dello scrittore lombardo, infatti, persino una prigione si trasforma in un palazzo radioso grazie alle straordinarie qualità di chi vi è recluso. Tuttavia, la filosofia, l’arte, la letteratura di quegli anni insegnano che se invece del puro Giacomo nella gabbia si trova una figura lordata di immonde colpe, gravata del peso della storia, o anche solo un uomo privo della luce spirituale che il bambino è in grado di irradiare, ogni traccia della sua umanità può facilmente risultare opacizzata e cancellata dalle lisce e gelide pareti che lo rinchiudono.

Un anno prima della pubblicazione di Favole al telefono, nell’aprile del 1961, uno dei più famigerati criminali della storia moderna rimane a lungo esposto allo sguardo giudicante dell’intero pianeta mentre si trova all’interno di una cella di cristallo: mi riferisco naturalmente ad Adolf Eichmann. Come noto Eichmann fu rapito nel 1960 a Buenos Aires dagli agenti del Mossad e poi segretamente trasferito in Israele per essere processato. Citando le parole della più illustre cronista di quell’evento, Hannah Arendt, durante tutto il dibattimento l’imputato si trovò «[…] rinchiuso nella gabbia di vetro costruita appositamente per proteggerlo […]» (Arendt 1963, p. 13). Per tutelarlo soltanto, viene da chiedersi, o anche per mostrarlo, cioè per rivelarlo? Alla protezione fisica dell’imputato non corrisponde infatti una sua invisibilità: al contrario, la Glaszelle trapezoidale in cui si trova rinchiuso magnifica come una lente di ingrandimento la sua natura ripugnante. L’aspetto dimesso, il fastidioso nervosismo, il pallore cadaverico, le labbra sottili, le idee ordinarie e banali di Eichmann sono elementi su cui Arendt ha scritto pagine celeberrime. Recluso nella trasparenza, l’ex gerarca nazista sembra ormai un «fantasma nella gabbia di vetro», per riprendere il titolo di un capitolo del bel volume di Alois Prinz sulla filosofa tedesca (cfr. Prinz 1998, pp. 147-156; per il passo originale cfr. Arendt 1963, p. 17).

Ciò che maggiormente infastidisce di questo triste, esangue ectoplasma è il suo tono di voce: una vocetta che i documenti audio d’epoca ci restituiscono come irreale, distorta, «[…] perché il corpo che l’aveva emessa», nota sempre Hannah Arendt, «era presente ma sembrava esso stesso spersonalizzato dalle spesse pareti della gabbia di vetro in cui era rinchiuso […]» (Arendt 1963, p. 98). Come un «Giacomo di cristallo» alla rovescia, quello che fu un potente SS-Obersturmbannführer è ormai ridotto a blaterare una verità – la sua pietosa verità – talmente mostruosa da non poter trovare ascolto presso nessuno. Rileggendo in quest’ottica un evento centrale del Dopoguerra quale fu l’Eichmann-Prozess è quantomeno curioso osservare come la trasparenza abbia sul prigioniero un duplice effetto: lo smaschera, certo, mettendone a giorno gli aspetti più infimi, ma anche lo de-realizza, lo smaterializza, o, come scrive Arendt, lo «spersonalizza». La Glaszelle che avrebbe dovuto garantire l’incolumità dell’imputato diventa dunque il dispositivo ideale per portare alla luce le ragioni della sua condanna. È insomma, per lui, un’autentica trappola di cristallo. Non più umano, Eichmann è ormai una larva schiacciata sotto l’incommensurabile peso del giudizio universale (nel doppio senso della parola), uomo-pesce galleggiante in un acquario che deforma e stravolge i lineamenti e i suoni, isolandolo fisicamente, intellettualmente, empaticamente non solo dai suoi giudici ma anche dal resto della specie.

Per capire quanto questa immagine del gerarca nella gabbia di vetro abbia potentemente influenzato l’immaginario di quegli anni, basti ricordare il bisticcio temporale che la lega alle celebri glass boxes di Francis Bacon. Poco importa che le gabbie trasparenti dei quadri di Bacon precedano cronologicamente, e quindi in qualche modo annuncino, il processo Eichmann (cfr. Sylvester 2003, p. 23); quel che conta è appunto il nodo, l’entanglement dell’immaginario che sovrappone l’uomo-fantasma nazista a molte delle figure straziate e urlanti presenti nell’opera del pittore dublinese. Il caso più celebre è naturalmente rappresentato dalle tele che ritraggono, in vario modo ma con delle costanti stilistiche ricorrenti, la figura di Innocenzo X, il papa barocco per eccellenza. Bacon riprende l’immagine del pontefice dipinta da Velázquez, una sua vecchia ossessione iconografica, ma la costringe entro un cubo diafano, una prigione di geometriche trasparenze che a un tempo isola il soggetto e ne stravolge ogni tratto, sfigurandolo completamente, ossia nullificando lo stesso sembiante umano e le sue possibilità espressive. Quel voluminoso corpo senza occhi – «i personaggi baconiani», nota Franco Speroni, «hanno orbite vuote o cancellate dalla deformazione delle teste disossate, dalla loro traduzione da forma in materia» (Speroni 1995, p. 46) – è uno spettro il cui urlo bestiale non può attraversare la parete di cristallo, e che quindi lo consuma dall’interno fino a disgregarne la forma: «sparizione di tutte le forme», per citare un autore cui abbiamo fatto più volte riferimento, ovvero il regista sovietico Sergej Ejzenštejn. Tra le spesse, lisce e dure pareti della gabbia che lo contiene, l’essere umano Giovanni Battista Pamphilj perde di consistenza, come dileguandosi sottovuoto: ciò che resta è solo l’ectoplasma «spersonalizzato» (Arendt) di una creatura dissolta, volatilizzata in una prison de verre.

Innocenzo X del resto non è il solo recluso nella trasparenza irrespirabile della pittura di Bacon. Lo sono anche i cosiddetti testimoni indifferenti che figurano in molte delle sue tele, amici, conoscenti del pittore o personaggi anonimi colti in una condizione di isolamento disperata e disturbante. Intrappolate nell’«orrore di un vetro levigato» (sempre Ejzenštejn), queste figure ridotte ad ammassi di carne martoriata distolgono lo sguardo dalle sofferenze del loro prossimo, oppure vi assistono senza mostrare alcun interesse per la sua sorte. Penso per esempio a un’opera terribilmente angosciante come After Muybridge – Study of the Human Figure in Motion – Woman Emptying a Bowl of Water and Paralytic Child on all Fours (Da Muybridge – Studio di figura umana in movimento – Donna che rovescia una ciotola d’acqua e bambino paralitico carponi), tela del 1965 conservata presso lo Stedelijk Museum di Amsterdam. Qui Bacon assembla due diverse immagini di uno dei padri della fotografia, Eadweard Muybridge, accostando la figura di un bambino paralitico che gattona su una specie di struttura circolare a quella di un essere dalle sembianze vagamente femminili alle sue spalle – forse la madre? – anch’essa appollaiata sullo stesso anello metallico. Chiusa in una glass box, assorta nel compito di versare liquido da una ciotola – gesto che, sia detto per inciso, secondo gli interpreti rimanda a riti della mitologia irlandese, ma che per noi rinnova anche un tema centrale nel mito architettonico della trasparenza come quello dell’acqua e dell’acquario – la donna non sembra neppure notare la presenza del piccolo: nessuna relazione è possibile tra loro.

Su questi aspetti del lavoro di Bacon è ancora molto interessante leggere un contributo del grande iconologo John Berger, un testo del 1972 provocatoriamente intitolato Francis Bacon e Walt Disney:

 È opinione diffusa che l’opera di Bacon esprima la solitudine angosciosa dell’uomo occidentale. Le sue figure sono isolate in teche di vetro, in arene di puro colore, in stanze anonime, o addirittura semplicemente in se stesse. Il loro isolamento però non impedisce che siano esposte agli sguardi. (La forma del trittico, in cui ogni figura è isolata nella sua tela, pur essendo visibile alle altre, è sintomatica). Le figure sono sole, ma non hanno alcuna privacy. I segni che portano addosso, le loro ferite, sembrano autoinflitti. Ma autoinflitti in un senso molto particolare. Non da un individuo, ma dalla specie, l’Uomo – perché, in quelle condizioni di solitudine universale, distinguere fra individuo e specie diventa privo di senso […]. Le teche di vetro, in cui sono rinchiusi gli amici o il Papa, fanno pensare alle gabbie utilizzate per studiare i comportamenti degli animali (Berger 1980, pp. 127-128).

 L’immagine dell’uomo esposto, vetrinizzato e in ultima istanza disumanizzato dalle pareti di vetro che lo ingabbiano rivela non solo le profonde connessioni esistenti tra il processo Eichmann e le tele di Bacon, ma più in generale la condizione di chi, prigioniero nella trasparenza, si trova a essere respinto fuori dal perimetro della propria specie, perduto al mondo e a se stesso.

È interessante osservare come numerosi scrittori del Novecento abbiano letto in questo senso il lavoro di Bacon, cogliendo proprio nel tema della gabbia trasparente, in particolar modo in riferimento alla figura di Innocenzo X, un elemento decisivo. Per limitarci al caso dei poeti italiani, pensiamo all’opera di Giovanni Testori, il quale sempre negli anni Sessanta interpreta il papa baconiano come una sorta di bestia luciferina, intrappolata in un parallelepipedo di cristallo:

Urla,
Innocenzo;
graffia
l’insulsa paternità dei secoli;
batti le nocche,
gli zoccoli di capra
contro la lastra immobile,
il cristallo che t’approssima
e allontana […] (Testori 1965, p. 369

Ritroviamo qui, ancora una volta, l’idea che la lastra di vetro insieme avvicini e separi, fingendo di stabilire un contatto quando invece isola, crea una barriera (in questo caso tra il soggetto e la propria natura umana). Di minore impatto lirico-drammatico, ma comunque altrettanto significativo, un componimento di Nelo Risi risalente ai primi anni Ottanta. Il titolo è Tutto distorto con cura, e il riferimento alla pittura di Bacon è esplicito:

[…] larve in poltrona trafitte sulla tela
nel chiuso di una stanza (cubo sontuoso
sala anatomica o carlinga franta di un aereo)
bocche spalancate grumi nodi
di mandibole allo scatto o l’urlo muto
di olocausti stupefatti, e come effetto
un’istantanea mossa da scosse epilettoidi
(l’invenzione di Cerletti)
è la carne esibita
un campionario di forme corrose
con l’uomo in gabbia
fragile
mutevole […] (Risi 1983, p. 75).

«Fragile» e «mutevole», questo «uomo in gabbia», contiguo ma inattingibile, ridotto a un cumulo di «carne esibita» e terremotata da «scosse epilettoidi», orribilmente sfigurato dalla pressione dello spazio che lo imprigiona («forme corrose»), si dissolve finalmente nel proprio «urlo muto», perché il suono, lo sappiamo, non passa attraverso il cristallo. Dileguando nel terribile perimetro-acquario che insieme lo ingabbia e lo espone ai nostri occhi, il soggetto si ritrova così «bloccato dal terrore contro il vetro», come scrive un altro poeta, Corrado Costa, nella sua Lode a Francis Bacon, e inutilmente preme le proprie mani «impotenti-evanescenti» contro le pareti della gabbia (Costa 2007, p. 20).

Ciò che questi autori, peraltro estremamente diversi l’uno dall’altro per poetica e ideologia, ben colgono è che non c’è niente di titanico nelle figure baconiane, niente di michelangiolesco nei suoi spettri-prigionieri. La straordinaria malvagità non rifulge attraverso le pareti di cristallo, nessuno spazio per il faustismo romantico e più in generale per il tradizionale alone retorico-emotivo che circonda l’idea di potere. Persino nel caso di un gerarca nazista, quel che il vetro rivela non è l’eccezionalità – come nel caso del virtuoso Giacomo di cristallo – bensì una desolante ordinarietà. Che si tratti di papi o di uomini comuni, la condizione di questi reclusi è la medesima: balbettanti o affatto mute, impossibilitate all’azione perché le loro membra sono ormai «impotenti-evanescenti», si può dire che queste macchie umane dissolte nella trasparenza quasi non esistano più. La loro specie non le riconosce, le ha rifiutate.

[Immagine: Michael Wolf, Transparent City (gm)].

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