cropped-giorgio_caproni3-1.jpgdi Elisa Donzelli

[Esce oggi, per Marsilio, il saggio Giorgio Caproni e gli altri. Temi, percorsi e incontri nella poesia del Novecento di Elisa Donzelli. «È un libro sulla poesia di Caproni», si legge nel risvolto di copertina «e un libro su altri scrittori, artisti e intellettuali testimoni dell’eredità culturale di uno dei protagonisti della poesia europea del Novecento» – italiani (Mario Luzi, Vittorio Sereni, ma anche Libero Bigiaretti, Mario Mafai, Diego Valeri, Margherita Guidacci) e stranieri (Pierre J. Jouve, Antonio Machado, Federico G. Lorca, René Char, Maurice Blanchot). Il dialogo fra Caproni e gli altri viene letto e interpretato alla luce di un dettagliato lavoro d’archivio. Quello che segue è l’ultimo paragrafo del saggio]

Caproni, la fine e il principio. Poesia e autoritratto

Come ho fatto più distesamente per Sereni, dirò brevemente dove compaiono e si concentrano le occorrenze legate alla “paura” (“paure” ma anche “brivido” e “brividi”, “grido” e “gridi”, e così via) nell’opera in versi di Giorgio Caproni. E lo farò, in prima battuta, per mostrare che nell’ultimo Caproni, almeno dal 1975 in poi, il termine “paura” subisce una consistente tendenza alla sparizione e, come l’“io”, finisce tra i tanti segni da scrivere per inciso, se non addirittura da negare o segnare Tra parentesi: “Paura / […] del mio non aver paura” e “(Non è paura)”.

Ecco il cammino che segue la paura nei versi di Caproni.

La prima paura è l’“amore verace” di Cronistoria: “la mia rossa paura”, “la tua paura”, “un lutto d’innocenza / […] in cui tu sola resti  senza / paura”; a seguire compare la paura della guerra e della morte in Alba “Amore mio […] / che brivido attenderti!”, “una paura che conquide” nei Lamenti, un “tremito” “mentre monta / nel petto la paura” dentro la ballata Le biciclette dove questo sentimento esplode nel “grido / ch’è scoppiata la guerra” (e qui si vedano anche le quattro occorrenze “brivido e “brividi”); ed è ancora nelle Stanze della funicolare “la mia paura” dell’Interludio, accanto ai “gridi” e al “brivido” che accompagnano il viaggio dell’arca nelle gallerie di Genova; più avanti, tra le macerie del dopoguerra, la paura diviene quella della solitudine che provano gli “uomini miti” di All alone “E quando, / soli tra le vetrine, […] / […] la paura / perché confonde il labile contorno / del loro volto confuso”; come è “un segno della mia paura” anche il ricordo dell’iniziazione all’amore fisico da bambino di cui tratta Il becolino, e come lo sono i ricordi delle sassaiole d’infanzia nel verso “Ho avuto paura. ‘Zio!’ / ho chiamato” di Scalo dei fiorentini.

Ma il Congedo del viaggiatore cerimonioso rappresenta un improvviso passaggio a livello ed è un libro in cui tutto cambia perché il viaggio comincia a finire passando dalla storia all’“antistoria”. Lo annunciano bene i versi del l’ultima poesia, Odorvestimentorum, dove compare anche il distico “i tuoi acri rossori / son tenebra, non paura”. Caproni comincia ad allestire un teatro dove è forte l’intenzione di sbarazzarsi della paura: “Al diavolo perciò la paura, / giacché non serve” così ne Il fischio (parla il guardiacaccia) . Intanto nel successivo Muro della terra, essa compare associata a una città come Roma (per esempio in Via Pio Foà, I : “La luce che vuota / e cieca, s’è fatta paura / e alluminio, qua / dove […] / […] la città / sputa in faccia / il suo Orgoglio / e la sua Dismisura”). Ormai si tratta però di un’apparizione improvvisa, se già in una poesia dispersa degli anni Cinquanta il poeta invita se stesso ad accelerare il passo e raggiungere in fretta la fine: “Giorgio, fa’ presto a morire: / […] / e balza senza paura / verso la buca”. Per analogia con il “morire” anche nel Muro della terra la vita si affretterà a divenire “l’avventura / morta” legata “al palo / morto della […] paura” in un testo di echi danteschi come Palo che Caproni dedica “a Sezis e Mézigue”, l’equivalente in argot di “se stesso” e “me stesso”: l’io e lo specchio dell’altro invischiati in quella vicenda di comune sparizione-perdizione che si realizza dentro la raccolta del 1975.

Proprio riguardo al Muro della terra Biancamaria Frabotta ha scritto che un testo come l’Idrometra, del 1968-69, “annuncia […] il definitivo naufragio delle testimonianze umane: l’arte, la storia, l’intera realtà” mentre il genere umano ormai “assiste [….] a ciò che, nel presente, è già accaduto”. Ed è un po’ come dire che, a questa altezza, anche la paura nella realtà poetica di Caproni appartiene al passato perché è qualcosa di già avvenuto.

Forse è per una ragione analoga che, in una breve prosa del successivo Il franco cacciatore (1982), Caproni afferma quanto segue (si tratta di un Inserto poi espunto dal dattiloscritto definitivo con l’indicazione autografa “Via”):

[…] E allora, tanto vale dir paura alla paura. Vuoto. Come e quando e perché, m’è impossibile precisarlo. Sono forse, questi versi, il segno della certezza che ho della mia inesistenza? Sono ormai oltre il confine, tornato indietro un attimo, come chi, appena varcato il portone, s’accorge d’aver dimenticato il fazzoletto. Manovra fulminante e provvisoria, che non modifica per nulla l’esser ‘già’ fuori.]

Proprio nel Franco cacciatore il poeta “pers[o]” in “Un vento / friabile” torna a chiedersi se il vuoto non abbia preso il sopravvento: “È paura? / Il bosco s’è mutato / in allarmata radura”. Ed è la stessa incalzante domanda che, nel 1986, confluirà dentro Il conte di Kevenhüller: “È questo […] / il serpente / che incenerì di paura / Tamino, convinto / del suo ingresso nel niente?”.

In sostanza se, come ha scritto Luigi Surdich, “l’esistenza è un territorio dove immobilità e durata vengono a coincidere” (e il riferimento è al verso di Dopo la notizia “agostinianamente / più non cade tempo”), da un certo momento in poi ciò che interessa a Giorgio Caproni non è più afferrare la realtà con il sentimento. Anche la paura non è più, come ne Gli anni tedeschi, nel corpo o “nel petto”. E si tratta di un cambiamento già in itinere sul finire degli anni Cinquanta, come conferma un articolo del 1958:

La Paura, che una volta era l’effetto voluto attraverso i Mostri corpacciuti appositamente inventati, scacciati questi come gingilli puerili grazie all’improvvisa ascensione dei Lumi, oggi è diventata essa stessa il Mostro, prendendo tutte le più svariate forme possibili (biologiche, psicologiche, politiche, pseudoreligiose ecc.), e riuscendo così a dar l’illusione d’un intero popolo di mostri, mentre in realtà ce n’è uno solo, il quale fu quello stesso che all’epoca della caverna, e dalla caverna, figliò e liberò qualche milioncino d’anni fa l’orribile Mandria.

Dopo il Congedo la ricerca poetica di Caproni si sposta velocemente da una “realtà” quasi possibile a un’“irrealtà” quasi sfiorata (quella del Conte di Kevenhüller). Ed è così che “(la paura)” come “(la vita)” diviene – anche graficamente – una parentesi “dura” e “oscura” della quale si è smarrita la testimonianza. Il messaggio è evidente sin dal Codicillo iniziale: “Vi assista la partitura. / Ma… non sperate paura”. Ed è un sintomo tangibile già nel testo del 1970 I coltelli (confluito nel Muro della terra) all’interno del quale il male taglia con l’accetta la paura che lo precede. Vera e propria decapitazione del sentimento che, nel residuo di un ricordo legato agli anni della Resistenza, Paolo Zublena ha legato con acume alla scoperta del teatro di Jean Genet come consacrazione del ruolo del male nelle cose:

“Be’?” mi fece.
Aveva paura. Rideva.
D’un tratto, il vento si alzò.
L’albero, tutto intero, tremò.
Schiacciai il grilletto. Crollò.
Lo vidi, la faccia spaccata
sui coltelli: gli scisti.
Ah, mio dio. Mio Dio.
Perché non esisti?

È con la condanna a morte della paura che in Caproni nasce la stagione dell’“ateologia” (Versicoli del controcaproni), una fine e un principio dei quali l’io continua a essere il centro e la perdita. Tra i ‘luoghi’ del Muro della terra ciò accade in special modo dentro I coltelli, dal momento che è mézigue (me stesso) a non mettere più a fuoco “la faccia spaccata” dell’altro. Allo stato dei fatti, la paura si perde dato perché a perdersi è proprio l’io che dovrebbe provarla; un io che volge alla fine e che non è più in grado né di identificare i volti della guerra reale da lui combattuta, né sarà in grado di condurre la caccia allegorica protagonista di libri come Il franco cacciatore e Il conte di Kevenhüller.

Pare allora piuttosto chiara la ragione per cui, negli anni Ottanta, Giorgio Caproni e Vittorio Sereni battono, con soluzioni e toni stilistici differenti, su un unico martellante ‘tasto’. La musica di fondo è la stessa perché anche l’ultima paura di Sereni si fonda sulla difficoltà di tratteggiare il volto dell’altro e di distinguere il sé dall’immagine che si ha di fronte. Una “voce”, quella del poeta lombardo che, alle soglie degli anni Ottanta, “disarma, arma / contro me stesso me” alla pari della voce di Caproni quando, per fare solo qualche esempio, pronuncia versi di questo tipo: “Sparai. / Forse sparò lui. O un altro. / S’io caddi (chi cadde), / non l’ho saputo mai”; o “Tu miri contro lo specchio. / Sparerai a te stesso, amico”.

In questo quadro di vasti richiami, non stupisce affatto che l’io disarmato e scoperto dell’ultimo Sereni e dell’ultimo Caproni abbia lungo seguito tra le voci poetiche delle generazioni successive. Basti pensare a un giro di versi decisivo come quello del poeta Fabio Pusterla, classe 1957, inserito in Pietra sangue la raccolta “che sancisce l’ordinata massima della produzione” del poeta di Mendrisio: “L’inferno è non essere gli altri, / guardarli passare e sparire nel niente: / un parcheggio che piano si svuota, / il cantiere del vento”. Una strada che, in poeti delle ultime generazioni, vira diretta all’iper-consapevolezza dell’io-monade. Cosa che aveva capito molto bene Giorgio Caproni quando, nel febbraio del 1982 con l’uscita di Stella variabile, scriveva queste parole a Sereni in una delle lettere ancora inedite del carteggio tra i due poeti:

Caro Vittorio, […] non voglio ripeterti i miei superflui elogi. Ti ripeterò soltanto che il tuo è un libro, non soltanto per me, necessario (un dono fatto a tutta la poesia) […].

Ma per tornare ai capisaldi di questo svuotamento dell’essere, dov’è la differenza tra l’ultimo Caproni e l’ultimo Sereni, così diversi ma ben più vicini in questi anni di quanto non fossero nella fase iniziale, o mediana, della rispettiva scrittura in versi?

Il nodo della questione è che ad allontanare le loro prospettive poetiche non è il tragitto ma la traiettoria, pur siderale, cui mira Stella variabile. E ciò avviene perché Sereni trova nel passaggio di Rimbaud una sorta di antidoto alla perdita del sentimento. Mi pare evidente che il lascito dell’ultima stella, l’ultimo sguardo sereniano teso nel vuoto, sia anche un tentativo di affermare la presenza dell’io al limite dell’assenza. In questa direzione si muovono, nella grammatica dell’ultimo Sereni, la seconda persona singolare (“Anche tu l’hai pensato”) e la prima persona plurale (“passiamola una volta di più”), formule di esortazione e di sobria resistenza tanto dell’io quanto dell’altro (e si ricordi che il “noi” in Caproni aveva raggiunto il suo apice, e la sua ultima stazione di transito, all’altezza del Passaggio d’Enea). C’è quindi un ultimo segno, un ultimo autoritratto in versi, che Vittorio Sereni ha cercato di lasciare di se stesso. E questa immagine del poeta allo specchio appare nelle poesie Rimbaud (scritto su un muro) e Altro compleanno, dove la parola “Altro nel titolo non è una scelta casuale nei termini del discorso che sto affrontando perché tende la mano al compimento vuoto e pur sempre iterativo del sé e dell’altro.

Nel Conte di Kevenhüller, l’ultima raccolta pubblicata in vita, Giorgio Caproni non sembra invece interessato a questo lascito e soprattutto non sembra interessato ad altro che alla Bestia. Tanto meno sembra impegnato a ricomporre i pezzi di un io ‘sfigurato’ e solo, un io che anzi delega ad altri anonimi monologanti il ruolo di primo attore. Anche tutti coloro che in passato, come personaggi, avevano abitato i versi ora sono praticamente scomparsi dal testo, come è alla deriva l’uso del nome proprio e del nome altrui (“Il nome non è la persona. / Il nome è la larva.”), fatta eccezione per Paura terza (nella quale, come già detto, l’autonominazione ha un mira precisa) e per pochissimi altri casi. Si arriva più facilmente al vuoto del nome, o ai personaggi-pronomi di un Operetta a brani dove stile nominale e punteggiatura attenuano qualsiasi rumore (“Alcuni Io. / Quasi mai io. / Altri Pronomi. / Nomi.”).

Tuttavia sono convinta che, accanto al vuoto di mente e parole, nell’ultimo Caproni conviva latente un fenomeno parallelo che va controtendenza rispetto alla depauperazione dell’io.

Un primo fatto certo è che, nel corso di una lunga esperienza poetica, la necessità costante di Caproni di riordinare e riorganizzare la sua produzione in versi supera quella espressa da Sereni. Il ricorso all’autoantologia era per il poeta di Livorno l’extrema ratio di quella crescente sottrazione cui volgeva l’io nella stessa scrittura in versi.

A partire dal 1941, con Finzioni, il poeta aveva infatti compiuto la scelta di riprendere le precedenti poesie unendole alle nuove e riconcependo il ‘tutto’ in una diversa disposizione interna, scandita in molteplici libri. Anche la quarta raccolta Cronistoria avrebbe avuto una sua autonoma e rovesciata progettualità interna: Cronistoria vera e propria con le nuove poesie datate “1938-1942”, e la vecchia raccolta Finzioni che muta la data di composizione da “1932-1940” a “1932-1939”. Un passo ancora più deciso Caproni lo avrebbe fatto nel 1956 suddividendo in tre libri Il passaggio d’Enea, dove i primi due libri comprendevano le precedenti stagioni poetiche e l’ultimo anticipava un nuovo inizio. Nel 1968 usciva poi l’antologia Il “Terzo libro” e altre cose all’interno della quale l’autore sentiva la necessità di scrivere una breve nota che spiegasse ai lettori la selezione dei testi e la disposizione delle parti. Nel 1976 sarebbe stata la volta dell’autoantologia Poesie che avrebbe invece reso più asciutta la suddivisione in libri attribuendo al volume due sole grandi parti. E a seguire, nel 1980, l’antologia curata da Giovanni Raboni L’ultimo borgo con un omaggio di scritti critici a Caproni da parte di Sereni, Pasolini, Betocchi, Fortini, Luzi, Bertolucci e molti altri ancora; un’operazione apertamente manifesta e che Giulio Ferroni ha definito l’indagine di un viaggiatore “sul limite estremo”.

È però nel 1983 che, in Tutte le poesie, Caproni offre ai suoi lettori un vero e proprio ‘autoritratto a figura intera’. Questa volta la formula scelta è quella del continuum dove tutte le poesie scorrono l’una di seguito all’altra nella disposizione voluta dall’autore e con il finale di Oh cari, testo rientrato poi nel Conte di Kevenhüller dell’86. Sempre nella recente ristampa del “Terzo libro”, Luigi Surdich ha ridefinito le ragioni profonde che spinsero Caproni a strutturare diversamente l’ultima autoantologia: “ora che è stato il poeta stesso a riconoscere e ammettere la frantumazione dell’identità, la ripartizione in ‘libri’ si configurerebbe come un intervento razionalizzatore, tagliato secondo la prospettiva di uno dei tanti ‘io’ del poeta”.

All’interno di questa lunga galleria di libri-autoritratto di Giorgio Caproni – il quale nelle scelte editoriali affondava anche le ragioni di un io ben presente a se stesso – manca però l’ultimo ritratto che il poeta ha lasciato di se stesso. E questo perché, come si è detto, l’ultima raccolta Res amissa, uscita postuma a cura di Giorgio Agamben, non ha il tempo di essere progettata autonomamente dall’autore.

Nonostante tutto, anche se la perdita del sentimento della paura aveva intaccato per prima la forma dell’identità, anche se il lavoro editoriale del poeta aveva virato nella stessa direzione, è proprio nel Caproni ‘ultimissimo’ e ‘postumo’ che mi sembra si possano cogliere i segni di un estremo e incompiuto desiderio di appartenenza dell’io alla poesia. È un paradosso che ciò sia avvenuto proprio alla fine, là dove la voce del poeta dichiara espressamente: “Io, già all’infinito distante”. Eppure sono le singole poesie di Res amissa, che l’autore non fece in tempo a ordinare e selezionare come voleva e del quale non resta che un progetto in embrione, a dirci qualcosa in più sulla fine e sul principio dell’opera in versi del poeta livornese.

Dunque qual è – se esiste – l’ultimo autoritratto dell’ultimissimo Caproni?

II.

Nel saggio Sulla poesia moderna del 2005 Guido Mazzoni ha scritto che “la poesia degli ultimi due secoli tende a calcare la natura attimale ed epifanica del monologo soggettivo, come se la frantumazione si fosse diffusa all’interno dell’esperienza stessa e avesse separato i pochi momenti di vita significativa dal corso insensato di un destino sempre uguale”. Il riferimento cardinale di questa tendenza, in ascesa sul finire del Novecento, è naturalmente un poeta come Vittorio Sereni “custode non di anni ma di attimi” nell’ultima raccolta Stella varabile.

Forse, anche per questa ragione, nel XX secolo la pratica artistica dell’autoritratto si è diffusa a macchia d’olio passando dalla precedente ossessione per il volto e lo sguardo (in artisti come Courbet, Van Gogh, Gauguin, Munch) all’astrazione fisiognomica di Picasso o Braque (meno interessati allo ‘specchio’ e più all’artista-artigiano) e ancora, con l’insediamento della fotografia e poi del digitale, alla negazione di forme e pose tradizionali della rappresentazione del proprio essere individuale. Una tendenza quest’ultima che, nella recente e ricca storia culturale dell’autoritratto, il critico d’arte James Hall ha definito “uno spostamento di attenzione dal volto al corpo” tesa a produrre autoritratti a figura intera, autoritratti di corpi nudi, autoritratti condensati in frammenti del corpo che non coinvolgono né gli occhi né lo sguardo dell’artista.

In consonanza con questa spinta, e con alle spalle secoli di tradizione pittorica nel genere della ritrattistica, nel Novecento l’autoritratto artistico diventa persino un mestiere e l’autore si concentra su questa pratica anche per esorcizzare la crisi del soggetto nella contemporaneità. Per questa ragione già alla fine dell’Ottocento, nelle campagne di Arles dove si era trasferito nel biennio 1888-89, Vincent van Gogh aveva cominciato la serie di autoritratti e ritratti che lo avrebbero reso poi celebre in tutto il mondo. L’esplorazione pittorica sulla propria figura, accompagnata dalle cose e dagli oggetti della vita quotidiana, era il segno manifesto di una paura dell’individuo rispetto al senso della durata degli eventi; di un io che avvertiva pericolosa la perdita di contatto con il reale e che per questo si aggrappava allo spazio pieno di oggetti.

La forsennata ricerca della presenza, delle cose e delle persone, aveva indotto un poeta come René Char a scrivere la breve raccolta Les voisinages de Van Gogh (1985) proprio perché Van Gogh aveva espresso il disagio e il rischio dell’estraneazione cercando di ‘immortalare’ gli attimi della propria esistenza. Radicando quegli attimi a terra, tra gli oggetti delle case o nelle campagne, l’artista aveva infatti colto il problema dell’assenza inquadrandolo, e quindi custodendolo, all’interno delle cornici dei suoi quadri. Per la stessa ragione, in merito al ritratto di sé e dell’altro, in una lettera al fratello Theo del settembre 1888, Vincent scriveva: “ciò che fa sì che queste persone rimangano dove sono è appunto il senso della casa, l’aspetto rassicurante e familiare delle cose”. La stessa motivazione, in un certo senso, aveva portato Char a trarre ispirazione anche dalle pitture rupestri di Lascaux nelle poesie intitolate La Bête innomable. E come ho mostrato nel terzo capitolo del libro, sia Blanchot commentando nel 1958 questi versi di Char, sia Bataille nel 1955 attraverso l’analisi delle grotte avevano capito che quei dipinti rupestri – dove l’uomo è raffigurato accanto alla bestia – avrebbero assunto un valore nella modernità perché affermavano la volontà umana di lasciare un segno della propria esistenza dipingendo sul muro la propria immagine come una sorta di sguardo lanciato sul vuoto. Cosa che mi indurrebbe a dire, per consonanza, che il segno del proprio passaggio, la ‘grotta rupestre’ di Vittorio Sereni, equivale al nome di Rimbaud inciso – non ha importanza da chi e quando – su un muro delle piramidi egizie, a testimonianza di un lascito e di un vuoto incancellabili.

L’autoritratto dell’artista moderno di fronte a se stesso (capostipite Van Gogh) e l’esile uomo che guarda la bestia atterrita nel fregio di Lascaux hanno qualcosa in comune se paragonati alla poesia moderna. L’uomo della civiltà aurignaziana aveva ritratto se stesso nell’atto della caccia alla bestia come sforzo di distinguersi dal diverso e per collocare entrambe le presenze – sé e l’altro – nel tempo e nello spazio. Più di altri artisti moderni Van Gogh aveva scongiurato la stessa paura avviando con Gauguin quello straordinario dialogo che sono i reciproci ritratti e autoritratti multipli; in testa a tutti il dittico dei due quadri – proviamo a definirli gli ‘autoritratti vuoti’ o gli ‘autoritratti senza l’io’ – dipinti in contemporanea nel 1888 e rappresentanti l’uno la sua sedia impagliata (La sedia di van Gogh), l’altro la poltrona di Gauguin (La sedia di Gauguin).

A prescindere dal rapporto contrastato che aveva legato i due pittori di fine Ottocento, questo ‘episodio’ della storia dell’arte moderna mi sembra emblematico anche rispetto alla storia della poesia europea del secondo Novecento. Nel 1985, al volgere del secolo successivo, anche Giorgio Caproni aveva risposto alle paure di Vittorio Sereni (Paura prima e Paura seconda di Stella variabile) sentendo la necessità di scrivere un giro di versi intitolato Paura terza dove il tono ironico, gli enjambement posti tra un’autonominazione e l’altra (“Giorgio / Giorgio” e “Vittorio / Vittorio”) non esauriscono il senso di un’operazione più complessa di quanto non traspaia in superficie. Non dimentichiamo che le poesie di Sereni intitolate alla paura avevano accompagnato il ciclo di pitture dell’artista milanese Franco Francese in un libretto che anche Caproni possedeva (pitture rappresentanti la Bestia addosso all’uomo e dipinte nel 1961-62, periodo in cui Caproni e Sereni firmano insieme le traduzioni da Char per Feltrinelli). E che anche quella di Caproni sulla bestia è una ricerca assidua e larvale che muove dagli esordi di Come un’allegoria – attraverso la lettura di Pierre Jean Jouve e della bestia come donna e sessualità intrinsecamente legate al desiderio di morte – per approdare a una ricerca che in molteplici metamorfosi, eclissi e passaggi avrebbe condotto l’autore a ragionare sul ruolo dell’io in poesia.

In un’intervista del 1980, rilasciata a Francesco Scarabicchi e Franco Scataglini, Caproni dichiarava proprio questo: “Nell’altro scoprire se stessi. È difficile distinguere l’io dall’altro ma – nelle ultime poesie che scrivo compare in modo anche paradossale – è sempre la stessa persona”. Alla luce di queste parole, e per chiarezza del lettore, riprendo per esteso il testo di Paura terza citato nel paragrafo precedente:

Una volta sola «Giorgio!
Giorgio!» mi sono chiamato.

Mi è venuto in mente «Vittorio!
Vittorio!»

E mi sono allarmato.

Quando Caproni scrive Paura terza Sereni è morto da circa due anni e, nella raccolta Il conte di Kevenhüller, il testo viene collocato subito prima di una poesia intitolata proprio Lo scomparso e scritta nei primi mesi dell’85. Il contesto è tutt’altro, qui non vengono pronunciati nomi e l’anonimo “scomparso”, protagonista dei versi, potrebbe essere chiunque, persino un passante:

È diventato anche lui
-morto – “uno scomparso”.

[…]

“Scomparso”…

                      Per tutti,

sempre più “uno scomparso”…

                Tra breve lo coprirà la neve

– il piombo – dell’oblio.

(Pari – almeno in questo – a Dio).

Mi sembra di poter affermare che, a differenza di Sereni e di ciò che ho mostrato nel paragrafo dedicato al poeta luinese, all’altezza degli anni Ottanta Caproni non sembri propriamente interessato a fotografare la propria morte, o l’immagine di se stesso dopo la fine. Egli anzi è già dopo la fine. Il suo io non è solo un io già morto, ma quasi un morto che cammina, mentre scomparsi sembrano tutti gli altri: amici, parenti, donne amate, i poeti stessi che sono semplicemente “un niente”. Così almeno in una raccolta come Il conte di Kevenhüller, un libro dove l’io dichiara: “[i]nvano tentai di sfondare / il muro della paura” e dove a farla da padrona – a non scomparire mai – è “la labirintica Bestia / cercata – forsennatamente – fuori” dall’io, sapendo che essa è anche “dentro” l’io.

Questa condizione dell’io è il perno intorno al quale ruotano i brevi frammenti intitolati Quattro appunti scritti nel 1987-88 e confluiti poi nella raccolta del 1991 Res amissa, ma precedentemente apparsi sui giornali: “Son già dove? / Già quando?…”, “Io, già all’infinito distante. / Qui, in questo mio preciso istante.”, “(Io già al di là d’ogni attesa…[…]”, e infine soprattutto il secondo frammento:

Son già oltre la morte.
Oltre l’oltre.
Già oltre
(in queste mie estreme ore corte)
l’oltre dell’oltremorte…

Possono essere letti nella stessa direzione anche altri testi di Res amissa quali, per esempio, Invito al valzer “In Terra di Letteratura. / […] Là non esiste paura” e Fortuna “Non temo la morte. / […] / Non soffro d’insonnia. / Quindi / potrò più che tranquillamente / dormire il mio sonno eterno”.

Ma nel libro postumo del 1991 non compare solo questo io perché a ritornare a monte, per frammenti e per schegge, sono anche gli altri.

Per diverse ragioni è anche possibile affermare che il verso del recto del Conte di Kevenhüller – il ‘negativo’ della fotografia del Conte – è proprio Res amissa, una raccolta che Giorgio Caproni non ha il tempo di curare e di pubblicare autonomamente perché muore il 22 gennaio del 1990. L’idea ce la fornisce l’autore stesso appuntando due importanti note al margine dei dattiloscritti di una poesia intitolata proprio Res amissa e scritta qualche mese prima dell’uscita del Conte di Kevenhüller:

Tutti (senza ricordare da chi) | riceviamo un dono prezioso | e lo riponiamo così gelosamente | da non ricordare più dove, e, perfino | di qual dono si tratti | Res amissa Il contrario del Conte | Centro La perdita.

E ancora, su una stesura successiva della stessa poesia:

Questa poesia sarà il tema del mio nuovo libro (se ce la farò a comporlo), seguito da variazioni, come nel Conte di K.[evenhüller] il tema è la Bestia (il male) nelle sue varie forme e metamorfosi […]. (La Bestia è il Male. La res amissa (la cosa perduta) è il Bene [)].

In una lettera a Gianni d’Elia del 4 dicembre 1986 Caproni aveva raccontato di avere in testa il progetto di un nuovo libro, forse da intitolare Le dissimulazioni, e che la poesia Res amissa, con i versi “La grazia, / così dolce e allemanica / nel porgere”, era nata dopo un soggiorno a Colonia con la figlia Silvana. Questo l’episodio narrato dall’autore: “Io e Silvana siamo rimasti ammaliati […] dalla dolcezza ‘tutta germanica’ di una giovane inserviente dell’Albergo, venuta a liberarmi alle tre di notte dal bagno dove, con terrore, era rimasto rinchiuso”. E poco sopra, nelle medesima lettera, spiegando il secondo verso della poesia in questione: “E che cos’è tale res? […] ‘Venne da me apposta…’ Immagino l’imbarazzo dell’eventuale traduttore, costretto a far precedere da un pronome (maschile? femminile?) il ‘venne’. In realtà, chi venne non lo so nemmeno io. Il lettore immagini a suo libitum”.

La critica si è a lungo interrogata sul significato di una res “troppo gelosamente (irrecuperabilmente) riposta” e le interpretazioni sono state molteplici e avvincenti. Una delle più incalzanti, rispetto all’ottica che ho appena proposto di una ‘non-paura’ del proprio decesso, è quella di Niva Lorenzini che associa la res alla morte stessa. Ma trovando spunto in una lettera di Caproni a Cesare Cavalleri del 1988, nell’introduzione alla raccolta, Giorgio Agamben ipotizzava che la res senza “traccia” – inamissibile e inconoscibile – fosse la “Grazia” stessa in consonanza con il tema agostiniano dell’amissibilità di essa. Nel 1996 Giulio Ferroni ha scritto poi che l’ultimo Caproni “vive contemporaneamente l’esperienza della ‘morte di Dio’ e della fine del viaggio, dell’arrivo fuori dalla meta, del commiato, dell’essere dopo, sottraendola a quella pretesa di fierezza e di assolutezza che domina gran parte della cultura della modernità”.

Ma la res incuriosisce e induce alle più incalzanti riflessioni critiche, e molti altri potrebbero essere gli esempi da citare, anche perché rare e poche sono le testimonianze dell’autore in merito al progetto del libro. Il dato più certo cui attingere è che nel 1988-89, a Lugano, Caproni pubblica tre edizioni di una plaquette intitolata Allegretto con brio (che sarà anche il titolo della prima sezione di Res amissa dopo la dedicatoria per Rina) all’interno della quale è possibile leggere una ventina di poesie della futura raccolta disposte e ordinate secondo il volere dell’autore. Le sezioni riconoscibili in questa plaquette sono due: Allegretto con brio e Altre cose. Ma tutto ciò che verrà ad aggiungersi all’edizione postuma di Res amissa sono carte in parte organizzate, in parte sciolte, e senz’altro molto distanti da un’architettura generale cui, con rigore e solerzia, Caproni si era da sempre dedicato nella costruzione delle proprie raccolte.

Nel 1991, sarà l’amico e filosofo Agamben, al cui pensiero Caproni si sentì molto affine negli ultimi tempi della vita, a unire e riconcepire in un’unica raccolta i diversi materiali di cui si disponeva: la plaquette Allegretto con brio, altre poesie sparse uscite su rivista, un corposo fascicolo composto da numerosi “foglietti non legati” (che nel Meridiano di Caproni verrà individuato come il 12° 1-270) e altre carte. Il fascicolo principale era suddiviso in quattro sotto fascicoli provvisori intitolati da Caproni 1° Passabili (qui); Altre stesure, rifiutate; Versicoli e altre cosucce / tutte da ordinare e rivedere; Abbozzi e da rifare. Ad essi si aggiunge “un fascicoletto […] anepigrafo” e nove poesie tratte da una “Cartella Verde” separata. Nell’introduzione al nuovo libro, Agamben dichiarava di aver proposto “un testo congetturale” che riportasse “in nota la trascrizione del testo” senza per questo essere un’edizione critica. Res amissa appariva così una raccolta d’autore con una propria architettura organica e interna che poteva assumere anche la forma del ‘testamento postumo’ del poeta livornese. A breve distanza Luigi Surdich avrebbe notato che, per quanto importante e ricca, l’operazione di Agamben poteva “suscitare dubbi e perplessità, affidat[a] com’è a una scelta non d’autore, ma di curatore, scelta giustificabile (più che giustificata) da affinità tematiche”. L’ultimo libro di Giorgio Caproni “non può non risultare, per necessità, un ‘non-libro’, nel senso proprio che Caproni aveva esemplato magistralmente dal Muro della terra in avanti”. E Surdich intendeva “assenza dell’io” come “assenza di organizzazione” interna che nel Conte di Kevenhüller è assenza allegorica, risolta nella simulazione teatrale; in Res amissa è assenza vera, quindi irrisolta.

Nel 1998, con la pubblicazione dell’Opera in versi per Mondadori, Luca Zuliani tornava a ragionare sugli stessi autografi e ne offriva un’edizione diversa di Res amissa spiegandone in dettaglio le ragioni nell’Apparato critico. In sintesi osservava che l’indicazione di Caproni in merito all’ordinamento delle poesie per la nuova raccolta “si ferma appena alla seconda poesia, fornendo il titolo della sola prima sezione, Allegretto con brio” i cui testi sono conservati nel sotto fascicolo intitolato Passabili all’interno del quale è possibile, “faticosamente”, individuare altre due sezioni: Res amissa e Anarchiche”. Ma, proseguiva, “[p]er tutti gli altri testi (novantanove su centodiciotto complessivi) non esiste un ordinamento dell’autore”. Per questa ragione Zuliani decideva di suddividere la raccolta in cinque sezioni così disposte: Complimento (che riporta, come faceva Agamben, la sola dedicatoria Per l’onomastico di Rina, battezzata Rosa), Res amissa, Anarchiche: fin qui il volere dell’autore è ravvisabile; e, a seguire, la sezione più ampia “sotto il titolo (arbitrario) Altre cose”. Tale sezione comprende tutte le altre poesie contenute nelle carte a disposizione e, come nelle sei partizioni autografe, è suddivisa tramite numerazione romana in sei parti che secondo Zuliani devono apparire nell’ordine in cui compaiono nelle carte.

Un dato particolarmente significativo mi sembra soprattutto quello che indica numericamente quante sono le poesie che Caproni ‘ripesca’ dal cassetto. Secondo i calcoli di Zuliani “all’incirca la metà dei testi di [Res amissa], contro meno d’un decimo (meno d’un ventesimo non considerando le poesie rielaborate) nel volume precedente [Il conte di K.], è recuperata dal materiale utilizzato per le altre raccolte”. Si tratta, come spiega il curatore del Meridiano, di una risistemazione delle carte alla quale operò Caproni negli ultimi anni riprendendo in mano e trascrivendo gli abbozzi delle sue migliori poesie inedite successive al Congedo del viaggiatore cerimonioso § altre prosopopee, e appuntandone quando possibile la data di composizione. E già Surdich faceva notare nel 1991 che rari, ma almeno quattro, sono i componimenti probabilmente riferibili agli anni Trenta e Quaranta.

Il lavoro filologico che ho brevemente ricostruito – e che tiene conto tanto delle singole parti quanto delle ipotesi strutturali – lascia la possibilità di comprendere più a fondo il termine ultimo verso cui tende l’opera di Giorgio Caproni.

Qual è realmente, per riprendere una felice formula usata da Biancamaria Frabotta a proposito degli ultimi libri scritti in età senile da un poeta, l’estrema volontà dell’autore?

A differenza del Conte di Kevenhüller, Res amissa (nella versione di Agamben come in quella di Zuliani) è ricolma di nomi che affogano nella pagina bianca e che naufragano sparsi tra le pagine del libro.

Credo che questa poderosa presenza di nomi indichi la volontà di tratteggiare il ritratto di sé e dei propri ‘cari’ (Oh cari) recuperando immagini del passato e di una vita da una stagione poetica senza memoria che inizia con Il muro della terra. O meglio, credo che il libro postumo di Caproni esprima l’urgenza di riprendere in mano – attraverso l’azione dell’autore che per certo trascrisse gli abbozzi del passato in vista di una futura pubblicazione – tutto ciò che nell’architettura delle raccolte pubblicate dopo il Congedo del ’65 non poteva strategicamente rientrare nella nuova idea di poesia. E questi ‘pezzi’ di memoria dove compaiono nomi e luoghi di un passato pubblico e privato – espunti per coerenza interna da quei libri in cui l’io entra drammaticamente in conflitto con sé, con gli altri e con la storia – ritornano e rientrano nella res amissa come ritagli di un ‘album’ di fotografie chiuso da tempo.

Ma la fotografia, di per sé, può aiutarci a cogliere il senso che assume il recupero di immagini e abbozzi del passato dentro un’opera in versi?

Il più noto ritratto fotografico dell’ultimo Caproni è quello del ciclo di scatti in bianco e nero (Intimi ritratti) che Dino Ignani ha riservato al poeta di Livorno negli anni Ottanta e che lo ritraggono nella sua casa romana di Monteverde, dietro la scrivania, con accanto il violino (ed è curioso, se si fa caso, che in alcune di queste immagini, sullo sfondo della stanza, compaia il dipinto, forse un Gentilini, di una sorta di grande e astratta bestia). Sono fotografie che hanno avuto molto successo nelle copertine dei libri di Caproni e che hanno la funzione preziosa di dare un volto al nome, anche per chi non ha conosciuto quel volto. A proposito di fotografia, nel 2014, Ferdinando Scianna ha condensato in Visti § Scritti un’affermazione a lui molto cara: “La massima ambizione di una fotografia è finire in un album di famiglia”. In questo libro Scianna cataloga gli incontri che ha avuto nella vita – dai quali sono scaturiti ritratti a personaggi pubblici e privati (celebrità della politica, dello spettacolo, della letteratura, e alla stessa stregua parenti stretti e amici) – come luoghi di senso che fanno del pubblico e del privato il nostro immaginario collettivo. L’album di famiglia è dunque una sorta di preservazione dell’‘istante importante’ la cui caratteristica sociale è quella di guardare il mondo per scegliere e misurare; di creare una triangolazione tra l’io, l’altra persona che si sta fotografando e l’azione di un terzo spettatore-protagonista che riconosce quell’oggetto come un ritratto.

Come libro di versi Res amissa mi sembra risponda a una dinamica simile. Esso è anche un tentativo continuo di dipingere ritratti e autoritratti in versi con l’aiuto di vecchie fotografie, vecchi ricordi di amicizia e di famiglia che più vengono scattati, o cercano di essere ‘immortalati’, più vanno perduti. Non è vero che le parole si nutrono del solo vuoto o del solo nulla che le circoscrive e le indirizza. Attorno a esse ruotano frammenti di un’esistenza reale senza i quali sarebbe impossibile costituire tanto la poesia quanto la forma. Ma è altrettanto vero che si tratta di “cartoline” ingiallite e giunte da distanze siderali (“Ti mando questa bella / – gialla – cartolina / da Vega, ch’è la stella, / dicono, più vicina)”; di ritagli di sopravvivenza quotidiana destinati a inquadrare una visione scomposta del soggetto lirico. Un soggetto ormai imprendibile che è fuori dal disegno e che non riesce a custodire neanche gli attimi che cerca di catturare se non attraverso l’illusione del suo doppio, o la maschera del nome. Nome proprio o nome degli altri. E nel tardo Caproni sempre più segnali d’allarme di un’assenza del nome che vanifica le cose.

Eppure il pericolo dei nomi, in grado di vanificare cose e persone, qui non significa “inesistenza” degli altri. Res amissa non corrisponde pienamente a “un paesaggio ormai del tutto vuoto di figure”, come teorizzato da Agamben. Grazie alle poesie recuperate dal passato, le figure con nome che vanno a finire dentro la raccolta più ampia di Giorgio Caproni, che è proprio quella postuma, sono decisamente molte. Eccole nell’ordine in cui appaiono nell’edizione proposta da Zuliani: la moglie Rina Rettagliata (alla quale sono dedicati tre testi di Res amissa), Sigmund Freud, Paul Verlaine, la sorella Marcella (due testi in Res amissa), la figlia Silvana, il padre Attilio, il fratello Piero (con due testi a lui rivolti), il poeta Franco Costabile, Pier Paolo Pasolini (due testi a lui dedicati), l’amico d’infanzia Vittorio Zanicchi, Eugenio Montale, Antonio Debenedetti, Giuliano Gramigna, l’amico Clemente Fabiani, René Char, Mario Luzi, Ettore Serra, Dante (ricordato in due diverse poesie), Camillo Sbarbaro, indirettamente Charles Baudelaire, Johann Sebastian Bach, Torquato Tasso; persino gli oggetti (si pensi alla poesia L’Alfa dedicata all’automobile acquistata e agognata per una “intera vita”) e persino i luoghi tornano su un palcoscenico allestito per cancellarli (ed è vero come ha scritto Adele Dei che sono luoghi scoloriti e appiattiti “come in una vecchia fotografia”). Ma non andrò oltre nell’elencazione di questi dati perché al lettore basterà scorrere le poesie di Res amissa per accorgersene da solo.

Tra i nomi degli altri – i tanti “smarriti – disabitanti” sparsi tra poesie In lode del “Singolo e un Dio da tempo inesistente – in Res amissa c’è anche il proprio nome. E non è un fatto banale.

Se si fa caso, infatti, il nome del poeta, raramente e strategicamente pronunciato nelle diverse fasi dell’opera in versi (si pensi soprattutto all’invocazione lanciata da Annina a “Giorgio” ne L’ascensore e ai versi “Because my name / is / George” del Muro della terra), compare tre volte tra i testi confluiti nella raccolta postuma: “Maestro di contorsioni. / Tal è Giorgio Caproni?” e “Giorgio, non ti esaltare. / Tutto rimane ancora / (ricordalo!) da dimostrare”, così nel testo che segue all’Epigramma dedicato a Montale intitolato In pieno trionfo. Ma in questi due casi il nome rifugge sia l’immagine (la cosa) sia la persona (il nome stesso), mostrando l’autonominazione come azione circolare e tautologica.

Una terza poesia, invece, mi sembra fuoriesca per un istante da questi binari nella direzione di custodire, illusione data dall’‘attimo’ e dalla pronuncia del nome, il proprio corpo che invecchia. È un giro di versi nel quale – in linea con le tendenze dell’autoritratto di cui parla James Hall nella contemporaneità – l’autore nomina e ritrae se stesso senza volto, davanti allo specchio, con il solo corpo stanco. Si tratta di un testo che Agamben non include in Res amissa e che Zuliani recupera dal fascicolo Altre stesure, rifiutate e isola nella IV sezione di Altre poesie:

Vogliti bene, Giorgio,

vogliti tutto il bene

che nessuno che ti vuol bene

ti vuole.

               Accarezzati

il povero corpo magro

che nessuno più accarezza.

Questo autoritratto poetico per nulla rassicurante – e piuttosto ‘anomalo’ nel Caproni giunto da anni alla prosopopea – mi sembra il precursore al rovescio, ‘il negativo’ fotografico, del selfie. Un genere che, in breve tempo, da pratica sociale è divenuto pratica artistica, coinvolgendo l’uso del digitale non solo nella sfera dell’arte visiva. Una forma rassicurante e democratica di autoritratto attraverso la quale ci convinciamo che eravamo, e dunque siamo, quella o questa cosa, in quello o in questo istante. Ma il tentativo, autoironico e in limine patetico, che compie Caproni nel ritrarre il proprio corpo magro e invecchiato, senza saperlo, smaschera questa pratica perché il poeta afferma che la sua più grande paura è non avere più nulla da dire. In questa poesia ritorna la presenza del corpo, una fisicità della quale – riferendosi al femminile nel primo e medio Caproni – Enrico Testa ha voluto giustamente riportare in luce l’importanza nella premessa alla recente ristampa del Terzo libro” e altre cose. Qui, invece, non più l’immediatezza e concretezza delle donne che sfilavano nei versi precedenti al Congedo del viaggiatore cerimonioso. Ma il corpo anziano e solo, strano superstite di un viaggio che lo aveva ibernato e che ricorda quanto mai la sua lunga assenza e l’assenza degli altri. Un desiderio antico che ritorna a se stesso ed è figura del pensiero, come lo era in Leopardi (non viceversa). E che fa dunque dell’ultimo e calmo Caproni un poeta della ‘vita non rassicurante’ (come non sono rassicuranti né la lingua né la morte), e dove la vita non si annulla nella sola parola.

Sarebbe tuttavia insensato attribuire a questo solo testo – un testo senza alcun dubbio marginale rispetto ad altri versi di Caproni – la responsabilità di ritrarre l’ultimo, e insieme il primo, Giorgio Caproni. Ma non credo sia insensato ammettere che sono due le forze che spingono all’estremo, e verso la fine, la poesia di Res amissa e la poesia stessa. L’una è la spinta preponderante che lega Caproni alla riflessione sulla parola, la voce, il linguaggio (avviata già nel 1946-47 in articoli usciti su “La Fiera letteraria” e nell’ultimo periodo legate, con ogni evidenza, al pensiero di Agamben). L’altra è la spinta latente che ripropone, senza possibilità di negazione assoluta da parte della lingua e del pensiero, l’esistenza residuale degli altri e dell’io. E che così facendo ripropone diversamente il principio alla fine. Una spinta che forse avrebbe anche indotto il poeta a lasciare alcune poesie dentro il cassetto senza pubblicarle. Ma una forza che esiste, visto il lavoro organico di recupero di testi antichi compiuto dall’autore stesso per la raccolta Res amissa.

Ragionando su ciò che rende classica e creativa una scrittura letteraria al di sopra di ogni epoca, di recente Alberto Casadei ha scritto che “la valenza più importante di una grande opera è quella di spostare i confini prestabiliti, di aprire le frontiere tra l’ignoto e il noto (sia nell’inventio dell’autore che nelle ricezioni dei lettori di ogni tempo), di trasformare in cultura, ovvero in stile, l’azione esteriore e interiore dell’entità che chiamiamo natura”.

Quanto alla valenza classica e creativa di un singolo testo credo che essa abbia a che fare con il potenziale ritrattistico, e auto-ritrattistico, che il singolo testo possiede. Tanto più se la possibilità di riconoscere un ritratto in quanto tale è data da chi lo esegue, dall’oggetto del ritratto e da chi, in quanto soggetto terzo e spettatore, lo osserva e lo riconosce come tale. La stessa triangolazione che dovrebbe tenere legato il poeta, il libro e il lettore, come accade anche quando si osserva un ritratto d’autore. Se, per estensione, il ritratto di una poesia è anche il libro nel quale tale poesia è contenuta, anche il volto di un autore varia da libro a libro, da poesia e poesia. Ma resta, sempre, il frutto di un nome preciso.

Per estendere la formula di Vittorio Sereni potremmo dunque dire che anche i libri di poesia sono ‘attimi oggettivi’ delle poesie stesse? Può darsi, e non è necessariamente un male (soprattutto per chi tenta la sempre più ardua scalata dell’esordio) se il web o il digitale possono aiutarci a promuovere quegli oggetti palpabili che restano i libri purché, come lettori, possiamo ancora scegliere e identificare un libro di versi con il ritratto – anche postumo, anche già superato – dell’autore che li ha scritti. Con lo stile e con la natura che lo contraddistinguono.

È proprio nella dialettica, così a lungo scandagliata, del rapporto tra la cosa e il nome che mi sembra risieda la natura profonda e la natura viva – come ho avuto modo di dire nel capitolo sull’infanzia – di un libro e del suo autore. Un nome, quello di Giorgio Caproni, che è indiscutibilmente tra i pochi protagonisti veri della poesia del Novecento europeo. E anche un nome che prende senso in tutta la sua interezza perché i suoi versi e le sue carte accendono il desiderio di conoscere altri nomi e altri libri. Cosa che non tutti i poeti, non tutti i libri di poesia, sanno fare.

In poesia questo distingue un autoritratto da un selfie. Vedere in sé non Narciso allo specchio ma la potenzialità conscia e inconscia di un atto che a partire dall’attimo va oltre l’azione istantanea e va verso qualcun altro. Ecco perché questo libro ha un nome, non solo un titolo, Giorgio Caproni e gli altri.

[Immagine: Giorgio Caproni (foto di Dino Ignani)]

5 thoughts on “Giorgio Caproni e gli altri

  1. Caproni è stato un poeta dove la qualità aumentava di raccolta in raccolta e, infatti, a me piace molto a partire da una certa stagione… Molto interessanti anche i saggi raccolti ne “La scatola nera” . Grazie, Elisa Donzelli…

  2. Anzi, in questa raccolta di saggi di Giorgio Caproni, cui alludo, trovo il giusto appoggio (così come in Dante: “nulla cosa per legame musaico armonizzata si può de la sua loquela in altra trasmutare sanza rompere tutta sua dolcezza e armonia”; o in Montale) per una mia polemica nei riguardi di quei lettori (critici, poeti – ogni poeta di una certa consapevolezza è sempre un critico già solo limitandosi a scrivere testi in proprio, che presuppongono una scelta e un giudizio – o appassionati che siano) che leggono poesie come si legge la prosa molto narrativa, o il saggio, o lo scritto filosofico o, perfino, l’articolo di cronaca. Quelli che non sentono la compenetrazione fra suono e senso: il ritmo che trasporta la parola oltre il segno d’un codice convenuto…

  3. P.S. Ovviamente, il modello ancor più chiaro della necessità di musica profonda (da non confondere con la semplice musicalità) è nell’intera opera poetica di Caproni…

  4. Andrea, se posso permettermi, se un lettore davanti una poesia legge come se fosse semplice prosa vuol dire che, molto probabilmente, non sa leggere un componimento poetico, cosa fondamentale se si vuole apprezzare la sua bellezza.
    Saluti
    AL

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