di Emiliano Morreale
[Dal 25 dicembre al 6 gennaio LPLC sospende la sua programmazione normale. Per non lasciare soli i nostri lettori, abbiamo deciso di riproporre alcuni testi e interventi apparsi nel 2011, quando i visitatori del nostro sito erano circa un quinto o un sesto di quelli che abbiamo adesso. È probabile che molti dei nostri lettori attuali non conoscano questi post. L’articolo che segue è uscito il 7 dicembre 2011].
Le osservazioni disordinate che seguono si mantengono al di sotto di ogni teoria, sul piano della cronaca letteraria o meglio dei piccoli consigli. Si tratta in breve di una guida personale, di buoni propositi, in cui si mescolano idee semi-teoriche e brute analisi di costume. Piccole regole da riscrivere e riverificare a seconda delle situazioni, anche se le linee di fondo mi pare valgano in generale per una situazione che è quella emersa dagli anni ‘80, ossia la definitiva entrata della cultura nella “società dello spettacolo”, il trionfo della comunicazione, l’ineludibilità della dimensione di massa fin dentro gli angoli dell’opera più altera e solitaria. E, secondariamente, c’è alla base la constatazione che oggi, in Italia e non solo, la situazione della critica sia gravissima. Le periodiche diatribe sulla crisi della letteratura e del cinema e sulla loro rinascita, ad esempio, nascondono un dato di fatto brutale: che a essere in una crisi irreversibile, anzi quasi scomparsa, è proprio la critica. Non sono certo gli artisti a mancare, oggi in Italia, ma gli interlocutori, i mediatori–non–funzionari. Una cosa che chi non frequenta le raccolte di saggi, le antologie e le emeroteche non può immaginare, sono le dimensioni della scomparsa della critica. Se ci si trova a leggere recensioni cinematografiche e letterarie anche italiane fino a un paio di decenni fa, ci si trova spesso davanti a descrizioni articolate e soprattutto nette, leggibili. Riflessioni, personali e discutibili certo, ma nel merito del lavoro degli artisti. Anche gli onesti artigiani settimanali della critica letteraria o cinematografica o teatrale vedevano come compito il raccontare e valutare in maniera appropriata, precisa. Chi si sforza di leggere, capire e spiegare un’opera si trova in un’oggettiva situazione di minorità e di opposizione rispetto al sistema della comunicazione.
1. Una certa mobilità intellettuale. Per decenni, le generazioni di giovani critici e intellettuali si sono formate quasi esclusivamente a contatto con veri feticismi metodologici, e quindi con una secca separazione tra i testi e la vita. Personalmente ho avuto a che fare con giovanissimi aspiranti specialisti, talvolta semplicemente inorriditi all’idea di una qualche prosecuzione (conseguenza, applicazione) di ciò che studiavano nella loro maniera di vedere le cose, di leggere la realtà, di muoversi nella società. Il tentativo di rifuggire dagli specialismi è doveroso per tutti – tranne forse che per i giornalisti, per i quali dovrebbe essere un dato di partenza da emendare – ed è stato più volte invocato negli anni, ma lo si potrebbe anche declinare in maniera più precisa, comportamentale, nel senso di tenersi al di fuori delle logiche autoreferenziali, di non farsi intrappolare nelle polemiche e gratificazioni dei propri micro-ambienti. Per evitare di impantanarsi nello specialismo e nel discorso delle conventicole, di scrivere lanciando messaggi trasversali, bisognerebbe anche praticare una certa mobilità intellettuale. Essere davvero competenti in un settore aiuta a capire cosa è la serietà, e a capire cosa significa studiare prima di parlare. Ma bisognerebbe coltivare delle posizioni esterne da cui guardare al proprio lavoro, se non altro per sentirsi lievemente a disagio, estranei in ogni situazione troppo chiusa. L’ideale sarebbe sentirsi per qualche secondo un po’ sociologi quando si è tra i critici letterari, o, quando si guardano i film, ricordarsi che alcune cose le dice meglio il fumetto. Anche per non accontentarsi della realtà delle singole arti così come sono. Detto in altro modo, e ampliando lo sguardo, questo si potrebbe anche chiamare radicalità. Appunto: non accontentarsi dell’esistente. Chiedere molto al proprio oggetto di studio (che è, si spera, anche un oggetto di amore e talvolta d’odio), atteggiamento che può addirittura essere salutare come visione del mondo, e che dovrebbe essere l’atteggiamento nei confronti del mondo che ci circonda, nel suo complesso.
2. I ferri del mestiere. In apparenza, le due grandi vie quando si fa critica sono o la via interna (smontare l’opera, spiegarla iuxta propria principia, mostrarne il meccanismo) o quella esterna: chiarire il contesto, trovare efficaci punti da dove guardarla e collegare con altri testi, altri luoghi, momenti storici. Un metodo diciamo analitico e uno comparativo. Ma a ben vedere, si può azzardare che la critica è sempre comparativa (il celebre “only connect”). Solo che nel caso della critica analitica i termini di paragone sono stati raccolti, asciugati e ridotti a strutture o a funzioni. Gli strumenti dell’analisi non discendono per via deduttiva dall’ordine delle idee, ma hanno a monte un lavoro di raccolta, analisi: impuro e storico. Allora la conoscenza dei “ferri del mestiere”, delle correnti e dei gerghi letterari, è spesso solo una scusa per non incontrare direttamente le opere ma i loro fantasmi. E le connessioni che si possono fare direttamente hanno sempre un altro sapore, un’altra sorpresa, rispetto a quelle comparazioni mediate e raffreddate che sono le sussunzioni in un sistema.
3. La curiosità necessaria. Siccome non c’è da fare molto affidamento sulla virtù sublime e pressoché estinta della generosità (e anzi l’egoismo e il narcisismo temo possano essere considerati, nel campo di cui parliamo, quasi alla stregua di malattie professionali, o di prerequisiti), rimane pur sempre molto da puntare sulla curiosità. La capacità di trovare cose nuove, che ci sono, di muoversi. Anche fisicamente: è incredibile quanto poco si spostino all’interno dell’Italia gli intellettuali. Credo che la metà dei critici cinematografici non sia mai stata in Sicilia o in Calabria per più di un weekend. I registi e gli scrittori comunque si spostano di più, e forse è uno dei motivi per cui sono spesso più reattivi.
4. Un dovere morale. Non so se gli artisti debbano preoccuparsi della coerenza personale; forse possono farne a meno, e talvolta possono veder riscattare le miserie personali dagli esiti della propria arte. Ma credo che gli intellettuali, i commentatori e i critici, proprio perché non hanno l’alibi dell’arte, abbiano qualche dovere morale in più. (Forse anche per questo motivo, sempre più critici amano vedersi come artisti: perché immaginano segretamente che con questo avrebbero meno piccole responsabilità quotidiane, personali). Con un paradosso si potrebbe dire: per essere artisti non è necessario essere brave persone, ma per essere degli intellettuali sì. Mi spiego: civettare con i media, la politica, le conventicole forse fa male a tutti, ma è immediatamente esiziale per chi cerca di capire le opere, perché lo rende terminale e referente di idee ricevute. Perché in qualche modo quando frequenta, discute, spiega sta già facendo il proprio lavoro. Ed è molto difficile che i piccoli compromessi che il salotto, l’istituzione o i mercato istillano periodicamente restino senza conseguenze per l’igiene mentale.
5. Contro il neo-dandysmo. Va di moda oggi il terzismo, l’intellettuale che spiazza (magari citando Camus e Simone Weil e avendo buon gioco contro i peccati degli intellettuali comunisti del secolo scorso), o civetta con il cattolicesimo come i decadenti francesi di cent’anni fa. In questi casi viene brutalmente da chiedersi quanto sia comodo questo atteggiamento, che cosa ci guadagna e cosa rischia chi lo pratica. Se rinascessero oggi, i salutari immoralisti, i dandy e i camp d’un tempo, sarebbero dei moralisti addolorati (in parte lo sono anche diventati, come Arbasino da Un paese senza in poi). I grandi critici, da Flaiano a Edmund Wilson, da Chiaromonte a Frye, da Garboli a Kracauer, sono stati insieme degli spiriti liberi e dei grandi moralisti. Negli anni ‘50, e ‘70, e magari ‘80, rifiutarsi alle ideologie più invadenti e alle “grandi narrazioni” era un gesto coraggioso. Ma oggi il neo-dandysmo è, semplicemente, l’atteggiamento più conformista e remunerativo per chi scrive di cultura e d’arte.
6. Una questione di stile. In tempi di Internet, può risultare strategico tornare a curare lo stile. La scrittura, intanto, giacché bene o male il critico attraverso le parole si esprime. Il rifiuto della frase morta. Ma anche il passo, il tempo del proprio pensare. Stile è una bella nozione, perché in sé riunisce l’estetica e l’etica. Ed è una dimensione che, dopo il crollo delle Grandi Teorizzazioni e dei Super Metodi, dalla semiologia allo strutturalismo, finisce con assumersi un carico fin troppo pesante. Non quindi cercare una propria cifra riconoscibile, un marchio, ma piuttosto avere la responsabilità della propria retorica, delle proprie retoriche, stare attenti a tic e automatismi e darsi un minimo di pazienza nei percorsi mentali, nelle associazioni. Una moda del tempo dei blog è quella della scorciatoia, della battuta tutta rivolta all’immediata definizione, allo slogan. Si tratta certo di esibizionismo, che riguarda le patologie della folla solitaria davanti al computer: e magari, la ricerca di piccole tribù attraverso il gergo. Ma in questo modo Internet ci mette anche davanti al problema, sempre presente per un critico, di gestire le proprie idiosincrasie e i propri narcisismi. La rete ha dato sfogo in maniera diffusa al lato oscuro della pratica critica. In questo modo, possiamo vedere con particolare chiarezza quali sono i rischi: in qualche modo siamo tutti blogger, in potenza o per pochi minuti al giorno. Il che dovrebbe suscitare un impegno nella direzione opposta, ossia nel riempire di spessore, argomentazione e raziocinio il proprio lavoro.
7. Nemici. Non si è mai troppo superiori ai propri nemici, diceva uno scrittore. Per questo bisogna sceglierli con intelligenza e passione. Sono molto tristi certe battaglie di fioretto e di sciabola che i critici intraprendono, sprecando salve di indignazione, contro nemici di cartone, tanto da dare l’impressione di pure esibizioni, anzi di storno d’attenzione del lettore. Spesso la polemica migliore è con chi ci è quasi vicino, quella che contiene dei grani d’autocritica o che quanto meno non spinge a sentirsi troppo separati e migliori.
8. Identità locali. La generazione dell’Erasmus e dell’Inter-rail ha prodotto una sorta di fascia trasversale di simili, indistinguibili da nazione a nazione, più o meno con la stessa cultura, gli stessi gusti, le stesse facce. A questo punto, può essere salutare rivendicare delle radici locali, l’interesse verso le realtà più prossime. Il “di più” che gli uomini di cultura italiani possono dare sta proprio nel peso che portano in quanto italiani, nella necessità di decifrare i cortocircuiti e le interazioni tra le pratiche artistiche e un luogo. Occuparsi dell’Italia è, per i critici, anche un dovere. Una prospettiva internazionale (e storica) serve ancora una volta a ridimensionare la portata dei dibattiti interni, ma i grandi maestri della critica sono stati anche e soprattutto, con fastidio e con angoscia, uomini di questo paese.
L’essere italiani dà poi, a saperlo sfruttare, un altro vantaggio. Quello di provenire da un paese di recente modernizzazione, in cui i conflitti tra il vecchio e il nuovo si possono sentire fino alle ultimissime generazioni. Anche i ventenni sono cresciuti a contatto con lacerti ultimi di realtà quasi pre-moderne, unite a versioni da terzo mondo dei media. E questa è una grande fortuna, in fondo: perché ha prodotto una dolorosa coscienza di sé, anche in artisti e critici delle ultime generazioni. L’essere semi-cyborg è qualcosa che può essere una tragica fortuna (e che, ormai, si ritrova con più facilità tra gli italiani del Sud, o della provincia). Sapere con precisione chi si è, quanto si è provinciali, aiuta a non farsi illusioni e a creare strategie di riacquisizione e “riuso creativo” di quelle merci culturali che invece ormai sono, lo si voglia o no, uguali per tutti.
9. Un punto di partenza. Lo stesso discorso fatto sul dandysmo intellettuale vale per l’atteggiamento nei confronti della cultura di massa. Chi si illude oggi che sia ancora eretico gridare “La corazzata Potemkin è una cagata pazzesca”? Il nuovo conformismo prevede mille cautele e qualche amo gettato per le rivalutazioni in vita, perché domani non si sa mai, un libro, una retrospettiva, il recupero di un fenomeno paraletterario… Anche qui, l’indifferenza o l’ironica delibazione dei prodotti di massa non è segno di apertura mentale. Il fatto che, come diceva a suo tempo giustamente un grande critico, “i film nascono liberi e uguali”, non è una conquista da affermare, ma un dato di fatto, dal quale partire, per discernere. Altrimenti il rischio è quello del “manifesto” o di “Extra”, la grande pappa. E come far capire, allora, che i Simpson, i cartoni della Pixar sono un grande prodotto culturale, la serie Boris è una commedia acuta e intelligente, mentre il 99% della musica pop, del cinema italiano e americano, delle sitcom e fiction e miniserie è tranquillamente immondizia?
10. Per chi si fa critica? E con questo ci avviciniamo a quello che è forse il tema decisivo: il pubblico. È un problema, temo, che artisti e critici hanno in comune, ma è anche quello che segna una delle più istruttive differenze tra loro. L’esistenza di una fitta rete di destinatari ideali, generazionali o sociali, e dello scopo che si cerca di ottenere. A questo punto, però, per i critici si impone, lo si voglia o no, il problema della comunicazione. Che è, come sappiamo, spesso fonte di impedimento e corruzione per gli artisti più radicali (a meno che non tentino quella via encomiabile del confronto con il pubblico di massa, e ci riesce uno su un milione). Ma è anche, invece, la ineludibile dimensione dei critici, il cui compito paradossale è anzi forse di difendere, attraverso la comunicazione, gli spazi di “fuga dalla comunicazione” e dallo spettacolo degli artisti migliori.
Per chi si fa critica, dunque? Verso chi, o in nome di chi o di cosa? Cosa valuta i giudizi, li fonda idealmente? Certo, il super-Io è passato di moda da diversi decenni, il “mandato dell’intellettuale” ci fa sorridere, ma il problema rimane. Ed è comune, anche stavolta, a critici e artisti, e in molti sani casi nutre sensi di colpa, indignazione, moralità, ricerca. Non ci si può trincerare (per fortuna) davanti all’idea di un’alleanza con coloro che un tempo si chiamarono gli oppressi. Il che significa in qualche caso meno alibi e meno malafede, ma anche il rischio di altri e nuovi alibi alla propria chiusura, morale e culturale. Alcuni libri possono, o potevano, fondare una percezione del mondo che diventava più importante delle ideologie. Si può dare corpo e sangue alla propria visione degli uomini leggendo Martin Eden, La Storia, Il primo uomo, L’isola del tesoro, La classe operaia in Inghilterra… o guardando Zero in condotta, Lo zio di Brooklyn, Nostra signora dei Turchi, Europa 51. Ma è possibile oggi dare una qualche consistenza a coloro che ci sembrano i destinatari di un discorso sensato? La prima risposta che mi viene in mente giace nel paradosso, ed è: i futuri cittadini, i “nuovi arrivati”. Ossia: da un lato le nuove generazioni, e dall’altra gli immigrati. Coloro, tra l’altro, che non hanno voce in capitolo e che sono più fuori dal circo dei media e nello stesso tempo ne sono più vittime. E se, in questa direzione, il problema della critica non fosse troppo dissimile dal problema di cosa significa essere di sinistra? Critica e sinistra come due concetti del secolo scorso, coi quali non sappiamo più bene cosa fare?
Una premessa pessimistica che può paradossalmente consolare viene proprio dalla constatazione della vanità della lotta politica attuale. Il lavoro culturale sembra più decisivo e perfino più urgente della lotta politica, perché la barbarie che ormai serenamente accettiamo e alla quale in varia misura contribuiamo non può in nessun modo essere eliminata con l’arma diretta del confronto politico (e da chi, poi?). E la dilazione o la rimozione di un lavoro culturale profondo e paziente rischia di trasformare ogni eventuale piccola vittoria della politica e della società civile sul peggio del nostro tempo in un’illusione, o addirittura in un involontario passo verso un disastro umano, che lascia sempre meno margini di intervento, di pensiero, di vita.
[Immagine: Biennale d’Arte 2011, padiglione Italiano].
Mi meraviglia l’assenza di commenti a questo articolo che è una delle analisi più lucide, chiare e dirette che io abbia letto da molto tempo sulla critica, sulle sue basi e suoi suoi fini. Ciascuno dei dieci punti apre molte discussioni da cui partire per una riflessione onesta e senza bende sugli occhi.
Tra tutti i punti, ognuno dei quali mi attira per motivi diversi, scelgo, perché ci vedo un’immediata analogia con la mia esperienza, l’ottavo, sulle identità locali. L’analogia riguarda la mia esperienza con la narrativa anglo-indiana. Anche se in proporzioni e con modalità assai diverse, India e Italia sono due paesi in cui la tradizione convive con e si sovrappone al nuovo. Gli scrittori indiani che scelgono di scrivere in inglese (e già questa è una scelta significativa, non solo dal punto di vista economico) della società indiana e gli artisti che scelgono di adottare tecniche e linguaggi (pittura, scultura) propri dell’arte occidentale per tra-durrre contenuti dell’antica tradizione e della cultura indiana, affermano la propria identità anche attraverso la messa a nudo dei conflitti, spesso drammatici che il vecchio e il nuovo producono nella loro collisione.
Hanno fatto, del conflitto, la loro ricchezza e il loro serbatoio creativo. Piaccia o meno, questo è quanto ci viene dal laboratorio-India.
In Italia, in proporzioni minori, esiste un analogo conflitto. Ha ragione Morreale. Ancora molto evidente in alcune zone. Ma non c’è la coscienza di quanto questo possa trasformarsi in officina e laboratorio. Un’ipotesi sul perché questo avvenga potrebbe legarsi al senso di inferiorità e di inadeguatezza che l’invenzione del conflitto Nord/Sud ha artificiosamente generato.
Sono solo spunti i miei, riflessioni a caldo, ma trovo l’articolo interessantissimo e mi piacerebbe leggere altri commenti.
Qualche anno fa, scrivendo questa breve nota, partivo proprio dal fantozziano giudizio su “La corazzata Potemkin” . La riporto qui, in sintonia con quanto argomenta con lucida, esemplare semplicità, Morreale.
I. La critica occupa una posizione intermedia tra l’opera e il pubblico. Il pubblico, quanto più è allargato tanto più è conforme ai principi del senso comune. La critica, dunque, non può ignorare il senso comune. Ma il senso comune ci manda a dire, da un pezzo, che la critica, letteraria, cinematografica, artistica o teatrale, ha fatto il suo tempo, annoia, è un capriccio o poco meno che una buffonata.
Tutto è cominciato con il cosiddetto effetto-Fantozzi, a partire dal postmoderno nostrano, ossia dagli anni Settanta. Chi non ricorda il consenso plebiscitario che ottenne l’invocazione, apodittica nella sua ingenuità, del celebre impiegato davanti alla prospettiva del “dibattito” dopo la visione, in un circolo culturale, della Corazzata Potemkim?: “No! Il dibattito no! Seguirono trenta minuti di applausi”. Già allora, i critici erano rappresentati come dei tali che, invitando a un improbabile “dibattito”, annoiavano e offendevano il senso comune con il loro linguaggio arrogante e criptico.
A ben guardare, tuttavia, i critici “barbuti” contro cui Fantozzi si rivoltava, definivano tautologicamente l’opera, ne proclamavano la “bellezza”, la “grandezza”, senza discuterla. Questa caricatura, penetrata nell’immaginario collettivo, è dotata dunque di una sua paradossale verità. Per sopravvivere, la critica letteraria dovrebbe affrontare invece pacatamente la questione del valore: dovrebbe cioè saper dire chiaramente perché un’opera è più degna di esser letta di un’altra. Dovrebbe poter formulare dei giudizi condivisi in un’epoca in cui tutte le gerarchie interne del sistema culturale (come, a esempio, le antitesi alto e basso, letteratura di ricerca e di consumo) sembrano inconsistenti, e in cui sembra ormai acquisita l’idea che la responsabilità di render letterario o estetico un oggetto testuale spetti alla situazione in cui viene percepito, cioè al mercato, all’appeal, alla godibilità diffusa, più che all’oggetto stesso.
La valorizzazione delle opere è oggi infatti, di necessità, interamente dominata dalla relatività. Ma appare un fatto del tutto arbitrario e irrilevante (il che toglie fiato, vitalità e credibilità alla funzione stessa della critica) per la scarsa propensione sia della critica che del senso comune a considerare la verità un processo argomentativo anziché un dato. Dar ascolto a una congettura è più faticoso (ma più fecondo quanto a esperienza e senso) che accettare o respingere una presunta Verità.
II. Questa prospettiva comporta la demistificazione di due ideologie contrapposte: quella che assegna alla cultura letteraria una dimensione puramente ludica ed estetica e quella di chi considera i testi puri pretesti ideologici. Senso comune e critica, ciascuno a loro modo, sono oggi accomunati dalla stessa presunzione: sono pressoché impermeabili a un’idea di testo letterario come luogo del rapporto contraddittorio fra forme e modelli ideologici e, d’altra parte, della critica come esercizio dialettico, ossia come investigazione delle antitesi o delle dissociazioni operanti all’interno dei testi. Si preferiscono insomma di gran lunga le semplificazioni, le banalizzazioni, le univocità.
Emblema della crisi della critica è infatti la riproposizione, in forme sempre più stanche, mascherate e impoverite, di vecchie dicotomie: impegno contro disimpegno, ideologia contro passione, eteronomia contro autonomia, educazione morale contro piacere. Riedizioni teoriche recenti di queste antinomie sono la linea decostruzionista che concepisce la lingua senza referenti, e la linea culturalista, che tende all’ indistinzione tra testi e mondo. Il borsino della terminologia, nel campo della teoria letteraria, è di questa banalizzazione la spia più immediata. Due o tre decenni fa, tra gli addetti ai lavori, si parlava di testo, forme e stili pensando di far riferimento a termini assodati e condivisi. Oggi invece le nozioni di forma, testo e stile, insieme a quelle di sistema e di struttura, sono cadute in disgrazia a vantaggio di altre parole-chiave dilaganti: identità, icona, immagine, cultura, rappresentazione. Il postmoderno ha fatto della realtà intera un testo senza contesto con il conseguente rifiuto di qualunque dialettica o tensione tra elementi conoscitivi e messa in forma estetica.
III. Non è certo un caso che, in Italia, il solo dibattito dall’inizio degli anni Novanta a oggi sia stato quello intorno alla nozione di crisi della critica. Fino a qualche decennio fa esistevano le terze pagine dei quotidiani, le case editrici si avvalevano della consulenza di scrittori importanti, filologia e critica militante sembravano alla ricerca di una difficile alleanza, ora invece la chiacchera autopromozionale, il gossip sulle vite degli scrittori, il marketing culturale spicciolo hanno occupato tutte le scene.
Caduta ogni possibilità di distinzione tra Dante e una clip pubblicitaria, tra cultura alta e cultura bassa, per la nuova classe media divengono indispensabili surrogati di letteratura “seria” che simulino una profondità confortevole e senza rischi. Del resto, a liquidare la critica ci pensa ora la stessa ideologia ultraliberista, con la riduzione di ogni “operatore culturale” a mero impaccio o costo superfluo, e con l’ipostatizzazione mediatica degli stili di vita mercantili della nuova “élite di massa”. A devitalizzare la letteratura, intervengono le parodie e le poetiche citazionistiche e il tripudio di una intertestualità dissacrante, che mima ironicamente l’estetica del midcult. Ignota ancora ai tempi di Baudelaire, e di Balzac, che pure conoscevano bene le metropoli e la pubblicità, l’ attuale ossessione dell’audience congiunta a una maliziosa nozione di democrazia culturale sempre più simile alla televendita di fungibili “beni culturali”, fa assoluto divieto di distinguere tra una letteratura di serie A e una di serie C. Nel nostro paese, passato repentinamente dalla sua lunga fase premoderna a una postmodernità «andata a male», in cui l’industria dell’intrattenimento si è fatta “partito-azienda”, tali fenomeni risultano particolarmente acuti.
IV. La questione del valore letterario in un simile contesto sembra poter sopravvivere dunque solo in forme caricaturali. Il bisogno di demarcazione, l’idea che la critica e la teoria debbano formulare domande e risposte sulla legittimazione dell’opera, sulla necessità o meno di tramandarla, persiste. Ma persiste polarizzato sui due vecchi campi contrapposti del piacere e della conoscenza, della misura del valore morale oppure edonistico dei testi. Un’opera vale perché piace o perché insegna qualcosa. Si spiegano così da un lato le petizioni di principio contro la teoria, l’antiaccademismo e antifilologismo come bandiere comuni, l’insofferenza per le ideologie, o d’altro canto, l’uso ideologico e strumentale dei testi per affrontare temi d’attualità: civili, ecologici, femministi, etnici.
V. Nel circuito postmoderno di merci e media, l’alterità critica dello sguardo intellettuale non si salva con un revival dell’impegno, né con la dissoluzione del letterario nelle pratiche culturali, “politicamente corrette” ma sempre più esposte a quella tuttologia collettiva, mercantile e pubblicitaria, che chiamiamo medialità.
Le grandi opere, quelli che chiamiano “i classici”, (anche se in apparenza politicamente scorretti, oppure museificati, distanti, incomprensibili e dimenticati) hanno con la nostra epoca un rapporto perturbante, di familiarità e di estraneità. Continuano a porre in dialogo il passato col presente. Ridiscutono l’identità culturale, presente nel DNA collettivo, e la rivivificano. Le opere non sono tutte uguali né è il loro effimero appeal merceologico a determinarne il valore: tanto meno sono capaci di creare questo cortocircuito, questa combustione, tanto meno valore possiedono.
La critica potrebbe dunque discutere le gerarchie e argomentare con chiarezza i criteri di valore con cui giudicare le opere non opponendo banalmente verità a piacere, militanza e accademia, forma e contenuto, ma additando al lettore la complessa trama di verità e di menzogna, di piacere estetico e conoscenza, di innocenza e colpevolezza che le trapassa tanto più indissolubilmente quanto più esse sono dotate di vitalità tematica e di coerenza formale. Quanto più, cioè, le opere sanno restituire ancora una volta al lettore la totalità contraddittoria dell’esperienza.
Forse sarò obsoleta, ma, rifacendomi agli insegnamenti del mio grande Maestro di storia e critica d’arte Sergio Bettini e di uno dei suoi padri, Alois Riegl, sui cui testi mi sono formata, alla critica non spettano giudizi di valore, né tantomeno l’indicare gerarchie con cui giudicare le opere, ma creare delle categorie che permettano di analizzare e capire i fenomeni letterari e artistici nel loro significato e nel loro sviluppo. Non il giudizio estetico, ma critico dunque. Capisco come questo compito sia meno difficile nei riguardi di opere da noi più distanti, mentre più arduo è riuscire ad analizzare una realtà in cui siamo immersi e che, mai come oggi, appare stordente. Ma se non si sceglie questa strada, si rischia di cadere nelle maglie di un’estetica empirica e nei suoi equivoci.
Io temo che la ricerca di principi e strumenti che permettano di determinare il valore letterario o meno di un’opera nasconda dei pericoli che non sono stati del tutto analizzati, ma sono intuibili.
Ancora, non so se davvero “la critica occupa una posizione intermedia tra l’opera e il pubblico”. Forse è questo il male. Tra opera e pubblico non dovrebbe inserirsi nulla. Pena gli esiti che vediamo. La critica (letteraria o d’arte che sia) dovrebbe occupare un posto a sé. Opera – pubblico. Opera – critica.
Riporto, a questo proposito, una citazione dalla “Grammatica storica delle arti figurative” di Alois Riegl, (Cappelli, Bologna, 1982, traduzione e cura di Francesca Diano), prima traduzione italiana di un’opera miliare del padre fondatore della critica d’arte, che mi pare adatta a spiegare quanto intendo.
“Ora, chi voglia creare un’opera d’arte – l’artista – non ha bisogno della grammatica storica dell’arte figurativa. E tanto meno colui che di quest’opera d’arte voglia goderne. Ma chi vuol comprendere scientificamente un’opera d’arte, d’ora in poi non potrà farne a meno.
Voi adesso capite bene quello che mi propongo di fornire con una grammatica storica delle arti figurative. Si potrebbe definire anche una dottrina elementare (degli elementi) delle arti figurative.
Vorrei mettervi in guardia fin dal principio contro un possibile equivoco: con ciò non si intende in nessun modo un’introduzione alla storia dell’arte. Così poco, che anzi io vorrei esortare coloro che tra voi sono principianti, ad andar via. Soltanto esperti, che abbiano una certa speciale conoscenza di tutti i periodi artistici ed abbiano presenti almeno i principali monumenti potranno ascoltare con profitto queste lezioni. Io citerò degli esempi e mi riferirò ad altri monumenti artistici. È assolutamente impossibile mostrarli tutti per immagini, anche se cercherò di farlo il più possibile. Ma devo limitarmi al materiale disponibile e inoltre c’è l’impossibilità fisica di mostrarli tutti. Quindi si presuppone necessariamente una loro conoscenza dettagliata.”
Riegl invita qui gli studenti del suo corso che non abbiano già una solida conoscenza delle opere a lasciare l’aula. Nelle sue lezioni sugli strumenti che un critico dovrà individuare e adottare parla a degli esperti. Il rapporto tra opere e critica è diretto e non fa da tramite ad altro che all’analisi dell’opera all’interno di uno sviluppo storico più generale. Da qui il suo senso. Riegl ha notoriamente dato dignità a epoche e opere ritenute al suo tempo prive di interesse e valore, perché le ha considerate come parte essenziale di un processo di sviluppo artistico.
Forse allora scopriremo, a posteriori, che quella che oggi consideriamo robaccia (e magari, o senza magari, lo è) ha però un suo senso molto preciso e utilissimo a capire la visione del mondo, o il postmoderno, (come più vi piace) in cui viviamo. E forse saranno proprio questi cascami a contenere il maggior significato dell’epoca che li produce e ad essere più utili a questo scopo.