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di Andrea Lombardi

[Questo saggio è uscito sul numero 19 dell’«Ulisse», intitolato Forme e effetti della scrittura elettronica]

Sono passati quasi quindici anni da quando in Italia ha iniziato a formarsi una scena letteraria online. Oggi questa si presenta come una realtà vastissima ed eterogenea, fatta di blog, siti di riviste e webzine, a cui si sono aggiunti, da qualche tempo, anche i social network, in particolare Facebook, che ha assunto a tutti gli effetti il ruolo di portale del web letterario italiano. Anche grazie a tali nuovi strumenti, capaci di implementare quel processo di emigrazione online già avviatosi con i blog, accedere al circuito letterario di Internet è diventato ancora più facile rispetto al passato e, anzi, tramite esso, le possibilità stesse di accedere al circuito letterario tout court si sono moltiplicate. Ciò in forza di un riconoscimento che nel corso degli anni, e non senza fatica, la rete è riuscita ad ottenere. Se fino ai primi anni Duemila quello online rappresentava ancora uno spazio alternativo e ‘illegittimo’, oggi sembra aver raggiunto non solo la legittimazione, ma addirittura una sorta di istituzionalizzazione. L’‘illegittimità’, infatti, era strettamente connessa a quella volontà polemica e di opposizione al sistema culturale ufficiale che, dominante nella fase iniziale del web letterario (dalla fine degli anni Novanta alla prima metà del Duemila), si è poi progressivamente esaurita. Come ricostruito da Guglieri e Sisto nel fondamentale Verifica dei poteri 2.0. Critica e militanza letteraria in Internet (1999-2009)[1], con cui il nostro saggio condivide l’impostazione bourdesiana, la maggior parte dei primi animatori del web era composta da autori che all’interno del campo letterario occupavano la posizione di «nuovi entranti» o di «dominati» (si pensi a Wu Ming, Giuseppe Genna, Valerio Evangelisti ma anche, in maniera diversa, ad Antonio Moresco e Carla Benedetti) e che, in quanto tali, hanno utilizzato la rete come terreno su cui fondare una strategia di distinzione e avviare la lotta per l’accumulazione di capitale simbolico. Nel corso del tempo molti dei pionieri sono riusciti, anche grazie a Internet, a raggiungere il riconoscimento o a rafforzare la propria presenza nel campo letterario, orientando successivamente l’attività online verso altre direzioni ed eliminandovi l’elemento polemico nei confronti dell’establishment letterario. Parallelamente la rete ha accumulato sempre più capitale simbolico, e nel corso del tempo persino attori provenienti dallo stesso circuito ufficiale hanno dato vita a spazi letterari online (si pensi a un sito come «Le parole e le cose»), fenomeno che sancisce in maniera definita il passaggio del web da spazio illegittimo a legittimo. Si è arrivati, insomma, all’ultima tappa del ciclo di vita di ogni innovazione, la domestication, o, considerando il web letterario nei termini bourdesiani di avanguardia, alla fase della sua consacrazione, che avviene in seguito all’usura dell’effetto di rottura[2]. Quella volontà polemica e di rottura originaria si è gradualmente dissolta fino a scomparire e oggi il web risulta perfettamente integrato nel sistema culturale complessivo. Ovviamente ciò non toglie che, rispetto al circuito offline, esso rimanga alternativo de facto (presenta aspetti totalmente assenti in quello tradizionale, dalla natura antieconomica alla presenza di uno spazio pubblico di dibattito), ma è agli occhi e nelle intenzioni degli attori in gioco che Internet non solo non appare più come un possibile circuito altro, ma ha assunto per molti versi l’aspetto di una nuova istituzione.

Alla base di questa impressione vi è un assestamento del web letterario su una serie di pratiche condivise e di elementi strutturali che, per quanto vasta, eterogenea e rizomatica (e come tale sempre in certa misura caotica), consente di considerare la scena letteraria online come un «sottocampo relativamente autonomo»[3]. Nonostante essa si sia estesa in maniera impressionante nell’ultimo quinquennio e ai vecchi elementi strutturali se ne siano aggiunti di nuovi (ad esempio l’uso dei social network), tale ipotesi sembra oggi ancor più valida ed è proprio grazie a tale assestamento che è possibile non solo ricostruire la storia ultradecennale del sottocampo, ma anche individuare le esperienze che ne hanno determinato l’evoluzione. Tra queste un ruolo di primo piano spetta a «Nazione Indiana». E questo per due motivi principali. Il primo è cronologico: «Nazione Indiana», fondato nel 2003, si colloca nel momento centrale della storia del sottocampo[4], in quella che potremmo chiamare ‘era dei blog’ e che va grossomodo dal 2002 al 2008. In questo periodo decisivo, grazie alla facilità d’uso che piattaforme come Splinder garantiscono, la scena letteraria online si popola di molti nuovi attori, e iniziano ad emergere elementi strutturali che ancora oggi si presentano come prerogative del sottocampo (in primo luogo la possibilità di commentare le pubblicazioni). Ma «Nazione Indiana» risulta l’esperienza cruciale del web letterario italiano anche per altri motivi. Non solo il blog degli ‘indiani’ è stato capace di costituirsi come fulcro del dibattito online e di costruire intorno ad esso una comunità, ma nel percorso che va dalla sua fondazione alla scissione del 2005 si sono manifestate tutte le peculiarità, positive e negative, tipiche dello spazio letterario del web. Inoltre, in nessuna vicenda come in quella «Nazione Indiana» appaiono in maniera potenziata quelle dinamiche riconducibili alla lotta per l’accumulazione di capitale simbolico che è stata determinante nello sviluppo del sottocampo. Nell’evoluzione di «Nazione Indiana», insomma, si possono trovare, come in un microcosmo che riassume in sé l’universo di cui fa parte, tutti gli aspetti che nella loro complessità hanno determinato l’evoluzione stessa della scena letteraria online italiana dalle origini fino ad oggi. Ricostruire la storia di questo microcosmo è l’obiettivo del nostro saggio.

  1. Scrivere sul fronte occidentale

Spesso le iniziative Web nascono a partire da quanto è accaduto prima fuori dal Web. In altre parole, non ci si incontrerebbe su Internet se prima non ci fossero stati degli incontri fisici, reali, tra coloro che poi continueranno virtualmente il dibattito[5].

Queste parole di Federico Pellizzi, fondatore di «Bollettino ’900», la prima rivista letteraria online, oltre che mettere in luce un aspetto centrale nella formazione di molte esperienze appartenenti alla prima fase del web letterario italiano, descrivono sostanzialmente anche l’inizio della storia di «Nazione Indiana», la cui origine risale a un convegno tenutosi a Milano il 24 novembre 2001 e intitolato Scrivere sul fronte occidentale.

L’incontro nasce per iniziativa di Antonio Moresco e Dario Voltolini e vede coinvolti numerosi scrittori, chiamati a confrontarsi in seguito agli attentati dell’11 settembre e a discutere «su che cosa significa scrivere e operare “in tempo di guerra”»[6]. La lettera di invito, scritta da Moresco e posta in apertura del volume in cui successivamente sono stati raccolti tutti gli interventi tenuti nel convegno[7], si apre così:

Stiamo organizzando un incontro che si terrà nel mese di novembre, a Milano, in data e luogo da destinarsi, perché sentiamo la necessità di confrontarci dopo quanto è successo nelle ultime settimane.

Non ci interessa un incontro rituale, una sfilata di anime belle, lanciare proclami. Non ci interessa darci conferma l’un l’altro delle nostre buone intenzioni e delle bontà e necessità della nostra attività di scrittori. Non ci interessa ragionare per simboli e schemi, né una vuota unanimità di posizioni. Ci interessa un incontro, reale e senza cerimonie, di posizioni e di riflessioni, in cui ciascuno porti la sua unanimità, diversità, sensibilità e libertà […][8].

I primi ad aderire sono il critico Carla Benedetti, che in quel momento si trova a New York come visiting professor e ha assistito agli eventi, lo scrittore Tiziano Scarpa, a cui si deve il titolo del convegno, e Giuseppe Genna, che poco tempo prima sulla sua rubrica online «Società delle Menti» ha dedicato uno speciale ai Canti del caos (Feltrinelli, 2001) di Moresco. A questi si aggiungono in breve tempo i poeti Giuliano Mesa e Andrea Inglese. Alla fine, nel teatro milanese che ospita l’incontro, oltre agli autori già citati sono presenti: Andrea Bajani, Mauro Covacich, Donato Feroldi, Marosia Castaldi, Teatro Aperto, Helena Janeczek, Marina Mander, Marco Drago, Antonio Piotti, Giorgio Mascitelli, Raul Montanari, Ivano Ferrari, Giulio Mozzi, Paolo Nori, Federico Nobili, Christian Raimo, Gian Mario Villalta, Marco Senaldi e Piersandro Pallavicini.

Anche se la circostanza dell’incontro, il suo titolo e le linee tematiche dipendono direttamente da quella data e da quegli avvenimenti, i due organizzatori avevano già da tempo in mente l’idea di un confronto tra scrittori, come chiarisce lo stesso Moresco nel testo in cui, nella seconda edizione delle sue Lettere a nessuno, ripercorre le tappe di quell’evento a partire dalla visione delle immagini dell’attentato alle Torri Gemelle:

Guardiamo in silenzio le immagini ripetute del primo aereo che entra, poi del secondo. Entrano ripetutamente dentro le torri e le fanno ripetutamente crollare.

Sento la necessità, assieme ad alcuni amici coi quali è iniziato un rapporto di confronto e di stima, di pormi integralmente di fronte a tutto questo anche come scrittore. […] Per un bisogno di invasione e di comunione, perché le cose sono intrecciate, perché mi sembra che questo drammatico inizio di secolo e di millennio faccia piazza pulita di tutte le piccole ideologie e fissazioni teoriche e concettuali che tengono imprigionata da decenni l’attività artistica, di pensiero e di conoscenza, e contro le quali sto sbattendo il muso da tempo, fin da quando ero sotto terra[9].

Alla base delle ragioni del convengo, quindi, sta un senso di disagio nei confronti di un’attività culturale e artistica che appare da anni cristallizzata, irrigidita da abitudini e schemi mentali, «piccole ideologie e fissazioni teoriche e concettuali» («che viviamo nell’epoca della virtualità e dell’irrealtà / che l’unica dimensione possibile è ormai quella della ripetizione / che la storia è finita / che non esiste più la tragedia ma solo la parodia»[10]).

Cosa sta succedendo? Perché sembra tutto imprigionato dentro schemi, perché tutti o quasi hanno un tale bisogno di difendersi dentro schemi? Perché il pensiero non sembra più in grado di produrre pensiero?[11]

Dal punto di vista di Moresco, quindi, l’11 settembre ha reso ancor più impellente la necessità di affrancarsi da questi modelli concettuali perché ne ha fatto emergere l’infondatezza, come afferma anche Voltolini aprendo i lavori del convegno:

io, e altri, sento e sentiamo delle chiusure, delle pressioni, delle dinamiche bloccate, nei discorsi che ascoltiamo, nelle riflessioni che vengono fatte, a qualunque livello, da qualunque parte giungano. Con più chiarezza le vediamo in questo momento in cui le cose che ci capitano quotidianamente sono di portata, di levatura tale da contraddire alcune delle ipotesi su che cosa il mondo era, che cosa il mondo era diventato, valide, per così dire, fino a prima dell’attentato terroristico dell’11 settembre[12].

In questa ottica, quindi, lo scopo di Scrivere sul fronte occidentale è sostanzialmente quello di «ragionare su ciò che il crollo delle Torri ha rappresentato tanto a livello simbolico, linguistico, immaginario, quanto sul piano politico, nella realtà storica dei rapporti di forza tra nazioni e classi sociali»[13]. Ciò che emerge dagli interventi, tuttavia, è proprio la rivendicazione della necessità di eliminare la contrapposizione schematica tra l’ambito estetico e quello politico-sociale, contrapposizione a causa della quale «la “letteratura” è stata collocata in una dimensione insiemistica separata, in apparenza più elevata ma in realtà depotenziata»[14]. Ad essere invocata dalla maggioranza degli intervenuti è quindi la possibilità per gli scrittori di uscire da quella palla di vetro per cui sembra che essi «possano ormai solo collocarsi o in uno spazio estetico autoreferenziale separato», e tornare ad agire sul piano sociale, «a sporcarsi le mani con la vita vivente»[15].

La sofferenza nei confronti dello stato di cose presente, che pone la letteratura in una dimensione separata dalle altre sfere sociali, incastrata dai suoi stessi fautori nella propria asfittica autoreferenzialità, è ribadita dal primo intervento letto al convengo, quello di Carla Benedetti, che è l’unico critico ad esser stato invitato per l’occasione. E il contributo, letto da Tiziano Scarpa perché l’autrice è a New York, si apre proprio sottolineando questo aspetto:

So che al vostro incontro avete evitato di invitare dei critici. Io non so bene cosa sono, ma passo per essere un critico. Quindi invitandomi avete fatto un’eccezione. […] In questo periodo storico molti critici hanno smesso di far critica, sono diventati specialisti del nulla. Antonio Moresco li ha chiamati “nessuno” nelle lettere a loro indirizzate, forse perché tra di loro non c’era davvero NESSUNO che si aspettasse più nulla dalla letteratura. In altro modo, anche a me è capitato di ribellarmi a questa idea di letteratura esaurita, chiedendone conto alla cosiddetta critica. Quasi nessuno mi ha risposto. Perciò non sarò io a dirvi che avete sbagliato. Avete fatto benissimo a non invitare NESSUNO![16]

L’attacco ai critici, e il riferimento è soprattutto a coloro i quali in questi anni hanno ripetutamente dichiarato la crisi della critica e la «condizione postuma» della letteratura[17], non è un tema nuovo per Benedetti, che un anno prima recensendo Che cos’è questo fracasso? di Tiziano Scarpa, rivendicava, contro le derive autoreferenziali della critica militante, l’idea di una «critica come collaudo»[18], né tanto meno un tema isolato, dato che successivamente pubblicherà Il tradimento dei critici (Bollati Boringhieri, 2002), interamente incentrato su questa polemica. Tuttavia, nell’intervento preparato per il convengo – in vari punti ricalcato sulla recensione a Scarpa – l’invettiva rivolta ai critici è solo parte di una riflessione polemica più ampia che tocca il ruolo della letteratura nella società:

Quello che a me ripugna di più è questa Letteratura Istituita, praticata e letta come una sfera funzionale della società differenziata. La chiesa per pregare, il tribunale per la giustizia, le urne per il voto democratico, i villaggi turistici per rilassarsi. Così la letteratura. Anch’essa con una sua specialità, cioè produrre valore estetico. Una macchina pensata per fare bene certe cose e solo quelle: suscitare interpretazioni, giudizi di valore, dispute del gusto […] Non è forse questo che la rende inerte, morta? Tutto ben separato e delimitato. […] Che la scrittura letteraria stia nella sua cornice, separata dal mondo in cui agiamo, soffriamo, ci appassioniamo, ci indigniamo. È proprio questo processo di specializzazione che la in quel NULLA su cui a loro volta proliferano gli specialisti del NULLA[19].

Insomma, ad emergere, nell’intervento di Benedetti come poi in vari contributi di Scrivere sul fronte occidentale, è l’esigenza di opporsi a uno stato di cose avvertito da molti come insostenibile. Le due direttrici di tale volontà di rottura sono rappresentate da un lato dalla polemica nei confronti del circuito culturale e letterario, dall’altro dalla rivendicazione della necessità di tornare, nell’attività dello scrittore, ad agire sul piano sociale. Ed è proprio su queste due direttrici che si muove l’esperienza in rete a cui danno vita, a partire dal marzo 2003, i protagonisti del Fronte occidentale.

  1. La fondazione di «Nazione Indiana»

Aperto con il software per il blogging Movable Type, sempre più diffuso in Italia assieme a Splinder, «Nazione Indiana» comprende, nella sua formazione originaria, oltre a Moresco, Scarpa, Benedetti e Voltolini: Andrea Bajani, Benedetta Centovalli, Giuseppe Genna, Federica Fracassi e Renzo Martinelli di Teatro Aperto, Andrea Inglese, Helena Janeczek, Giovanni Maderna, Giulio Mozzi e Piersandro Pallavicini. Giuseppe Genna, che è l’unico ad avere buone competenze informatiche, cura la grafica[20] e il logo del sito (caratterizzato da delle piume tipiche dei copricapi dei pellerossa), per poi lasciare improvvisamente il gruppo la sera prima dell’esordio del blog.

Il nome «Nazione Indiana», suggerito da Moresco, «fa riferimento a quello speciale modo di sentirsi uniti dei popoli nativi del Nordamerica, ciascuno autonomo e indipendente, ma pronti a fare fronte comune nelle emergenze e nelle questioni gravi»[21]. Così, infatti, recita il manifesto di presentazione:

ci piaceva l’idea di una nazione composta da molti popoli diversi, orgogliosamente diversi e orgogliosamente liberi di migrare attraverso le loro praterie intrecciando scambi e confronti, e a volte anche scontri[22].

Il disagio nei confronti di un circuito culturale asfittico e cristallizzato si manifesta fin dalla dichiarazione di intenti: lo scopo del blog è, infatti, quello di uscire da una situazione come quella attuale in cui

ciascuno viene relegato nel suo ruolo e nel suo campo e trova uno spazio solo se accetta di rimanere confinato entro questi limiti, delegando a specialisti e mediatori il compito di raffigurarlo e di collocarlo in una apposita nicchia preordinata, in un piccolo gioco chiuso e – a noi pare – senza futuro[23].

Ecco allora che la scelta di utilizzare la rete va esattamente nella direzione di questa esigenza:

la rete permette invece di tornare a una economia di scambio da Nazione Indiana dove contano soprattutto le cose che facciamo – che ognuno fa a suo modo scegliendo di volta in volta argomenti, stili, generi che lo attirano di più – e non la nostra “qualifica professionale” preconfezionata[24].

Il blog si presenta, quindi, come lo strumento migliore per dar vita a un progetto che sia collettivo e al tempo stesso preservi l’autonomia individuale. Ogni collaboratore di «Nazione Indiana», infatti, viene dotato di un proprio accesso al sito e può pubblicare autonomamente ciò che vuole, senza dover passare attraverso filtri redazionali. Le uniche regole da seguire sono: firmare sempre i propri post e, soprattutto, rispettare il codice di comportamento interno:

Nella cultura italiana vige la pratica dello scambio di favori. Ci impegniamo a non accettare nessun clientelismo. Non solo i do ut des immediati, ma anche le soggezioni, gli atteggiamenti reverenziali in vista di futuri tornaconti o per timore di essere esclusi o danneggiati dai “padrini della cultura”: boss grandi e piccoli del giornalismo e dell’editoria, amministratori pubblici, funzionari, giurie di premi, organizzatori di eventi ecc…[25]

Infine, vengono definite le sezioni – «categorie» nel linguaggio del blog – in cui dovranno essere inseriti i pezzi pubblicati:

– “Allarmi”: urgenze, indignazioni, questioni gravi;

– “Carte”: scritti già pubblicati altrove o interventi letti a convegni;

– “Diari”: esperienze, commenti all’attualità;

– “Mosse”: proposte, progetti, segnalazioni di eventi;

– “Vasicomunicanti”: confronti e contagi, sconfinamenti di campo.

Il primo post, dopo quello introduttivo dedicato a Scrivere sul fronte occidentale del 1° marzo 2003, è di Antonio Moresco e si intitola In attitudine di combattimento e di sogno, pubblicato il 23 marzo e archiviato nella categoria “Mosse”. Si tratta di una lettera del 20 febbraio in cui l’autore, di ritorno da un viaggio in Argentina, scrive

per dire agli amici che sono vivo, emotivamente teso, in attitudine di combattimento e di sogno, e che dovremmo davvero cominciare a far nascere questa Nazione indiana di cui abbiamo cominciato a fantasticare, qualcosa che ancora non si è vista, senza vincoli di poetica e di altra natura, gelosi ciascuno della propria libertà e indipendenza eppure capaci, quando occorre e ne abbiamo il desiderio, di cavalcare insieme[26].

Con questa sorta di dichiarazione di poetica si apre ufficialmente «Nazione Indiana». I primi contributi sono dedicati principalmente all’invasione statunitense dell’Iraq, rivelando fin da subito la linea dell’impegno già emersa con Scrivere sul fronte occidentale e che il blog intende perseguire. Nei mesi, comunque, vengono pubblicate anche poesie, recensioni a libri, film e spettacoli teatrali, brani di classici, racconti, esperimenti di scrittura, interviste, segnalazioni di incontri, commenti alle notizie del giorno. Insomma, già all’origine «Nazione Indiana» rivela un eclettismo che ricorda quello delle riviste militanti del secolo scorso, dalla «Voce» di Prezzolini al «Politecnico» di Vittorini. Molti materiali provengono da giornali e riviste cartacee: l’esempio più importante è la riproposizione, in versione più estesa, degli articoli che Carla Benedetti scrive per l’«Espresso» in merito allo stato della letteratura e della critica italiana.

A poco a poco entrano nel gruppo molti altri autori, come Sergio Baratto, Jacopo Guerriero, Raul Montanari, Sergio Nelli, Aldo Nove, Christian Raimo, Andrea Raos, Michele Rossi, Giorgio Vasta e Roberto Saviano. I racconti-reportage di quest’ultimo, incentrati sul sistema camorristico, iniziano ad essere postati da Scarpa e Voltolini dal giugno del 2003, e destano subito grande interesse. I pezzi di Saviano sono coerenti con la linea dell’impegno assunta dal blog e contribuiscono a rafforzare, incarnandolo, il mito pasoliniano della testimonianza diretta e attiva, quell’attitudine performativa dello scrittore «in situazione» che Benedetti teorizzava nel discusso Pasolini contro Calvino del 1998. Il ritorno all’interventismo sociale, allo «sconfinamento» per dirla in termini moreschiani , ossia a una postura dell’impegno che la precedente generazione (come i “Cannibali” ad esempio) aveva manifestamente abbandonato, risponde, nella logica specifica del campo letterario, a una strategia di distinzione che respinge nel passato le posizioni dei predecessori. Non si tratta di un fenomeno rintracciabile solo in «Nazione Indiana», ma riguarda molte esperienze online soprattutto della fase iniziale del web letterario, ad esempio «Carmilla», e si ritroverà anche in altri spazi sorti in questo periodo, come nel blog di Loredana Lipperini «Lipperatura». A ben vedere, poi, questa strategia di distinzione viene premiata in rete, dal momento che non solo «converte in capitale simbolico specifico (letterario) i profitti provenienti da lotte condotte altrove (in particolare nel dibattito politico-civile)»[27], ma li converte anche in capitale reputazionale (online). In altri termini: lo «sconfinamento» nella realtà sociale e politica, oltre che risultare decisivo in termini di profitti simbolici per il nuovo entrante che attua tale strategia di distinzione, in uno spazio letterario online risulta vincente perché crea un punto di contatto con la realtà offline, richiamando quindi un numero di visitatori che per un sito interamente votato a tematiche letterarie risulterebbe molto difficile. Ed è anche in forza di questo contatto tra online e offline che lo spazio in questione e gli attori in gioco ottengono una legittimazione anche al di fuori della rete. Il caso di Saviano è emblematico in questo senso. I suoi brani pubblicati su «Nazione Indiana» attirano subito un grande numero di visitatori, e in breve tempo lo scrittore riesce a suscitare l’attenzione del circuito offline, anche grazie al convegno Giornalismo e verità organizzato nel 2005 assieme a Carla Benedetti; con la pubblicazione di Gomorra nel 2006 – il cui editing è curato dall’‘indiana’ Helena Janeczek – lo scrittore ottiene il riconoscimento e questo contribuisce in maniera decisiva alla legittimazione non solo di «Nazione Indiana» – nel 2006 tra le parole chiave più utilizzate che hanno portato i visitatori al sito c’è «Roberto Saviano» – ma di tutta la scena letteraria online.

Se la tematica politica e civile attira molti lettori, è ovvio che i siti letterari che riescono a porsi come hub della rete siano soprattutto quelli votati all’eclettismo dei contenuti. A differenza di una rivista letteraria che ha ben chiaro quali e quanti sono i suoi lettori (per lo più abbonati), un blog o un sito letterario devono tener conto di un pubblico potenzialmente mondiale, e quindi più vari sono i contenuti che propone più è probabile che riesca ad ampliare costantemente il proprio bacino di utenza, attirando un numero sempre maggiore di nuovi visitatori.

Ora, accanto all’interventismo sociale e all’eclettismo, altri due elementi risultano fondamentali per il successo di «Nazione Indiana», due elementi che, però, come messo in luce da Gherardo Bortolotti nel saggio Oltre il pubblico: la letteratura e il passaggio alla rete («Nuova Prosa», n. 64, 2014, pp.77-146), fin dall’inizio tendono ad entrare in collisione: la dimensione comunitaria e l’attitudine polemica.

«Nazione Indiana» si distingue dagli altri spazi letterari in rete attivi nello stesso periodo soprattutto per la dimensione comunitaria che in breve tempo riesce ad assumere. L’idea di comunità è già racchiusa, come abbiamo visto, nel nome «Nazione Indiana» e nella composizione del gruppo che ha dato vita al blog, il quale si struttura appunto come spazio collettivo e polifonico, in cui, alle voci dei collaboratori, si aggiungono quelle dei numerosissimi commentatori. Se i primi rappresentano la base di una comunità possibile, è senz’altro grazie all’arrivo dei secondi che tale possibilità si concretizza. Ed è, infatti, dall’incontro di queste due prospettive ‘comunitarie’, quella di una possibile nuova comunità letteraria, fondata appunto sul «bisogno di invasione e di comunione» da cui nasce Scrivere sul fronte occidentale, e quella che risponde all’esigenza della rete stessa di aggregare utenti, che scaturisce la dimensione comunitaria di «Nazione Indiana».

La possibilità di commentare un post da parte del lettore è la caratteristica più tipica del blog e costituisce senz’altro uno dei motivi principali per cui «Nazione Indiana» è riuscito a diventare in poco tempo la sede principale del dibattito letterario in rete. Curiosamente, però, in origine non era stata contemplata dagli ‘indiani’, che avevano deciso di non inserirla. Tuttavia, Giuseppe Genna, che realizza il template grafico del sito, cancella i riferimenti al motore CGI dei commenti sulle pagine, ma li lascia, forse per una svista, sugli archivi mensili dove i lettori ben presto li scoprono ed iniziano ad usarli[28]. In altre parole: invece di scrivere direttamente sotto il post, per poter commentare i lettori devono prima andare sugli archivi dei mesi, selezionare il mese in cui è stato pubblicato l’articolo, e una volta individuatolo tra i tutti i post – che compaiono nella tipico ordine anticronologico – cliccare direttamente sulla scritta “Comments” che compare alla fine dell’articolo in questione[29]. Nonostante la scomodità della procedura[30], i commenti dei lettori proliferano, molto spesso anonimi o firmati con un nickname. A prescindere dai contenuti e dai toni utilizzati, su cui torneremo, lo spazio dei commenti del blog incentiva la discussione tra lettori e autori, e tramite i link agli autori dei commenti (i commentatori spesso hanno a loro volta un blog che viene linkato nel nome con cui si firmano), consentono di allargarla e dirottarla verso altri siti, richiamando quindi altri commentatori nel blog di partenza.

Oltre a quello dei commenti, l’altro spazio riconducibile al concetto di comunità è il blogroll, cioè la lista di link a blog e siti ‘amici’ o affini, che, tuttavia, «Nazione Indiana» non inserisce subito, ma che teniamo già da ora in considerazione. Nei confronti dei commentatori e degli altri siti presenti nel blogroll (e quindi di altri possibili visitatori e commentatori) l’operazione compiuta da «Nazione Indiana» è sostanzialmente quella dell’aggregatore. Scrive Bortolotti:

NI è riuscita a collegare diversi centri di dibattito in rete, costruendo una specie di aggregato […] e dirottando il traffico dei propri visitatori sui link del blogroll e su quelli degli autori dei commenti. In questo senso, funziona da punto di accesso privilegiato verso una porzione di rete alquanto caotica e dispersa (mi riferisco soprattutto alla blogosfera letteraria italiana, ma non solo) a cui, in forza di un ruolo di hub riesce a dare un ordinamento, una configurazione, una specie di mappatura […] Il fenomeno in parte è meccanico, essendo appunto il frutto della logica della rete, ma in parte è anche il risultato di connessione che i cosiddetti “indiani” hanno fatto, on e off line. Riconoscendo come interlocutori alcuni commentatori, li hanno ammessi alla propria costellazione di blog o siti amici e hanno implementato un circolo virtuoso di scambi ulteriori[31].

L’aspetto interessante è che questo meccanismo è del tutto opposto a quello in vigore nel circuito offline, i cui principi cardine sono la selezione e la mediazione. «Nazione Indiana», infatti, non assolve la funzione di mediazione tra i lettori e i prodotti culturali offerti, bensì opera una connessione: «si individuano alcuni interlocutori e con essi si costituisce una comunità a cui si fanno accedere i fruitori, che peraltro diventano soggetti attivi della comunità» (nello spazio dei commenti). In sostanza, secondo la tesi di Bortolotti, «Nazione Indiana» avrebbe esemplificato un meccanismo già proprio della rete, ossia il passaggio dal principio della mediazione a quello dell’aggregazione, e quello dal pubblico alla comunità: «il punto non è più permettere agli autori ed al pubblico di entrare in contatto, mantenendo uno schema di ruoli e di competenze tendenzialmente rigido, ma istituire una rete di soggetti attivi che dia luogo ad uno scambio di contenuti e di ruoli»[32]. Gli ‘indiani’, quindi, riescono a unire l’esigenza propria di Moresco e gli altri di fondare una nuova comunità letteraria e quella del web stesso che per sua natura necessita l’accumulo di contenuti e la configurazione di hub che richiamino altri utenti che a loro volta generino altri contenuti.

Tuttavia, ed è qui il paradosso, la comunità che si genera attorno a un blog difficilmente può costituirsi come una comunità letteraria. E questo per ragioni strutturali. La riconfigurazione del pubblico in comunità online, infatti, comporta una aspetto fondamentale: il visitatore di un blog non è un semplice fruitore di contenuti, ma commentando ne diventa anche produttore (d’altro canto ogni utente della rete è un prosumer). E in quanto produttore di contenuti viene legittimato da Internet. Ora, in un blog culturale questo porta inevitabilmente a una distinzione sempre meno netta tra autore e lettore, il che conduce a una neutralizzazione della gerarchia su cui si fonda, nel campo letterario, il processo di produzione-fruizione. Tutto ciò non può che generare una tensione tra autore e lettore, dato che il primo tende a riportare in rete meccanismi di riconoscimento tipici dell’offline, mentre il lettore dimostra di essere maggiormente o perfettamente integrato nella logica della rete. Segno di questo precario equilibrio sono i flame cui spesso danno vita autori dei post e lettori nello spazio dei commenti.

Ora, se la contraddizione è insita nella possibilità stessa di fondare una nuova comunità letteraria in rete, nel caso di «Nazione Indiana» lo è ancor di più date le istanze su cui i fondatori vogliono fondarla. Ed è qui che entra in ballo l’elemento più caratteristico, assieme alla dimensione comunitaria, del blog: la polemica nei confronti dell’establishment letterario.

Come abbiamo già detto, la polemica nei confronti del circuito letterario è un elemento strutturale del primo web letterario. In questa prospettiva «Nazione Indiana» si pone come naturale continuazione delle posizioni espresse in occasione di Scrivere sul fronte occidentale, dove da più parti era emersa la necessità di affrancarsi da quella «Letteratura Istituita» e da quel sistema dominato dai «padrini della cultura», come ribadito nel manifesto di presentazione del blog. Il costante atteggiamento di opposizione nei confronti del sistema editoriale e letterario, il cui emblema è rappresentato dalle Lettere a nessuno del padre di «Nazione Indiana» Moresco, come abbiamo visto, è una tendenza che accomuna gran parte degli spazi letterari in rete sorti fino a questo momento e risponde a una strategia tipica dei dominati nel campo letterario bisognosi di rompere le egemonie per poter accedere al riconoscimento. «Nazione Indiana» si colloca esattamente su questa linea, a cui si affianca il già sottolineato ritorno all’impegno che amplifica ancor più la strategia oppositiva e distintiva degli attori. Lo stato delle istituzioni letterarie è, infatti, uno dei temi più dibattuti e a distinguersi, in questa direzione, è soprattutto Carla Benedetti, che riporta in versione estesa gli articoli scritti per «L’Espresso». Ed è proprio uno di questi, postato nel 2005 e intitolato Genocidio culturale[33], a suscitare grande dibattito.

Il pezzo prende le mosse dal successo editoriale di Giorgio Faletti, che ha appena pubblicato il suo secondo romanzo Niente di vero tranne gli occhi, subito in cima alle classifiche dei libri più venduti. Di fronte a una «mutazione genetica» che «ha trasformato il mercato del libro in una monocultura del best seller, spazzando via la “vecchia” editoria di progetto», e a un’industria culturale che è divenuta un «industria del genocidio culturale», il vero problema è rappresentato, accusa Benedetti, dal «deserto che si è aperto intorno, e nella quasi totale mancanza di consapevolezza da parte del cosiddetto mondo della cultura, che sembra assistere in silenzio alla desertificazione»[34]. L’autrice denuncia il fatto che, mentre dieci anni prima il successo di un best seller come Va’ dove ti porta il cuore della Tamaro aveva suscitato le reazioni dei critici e degli addetti ai lavori, oggi nessuno si preoccupa più di intervenire di fronte a un evento di questo tipo.

E tutti i critici militanti e della cultura cresciuti nei decenni scorsi nella scia della scuola di Francoforte, della critica dell’industria culturale, della società dello spettacolo?[35]

D’altro canto, l’opposizione ai critici e alla deriva autoreferenziale della prassi critica, è racchiusa nel libro più polemico di Benedetti, Il tradimento dei critici (2002), in cui l’autrice se la prendeva soprattutto con i colleghi della generazione precedente, impegnati già dagli anni Novanta a dichiarare ripetutamente la crisi della critica. L’opposizione alla figura del critico, peraltro, e, più in generale, della «mediazione istituzionalizzata», è una tendenza riscontrabile in «Nazione Indiana» fin dai tempi di Scrivere sul fronte occidentale (con Benedetti unico critico invitato). Un altro dei fondatori del blog, Tiziano Scarpa, nel suo saggio Fantacritica[36] del 1997, aveva ironizzato sui critici dei giornali come D’Orrico (che nel post di Benedetti compare come recensore entusiasta di Io uccido di Faletti), per poi ritornare sull’argomento su «Nazione Indiana» con un post, uscito un mese dopo dell’intervento di Benedetti, in cui i critici letterari dei giornali, vengono icasticamente definiti beejay, book-jockey:

Sono esperti di letteratura? Non mi sembra. Che cosa hanno dato alla letteratura italiana, alla saggistica, all’interpretazione dei classici o dei grandi scrittori contemporanei? Nulla. Semplicemente, scrivono sui giornali. Esprimono pareri personali su un libro. Sono giornalisti che si occupano di romanzi. Niente di più.

[…]

il beejay ha un sistema: prendere un esordiente che nessuno ha ancora letto, recensirlo tempestivamente il giorno stesso dell’uscita del libro, e incensarlo. Se l’esordiente avrà successo, tutti diranno che la recensione del beejay ha fatto la differenza decretando il successo di quel libro. Nessuno ne aveva parlato prima, l’autore era sconosciuto: è stato il beejay a tirare fuori il coniglio dal cappello![37]

Tornando a Benedetti, l’articolo Genocidio culturale anima una vivace discussione che, iniziata in rete, a partire dai commenti – il più articolato è quello dell’‘indiano’ Raul Montanari che sottolinea come il funzionamento dell’editoria non si possa analizzare in maniera rigida in quanto dominato da variabili[38] –, si allarga in breve tempo al di fuori del web. È il caso, ad esempio, della polemica avviata da Loredana Lipperini, giornalista culturale della «Repubblica», nel suo blog «Lipperatura». Lipperini si sente chiamata in causa dal pezzo di Benedetti quando l’autrice scrive, a proposito delle recensioni dei giornali che ormai sono difficilmente distinguibili dalla mera promozione: «Era una recensione o una promozione l’articolo che “Repubblica” ha dedicato a Io uccido il giorno in cui il libro andava nelle edicole?». La risposta della giornalista è la seguente:

non essendo un critico […] e potendo concedermi il lusso dei cronisti, che raccontano quel che vedono, lasciando che siano altri a interpretarlo e a sistemarlo nei lindi scaffali delle categorie, non ho mai scritto di un libro, o di un fenomeno, senza esserne convinta. Ergo, Io uccido mi è piaciuto. Di più. Mi è piaciuto proprio perché popolare[39].

La discussione si sposta quindi sulla letteratura popolare, che a parere di Lipperini «non va demonizzata», ma anzi sia «la sostanza prima con cui cimentarsi». Benedetti ribadisce, di nuovo su «Nazione Indiana», che il suo discorso riguardava piuttosto il meccanismo innestatosi da quando i quotidiani sono diventati editori e si trovano a recensire i libri che essi stessi mettono in vendita nelle edicole (come appunto «Repubblica» con Io uccido), mentre sul popolare chiarisce che il suo era un attacco al populismo postmodernista secondo cui non bisogna criticare la letteratura popolare in quanto è ciò che vuole il pubblico. La polemica prosegue su entrambi i blog, che riportano i rispettivi contributi, facendo aumentare il numero dei commentatori, che così si spostano da un sito all’altro. Alla fine la discussione arriva sulle pagine del «Corriere della Sera», trasformandosi in un discorso sul rapporto tra letteratura popolare e cultura di sinistra.

È interessante notare due cose. La prima è la capacità del blog di generare una discussione tramite una fitta rete di rimandi, in cui visitatori e commentatori giocano un ruolo decisivo, dando l’idea di un’ampia comunità online. La seconda, invece, è rappresentata dal fatto che la discussione online riesce a sconfinare nell’offline e nel cartaceo, rivelando come «Nazione Indiana», e con essa il web letterario, abbia acquisito una certa legittimazione.

La capacità di «Nazione Indiana» di porsi come hub della rete letteraria e soprattutto come sede di riferimento del dibattito letterario online dipende da un lato dall’essere un blog, che già di per sé implementa la logica tipica della rete che necessita l’accumulo di contenuti, per cui «l’attività dei fruitori-produttori richiama altri fruitori-produttori dando luogo a un aumento esponenziale nell’offerta di contenuti e ad un’amplificazione del traffico, dei suoi circuiti e delle comunità a cui dà luogo»[40], e per di più un blog collettivo, che già in partenza consente di richiamare altre presenze, dando vita a una polifonia costante in cui le voci degli autori si mescolano a quelle dei commentatori. Dall’altro, però, risulta decisivo il rapporto con l’offline, anzitutto la capacità dei membri del gruppo di attuare un’operazione di connessione non solo su Internet, ma anche nel circuito al di fuori della rete.

Già dal post Genocidio culturale e dalla discussione che ne è scaturita, si può notare il funzionamento del rapporto che in «Nazione Indiana» si instaura tra i suoi due elementi più tipici, la dimensione comunitaria e il motore polemico. Un rapporto, come anticipato prima, contraddittorio. Come scrive Bortolotti, se l’elemento polemico – l’opposizione al sistema culturale e letterario – risulta essere il cemento fondativo della comunità nata attorno al blog, è la dimensione comunitaria a richiamare su di «Nazione Indiana» decine di migliaia di visitatori al mese, che tuttavia difficilmente possono sopportare, assieme agli stessi membri del collettivo fondatore, il taglio fortemente identitario che la linea polemica moreschiana-benedettiana introduce. Tale tensione non può che dare vita, nello spazio dei commenti, a thread molto lunghi e soprattutto a flame. In un primo momento tutto ciò può funzionare per richiamare altri visitatori e commentatori e quindi consentire la produzione di altri contenuti, ampliando così la comunità, ma nel lungo periodo un equilibrio fondato su tale tensione è destinato prima o poi a spezzarsi.

È quanto accade quando Moresco pubblica nel marzo del 2005 un post intitolato La restaurazione[41]. Scritto in prospettiva di un incontro che gli ‘indiani’ stanno organizzando per il Salone del libro di Torino sull’editoria e «su quanto sta succedendo in questi anni nel campo della cultura e delle sue proiezioni», l’articolo afferma con forza che quello in atto è «un periodo di pesante restaurazione», che non riguarda non soltanto il campo economico, politico o religioso – come è evidente e proclamato da tutti – ma anche quello culturale, anche se viene taciuto dai più.

Se si parla di qualsiasi altra cosa, della vergogna politica e del disonore cui è sottoposta l’Italia dall’attuale lobby di governo, dell’uso scandaloso dei media, dell’arroganza, delle leggi ad personam, della macchina pubblicitaria e di manipolazione dispiegata, dell’economia criminale, della mafia, della camorra ecc… sono tutti pronti a indignarsi e non hanno difficoltà a vedere come stanno le cose in Italia in questi anni. Ma se si passa a parlare di logiche affini che attraversano quasi senza distinzioni di connotazioni politico-culturali il campo dell’editoria e il cosiddetto mondo della cultura, allora no. Lì non esiste restaurazione, lì va tutto bene, lì è come una piccola oasi dove tutto questo non avviene, la “cultura” è anzi una sorta di naturale antidoto e di zona franca e di opposizione negli anni plumbei che stiamo vivendo, non esiste anche qui una pesante restaurazione giocata sui puri meccanismi economici e monopolistici, sulla selezione di strutture e di forme, su enormi operazioni pubblicitarie sinergiche, su censure operate dalle leggi solo apparentemente impersonali del mercato, su autocensure introiettate e fatte proprie prima ancora che vengano esplicitamente richieste, sulle limitazioni di libertà reali mentre restano in piedi quelle di facciata.

Moresco prosegue additando i principali colpevoli, in particolare gli addetti ai lavori nel campo editoriale (vecchi nemici dello scrittore già dai tempi in cui ha iniziato a scrivere le sue ‘lettere a nessuno’), che si aggrappano ad alibi – «che non ci sarebbe mai stato tanto pluralismo come adesso, che c’è posto per tutti» – e tacciono «sul funzionamento generale della macchina» che pure conoscono molto bene. Dall’accusa di connivenza si passa poi alla rivendicazione del valore della denuncia che Carla Benedetti ha avviato nel suo Genocidio culturale e alla controaccusa a chi ha spostato l’orizzonte della discussione:

Negli ultimi mesi si è sviluppato un vivace dibattito, sui giornali, alla radio e in rete, sullo stato dell’editoria e sulle sue logiche, dove però si è mirato in molti casi a spostare l’attenzione su altri temi (generi letterari sì generi letterari no, popolare sì popolare no, destra e sinistra, élite e masse, Gramsci ecc…) tentando di imbrigliare il dibattito dentro piccole griglie collaudate e fuorvianti. Per nascondere l’aspetto bruciante della denuncia e la radicalità e umanità che la muove. Una confusione di temi e di piani per dimostrare che chi dice certe cose non può che essere un passatista e un catastrofista elitario, come la seppia quando si sente individuata e aggredita emette attorno a sé una nube invisibilizzante di inchiostro.

Di fronte a un circuito editoriale in cui oggi, col regime editoriale della monocultura del best seller, i grandi scrittori del Novecento come Kafka, Proust e Joyce non verrebbero nemmeno pubblicati, lo scrittore non può che dichiarare il proprio dissenso:

A me tutto questo continua a sembrare inaccettabile, abnorme, spaventoso, agghiacciante, una situazione alla quale non ci si può rassegnare. Grandi macchine editoriali e produzioni cartacee cresciute a dismisura, attraverso le sinergie messe in atto coi media e altri usi pilotati dello spazio e del tempo, hanno svuotato o ridotto ai margini la felicità e la forza creativa configurante della nuda parola e della sua spinta di allagamento, percepita proprio per questo come inaccettabile, indomabile, incontrollabile, interferente.

Il post si chiude con l’accorato appello a confrontarsi rivolto a tutti coloro che intendono opporsi a questo stato di cose, a quelle persone che

scrivono senza arrendersi, librai che non accettano di trasformarsi in venditori di saponette, editori nuovi che nascono o si rafforzano cercando di seguire altre strade, singole persone che lavorano anche all’interno della grande editoria e dei giornali e della nuova frontiera della rete animate da un diverso atteggiamento e da una vera passione.

Ecco la nuova comunità letteraria immaginata da Moresco, composta da chi rifiuta «l’annullamento della responsabilità individuale e la resa allo spirito del tempo» e anzi rivendica, contro «la narcosi generale» assunta come «alibi per non dire nulla, non cercare nulla, non creare nulla con la propria persona, la propria voce e la propria forma», la necessità del dissenso come assunzione di responsabilità:

Invece si può anche fare diversamente, non uniformarsi, non entrare in dialogo costruttivo, dire di no, anche se ciò che ci sta di fronte è o appare infinitamente più potente di noi. Si può anche dissentire, disobbedire, pensare diversamente, comportarsi diversamente. Si può anche essere non organici, “antisociali”, inattuali, se la “società” in cui siamo immersi ci fa orrore, tenere aperta la nostra ferita, acceso il fuoco, continuare a pensare, a sognare che anche all’interno di questa stessa società e questo orrore e persino dei singoli che ne fanno parte ci sia in qualche remoto punto della loro persona un’eguale ferita e uno stesso fuoco, che in nessun altro modo noi possiamo sperare o sognare di raggiungere se non mostrando in modo indifeso la nostra stessa ferita e il nostro sogno.

La rivendicazione del dissenso, l’esibizione della propria marginalità, il radicalismo etico, la purezza delle idee: in questo contributo ritroviamo tutti i tratti tipici dello stile di Moresco. Ed è proprio a causa della natura identitaria e implicitamente gerarchica della prospettiva polemica, assieme alla sostanziale vaghezza degli obiettivi, che all’interno di «Nazione Indiana» sorgono delle perplessità su quanto affermato da Moresco nell’articolo. Si apre un’enorme discussione, che va avanti per giorni, tramite numerosi contributi postati sul blog e relativi commenti. Molti interventi sono di dissenso, anche di autori esterni al blog, alcuni dei quali criticano l’iniziativa del Salone e l’idea stessa che quella in atto sia una restaurazione culturale o che si debba chiamare «restaurazione», termine che presupporrebbe una rivoluzione precedente positiva che non c’è mai stata[42]. La natura identitaria della polemica viene denunciata nella risposta di Giuseppe Caliceti a Moresco: «Mi viene da dire: tutti probabilmente al mondo abbiamo conti in sospeso, ma mi pare di intuire che i tuoi non sono i miei. Anzi, li sento vecchi»[43]. E poi aggiunge:

non si tratta né di sfidarsi né di lamentarsi, ma di accettare serenamente – cercando anche di reagire, certo, è auspicabile, ma mantenendo però sempre un lucido senso di realtà – un ruolo di “marginalità” che oggi la letteratura nel mondo (e soprattutto in Italia) ha da almeno alcuni secoli. Cosa che credo facciano nel mondo e forse anche in Italia, molti più scrittori – magari più poeti che narratori, mi permetto di dire… – di quanto credo possa pensare tu. Come? Continuando a scrivere libri importanti, almeno per se stessi. Perché è lì che si gioca la partita numero uno, anche sul piano culturale e politico, per uno scrittore[44].

Caliceti, com’è prevedibile, viene attaccato duramente prima da Moresco, che lo accusa di aver travisato il suo discorso e di non voler replicare, ma soprattutto da Carla Benedetti, che addirittura chiama a raccolta gli altri membri di «Nazione Indiana» che finora non si sono esposti:

E voi indiani, cosa ne pensate? Dove siete finiti? Ce l’avete anche voi un sogno? […] Vi rendete conto o no che appena qualcuno si mette in testa di fare qualcosa, anche una semplice analisi della macchina di potere odierna, il suo discorso viene subito innaffiato dagli idranti della delegittimazione, da voci che vi accusano di “narcisismo”, “autoreferenzialità”, “lamentosità”, “pessimismo”, “rancore”. Vi rendete conto o no che chi cerca di dare voce a un sogno oggi viene bacchettato da tutte le parti perché i sogni non sono più concessi?
Sapete solo pubblicare le risposte depistanti di La Porta e di Caliceti, o pensate anche voi qualcosa sull’argomento? O sognate anche voi qualcosa? Vi sentite o no parte di qualcosa che è in tensione, o siete tutti sereni come Caliceti? Nazione indiana è davvero un luogo in cui si sta in attitudine di combattimento e di sogno oppure un club di pensionati della cultura?[45]

L’attacco frontale di Moresco e Benedetti a Caliceti porta a una rottura definitiva all’interno del gruppo. Nel giro di poche ore si susseguono le reazioni di vari membri. Andrea Inglese risponde a Benedetti con una lettera che già dall’apertura rivela una posizione più moderata («Cara Carla, tu chiami ad un’attitudine di combattimento e di sogno. Ti dirò perché, in questo contesto, io scelga di intervenire con il sogno, e non con il combattimento»), opponendosi all’utilizzo del termine «genocidio»[46]; Raul Montanari, dopo una serie di scambi con Benedetti, affonda il coltello, esprimendo il proprio disagio nei confronti dei tratti troppo identitari assunti dalla polemica e che rischiano di intaccare il blog stesso:

Ti invito a riflettere […] su molti interventi che sono seguiti al vostro attacco a Caliceti, e magari anche su alcuni silenzi. C’è un’insofferenza evidente che sta montando verso quello che a me sembra un errore fondamentale:

 

NAZIONE INDIANA NON E’ UN’IDENTITA’, COME SEMBRA CHE CREDIATE VOI: E’ UNA CASA.

Non è un luogo dell’omologazione e dell’ortodossia, ma un luogo di accoglimento.
[…] Ma, ripeto, è ormai una casa, con trenta residenti che pensano ciascuno secondo la propria esperienza e sensibilità, e con almeno un centinaio di frequentatori assidui, oltre a quelli che si fermano a bere qualcosa e a lasciare un segno del loro passaggio, a volte folgorante, a volte inutile[47].

Helena Janeczek è la prima ad avvertire il rischio di implosione che si sta palesando tramite lo scambio di risposte:

Così non va, amici. […] Così stiamo distruggendo la credibilità guadagnata presso i nostri lettori e frequentatori e stiamo tradendo la responsabilità che ci siamo liberamente assunti per creare spazi qualificati di dibattito e di incontro. Non è così che si combatte la “restaurazione”, ma anzi si dà ma forte alla parcellizzazione darwiniana del nostro piccolo ecosistema culturale, si rischia di promuovere la decadenza. E inoltre, come si vede, una di quelle piccole guerre fra tribù che finirono per completare il genocidio operato dall’uomo bianco. Genocidio: come Andrea Inglese trovo- da tempo e per ragioni non solo biografiche- che “genocidio culturale” sia un’espressione infelice visto che ce ne sono ancora in atto di quelli veri, ma temo che di questo passo potremmo arrivare al “suicidio culturale”, almeno al nostro[48].

Il dissenso di maggior peso è probabilmente quello di Giulio Mozzi, che si tiene lontano dal dibattito più strettamente interno, tornando a polemizzare col contenuto del testo di Moresco. Con la sottigliezza tipica del suo stile, Mozzi inizialmente smonta il testo della Restaurazione:

Avevo pensato di iniziare questo intervento dicendo: il testo di Antonio Moresco […] è indiscutibile. Si può forse discutere una profezia? Non mi pare. E io il testo di Antonio Moresco appartiene (non ho dubbi) al genere letterario profezia. Non argomenta, non dimostra, non analizza, non prova: enuncia, e stop. L’unico argomento che trovo nel testo è un periodo ipotetico dell’irrealtà: se “Kafka, Proust, Joyce, Musil, Faulkner, Beckett” scrivessero oggi, non verrebbero più pubblicati “dagli editori e dai loro funzionari”: il che non può essere né dimostrato né smentito.

Mozzi, in quanto interno al mondo dell’editoria, si sente chiamato in causa dal testo di Moresco, soprattutto nel passaggio in cui taccia di connivenza al sistema e alla «macchina» gli addetti ai lavori. E infatti lo scrittore veneto scrive:

la mia posizione, nella visione che Antonio Moresco offre, è esattamente quella di chi “ha trovato ormai il suo piccolo ruolo negli ingranaggi di questa macchina o dei suoi spazi residuali”, è “arrivato finalmente ad avere la sua fetta di potere all’interno”, e “se la tiene stretta”. Non è questo il mio vissuto della cosa; non è così che io percepisco la mia condizione; ma questo è […] il posto che posso trovare nella visione offerta da Antonio Moresco. Quindi: se accetto la visione di Antonio Moresco, non posso che considerare Antonio Moresco mio nemico (il che non corrisponde ai miei sentimenti; ma non è di sentimenti che si tratta, qui) [49].

Siamo a un punto critico. Moresco se ne rende conto e il giorno dopo pubblica un post dai toni preoccupanti:

Vedo che in Nazione Indiana è salita la febbre, che c’è fermento e anche scontro, e questo […] mi sembra una cosa buona. Partecipiamo a questa avventura collettiva da più di due anni ed è bene cominciare a domandarci -magari anche tumultuosamente- il senso e l’originalità di questo stare assieme in anni come questi e dei nostri desideri e delle nostre possibili proiezioni, che non si possono ridurre al fatto di avere messo in piedi una bella vetrinetta di scrittori in rete.

[…] Questa indifferenza di fronte a certe argomentazioni e invece l’indignazione di fronte a toni -magari accesi e appassionati- mi stupisce e mi preoccupa.

Ma se qualcuno si è sentito offeso, allora mi scuso volentieri, visto che non era mia intenzione offendere. Ma ribadisco punto per punto, in modo pacato, quello che avevo detto in quell’ultimo intervento. Se anche non fossi uno scrittore, e fossi magari un netturbino, e magari addirittura un filo d’erba, continuerei a portare in me questo rifiuto a vivere la mia vita in questa dimensione e in questa resa.

[…] Nelle prossime settimane, dopo una sosta di quasi due anni, comincerò a rimettere la testa sui Canti del caos e a fantasticare la sua terza parte. Per cui starò un po’ più lontano e incontrerete di meno in Nazione Indiana sia la mia pacatezza che la mia emotività[50].

Quello «starò un po’ più lontano» annuncia in realtà un allontanamento definitivo. Il 27 maggio, poco più di un mese dopo le ultime discussioni, Moresco pubblica un post in cui annuncia la sua uscita da «Nazione Indiana»[51]. Lo scrittore si è chiesto – come auspicava nella Risposta pacata – il senso di «questo stare assieme e delle nostre possibili proiezioni» e ha convenuto, assieme ad altri, che l’idea iniziale «di fare qualcosa che si muovesse nella dimensione del combattimento e del sogno», non si è concretizzata, che nel momento in cui «si è trattato di tradurre le intenzioni in comportamenti coerenti […] sono emerse differenze tali che non si può far finta di non vedere continuando come se niente fosse». Non si tratta di una divergenza di opinioni, bensì di una spaccatura profonda su qualcosa di sostanziale che non si può ignorare né ricucire, come mi ero illuso si potesse fare durante l’ultima riunione di Nazione Indiana. Bisogna prendere atto che solo una parte di N.I. è disposta a esporsi e a condurre certe battaglie, mentre un’altra ha evidentemente aspirazioni diverse e un’altra ancora, di fronte ai passaggi più impegnativi e quando si tratta di allungare il passo, non partecipa e non dà segni di vita[52].

Oltre a Moresco, lasciano il gruppo una decina di persone, tra cui gli ideatori e primi fondatori Carla Benedetti, Tiziano Scarpa e Dario Voltolini.

Curiosamente, negli stessi giorni il blog deve fare i conti anche con dei problemi tecnici, che impediscono di entrare nelle colonne dei commenti presenti negli archivi del mese. L’archivio mensile ha infatti raggiunto dimensioni mostruose, lo spam dei commenti intasa il server e quindi il provider disattiva a più riprese il sito o parti di esso. È veramente singolare che tutto accada negli stessi giorni. E che, in pratica, la causa sia la stessa: la dimensione comunitaria. Dal punto di vista ‘tecnico’, il problema è la comunità dei commentatori, come spiegato successivamente da Jan Reister, il responsabile del progetto web di «Nazione Indiana» chiamato in quel periodo per porre rimedio al problema:

Quello che mi ha colpito di più, rassettando gli archivi nel 2005, è stata la fantastica profusione di energie dei commentatori, che con 10.000 commenti spesso lunghissimi hanno scritto un blog parallelo, una antologia collaterale di critica, impegno, dibattito civile e delirio che è uno specchio dell’Italia in rete in quegli anni[53].

Sul piano invece ‘sociale’, i motivi del conflitto interno sono riconducibili alla volontà dei primi fondatori di coinvolgere gli altri ‘indiani’ in una polemica caratterizzata da un taglio fortemente identitario e che vuole inglobare, sotto l’egida di un’identità ‘indiana’, anche le posizioni degli altri membri.. È il motivo per cui, rispondendo al feroce appello rivolto da Carla Benedetti agli altri membri del gruppo di farsi sentire e di ribadire le posizioni comuni di fronte alla risposta di Caliceti, Raul Montanari scrive a caratteri cubitali «Nazione Indiana non è un’identità, come sembra che crediate voi: è una casa». Dalla risposta di Montanari e di altri ‘indiani’, emerge la sensazione che l’idea di una nazione indiana in cui sentirsi uniti pur restando autonomi e indipendenti sia venuta meno. Benedetti e Moresco, veicolando le proprie istanze di opposizione, hanno creduto di parlare a nome di tutta la comunità, mentre gli altri ‘indiani’ hanno visto in questo procedere una volontà di imporre battaglie e modalità di intervento troppo personali, l’emergere di una gerarchia che tende a sopprimere nell’idea di un’identità collettiva l’autonomia delle posizioni.

La contraddizione tra dimensione comunitaria e motore polemico è insita nel progetto fin dall’inizio, ma se in origine la polemica funziona da elemento fondativo e da aggregatore, richiamando anche numerosi visitatori, nel lungo periodo essa non può che rivelare, all’interno di un gruppo eterogeneo e di una comunità ampia come quella di «Nazione Indiana», i suoi limiti strutturali.

  1. La scissione: «Nazione Indiana 2.0» e «Il primo amore»

Dopo la fuoriuscita dei fondatori, i ‘superstiti’ si chiedono se, come e su quali basi continuare. Tra mille perplessità e dubbi «Nazione Indiana» riparte nel luglio del 2005 con un sito rinnovato – si sposta sulla piattaforma WordPress[54] – e con una formazione decisa a proseguire il progetto. Viene adottata una grafica minimalista, i commenti si spostano sotto il post ma si decide di applicarvi la ‘moderazione’, e si recuperano gli archivi degli articoli e dei commenti dei due anni precedenti. Nella testata del blog viene inserito come sottotitolo «versione 2.0», a significare la rinascita, non solo tecnica, del progetto. I primi post pubblicati da Andrea Inglese ricostruiscono le tappe – a partire da un incontro tenutosi il 1 luglio con i fuoriusciti e i rimasti – che hanno portato alla decisione di proseguire il progetto, e vengono riportati brani degli interventi degli ‘indiani’ rimasti.

All’apparire dei primi post, la decisione di applicare la moderazione ai commenti suscita una discussione accesa[55], tant’è che Franz Krauspenhaar deve intervenire per spiegarne le ragioni, evidenziando in maniera decisa una volontà di affrancarsi dai modi e dai toni che hanno caratterizzato la precedente versione del sito:

abbiamo pensato (grazie all’esperienza passata) che la provocazione fine a se stessa può fare solo del male alle discussioni, che sono il sale di questo nostro agire sul web. E’ un servizio ulteriore al sito e ai suoi lettori-commentatori, questo, nel rispetto delle opinioni altrui. Non si vuole assolutamente togliere la possibilità di dire quello che si pensa, quindi; ma si vuole agire – nel momento del bisogno – proprio per permettere più facilmente a chi ha da dire la propria di dirlo, senza infingimenti[56].

La direzione che si intende seguire è quella di un progetto più moderato, anche nelle prese di posizione, in una prospettiva militante meno marcata dal punto di vista identitario, come espresso dall’iniziale e multiplo intervento di Inglese. Il progetto, anche per la questione dei commenti, viene accolto con diffidenza e scetticismo, soprattutto dai lettori storici e dai collaboratori esterni.

Tuttavia, nel giro di poco tempo, lo scetticismo dei lettori e anche i dubbi degli stessi superstiti vengono spazzati via dall’incremento del traffico e del numero dei visitatori soprattutto a partire da ottobre e novembre del 2005[57]. Il biennio 2005-2007 segna il decollo di «Nazione Indiana 2.0», con il boom dei commenti nel 2006. Certamente importante, in quest’ottica, è la pubblicazione di Gomorra di Saviano, il cui nome non a caso è una delle parole chiave digitate dagli utenti nei motori di ricerca e che conducono al sito[58]. Ma fondamentale è anche la scelta di inserire i link agli altri siti e blog affini, consentendo di ampliare quella dimensione comunitaria che è decisiva non solo ai fini di una legittimazione del blog, ma anche per richiamare sempre più utenti, soprattutto grazie alla possibilità di commentare. Quest’ultima, nonostante l’introduzione della moderazione, non vede scalfita la sua predominanza, e anzi i commenti aumentano a dismisura (anche per la maggior dimestichezza rispetto alla versione precedente, in cui si doveva andare sugli archivi del mese).

Nel successo del blog – che ancora oggi, pur avendo perso parte del suo prestigio anche a causa del sorgere di altri spazi in grado di porsi come hub della scena letteraria online[59], resta uno degli spazi più importanti del web letterario – risulta fondamentale l’eclettismo dei contenuti. La seconda versione aumenta ancor più, rispetto alla prima, la varietà delle pubblicazioni, con post che spaziano dalla poesia (più presente rispetto alla versione 1.0, questo a causa dell’ingresso di diversi poeti nel gruppo, e della direzione più o meno evidente di Andrea Inglese) a interventi di attualità politica, dalla segnalazione di eventi o di pubblicazioni a recensioni e saggi critici, mentre i materiali pubblicati possono essere sia inediti che già usciti altrove, in rete come su quotidiani, settimanali e riviste. In più, viene dato maggior spazio ad interventi che hanno come tema il web e la scrittura in rete: in particolare, ai fini del nostro discorso, è interessante la discussione proposta a seguito alla pubblicazione, nel 2010, del saggio di Guglieri e Sisto Verifica dei poteri 2.0[60].

Questo eclettismo, figlio dell’originaria «Nazione Indiana» e che rende il blog assimilabile a una rivista militante tradizionale, è consentito anche dal numero via via crescente di collaboratori[61]. Nel 2007 viene fondata l’Associazione culturale no-profit Mauta[62] che formalizza l’organizzazione del progetto e del sito, mentre nel 2010 prende vita “Murene”, la collana cartacea di «Nazione Indiana», autofinanziata e disponibile per abbonamento, dove vengono pubblicati testi di saggistica, narrativa e poesia.

Nel frattempo i fuoriusciti da «Nazione Indiana» non sono rimasti con le mani in mano. Nel settembre del 2005, a due mesi dalla riunione di commiato con gli altri ‘indiani’, Moresco, Benedetti, Scarpa e Voltolini si incontrano e danno vita a un nuovo progetto chiamato «Il primo amore». Il nome «prende ispirazione dal diario omonimo di Giacomo Leopardi, che descrive il suo primo innamoramento scoprendo con stupore di avere dentro di sé una forza che non avrebbe mai immaginato di possedere»[63] e viene scelto, su proposta di Moresco, per esprimere «l’intenzione di affrontare argomenti e potenze primarie, su cui è organizzata la vita individuale e di società»[64]. Il gruppo, più ristretto e selezionato, è composto, oltre che dai fondatori già citati, da altri fuoriusciti da «Nazione Indiana» come Sergio Baratto, Benedetta Centovalli, Gabriella Fuschini, Giovanni Maderna, Sergio Nelli, a cui si aggiunge Giovanni Giovannetti, fotografo e giornalista militante, oltre che fondatore della casa editrice Effigie. Successivamente entrano Andrea Amerio, Maria Cerino, Serena Gaudino, Teo Lorini, Marco Rossari, Anna Ruchat e Andrea Tarabbia.

Il gruppo dà vita al blog «Il primo amore»[65], anche se, propriamente, il sito non si struttura come un blog: i fondatori, infatti, decidono preventivamente di non inserire la possibilità di commentare i post. Evidentemente, l’esperienza passata ha avuto delle ripercussioni, come già il Commiato di Moresco a «Nazione Indiana» lasciava intendere:

E c’è poi da ripensare e da reinventare tutto il problema degli strumenti e del modo migliore e più dinamico di stare anche dentro la rete, che non è solo quel regno delle libertà e delle possibilità che generalmente viene descritto ma anche una macchina sbriciolante e immobilizzante dove tendono continuamente a riprodursi -magari moltiplicate- le stesse logiche che dominano all’esterno[66].

Il sito si struttura come una rivista tradizionale, con una redazione e una linea editoriale condivisa, le stesse pubblicazioni sono più rade, dimostrando di voler concentrarsi su tematiche e prospettive definite. La linea è chiara fin dall’inizio, col primo post del 25 gennaio 2006, un appello a riaprire il processo Pasolini[67] a trent’anni dalla morte. I temi proposti sono in parte in continuità con quelli già veicolati da Moresco e Benedetti su «Nazione Indiana», come la riflessione su critica e istituzioni letterarie, ma tende a prevalere in maniera potenziata la linea moreschiana dello «sconfinamento», cioè la critica alla società. Non a caso dall’aprile del 2007 «Il primo amore» diventa anche una rivista su carta, pubblicata da Effigie, il cui sottotitolo è, appunto, «giornale di sconfinamento». Il primo numero è emblematicamente intitolato La rigenerazione ed è incentrato «sul bisogno di rinascita e rinnovamento che si sente fortissimamente nell’Italia berlusconiana e nel mondo»[68]. Attualmente l’ultimo numero pubblicato risale al 2012. Con «sconfinamento» non si intende solo il ritorno all’interventismo veicolato dai contenuti della rivista e del blog, ma anche uno sconfinamento ‘fisico’, nell’attività del «Primo amore» fuori dalla rete e dalla carta. Numerose sono infatti le iniziative[69] e gli incontri organizzati dalla redazione, sulla linea di quanto già Moresco proponeva ai tempi di «Nazione Indiana» con convegni come Giornalismo e verità (la dimensione dell’incontro dal vivo e del confronto, peraltro, risale a Scrivere sul fronte occidentale). Su tutti i Comizi del Primo amore, letture pubbliche senza commento di scritti di autori del passato, e Stella d’Italia, un cammino collettivo diretto a L’Aquila, organizzato assieme a gruppi e associazioni conosciute in un’iniziativa precedente chiamata Tribù d’Italia, del 2010. Sempre nell’ottica dello «sconfinamento» rientra anche la creazione di una piccola collana, “I fiammiferi”, pubblicata sempre da Effigie e che finora ha pubblicato testi dei membri della redazione incentrati su tematiche prevalentemente sociali o politiche.

Per quanto riguarda i rapporti tra i componenti di «Nazione Indiana 2.0» e «Il primo amore» bisogna dire che alcuni ‘indiani’ hanno collaborato o collaborano con «Il primo amore» (ad esempio Helena Janeczek e Giorgio Vasta, che poi è uscito dal gruppo), mentre i libri di Moresco, Scarpa e Benedetti sono stati recensiti su «Nazione Indiana» e, banalmente, nel blogroll del «Primo amore» c’è il link a «Nazione Indiana» e viceversa. Inoltre, nel 2013, in occasione dei dieci anni di «Nazione Indiana», i ‘superstiti’ e i membri del «Primo amore» si sono riuniti il 23 marzo presso il Teatro I di Milano in un incontro-festa aperto al pubblico, a cui hanno partecipato vecchi e nuovi collaboratori, oltre che autori esterni come Walter Siti (che ha dialogato con Antonio Moresco), il tutto documentato con foto e video su «Nazione Indiana»[70].

Ora, dalla fondazione alla scissione, il percorso di «Nazione Indiana» appena descritto sembra riprodurre, nelle sue dinamiche, il meccanismo di formazione e dissoluzione dei gruppi di avanguardia descritto da Bourdieu:

le posizioni di avanguardia, che sono definite soprattutto negativamente, attraverso l’opposizione alle posizioni dominanti, accolgono per un certo tempo, nella fase di accumulazione iniziale del capitale simbolico, scrittori e artisti molto diversi in quanto a origini e disposizioni. I loro interessi, per un istante vicini, finiranno in seguito per divergere. Piccole sette isolate, la cui coesione negativa si rafforza grazie all’intensa solidarietà affettiva, spesso concentrata nell’attaccamento a un leader, questi gruppi dominati tendono a entrare in crisi, per un paradosso apparente, quando accedono al riconoscimento, i cui profitti simbolici vanno spesso a un piccolo numero, se non a uno solo, e quando si indeboliscono le forze negative di coesione: le differenze di posizione all’interno del gruppo […] si traducono in una partecipazione diseguale ai profitti del capitale simbolico accumulato. Esperienza ancor più dolorosa per i primi fondatori misconosciuti in quanto la consacrazione e il successo attraggono una seconda generazione di adepti, molto diversi dai primi nelle loro disposizioni, che partecipano, talvolta più largamente dei primi azionisti, alla spartizione dei dividendi[71].

Proviamo a rileggere la storia di «Nazione Indiana» in questi termini. Inizialmente la volontà di opposizione al circuito culturale è ciò che cementifica il gruppo fondatore del blog, un collettivo eterogeneo, composto da soggetti «molto diversi in quanto a origini e disposizioni»: Moresco è lo scrittore outsider delle Lettere a nessuno e del Paese della merda e del galateo; Benedetti il critico sui generis e «impuro», Scarpa è uno scrittore e critico avviatosi alla consacrazione con il gruppo dei “Cannibali”; Dario Voltolini è impegnato sul fronte della ricerca letteraria personale; Giulio Mozzi è un autore e un docente di scrittura, attivo nell’editoria come consulente e scout; Fracassi e Martinelli appartengono al mondo del teatro; Helena Janeczek lavora nell’editoria ecc. La forza negativa di coesione, l’«attitudine di sogno e di combattimento», si rafforza nella solidarietà affettiva – secondo una strategia comune ai nuovi entranti – concentrata nell’attaccamento al leader Moresco[72]. Il gruppo entra in crisi quando «Nazione Indiana», attivo da un paio d’anni, ha già ottenuto una legittimazione, sia in rete che al di fuori, ponendosi come la sede principale del dibattito letterario online e in larga parte del dibattito letterario tout court. I profitti simbolici di questo riconoscimento vanno, però, soprattutto a un piccolo numero dei componenti del gruppo, e si tratta di quegli autori che riescono a costruire in rete una soggettività più forte, soprattutto grazie al capitale simbolico accumulato precedentemente e parallelamente nell’offline: abbiamo visto come il modello dello scrittore «in situazione», «performer» per usare il termine con cui Benedetti definisce Pasolini, palesato in primo luogo da Moresco e soprattutto da Saviano, in rete risulti vincente, creando tramite l’operazione di doppio «sconfinamento» un legame tra online e offline. Non a caso Saviano è l’autore nato in rete che più di tutti riesce ad acquisire un riconoscimento, e contribuisce a sua volta, come in un circolo virtuoso, alla legittimazione del blog e dell’intera rete letteraria. Di fronte al successo di pochi, le forze negative di coesione, quindi, si indeboliscono: le differenze di posizione all’interno del gruppo, con Moresco, Benedetti, Scarpa e altri che cercano di indirizzare l’intero gruppo verso le proprie istanze di «sogno e combattimento» perseguendo la linea dell’opposizione, si traducono in una partecipazione diseguale ai profitti del capitale simbolico accumulato. Il gruppo si scinde, e i membri meno forti continuano a portare avanti il progetto reindirizzandolo verso posizioni differenti rispetto a quelle proposte dai fondatori. Il blog nella sua versione 2.0 vede accumularsi il proprio capitale reputazionale e simbolico, i visitatori aumentano e la comunità si amplia. Il successo ottenuto con Moresco Benedetti e Scarpa viene così implementato dalla «seconda generazione di adepti», molto diversi dai primi nelle loro disposizioni – più misurate le posizioni di Andrea Inglese ad esempio, che prende in mano le redini della versione 2.0 di «Nazione Indiana» – e che si trovano a partecipare, assieme a nuovi membri che continuano ad aggiungersi, «più largamente dei primi azionisti alla spartizione dei dividendi»: il traffico e il numero dei visitatori aumenta, e la rete di relazioni online e offline si fa via via più articolata.

Questa interpretazione bourdesiana di «Nazione Indiana» come gruppo di avanguardia conferma la tesi secondo cui nella storia del blog sia riassunta, come in un microcosmo, quella dell’intero sottocampo letterario del web. Non a caso, parlando del web letterario attuale, avevamo introdotto un parallelo tra la fase dell’istituzionalizzazione e quella della consacrazione. Ciò che avviene nel percorso di «Nazione Indiana» non è altro che la riproduzione, potenziata per quanto in scala ridotta, delle dinamiche riconducibili alla lotta per l’acquisizione di capitale simbolico e ai rapporti tra nuovi entranti e dominanti che si trovano nella storia complessiva del sottocampo letterario del web. La descrizione delle modalità attraverso cui i gruppi d’avanguardia si formano e si dissolvono è applicabile, infatti, anche al percorso attraverso cui la scena letteraria online si è sviluppata negli anni. Essa inizialmente si costituisce per via negativa (nell’opposizione al circuito letterario ufficiale) accogliendo attori diversi ma legati dalla volontà di fondare in rete un circuito alternativo, e, accumulando progressivamente sempre più capitale simbolico giunge, negli ultimi anni, alla consacrazione, fase in cui la seconda generazione di esperienze online – quella dei nuovi hub come «minima&moralia», «doppiozero» e «Le parole e le cose», nettamente differenti dalle prime connotate dalla volontà di rottura – usufruiscono dei profitti simbolici della rete in misura maggiore rispetto ai vecchi hub (basti contare il numero di visitatori unici che questi siti raggiungono giornalmente rispetto, ad esempio, a «Nazione Indiana» e a «Carmilla»).

Per quanto concerne, invece, il peso che l’evoluzione di «Nazione Indiana» ha avuto sull’evoluzione stessa del web letterario italiano, bisogna concordare ancora una volta con Bortolotti nell’affermare che la scissione del blog ha rappresentato «uno spartiacque fondamentale»[73] nella storia del sottocampo, dal momento che ne ha determinato in modo definitivo la strutturazione successiva. Con la separazione del gruppo, infatti, gli autori dotati di un riconoscimento nell’offline, cioè in possesso di una legame più forte con il circuito letterario tradizionale e con il pubblico, come Moresco, Benedetti e Scarpa, rielaborano la propria presenza online in termini ridotti, orientandola verso una strategia più vicina a modalità tipiche del sistema tradizionale. Infatti, eliminando lo spazio dei commenti, fanno in modo di ristabilire quella gerarchia che preserva il ruolo autoriale. Quelli che rimangono in «Nazione Indiana», invece, «accettano le logiche del nuovo circuito e le sfruttano per costruire un’autorevolezza coerente alla rete e alternativa (non necessariamente avversa, però) ai circuiti tradizionali»[74]. Si tratta di un momento decisivo all’interno della storia del sottocampo: da una parte, come afferma giustamente Bortolotti, anche le figure autoriali nate online cominciano ad ottenere un riconoscimento fuori dalla rete; dall’altra, è proprio a seguito dalla scissione del blog che il web letterario si assesta. L’importanza di «Nazione Indiana 2.0», infatti, sta nell’aver rappresentato un modello su cui sono state plasmate molte delle esperienze sorte successivamente nel panorama del web, e questo non solo per la capacità di aggregare utenti e per aver reso chiaro come l’eclettismo dei contenuti sia una strategia vincente per uno spazio culturale online, ma soprattutto perché ha mostrato che solamente affrancandosi da pratiche e schemi concettuali appartenenti al circuito letterario tradizionale e accettando la logica del medium è possibile costruire in rete un discorso culturale coerente e di valore.

[1] In «Allegoria», anno XXII, terza serie, n. 61, 2010, pp. 153-174; online all’indirizzo http://www.allegoriaonline.it/PDF/62.pdf

[2] Cfr. P. Bourdieu, Le regole dell’arte. Genesi e struttura del campo letterario, Milano, il Saggiatore, 2013, p. 333; ed. or. Les régles de l’art. Genèse et structure du champ littéraire, Paris, Seuil, 1992.

[3] F. Guglieri, M. Sisto, Verifica dei poteri 2.0. Critica e militanza letteraria in Internet (1999-2009), cit., p. 168.

[4] Nella nostra ipotesi di periodizzazione tale fase segue quella prodromica che va dalla metà degli anni Novanta (caratterizzata da forum, mailing-list e newsgroup ed esperienze precorritrici come «Bollettino ’900») ai primi del Duemila (in cui si collocano esperienze come «Wu Ming Foundation», «Società delle Menti» di Giuseppe Genna, «vibrisse» di Mozzi e le prime riviste online «Zibaldoni e altre meraviglie» e «Carmilla») e precede quella apertasi nell’ultimo quinquennio con la comparsa dei social network e di nuovi hub come «minima&moralia», «doppiozero» e «Le parole e le cose».

[5] R. Carnero, Internet café letterario, in «l’Unità», 29 dicembre 2003, p. 23; online qui: http://archiviostorico.unita.it/cgi-bin/highlightPdf.cgi?t=ebook&file=/golpdf/uni_2003_12.pdf/29CUL23A.PDF&query=internet%20%20letterario

[6] Scrivere sul fronte occidentale, in «Nazione Indiana», 1 marzo 2003, http://www.nazioneindiana.com/2003/03/01/scrivere-sul-fronte-occidentale/ : è il primo post pubblicato dal blog.

[7] AA. VV., Scrivere sul fronte occidentale, a cura di A. Moresco e D. Voltolini, Milano, Feltrinelli, 2002.

[8] A. Moresco, Lettera, ivi, p. 7.

[9] A. Moresco, Lettere a nessuno, nuova ed. accresciuta, Torino, Einaudi, 2008, p. 555.

[10] Id., Lettera, cit., pp. 7-8.

[11] Id., L’occhio del ciclone, in AA. VV:, Scrivere sul fronte occidentale, cit., p. 39.

[12] D. Voltolini, Inizio dei lavori, ivi, p. 9.

[13] Guglieri, Sisto, Verifica dei poteri 2.0, cit., p. 162.

[14] Moresco, L’occhio del ciclone, cit., p. 48

[15] Ibidem.

[16] C. Benedetti, Il pieno, in AA. VV., Scrivere sul fronte occidentale, cit., p. 12.

[17] Dal Cesare Segre di Notizie dalla crisi (Einaudi, 1993) al Giulio Ferroni di Dopo la fine (Einaudi, 1996).

[18] «la critica è un collaudo. I libri si mettono alla prova; le idee si collaudano nel proprio corpo, nella propria esperienza. […] il collaudo, come qui praticato (in tutto il libro, non solo in quei diciotto pezzi), implica un approccio ai fatti della cultura che sta agli antipodi della cosiddetta “critica militante”, così come viene per lo più concepita oggi in Italia. Per collaudare un libro, un’idea, una scrittura, un’opera d’arte, il primo gesto da fare è infatti è quello di rompere il cellophan, estrarne l’oggetto e farlo entrare nel mondo.

Ma è proprio questo contatto con il mondo che l’idea dominante di letteratura, alimentata dai critici e dai poteri mediatico-industriali, oggi scoraggia e inibisce», C. Benedetti, recensione a Che cos’è questo fracasso? di T. Scarpa, in “The New York Review of Books-La Rivista dei Libri”, 10 ottobre 2000, recuperata in rete nel blog di Sparajurij: http://www.sparajurij.com/tapes/deviazioni/TizianoScarpa/RECENSIONEfracasso.htm

[19] Benedetti, Il pieno, cit., p. 13.

[20] Per vedere l’aspetto originario di NI basta andare all’indirizzo http://web.archive.org/web/20030621113207/http://www.nazioneindiana.com/

[21] La nostra storia, 2002-2005: Nazione Indiana, in «Il primo amore», http://www.ilprimoamore.com/blogNEW/STORIA.html . Nel nome, comunque, vi è anche un richiamo agli Indiani metropolitani, il che sottolinea ulteriormente l’elemento polemico che anima il sito.

[22] http://www.nazioneindiana.com/chi-siamo/

[23] Ibidem.

[24] Ibidem.

[25] Ibidem.

[26] A. Moresco, In attitudine di combattimento e di sogno, in «Nazione Indiana», 21 marzo 2003, http://www.nazioneindiana.com/2003/03/21/in-attitudine-di-combattimento-e-di-sogno/

[27] Guglieri, Sisto, Verifica dei poteri 2.0, cit., p. 169.

[28] Lo spiega Jan Reister, dal 2005 responsabile tecnico del sito, in Un piccolo bilancio di Nazione Indiana – 1, 28 gennaio 2009, in «Nazione Indiana», https://www.nazioneindiana.com/2009/01/28/un-piccolo-bilancio-di-nazione-indiana-1/

[29] http://web.archive.org/web/20031026101622/http://www.nazioneindiana.com/archives/2003_03.html

[30] «Nazione Indiana» successivamente ha inserito la modalità tipica del commento sotto al post, mentre da circa un anno lo spazio dei commenti è stato spostato su un apposito forum interno al blog, Eulalia (https://eulalia.nazioneindiana.it/ . Come ha scritto Andrea Raos commentando il post che annuncia tale spostamento, la nuova operazione che il lettore deve fare per commentare non è poi troppo lontana da quella originaria con gli archivi mensili: «Il fatto che non si puo’ commentare sotto il pezzo ma ci si deve spostare qui su Eulalia mi ricorda molto la NI degli inizi, dove si doveva fare proprio una cosa del genere. Che bello questo effetto vintage », A. Raos, commento al post I commenti si spostano su Eulalia, in «Nazione Indiana», 27 gennaio 2015, http://www.nazioneindiana.com/2015/01/27/i-commenti-si-spostano-su-eulalia/

[31] Bortolotti, Oltre il pubblico: la letteratura e il passaggio alla rete, cit. , pp. 121-122.

[32] Ivi, p. 123.

[33] C. Benedetti, Genocidio culturale, in «Nazione Indiana», 18 gennaio 2005, https://www.nazioneindiana.com/2005/01/18/genocidio-culturale/

[34] Ibidem.

[35] Ibidem.

[36] T. Scarpa, Fantacritica (nel senso dell’aranciata) (1997), in Id., Che cos’è questo fracasso?, Torino, Einaudi, 1999.

[37] Id., Il beejay, in «Nazione Indiana», 24 febbraio 2005, https://www.nazioneindiana.com/2005/02/24/il-beejay/

[38] «[…] A volte, quando dipingiamo l’editoria come una macchina da guerra bene oliata, perfettamente funzionante, in grado di essere usata bene (libri di qualità) o male (libracci imposti al pubblico con la certezza del successo) le attribuiamo un’incisività e una potenza che sarebbe ben felice di avere, ma non ha. I meccanismi editoriali, visti dal di dentro, sono farraginosi, a volte penosi; le cose succedono o non succedono, un po’ a casaccio.
Un art director può impuntarsi su una copertina che non funziona e ammazzare le vendite di un libro; il famoso critico non riceve le bozze e si incazza; l’altro si incazza il doppio perché le riceve senza averle sollecitate; l’autore fa un passaggio televisivo disastroso, oppure neutro, oppure incredibilmente brillante […]; all’ufficio stampa mettono una persona incompetente (parlo di cose che conosco); l’editore cambia il sistema di distribuzione e per qualche mese il libro non è presente in libreria; eccetera eccetera».

[39] L. Lipperini, Il tempo della latoguardia, in «Lipperatura», 18 gennaio 2005, http://loredanalipperini.blog.kataweb.it/lipperatura/2005/01/18/il-tempo-della-latoguardia/

[40] Bortolotti, Oltre il pubblico: la letteratura e il passaggio alla rete, cit., p. 93.

[41] A. Moresco, La restaurazione, in «Nazione Indiana», 9 aprile 2005, https://www.nazioneindiana.com/2005/04/09/la-restaurazione/

[42] Ad esempio l’intervento di risposta di Beppe Sebaste si apre con questo assunto: «Il fatto è che (è quasi banale dirlo) si parla di restaurazione quando qualcosa di rivoluzionario arretra e cede, perde posizione […]; e mi accade allora lo stesso di quando una volta si parlava di “riflusso”: l’idea cioè che devo essermi perso la spinta “rivoluzionaria”, l’andare in avanti. E quindi: restaurazione rispetto a quale innovazione, a quale “rivoluzione”? […] Pur essendo, o immaginando di essere, d’accordo con lui, il suo discorso non mi offre “prese”. Per questo abbandonerei questa parola», B. Sebaste, Restaurazione, repressione, marginalizzazione…, in «Nazione Indiana», 23 aprile 2005,

https://www.nazioneindiana.com/2005/04/23/restaurazione-repressione-marginalizzazione/

[43] G. Caliceti, La Sfida e il Riscatto. Giuseppe Caliceti risponde a Antonio Moresco, in «Nazione Indiana», 12 aprile 2005, https://www.nazioneindiana.com/2005/04/12/la-sfida-e-il-riscatto/

[44] Ibidem.

[45] C. Benedetti, I pompieri, in «Nazione Indiana», 13 aprile 2005, https://www.nazioneindiana.com/2005/04/13/i-pompieri/

[46] A. Inglese, Lettera a Carla sul combattimento e sul sogno, in «Nazione Indiana», 14 aprile 2005,

https://www.nazioneindiana.com/2005/04/14/lettera-a-carla-sul-combattimento-e-sul-sogno/

[47] R. Montanari, Una casa, in «Nazione Indiana», 14 aprile 2005, https://www.nazioneindiana.com/2005/04/14/una-casa/

[48] H. Janeczek, Prima che crolli il palazzo, in «Nazione Indiana», 14 aprile 2005, https://www.nazioneindiana.com/2005/04/14/prima-che-crolli-il-palazzo/

[49] G. Mozzi, Preterizione, in «Nazione Indiana», 14 aprile 2005, https://www.nazioneindiana.com/2005/04/14/preterizione/

[50] A. Moresco, Risposta pacata, in «Nazione Indiana», 15 aprile 2005, https://www.nazioneindiana.com/2005/04/15/risposta-pacata/

[51] Nello stesso giorno la medesima decisione viene annunciata anche da Tiziano Scarpa, col post https://www.nazioneindiana.com/2005/05/27/in-uscita/ e tre giorni dopo da Carla Benedetti con l’articolo Slanci frenati, https://www.nazioneindiana.com/2005/05/30/slanci-frenati/

[52] A. Moresco, Commiato, in «Nazione Indiana», 27 maggio 2005, https://www.nazioneindiana.com/2005/05/27/commiato/

[53] J. Reister, Un piccolo bilancio di Nazione Indiana – 1, in «Nazione Indiana», 28 gennaio 2009, https://www.nazioneindiana.com/2009/01/28/un-piccolo-bilancio-di-nazione-indiana-1/

[54] https://www.nazioneindiana.com/

[55] http://www.nazioneindiana.com/2005/07/23/ritratto-di-cassandra/ e http://www.nazioneindiana.com/2005/07/26/la-crisi/

[56] Franz Krauspenhaar, La crisi, in «Nazione Indiana», 26 luglio 2005, http://www.nazioneindiana.com/2005/07/26/la-crisi/

[57] I dati statistici delle visite di quel periodo sono consultabili sullo stesso sito: http://www.nazioneindiana.com/2006/12/19/statistiche-per-ottobre-novembre-2006/

[58] La panoramica del traffico del blog nel biennio 2005-2006 si può controllare al seguente indirizzo: http://static.nazioneindiana.net/wpcontent/2009/10/Analytics_www.nazioneindiana.com__DashboardReport.pdf

[59] Recentemente «Nazione Indiana» ha dichiarato di ricevere una media di 2000 visitatori al giorno, il che registra un calo dovuto principalmente all’emergere di nuovi spazi in grado di porsi come nuovi crocevia del dibattito letterario online, come vedremo nel prossimo capitolo. Il numero dei visitatori dichiarati è tratto dall’inchiesta a cura di A. Cirolla La cultura non è morta basta cercarla sul web, in «pagina99», 22 novembre 2014, p. 31.

[60] Il saggio viene, infatti, pubblicato anche su «Nazione Indiana» (https://www.nazioneindiana.com/2011/03/24/verifica-dei-poteri-2-0/), che dà vita a un’inchiesta sul tema con varie interviste: le Cinque domande su critica e militanza letteraria in Internet si trovano linkate sotto la prima ad Alberto Casadei: https://www.nazioneindiana.com/2011/03/28/verifica-dei-poteri-2-0-alberto-casadei/

[61] Dopo vari ingressi e fuoriuscite negli anni, attualmente [gennaio 2016] i membri di NI sono: Mariasole AriotGianni BiondilloBiagio CepollaroSilvia ContariniLorenzo DeclichFrancesca FiorlettaFrancesco ForlaniAndrea IngleseHelena JaneczekJamila MascatGiorgio Mascitelli,Francesca MatteoniRenata MorresiDavide OrecchioMattia PaganelliDomenico PintoOrsola PuecherAndrea RaosJan ReisterGiacomo SartoriIgiaba ScegoGiuseppe SchillaciAntonio Sparzani,Ornella TajaniDaniele VentreMaria Luisa Venuta, «Nazione Indiana», Chi siamo, http://www.nazioneindiana.com/chi-siamo/

[62] http://www.mauta.org/

[63] La nostra storia. 2005-oggi: http://www.ilprimoamore.com/blogNEW/STORIA.html

[64] Ibidem.

[65] http://www.ilprimoamore.com/blogNEW/blogDATA/spip.php?page=indexBLOG

[66] http://www.nazioneindiana.com/2005/05/27/commiato/

[67] Anche noi parte offesa: riaprire il processo Pasolini, in «Il primo amore», 25 gennaio 2006,

http://www.ilprimoamore.com/blogNEW/blogDATA/spip.php?article109

[68] La nostra storia, http://www.ilprimoamore.com/blogNEW/STORIA.html

[69] Per un compendio delle iniziative si rimanda alla sezione “Imprese” del blog: http://www.ilprimoamore.com/blogNEW/IMPRESE.html

[70] Un Post a tavola : festa di Nazione Indiana e Primo Amore, in «Nazione Indiana», 24 marzo 2013, http://www.nazioneindiana.com/2013/03/24/un-post-a-tavola-festa-di-nazione-indiana-e-primo-amore/ ; Dialogo tra Antonio Moresco e Walter Siti. VIDEO. E tutto il resto dalla festa di Nazione Indiana e Il Primo Amore, in «Nazione Indiana», 27 marzo 2013 http://www.nazioneindiana.com/2013/03/27/dialogo-tra-antonio-moresco-e-walter-siti-video-e-tutto-il-resto-dalla-festa-di-nazione-indiana-e-primo-amore-documenta/

[71] Bourdieu, Le regole dell’arte, cit., p. 348.

[72] Così Gianni Biondillo commentando l’addio di Moresco: «Solo un’ultima cosa: per me Antonio Moresco “è” Nazione Indiana. Mi chiedo: cos’è Nazione Indiana senza Antonio Moresco?», G. Biondillo, I Commenti al Commiato, in «Nazione Indiana», 27 maggio 2005, https://www.nazioneindiana.com/2005/05/27/i-commenti-al-commiato/

[73] G. Bortolotti, risposta a Cinque domande su critica e militanza letteraria in Internet, in «Nazione Indiana», 21 aprile 2011, http://www.nazioneindiana.com/2011/04/21/verifica-dei-poteri-2-0-gherardo-bortolotti/

[74] Ibidem.

[Immagine: Carla Accardi, Nero (gm)].

29 thoughts on “L’esperienza di «Nazione Indiana» nella storia del web letterario italiano

  1. non pensavo di essere stato così trasparente in Nazione Indiana. Per esempio per il fatto che quando pubblicarono l’elenco dei post più letti dell’anno (2006, credo), uno mio (“tecniche di suicidio”) risultava il secondo più letto dopo uno di Saviano. O ancora per il fatto che assegnarono a me il compito di difendere le ragioni del gruppo che restava, rispetto agli scissionisti del primo amore, quando stilos, il supplemento letterario del quotidiano la sicilia, ci chiese due articoli in parallelo che esponessero gli argomenti contrapposti, e benedetta centovalli firmò il pezzo degli scissionisti e io l’altro. ma va bene uguale.

  2. E’ una ricostruzione volonterosa, ma si basa solo sui testi pubblicati. E’ necessario conoscere la vita di un gruppo/rivista per farne la storia, che è fatta di intuizioni originarie, confronti sulle intenzioni, consapevolezza dei (pochi!) mezzi a disposizione, incontri, discussioni dal vivo, riunioni, riunioni e ancora riunioni, contatti, tentativi di coinvolgimento, autofinanziamento, volontariato, e una grande mole di lavoro che all’esterno si vede solo in parte.

    Per fare solo un esempio: per capire meglio la discussione conflittuale del 2005 forse è necessario sapere che chi l’ha innescata non partecipava mai alle ricorrenti riunioni dal vivo: questo sia detto senza polemica – sono passati undici anni e siamo rimasti in ottimi rapporti – ma solo per dire che per comprendere che cos’è una rivista e un gruppo culturale non bastano i testi pubblicati, c’è la vita di un gruppo, bisogna sapere chi partecipava davvero e chi no. Ci sono quelli che si sentono più motivati e si prendono a cuore certe iniziative, e ci sono altri che magari collaborano poco e di rado da lontano (anche se abitano nella stessa città), un po’ per generica affinità culturale, un po’ per amicizia e generosità, ma fondamentalmente non sentono quell’impresa fra le proprie priorità, e dunque quando qualcosa diventa troppo impegnativo si spaventano, e improvvisamente, da semi-silenti, diventano pubblicamente attivissimi e risoluti nel marcare il proprio dissenso.

    La morale della favola che ne ho ricavato io è che per fare qualcosa bisogna affiancarsi a chi è veramente motivato, ma d’altronde quando si è in troppo pochi non si va molto lontano, a meno di non dedicare a imprese come questa tutto il proprio tempo; e noi – per passione o per malintesa vocazione che sia – prima di tutto siamo impegnati a dare forma a delle opere; e: ars longa, vita brevis. Nonostante questo, vi assicuro che abbiamo dedicato e continuiamo a dedicare una grande quantità di tempo ed energie a imprese come Nazione indiana e Il primo amore.

    Bisogna sapere anche che all’inizio Nazione Indiana voleva essere un collettore (un aggregatore ante litteram!) di tutti i contributi sull’attualità culturale civile politica dispersi in testate locali o rivistine, per renderli accessibili a un pubblico nazionale; lo proposi al convegno “Scrivere sul fronte occidentale”, è riportato anche negli atti pubblicati da Feltrinelli; la prima idea di Nazione Indiana nacque da quella mia intuizione; c’era uno spreco di contributi scritti da romanzieri e poeti – ossia di cittadini armati solo della propria parola, non appartenenti ad albi professionali né a gerarchie carrieristiche del giornalismo – che poteva fare da contraltare ai detentori di editoriali e rubriche quotidiane, e che meritava di essere valorizzato e diffuso: anche per questo si cercò di coinvolgere quanta più gente possibile, disposta a condividere articoli e interventi già pubblicati, e che però inevitabilmente non sentiva una profonda appartenenza a questo gruppo.

    Ma queste e altre cose magari un giorno le racconterò meglio. Intanto mi basta avvertire i lettori di questo intervento che le cose sono molto meno schematiche di come sono state state presentate qui. Infine, trovo un po’ comico l’occhialino “bourdesiano” (come già nell’intervento di Guglieri e Sisto) che sa già tutto in anticipo: sfugge a tutti questi interpreti che nell’Italia attuale il “capitale simbolico” si accumula scrivendo romanzi di successo o venendo cooptati da testate giornalistiche o televisioni. Chi si è dedicato (e si dedica) a imprese come Nazione Indiana o Il primo amore lo ha fatto in assoluta perdita, per spirito donchisciottesco e fedeltà alla propria coscienza, e avendo ben presente che, se lo scopo era accumulare “capitale simbolico”, bisognava mettersi a fare tutt’altro.

  3. Articolo condivisibile, specie nella sua impostazione “archeologica” (per cui a quella “bourdesiana” si potrebbe affiancare l’impostazione foucaultiana…). Anche se mi pare sia un po’ sbilanciato sineddoticamente su alcuni “Padri Fondatori, da cui poi il web letterario non ha mancato di liberarsi.

  4. Trecentocinquanta miei commenti spesso polemici infine raccolti in e-book qui https://www.amazon.it/dp/B017Q7BG3Y sono uno spin-off generato dalla partecipazione in colonnino alle attivita’ di quel sito e poi di questo. Oggi non e’ piu’ possibile tenere quei toni, in parte per i motivi esposti nel saggio, in parte perche’ quello spiritosi e’ coagulato in altre aggregazioni ed in altri ambiti: Hacker News, kaggle.com, vecchiasignora.com. Non dite a Moresco che il plot del suo ultimo libro ricalca il videogioco Grim Fandango.

  5. Cornacchia, scusi l’ardire, ma un uomo dovrebbe veramente spendere 3 euro per i suoi commenti sul web?

  6. @TizianoScarpa

    La ringrazio per l’attenzione. Sono d’accordo sul fatto che per fare la storia di un gruppo/rivista sia necessario averne conosciuto la vita dall’interno, tuttavia ritengo che ogni tentativo di ricostruzione storica – e tale vorrei venisse considerato il mio lavoro – debba in primo luogo fondarsi su quelle fonti scritte che nel corso di questi tredici anni si sono accumulate. Di tale materiale ho cercato di compiere una ricerca il possibile esaustiva, passando in rassegna non solo quanto pubblicato in cartaceo, ma anche e soprattutto la miriade di post e di relativi commenti che hanno plasmato quei momenti. Sono convinto che ciò andasse fatto sia per ragioni di serietà scientifica sia, in particolare, perché l’oggetto di studio è anzitutto un fenomeno della rete: tutto quel materiale è ancora lì e credo che questo sia uno degli aspetti più positivi del web. Certamente, comunque, il lavoro può essere ampliato e approfondito attingendo a fonti orali, magari tramite interviste a voi fondatori e ai vari membri che hanno partecipato a Nazione Indiana negli anni, tuttavia mi sembra evidente che molti dei documenti presi in considerazione (dagli atti di “Scrivere sul fronte occidentale” ai brani tratti dai libri di Moresco) siano testimonianze dirette dei protagonisti.
    Per quanto concerne le ultime righe del suo intervento: sì, ovviamente le cose sono molto meno schematiche di come le ho presentate, ma ribadisco che la mia è una ricostruzione storica. Quando Nazione Indiana è stato fondato avevo tredici anni e non sapevo nemmeno che cosa fosse un blog. Il mio è il punto di vista attuale di uno studioso. A distanza di più di un decennio, ho ritenuto che fosse possibile (se non impellente) tentare di ricostruire un’esperienza che ritengo essere stata fondamentale per la storia del web letterario italiano e per quella della letteratura italiana contemporanea. Il mio auspicio è che anche coloro che l’hanno vissuta in prima persona, come lei, possano riportarla all’attenzione del dibattito per comprendere che cosa essa ha rappresentato e quali conseguenze ha determinato per il panorama culturale online attuale. Il mio tentativo andava in questa direzione. Può trovare “comico” l’utilizzo di Bourdieu a tal fine, ma quanto afferma in merito rientra tra gli errori più comuni nell’interpretazione della sua teoria: in essa non c’è determinismo. Inoltre, il concetto di capitale simbolico da lei presentato mi sembra fuorviante. Il successo commerciale rientra nella logica economica della cosiddetta letteratura industriale, che coesiste assieme all’altra logica del campo letterario, quella antieconomica del circuito ristretto, della letteratura per la letteratura, dei produttori per i produttori. Soltanto quest’ultima è orientata all’accumulazione del capitale simbolico e rappresenta il polo più autonomo del campo. Sia come sia, sono convinto, come già Guglieri e Sisto, che definire i fondatori di Nazione Indiana all’epoca nuovi entranti o dominati all’interno del campo letterario sia corretto, così come l’interpretazione quale gruppo d’avanguardia in senso bourdesiano. Lo dimostra l’opposizione costante ai dominanti su cui si è basata la vostra intera attività in rete e, prima ancora, con Scrivere sul fronte occidentale.

  7. @ Salvati

    Ritengo proprio di sì, se ha i 3 euro e l’intelligenza di capire che spesso nei commenti si sedimenta un sapere critico che non è da meno di quello che (non sempre) si legge nei post dei vari blog.

  8. @ Andrea Lombardi

    Grazie della risposta. Mi permetta di dirle, con tranquillità, che secondo me la sua impostazione non è soddisfacente. Io riscontro in essa un feticismo documentario, che lei, per così dire, monumentalizza conferendo alla sua ricerca la definizione di “ricostruzione storica”, solo perché ha pazientemente letto i materiali del sito (una mole enorme!, comprendo, rispetto e apprezzo moltissimo il suo sforzo). Parlo di “feticismo documentario” non certo perché non si debba tenere conto dei documenti, ma essi a volte non bastano; tanto più quando si ha a disposizione la presenza vivente di protagonisti e testimoni che possono integrarli.

    Per esempio, se lei si limita a leggere ciò che c’è in rete o in “Scrivere sul fronte occidentale” non potrà sapere come è nata veramente Nazione Indiana (e però, se leggeva con più attenzione la sezione “La nostra storia” sul sito del Primo Amore, lì un accenno c’è; ma evidentemente nella sua ricostruzione ha preferito passarlo sotto silenzio), né come si svolgeva la sua vita reale, quali post (ma anche attività fuori dalla rete, non lo dimentichi mai: non si capisce Nazione Indiana se non si tiene conto che, per fortissima istanza dei suoi fondatori, era un’impresa che voleva essere, ed era, polimediale, esisteva sia in rete che fuori: Nazione Indiana non è stata solo un sito o blog come ce n’erano tanti che mettevano in rete dei contenuti; le sue attività nel mondo fisico erano decisive per conferirle tutt’altro statuto mediale, e questa era un’idea dei fondatori che è proseguita, in forme facilmente constatabili, nel Primo Amore), dicevo, non potrà sapere quali post – e in che modo, usando quali dispositivi – l’hanno fatta decollare nei primissimi mesi, né come è avvenuto l’ingresso di Roberto Saviano e che tipo di rapporti ha avuto con il gruppo, e nemmeno quali passi hanno portato alla discussione conflittuale del 2005.

    La sua ricostruzione, da questo punto di vista, soffre di una specie di tautologia metodologica, che definirei ipermedialità autotelica: detto in parole semplici, siccome si tratta di qualcosa che è stato pubblicato in rete, lei – oltre a “Scrivere sul fronte occidentale” – ha preso in considerazione quasi solo i materiali che ci sono in rete (e però trascurando qualche importante dettaglio…), e tanto le è bastato (anche se non è poco, e, ripeto, è certamente apprezzabile che lei li abbia letti e analizzati). Questa resecazione dell’umano d’altronde è tipico di quest’epoca, ma lasciamo stare, adesso non voglio fare del moralismo o della sociologia spicciola.

    In particolare, non condivido le sue conclusioni, che trovo in parte dovute alla sua non conoscenza della vita reale di Nazione Indiana nel biennio 2003-2005 (in particolare, lei non può sapere come si sono comportati Antonio Moresco e Carla Benedetti nei confronti del gruppo in quegli anni e specialmente a ridosso della discussione conflittuale del 2005, se si limita a leggere gli interventi in rete), e in parte ideologiche; ideologiche nel senso che accettano acriticamente una specie di bontà o positività naturale del medium in quanto tale; ovvero, quando alla fine lei parla del Primo Amore, di fatto sta postulando: “blog con commenti = interscambio comunitario = assenza di gerarchie autoriali = buono”, “sito senza commenti = ripristino delle gerarchie autoriali = cattivo” . Su questo potrei scrivere decine di pagine, e certamente qui non è il caso. Sarò comunque molto prolisso, chiedo scusa (ma allo stesso tempo sono contento di esserlo: così mi leggerà solo chi è davvero interessato).

    1) Stare dietro ai commenti costantemente, soprattutto quando si è diventati un gruppo più ristretto (come quello del Primo Amore), è improbo, ci sono tante altre cose da fare e la vita non è eterna (lei è molto giovane, ma immagino abbia già fatto delle valutazioni sull’uso del suo tempo); tanto più che l’attività del Primo Amore è consistita non solo in un sito, ma, come lei ricorda, in una rivista cartacea che poi si è “evoluta” in una collana di libri, e poi convegni, performance, organizzazione di cammini di migliaia di chilometri con incontri di attivisti e associazioni sui territori (quest’anno siamo al sesto cammino – lei è fermo a Stella d’Italia del 2012, colpa nostra che non abbiamo aggiornato la sezione del sito “La nostra storia” – si parte da Trieste domenica prossima, si va a piedi fino a Sarajevo; chiunque voglia può partecipare, anche per una tappa sola). Ma evidentemente, questo per lei non è rilevante, perché quando si tratta di tirare le somme lei prende in considerazione solo la rete, con un monoteismo mediale autotelico resecato dal complesso dell’impresa culturale. Lei scrive infatti che “solamente affrancandosi da pratiche e schemi concettuali appartenenti al circuito letterario tradizionale e accettando la logica del medium è possibile costruire in rete un discorso culturale coerente e di valore”. Dunque ritiene che il discorso in rete del Primo Amore non sia né coerente né di valore. E non tiene conto della capacità di aggregazione anche fisica che Il Primo Amore ha innescato con il complesso della sua attività, che comprende inseparabilmente sito+rivista+incontri+collana di libri+convegni+performance+cammini, in una convergenza e continuità polimediale che coinvolge partecipazioni multistrato.

    2) purtroppo nei commenti di Nazione Indiana eravamo continuo oggetto di provocazione e trollaggio, forse proprio in quanto eravamo sentiti come figure non germinate in rete, e questo evidentemente non ispirava simpatia; ogni nostro intervento provocava una quantità di “schiuma” puramente contrastiva, e fare così tanta fatica nell’aprire un nuovo sito (Il Primo Amore) per poi dare spazio a sarcasmi e sabotaggi non era esattamente entusiasmante: abbiamo preferito impegnare il nostro tempo nella scrittura di contenuti e anche nel coinvolgimento partecipativo svolto nel mondo fisico ed editoriale cartaceo, anziché nello stare lì monomaniacalmente a rintuzzare commenti sottilmente provocatori… Forse gli amici di Nazione Indiana 2.0 erano più simpatici e cordiali e suscitavano minori animosità, e per loro tenere aperti i commenti comportava, come dire?, serate un tantino più serene; c’è da tenere conto anche di questo. Oggi ormai tutto si è calmato, la rete è diventata un’altra cosa, si è differenziato e specializzato il paesaggio, e, come sappiamo bene, molte funzioni che svolgevano i blog le svolgono i social network, eccetera; ma una dozzina d’anni fa i blog erano davvero diversi, come ricordiamo tutti, e forse bisogna tenere conto anche di questo, prima di correre a conclusioni sulla volontà di “preservare il ruolo autoriale”: anche perché, mi scusi, ma Nazione Indiana l’abbiamo pur fondata noi, e i commenti c’erano fin dall’inizio, anche se ce li siamo ritrovati un po’ fortunosamente (eravamo davvero poco pratici di rete): mica li abbiamo tolti. Li abbiamo tenuti; se avessimo voluto toglierli, l’avremmo fatto. Che fosse un po’ macchinoso utilizzarli, in Nazione Indiana 1.0, è vero, ma questo, pur non essendo fatto apposta, secondo me era positivo, perché costringeva chi volesse commentare a essere un minimo motivato e a superare delle – peraltro irrisorie – soglie tecniche (non dimentichi mai il clima molto avverso di quegli anni nei confronti di chi intraprendeva un’attività in rete provenendo da altri “campi”). Ci siamo spesi allo spasimo in centinaia di commenti, oltre a scrivere individualmente decine e decine di interventi. Come ciliegina, aggiungo che ho passato intere notti a cancellare uno per uno le migliaia di spam automatici, perché in quegli anni, a causa di dotazioni tecniche non ancora raffinate, ci si doveva sobbarcare pure quello… Insomma, a me non sembra che si possa fare una ricostruzione storica senza tenere conto di tutto quanto questo. Forse lei era veramente troppo giovane, e certe tappe decisive e dettagli, se non li ha vissuti, se le interessano dovrebbe farseli raccontare da chi c’era.

    3) (questo è un punto particolarmente rilevante, secondo me): nel frattempo, tra 2004 e 2005 era diventato ormai sempre più comune – quasi banale – avere un blog, quindi chiunque volesse discutere in maniera meditata poteva farlo dal suo blog; gli interventi in risposta si potevano facilmente intercettare con un motore di ricerca; perciò, la scelta di non avere commenti sul Primo Amore era anche un modo per non incentivare reazioni superficiali, buttate là a caldo, che spesso (bisogna avere il coraggio di dirlo) producevano pura schiuma, da parte di pseudonimi deresponsabilizzati (ho scritto interi saggi contro la pseudonimia in rete). Insomma, non è che ogni medium debba essere per forza accettato così com’è, e non mi sembra molto fruttuoso correre alle conclusioni applicando acriticamente una specie di “ideologia mediale”. Mi spiego. Se io non metto i commenti non è detto che voglia preservare il mio ruolo autoriale. Al contrario. Semmai, è la divisione fra “articolo in home page” e “commenti in calce” che, a ben vedere, marcava in maniera fortissima la differenza fra chi voleva preservare il ruolo autoriale e chi invece era relegato a un ruolo inferiore. Ci pensi bene, vorrei che facesse mente locale su questo. Ma per spiegarmi meglio, riparto da una considerazione “storica”: è vero che quegli anni sono stati cruciali: sono entrati in rete in maniera particolarmente attiva anche quelli che non avevano una confidenza da smanettoni (noi compresi). E in poco tempo molti hanno aperto il loro blog personale o collettivo. Bene, è come se tutti si fossero conquistati uno stato di maggiorità (cioè i frequentatori della rete sono diventati “maggiorenni”). Se nel nostro sito (Il Primo Amore) avevamo deciso di non aprire uno spazio dei commenti – e in quegli anni ormai tutti ormai potevano aprire un blog – che cosa volevamo significare implicitamente (e significare anche nei fatti, con il nostro esempio)? Stavamo incentivando chi aveva qualcosa da dire in risposta ai nostri testi di farlo dal suo blog (o, se non ce l’aveva, ad aprirne finalmente uno) e ribattere ai nostri argomenti con un intervento strutturato, in una cornice personale, possibilmente firmata, dove si prendeva la responsabilità di ciò che diceva, e ci rispondeva da pari a pari (a nostro giudizio, quel tipo di forma mentis e comportamentale era un valore da incentivare). Tutto il contrario di “detenere il ruolo di autore”: stavamo esortando tutti a diventare pienamente autori anch’essi, a pari merito con tutti quanti; e li stavamo esortando a meditare i propri interventi, non a digitarli velocemente, con quella tipica reattività immediata, piuttosto nervosa e nevrotica, che questo mezzo spesso suscita; in poche parole, li stavamo incitando a saltare il fosso, a non accontentarsi di commentare nelle finestrelle in basso (e dunque, forse risulta quanto meno opinabile decidere su quali esempi e motivazioni si siano “plasmate molte delle esperienze sorte successivamente nel panorama del web”…).
    In particolare, io mi sono sempre battuto, con i miei interventi sull’anonimato e non solo, a favore di un “passaggio alla maggiore età” della rete: ormai tutti possono partecipare a pari merito; e tutti i dettagli, anche tecnologici, che possono favorire questa crescita di autorevolezza e peso politico della rete per me sono stati e sono positivi. Da qui le mie critiche all’anonimato e alla pseudonimia, e anche la nostra scelta di non avere commenti. Ecco perché non sono d’accordo con la sua interpretazione e la considero, diciamo così, “tecnoideologica”, perché contiene quote troppo grandi di impensato da parte sua, e accetta certi meccanismi mediali prendendoli per buoni sempre e comunque; invece dipende da tanti fattori, anche storici (intendo, in questo caso, una “storia” tecnologica – con ricadute relazionali e sociali – rapidissima, che in questi anni è in avvicendamento vorticoso; se le interessa, può leggere qualcosa su questo argomento qui http://www.ilprimoamore.com/blogNEW/blogDATA/spip.php?article3503); nostro compito è sottoporre a critica quei meccanismi, e, se ci sembra il caso, agire diversamente. La divisione fra testo “principale” e commenti, quella sì secondo me ha contribuito alla preservazione del ruolo autoriale. Adesso, ripeto, è molto diverso, io adesso mi trovo qui a postare queste mie considerazioni in una finestra dei commenti ormai civilissima, ci sono decine di blog e siti letterari, chi vuole sta su facebook, c’è chi rilancia e diffonde i suoi interventi linkandoli su twitter…

    Dalla sua ricostruzione storica emerge insomma, diciamolo, che Antonio Moresco voleva decidere per tutti, allora c’è stata una rivolta, e per fortuna che se n’è andato a fare l’“autore” da qualche altra parte, così Nazione Indiana è potuta crescere libera e feconda. Non solo, ma lei afferma che proprio grazie a questa fuoriuscita, tutto il web letterario ha fatto un balzo decisivo in avanti, emulando la repubblica finalmente democratica di Nazione Indiana 2.0. Mi perdoni, ma questo finale non è una ricostruzione storica, è una cosa che sta a metà fra una caricatura e una favola edificante.

    Quanto a Bourdieu, lei fa bene a trattenermi da derive metaforiche; ma per tutte le cose che le ho detto finora, non posso non rilevare che quelle categorie sono state applicate troppo schematicamente, con una specie, mi sembra, di voluttà nel ritenere di constatarle verificate.

  9. Tiziano Scarpa scrive:

    …per capire meglio la discussione conflittuale del 2005 forse è necessario sapere che chi l’ha innescata non partecipava mai alle ricorrenti riunioni dal vivo.

    E’ stato, per esempio, il mio caso.

    Tengo a ricordare che la possibilità di partecipare o non partecipare a qualcosa è influenzata dalle condizioni materiali di vita – e non solo dalla quantità o qualità di motivazione.

  10. @ Giulio Mozzi

    Hai ragione, Giulio.
    Per questo dico che non si può fare una ricostruzione storica con un atteggiamento che ho definito, forse un po’ ingenerosamente, “feticismo documentario”, e “resecazione dell’umano”. Ci sono generazioni di autori e autrici, intellettuali, artisti, che hanno fatto quello che hanno potuto senza riserve, con i mezzi che avevano a disposizione. Analizzare solo i post e i commenti per un gruppo che faceva parecchie riunioni e aveva come obiettivo anche l’organizzazione di incontri e performance e convegni fuori dalla rete, significa tenere fuori pezzi troppo significativi, e non cogliere la sostanza di un’impresa culturale.

  11. “Analizzare solo i post e i commenti per un gruppo che faceva parecchie riunioni e aveva come obiettivo anche l’organizzazione di incontri e performance e convegni fuori dalla rete, significa tenere fuori pezzi troppo significativi, e non cogliere la sostanza di un’impresa culturale” (Scarpa)

    Ma ci sarà pure qualche relazione tra le cose scritte nei post e le cose dette nelle riunioni o no?
    E poi non sarà mica l’analisi dei post e dei commenti a impedire le analisi degli “incontri e performance e convegni fuori della rete” o no?

  12. @TizianoScarpa

    Mi sembra di aver serenamente affermato, nel precedente intervento, che il mio lavoro possa e debba certamente essere approfondito e migliorato con le testimonianze dirette dei protagonisti. Anzi, sarei felice di farlo e sono altresì felice che il suo secondo intervento entri in merito di certe questioni. Tuttavia, non mi sembra di aver taciuto sul fatto che Nazione Indiana prevedesse un’attività anche esterna alla rete: c’è un paragrafo che si apre con una citazione sull’importanza degli incontri reali come presupposti all’attività in rete; sottolineo più volte l’azione di “sconfinamento” (usando un termine di Moresco) come elemento fondamentale di una connessione tra online e offline; ribadisco più volte il fatto che Nazione Indiana fosse una comunità. Che poi alla base della vostra attività ci fossero delle riunioni – mi perdoni – mi sembra ovvio. A me interessava l’esperienza in rete di Nazione Indiana, in quanto storicamente fondamentale per la storia e l’evoluzione del web letterario italiano. Peraltro, affermare che abbia compiuto una “resecazione dell’umano” mi sembra ingeneroso, nonché ingiusto: credo di aver fatto emergere il valore umano e l’impegno profuso in quell’impresa. Già il fatto che abbia dedicato un lavoro che lei definisce di documentazione feticistica a questa esperienza dovrebbe far trasparire una certa dose di ammirazione per un progetto all’epoca precursore, ma nei suoi interventi mi pare di cogliere un fraintendimento di fondo, dovuto forse a una sorta di mania di persecuzione – mi perdoni ancora – nata proprio in quegli anni: da parte mia non c’è nessuna accusa o interpretazione tecnoideologica, tutt’altro. Non ho mai detto che “Antonio Moresco voleva decidere per tutti, allora c’è stata una rivolta, e per fortuna che se n’è andato a fare l’“autore” da qualche altra parte, così Nazione Indiana è potuta crescere libera e feconda”. Se lei interpreta così le mie conclusioni commette un errore e mi dispiace. Il mio è un discorso molto più ampio, che chiama in causa lo sviluppo diacronico del web letterario italiano e partendo dalla situazione odierna valuta a ritroso le esperienze passate per comprendere quelle attuali. Se oggi si è arrivati a quella che ho definito “istituzionalizzazione” o “consacrazione” del web è perché da quella scissione le cose sono cambiate e si è arrivati a un assestamento delle pratiche d’uso. Tale passaggio è dovuto, secondo la mia lettura, al raggiungimento di una definitiva comprensione e accettazione delle dinamiche del medium, ciò che lei chiama “maggiore età della rete”. Questo non significa affatto che Il primo amore, togliendo i commenti, sia divenuto “cattivo” rispetto a Nazione Indiana 2.0. Ho solo messo in evidenza che esso, così facendo, ha ripristinato modalità di utilizzo tipiche dell’offline (con una redazione, con attività svolte fuori dalla rete ecc.). Se lei ci vede un giudizio di valore sbaglia, la mia è solo una costatazione. Inoltre, il numero dei lettori giornalieri che avete dichiarato nel novembre del 2014 è 600, a fronte dei 3000 di realtà più giovani come “minima&moralia”: questi numeri non dicono nulla sul valore culturale di un’esperienza online o sul suo capitale simbolico (che nel vostro progetto emerge nel successo delle attività esterne), ma molto dicono sul suo capitale reputazionale online. Mi sembra evidente che questo dipenda dal fatto che la scena letteraria online si sia assestata su determinate pratiche o regole del gioco da accettare. Quando affermo che “solamente […] accettando la logica del medium è possibile costruire in rete un discorso culturale coerente e di valore” dico “costruire in rete”, ossia faccio riferimento a un essere coerenti col circuito in cui si è immessi e al valore non è di un’esperienza culturale tout court, ma di un’esperienza culturale online.

  13. Grazie delle precisazioni. Spero di non avere offeso, onestamente non mi sembra di averlo fatto, ma se sì chiedo davvero scusa e ritiro ogni termine irrispettoso.

    Confermo, con tranquillità, che secondo me lei si basa un po’ troppo su quel che vede da fuori. Le faccio un esempio, ma davvero senza polemica, solo per spiegarmi.

    Quando parla di “redazione” è perché nel nostro sito c’è scritto “redazione”. È responsabilità nostra averla chiamata così. Ma nei fatti si tratta di una metafora, anzi, una sorta di “abusione” o catacresi per definire una modalità di interazione collettiva che ancora non ha nome. Non abbiamo nessuna redazione in senso stretto (magari potessimo permettercene una tutta nostra). Facciamo delle riunioni, esattamente come si faceva in Nazione Indiana: dunque anche lì c’era una “redazione”, e immagino che ce ne sia una anche adesso, cioè che a Nazione Indiana 2.0 facciano delle riunioni anche ora: le chiamerebbe “modalità tipiche dell’offline” perché fanno anche loro riunioni di “redazione”?

    Dicevo: facciamo delle riunioni, ma in rete ognuno mette ciò che vuole, a distanza, da città lontane fra loro, com’è ormai ovvio per la rete: c’è un patto di fiducia reciproca fra i vari componenti. È una banalità: succede ormai in tutti i siti collettivi, credo. Quindi, di tutti i siti si potrebbe dire che hanno una “redazione” in questo senso catacretico, ma ciò vuol forse dire che essi “ripristinino modalità tipiche dell’offline”? Perché è lì che, secondo me (e lo dico senza offesa, spero) lei “vuole” arrivare, per sostenere le sue tesi tecnoideologiche: prende il termine “redazione” in senso letterale (ripeto: responsabilità nostra che abbiamo utilizzato quella parola) per dimostrare che abbiamo “ripristinato” delle modalità dell’offline.

    Siccome abbiamo fatto una rivista e adesso facciamo anche dei libri, in quel caso si può dire un pochino più letteralmente che ci sia una “redazione” nel senso che ci assumiamo l’onere di proporre testi, scambiarci manoscritti, discuterne, a volte nelle riunioni, a volte per posta elettronica; e per il lavoro di impaginazione e di cucina editoriale vera e propria ci possiamo avvalere del supporto delle Edizioni Effigie, di Giovanni Giovannetti, che di fatto edita e pubblica i Fiammiferi. E’ un po’ più chiaro, adesso? Sono vari fronti, vari aspetti della nostra attività, e la rete è solo un aspetto. Da questo non tenerne conto davvero (non basta menzionarle) derivano delle valutazioni prospettiche che, secondo me, sono discutibili da parte sua; non voglio dire false o scorrette (non voglio assolutamente offendere), ma discutibili, sì.

    Le attività offline si facevano anche in Nazione Indiana. Dunque nessun “ripristino” di “modalità di utilizzo tipiche dell’offline”: semmai, a mio modo di vedere, nel Primo Amore c’è stato un potenziamento della convergenza transmediale di vari fronti, in perfetta coerenza e continuità con Nazione Indiana 1.0. Non vorrei fare torto a nessuno, ma la mia impressione è che Nazione Indiana 2.0 invece abbia scelto di concentrarsi un po’ più decisamente sulla rete (la collana Murene, se non sbaglio, dopo tre titoli si è fermata; in catalogo il sito poi propone due ebook; e non ho presenti altre iniziative fuori dalla rete, a parte la festa per i dieci anni; ma forse sono disinformato io). Il nostro sito invece è solo un pezzo di un’impresa più ampia (lo dico in termini puramente oggettivi, non valutativi). Mi sembra abbastanza prevedibile che chi, come altri siti, concentra tutte le sue attività solo sul lavoro in rete, avrà risultati numerici più ampi. Noi per seguire il sito abbiamo il tempo che abbiamo: in quanto Primo Amore facciamo una collana di libri (e tutti gli incontri di presentazione sono anche occasioni per presentare la nostra attività nel complesso, interagire con le persone, intercettarle e coinvolgerle), e prima facevamo una rivista cartacea (stesso discorso: incontri, eccetera); poi ci sono i cammini (anche in questo caso, incontri pubblici di presentazione dell’iniziativa, coinvolgimento di persone; oltre che incontri con associazioni e attivisti lungo il cammino, eccetera), cammini che tra l’altro hanno dato vita a un’associazione autonoma, quindi hanno attecchito in una modalità partecipativa diversa rispetto ai visitatori del sito e ai lettori di rivista e libri eccetera. La nostra “offerta” va valutata nel complesso, e dunque anche le modalità di interazione comunitarie. Forse sarebbe stato altrettanto interessante analizzare questa interazione fra media ibridi: sito, libri, rivista, cammini, convegni… Che ne dice? Glielo chiedo senza nessuna conflittualità. Non le pare che la rete non sia “resecabile”, ma vada messa in prospettiva? Se però la questione riguarda solo il “capitale reputazionale” inteso come numero di visitatori… allora mi arrendo: lo dico sorridendo amichevolmente, eh! E comunque, però, con il rilancio degli articoli sui social, tutto è in continua evoluzione, quindi anche i parametri di valutazione “tecnoideologici” non sono mai definiti una volta per tutte. Ma al di là dei visitatori del sito, anche per quanto riguarda la rete forse andrebbero tenute presenti altre cose, come le adesioni all’appello per la riapertura del processo Pasolini, o le iniziative sul Testamento biologico: chi può dire che incidenza abbiano avuto, queste ultime, sulla sensibilizzazione dei legislatori? Il parametro del numero di visitatori non è l’“equivalente universale”. Se facciamo questa attività, per di più in questi modi variegati e su vari fronti, forse quel tipo di misurazione della “reputazione” non è l’unica per noi. Ma capisco e le concedo, che, d’altro lato, per non sfrangiarsi nel misticismo si debba pur avere qualche misurazione concreta, e quindi quando si toccano certi discorsi alla fine si va sempre a finire sui confronti – un pochino crassi, per la verità – di numeri di visitatori.

    Quanto alle riunioni, non è affatto ovvio che si facciano per le attività in rete; e anche quando si fanno, se si è in tanti (come eravamo in Nazione Indiana 1.0) purtroppo non tutti possono partecipare e non sempre hanno tempo e modo di aggiornarsi; questo infatti ha comportato, all’epoca, delle incomprensioni fra chi frequentava le riunioni di Nazione Indiana 1.0 e chi no (perciò tiravo in ballo le riunioni nella storia di Nazione Indiana 1.0, non certo per sventagliarle come un’eccezione meritoria). Perché c’è la vita, ci sono le condizioni materiali della vita, come ha giustamente ricordato anche Giulio Mozzi, non c’è solo la rete. Anche in questo senso ho parlato di “resecazione dell’umano” (e mi scuso se sono stato offensivo).

    Sulle mie manie di persecuzione, be’… A me sembra che con questi commenti io le stia fornendo altri elementi, non solo “interni” (da chi le cose le ha vissute ed è necessariamente più informato di lei) ma anche esterni, di “sviluppo diacronico”, per citare le sue parole, del panorama: ogni medium non ha solo le sue regole specifiche, va sempre valutato comparativamente con il resto del paesaggio, sincronicamente, anno dopo anno; nel corso degli anni bisogna vedere che cosa gli è sorto accanto, quali sono le alternative possibili, eccetera. Oggi, com’è ovvio, ci sono persone, autori di libri ecc. che nemmeno ci pensano ad avere un sito, fanno tutto sui social (sto dicendo una banalità). Quando abbiamo aperto Il Primo Amore, glielo ripeto, “tutti” ormai avevano un blog e secondo noi era più auspicabile che pubblicassero da “maggiorenni” in maniera strutturata e responsabile nei loro blog, senza andare in giro a far montare schiuma nei commenti: questa è l’utopia per la quale ci siamo battuti. Abbiamo fatto la scelta di non avere i commenti, per i vari motivi che le ho spiegato. Abbiamo sbagliato? Mi scusi, ma dal suo intervento si direbbe di sì. Ho capito male? I suoi parametri di valutazione (smetto di ripeterlo) sono tutti focalizzati sulla rete, e secondo me questo è un po’ parziale e fa perdere di vista una realtà più complessa e più ricca.
    Grazie della discussione.

  14. Ho letto con interesse questo articolo di Andrea Lombardi, e lo reputo uno dei primi tentativi seri e documentati di mettere a fuoco in una prospettiva di media durata un’esperienza complessa, ricca e longeva come quella di “Nazione Indiana”. Diversamente da Tiziano Scarpa, mi sembra che i suoi limiti – ossia una visione esterna – ne siano anche i pregi. O meglio, era importante che si cominciasse a riflettere su un’esperienza simile con una dovuta distanza. Questo naturalmente non sminuisce per nulla le osservazioni e le critiche che si possono fare su punti specifici o sulla stessa impostazione generale del pezzo. E mi sembra inevitabile che uno dei fondatori come Tiziano abbia la sua da dire.

    Dopo più di dieci anni d’esistenza collettiva e mutante, mi sembra che una delle cose positive di Nazione Indiana risieda nel fatto che è veramente difficile, rivendicarne un’identità chiara, un’intenzione dominante. Davvero molti e molto diversi sono stati i soggetti che l’hanno fatta vivere e che ancora oggi la fanno vivere. Anche per questo, mi auguro che alla lettura di Lombardi ne seguiranno altre, e con fuochi d’interesse e impostazioni diverse. (E con questo non voglio ovviamente suggerire che non ci siano linee di forza chiare e leggibili all’interno del progetto.)

    Io ho recentemente scritto un pezzo (uscirà questo week-end su “alfabeta2”) interessandomi in modo particolare a un rubrica specifica di Nazione Indiana, “dispatrio” che è dedicata alle traduzioni inedite soprattutto di poesia. Ho poi tentato di ampliare la visuale alla traduzione di poesia in rete. E naturalmente è compito immane. Ciò nonostante anche una rapida ricognizione su una rubrica così specifica (e fatta dall’interno) offre importanti spunti di riflessione e soprattutto apre su un territorio ancora inesplorato dagli studi letterari.

    Vengo ora all’impostazione generale del pezzo di Lombardi – il modello di Les règles de l’art di Bourdieu. Bisognerebbe dire qualcosa sui limiti di quel modello, già nella sua formulazione originaria. Modello di grande importanza, ma anche dotato di un aspetto riduzionistico discutibile. Ora i limiti del modello originale sono ancora più evidenti nella sua applicazione al campo letterario italiano di inizio secolo. Per alcuni motivi.
    1) Il funzionamento di un blog come Nazione Indiana neanche prima della scissione del 2005 aveva le caratteristiche del gruppo avanguardista. Nonostante il carisma dei fondatori e alcune parole d’ordine abbastanza specifiche, lo spettro di stili e generi è sempre stato notevolmente ampio. (Ben diverse sono esperienze come quelle, ad esempio, in poesia del sito/gruppo di GAMMM). Fin dall’inizio il progetto si presentava eterogeneo sul piano che ha sempre interessato le avanguardie: modalità della scrittura.
    2) Il ragionamento di Lombardi (NI è nata come organo nella battaglia del riconoscimento dei nuovi arrivati nel campo delle lettere) dà per scontato che in Italia all’altezza degli anni Zero ci fossero sane, dinamiche, istituzioni letterarie, in grado di presentare una scena letteraria ufficiale, che qualche nuovo venuto avrebbe dovuto conquistare con il colpo di stato (simbolico) di tipo avanguardista. Una delle ragioni della nascita di NI è stata quella di costruire un’infrastruttura che fosse in grado, con mezzi agili ed economici, di rimettere in circolo dibattiti e interventi che abbracciavano uno spettro ampio tra letteratura e politica, in un momento in cui la scena “ufficiale” – le riviste letterarie cartacee e le pagine culturali dei quotidiani – vivevano un indiscutibile declino. Ora questo momento di critica, ma anche di “vivificazione” – che anche altri blog hanno avuto in quegli anni – funzionava più che nella logica della conquista, in quella della supplenza. Facciamo qui, in rete, quello che là su carta non si riesce più a fare in modo sufficientemente fluido, rapido, efficace. Ed è qui che il discorso della comunità ha tutto il suo peso. Detto questo, Nazione Indiana è stata anche e banalmente una palestra di talenti, e quindi da questo punto di vista vi è senz’altro una parte di verità nella lettura alla Bourdieu.

    Un’ultima cosa. Quando parlo della prima NI, io ricordo sempre il mio debito di riconoscenza nei confronti dei fondatori. Essi fecero qualcosa di davvero poco comune, per autori che venivano soprattutto dal mondo della narrativa. Inclusero anche dei poeti (ma non solo, anche antropologi, registi, ecc.) come il sottoscritto, giovane e ben poco conosciuto. Questo, assieme ad altri, è stato un gesto trasgressivo. Nell’ottica di Bourdieu, eravamo tutti nuovi arrivati, ma allora perché imbarcare anche gente di “capitale simbolico” così esiguo come poeti, e per di più poco noti?

    @Tiziano. Il fatto che Nazione Indiana 2.0 sia molto concentrata sull’on-line, non toglie che da vari anni organizziamo in posti sempre diversi dell’Italia una festa annuale di due o tre giorni, a cui invitiamo sempre un certo numero di ospiti esterni al blog. Il territorio e i corpi, insomma, interessano anche a noi. Anche se le nostre iniziative sono certo più limitate di quelle del PA su questo fronte.

  15. @TizianoScarpa

    Nessuna offesa, anzi: sono felice che si sia aperta una discussione e apprezzo che uno dei fondatori si sia esposto. Come già le ho detto, può essere solamente utile, per me, che lei entri in merito di talune questioni.
    Per quanto riguarda le “modalità tipiche dell’offline” che riscontro nel Primo amore, è sicuramente vero che dietro a ogni blog collettivo ci sia una “redazione” in senso lato. Nello specifico, però, con questo termine intendevo dire che, a differenza di Nazione Indiana 1.0, mi pare che nel Primo amore ci sia stata fin dall’inizio una linea editoriale (se così posso chiamarla) molto più marcata e condivisa. Mi sbaglio? Partire con un appello alla riapertura del processo Pasolini mi sembra già significativo della linea che volevate perseguire. L’opera di “sconfinamento” a cui anche nel vostro sito fate appello, è esattamente quello che chiamo “ripristino di modalità tipiche dell’offline”. La produzione di libri, il cartaceo, gli incontri reali sono uno sconfinamento fuori della rete, nell’offline. Come dice lei stesso l’online è solo un aspetto di un’attività che dall’inizio si è posta come molto più orientata verso l’esterno. Poi è vero che oggi numerose esperienze online “sconfinano” all’esterno, verso l’offline (penso ad esempio a doppiozero), ma a me interessava mettere in evidenza la riconfigurazione avvenuta dopo la scissione: la natura prevalentemente offline de Il primo amore e quella prettamente online di Nazione Indiana 2.0. Credo che su questo siamo d’accordo. Ribadisco, però, che da parte mia non c’è nessun giudizio di valore sulle due modalità: io sono partito dalla valutazione del web letterario attuale e ho cercato di comprendere come si sia arrivati a questa fase, quali dinamiche ne abbiano determinato l’evoluzione e per quali ragioni il circuito online, in origine ‘illeggittimo’, oggi mi pare abbia assunto l’aspetto di una realtà in gran parte istituzionalizzata.
    Devo, inoltre, chiarire un punto. Lei dice: “Se però la questione riguarda solo il “capitale reputazionale” inteso come numero di visitatori… allora mi arrendo […] Il parametro del numero di visitatori non è l’“equivalente universale”. Se facciamo questa attività, per di più in questi modi variegati e su vari fronti, forse quel tipo di misurazione della “reputazione” non è l’unica per noi.” Qui c’è un fraintendimento: nell’articolo ho introdotto, accanto al concetto di “capitale simbolico”, quello di “capitale reputazionale”. Si tratta di due piani differenti (offline/online) che certamente si intersecano (il riconoscimento offline incide molto sulla reputazione online), ma la cui compresenza mi sembra ineludibile se si parla di web. Il concetto di capitale simbolico non mi pareva sufficiente per spiegare il riconoscimento di un’esperienza online o dei suoi attori. Quando lei afferma che la misurazione della reputazione non è l’unica per l’esperienza del Primo amore sono d’accordo: c’è infatti il capitale simbolico che entra in gioco, e questo è evidente nel successo delle vostre attività esterne al web. Come ho più volte messo in luce, la mia valutazione comprende Nazione Indiana, Nazione Indiana 2.0 e Il primo amore esclusivamente in quanto esperienze culturali in rete, come spazi online, come siti.
    Infine, secondo lei dal mio intervento emergerebbe il giudizio “non introduzione dei commenti=errore”. Non affermo che sia un errore, ma è indubitabile che tale operazione rappresenti un rifiuto di uno degli elementi strutturali non solo dello strumento che avete scelto di usare (il blog) ma anche del web letterario attuale (la possibilità di commentare, oggi presente anche nei social network). I miei parametri di valutazione sono fondati – lo ribadisco – sull’osservazione del sottocampo letterario del web, poi è indubbio che ogni esperienza online vada considerata nel suo complesso di esperienza culturale all’interno del campo letterario. Tuttavia, l’obiettivo del mio saggio, come è evidente dal titolo che vi ho apposto, era quello di interpretare l’esperienza complessiva di Nazione Indiana all’interno della storia del web letterario italiano. Vorrei che questo fosse chiaro. Grazie dell’attenzione.

    @AndreaInglese
    Sono felice che anche lei sia entrato nella discussione e la ringrazio dell’apprezzamento. Mi trovo comunque a dover chiarire un aspetto. Lei non concorda sull’interpretazione del collettivo fondatore come gruppo di avanguardia. In realtà, mi pare che lei parli più di avanguardia nella sua accezione comune, che in quella bourdesiana. Lei afferma: “Il funzionamento di un blog come Nazione Indiana neanche prima della scissione del 2005 aveva le caratteristiche del gruppo avanguardista. […] lo spettro di stili e generi è sempre stato notevolmente ampio. […] Fin dall’inizio il progetto si presentava eterogeneo sul piano che ha sempre interessato le avanguardie: modalità della scrittura.” Le posizioni di avanguardia cui mi riferisco sono quelle dei nuovi entranti e dei dominati in cerca di profitti simbolici da ottenere tramite la lotta con coloro che hanno già ottenuto la consacrazione all’interno del circuito ristretto, ovvero quelli già in possesso di capitale simbolico. Bourdieu è chiaro: “le posizioni di avanguardia, che sono definite soprattutto negativamente, attraverso l’opposizione alle posizioni dominanti, accolgono per un certo tempo, nella fase di accumulazione iniziale del capitale simbolico, scrittori e artisti molto diversi in quanto a origini e disposizioni”. Questa differenza di fondo tra gli attori comprende anche l’eterogeneità degli stili e delle scritture, questo è indubbio. Non intendo il gruppo di NI come avanguardia nella sua accezione comune (come può essere il collettivo GAMMM), ma come espressione di una posizione d’avanguardia in tali termini. Tanto più che azzardo addirittura un’interpretazione complessiva del web letterario italiano come avanguardia. Quindi nessun “colpo di stato di tipo avanguardista”. Inoltre, sottolinea giustamente che più che nella logica della conquista, l’attività di NI e dei blog dell’epoca era diretta a quella della supplenza: “Facciamo qui, in rete, quello che là su carta non si riesce più a fare in modo sufficientemente fluido, rapido, efficace”. Sono pienamente d’accordo, ma ciò mi sembra rientri pienamente nel discorso bourdesiano inerente all’avanguardia e alle strategie di distinzione messe in atto dai nuovi entranti: mettere in discussione i modelli “legittimi” e respingere nel passato le posizioni dei precedessori. L’obiettivo polemico erano coloro che nel campo letterario occupavano le posizioni dominanti: ad esempio i critici accademici contro cui si scagliava Carla Benedetti, gli editori accusati da Moresco, i critici dei giornali definiti beejay da Scarpa. Che il sistema istituito fosse in declino è indubbio, ma si tratta di un’invariante (certamente più evidente in quel periodo) nella storia del campo. Questa è fatta dallo scontro tra i dominanti e coloro che devono relegarne nel passato le posizioni. Inaugurare una posizione d’avanguardia significa introdurre una nuova posizione rispetto alle posizioni già affermate e legittime, introdurre una differenza: credo che NI e le esperienze sorte in rete in quegli anni abbiano fatto questo, determinando un avanzamento della storia del campo letterario italiano.

  16. > Egidio Salvati – 30 maggio 2016 a 21:57
    Cornacchia, scusi l’ardire, ma un uomo dovrebbe veramente spendere 3 euro per i suoi commenti sul web?

    Sono abbastanza certo del fatto che fra vent’anni Nazione Indiana sara’ storicizzata in un modo normalizzante (la rivista letteraria dei primi anni zero, come gia’ nel 2010 ed ora qui) mentre l’insieme dei commenti di uno dei follower piu’ polemici e puntuti potrebbe valere come testimonianza. La rivista e le vite dei singoli, rivendicate da Scarpa e Inglese, saranno stati i contenitori mentre il mio librino un’opera. I libri fatti dai post di blog o di Facebook sono venuti dopo e mancano dello slittamento dei piani e dei toni di chi faceva l’indiano in mezzo agli indiani. In ogni caso, non e’ qualcosa di commestibile per uno come lei, Salviati, continui pure con la crusca che le passa la Crusca.

  17. @ Andrea Lombardi,

    Non credo che sia qui la sede più opportuna di una discussione sull’impostazione di Bourdieu del concetto di avanguardia, e più in genere sul modello interpretativo realizzato nelle “Regole dell’arte”. Io vedo nel modello d’origine un rischio di riduzionismo, e lo vedo anche, di conseguenza, nella sua applicazione al caso di Nazione Indiana. Ma questo rischio nulla toglie all’importanza e all’utilità del suo lavoro.

    Per parte mia, la “definizione” di avanguardia data da Bourdieu rischia più che altro di essere equivoca. La logica della distinzione (o del nuovo) è in qualche modo alla base della definizione di letteratura moderna, del modo in cui leggiamo, comprendiamo, pratichiamo il fatto letterario. Il semplice dovere di originalità e novità fa di ogni aspirante scrittore un potenziale “avanguardista” nel senso di Bourdieu. (Potremmo sovrapporre la logica dell’angoscia di influenza a questa lotta per il riconoscimento “simbolico” descritta da Bourdieu). Il fatto è che un autore puo’ accedere al capitale simbolico attraverso diverse modalità, e le due principali sono la cooptazione e l’altra è il discredito e il conflitto nei confronti delle posizioni dominanti. Ora a meno di non rimanere per sacro voto alla lettera di Bourdieu, mi appare chiaro che la categoria d’avanguardia di Bourdieu tende a tenere dentro due cose: il dovere di originalità di ogni artista moderno che è portatore di nuovo rispetto a cio’ che già esiste nel campo e l’atteggiamento della avanguardie nel senso usuale del termine (che da sempre sono leggibili come gruppi eterogenei di individui, che si trovano in un determinato momento accomunati dall’esigenza di realizzare il colpo di stato simbolico).
    Dove sta il riduzionismo di Bourdieu? Sta nel fatto di mettere tra parentesi le ragioni ogni volta specifiche di una critica o una polemica letteraria nei confronti di posizioni dominanti o ritenute tali. Secondo il modello epistemologico sottostante, il campo artistico moderno è riducibile a un semplice confronto tra volontà di potenza che vogliono conquistare il capitale simbolico che è nella mani ogni volta di un gruppo ristretto e garante della scena ufficiale. Qualsiasi cosa accada in termini di conflitti, opposizioni, critiche all’interno del campo non è altro che frutto di questa meccanica che agisce all’insaputa delle motivazioni del tutto insignificanti degli agenti implicati in queste battaglie.
    Il fatto che per lei il carattere “declinante” delle istituzioni letterarie negli anni Zero non sia che una proiezione dei nuovi arrivati, annulla qualsiasi specificità storica inerente al campo letterario e alle sue istituzioni. Campo letterario negli anni Dieci, Venti, Trenta, Quarantasei, Sessanta, Sessant’otto, ecc., tutte ripetizioni dell’identico meccanismo soggiacente e davvero “reale”. Tutto quanto sta sopra, nei discorsi, nelle intenzioni, nelle analisi semplice falsa coscienza. Ho marcato un po’ i tratti, ma questo è il mio rapido (e quindi limitato) contributo alla critica del modello di Bourdieu. E questa critica nulla toglie all’importanza di “Les règles de l’art” e di tutte le analisi feconde che vi si possono trovare.

    @ Giulio Mozzi, in genere non mettiamo in homepage pezzi che appaiono su altri blog letterari. Ma sarebbe una buona idea segnalarlo sulla pagina FB di NI. Ci penseremo.

  18. Secondo me, Andrea, ha senso che Nazione indiana segnali l’esistenza di una discussione su Nazione indiana, se la discussione è interessante. E mi pare che questa lo sia.

    Per un caso simile: vedi qui.

  19. Giusto. L’ho ha già fatto sulla pagina FB e lo farà anche sul blog, e grazie comunque della sollecitazione.

  20. @Andrea Lombardi

    1) anche Nazione Indiana “1.0” era attiva offline. Non dimenticherei gli incontri al Teatro I, e il convegno “Giornalismo e verità” (prima uscita pubblica di Roberto Saviano, con un intervento che poi ripropose in televisione nella trasmissione condotta da Fabio Fazio, e, mi pare, in un monologo a teatro, e che successivamente confluì in un libro dvd, “La parola contro la camorra”: riproduceva, anche nella forma, quel che Roberto ci raccontò in una riunione della “redazione” di Nazione Indiana “1.0”).

    2. Dice: «…nel Primo amore ci sia stata fin dall’inizio una linea editoriale (se così posso chiamarla) molto più marcata e condivisa. Mi sbaglio?»

    Un po’ sì, si sbaglia. Direi che la gestione del sito Il Primo Amore non è diversa da Nazione Indiana “1.0”, siamo solo un po’ meno persone, tutto qui. La “redazione” del Primo Amore è abbastanza sfrangiata. Alle riunioni, com’è ovvio, c’è un confronto su alcune iniziative offline, come quando facevamo i numeri monografici della rivista, e ora con la scelta dei libri da pubblicare nella collana Fiammiferi, altre iniziative pubbliche e i cammini: cose che non sempre coinvolgono tutti; ma il sito funziona esattamente come Nazione Indiana “1.0”, cioè *senza che ci sia una redazione*: ognuno mette in rete ciò che vuole, senza preavvertire gli altri componenti né discuterne redazionalmente: non c’è nessuna “linea” (ho l’impressione che lei ingrandisca un pochino qualche indizio esterno e temporaneo – come per esempio l’appello per la riapertura del processo Pasolini – e lo dilati, ne ricavi delle congetture e generalizzi; ma per sapere come stanno le cose forse è meglio chiedere, non congetturare da fuori).

    3) «la mia valutazione comprende Nazione Indiana, Nazione Indiana 2.0 e Il primo amore esclusivamente in quanto esperienze culturali in rete, come spazi online, come siti.»

    Ma è proprio questo che io trovo discutibile nella sua impostazione. Secondo me non si comprende Il primo amore e forse neanche Nazione Indiana “1.0” se non si tiene conto che è/era un’ibridazione di media eterogenei interagenti fra loro.

    4) «natura prevalentemente offline de Il primo amore […] Credo che su questo siamo d’accordo»

    Veramente io no, non sono d’accordo. Il sito del Primo Amore contiene circa 3500 post, di cui 500 fra recensioni e anticipazioni di libri, 300 post di testi poetici, varie centinaia di reportage e di interventi sull’attualità, recensioni di cinema teatro arte musica ecc. più tante altre cose, e anche una cinquantina di documenti scaricabili in pdf, fra cui qualche libro intero (in cui spicca, senza fare torto agli altri, l’intero testo di “Zingari di merda” di Antonio Moresco): una media, in dieci anni di presenza in rete, di quasi un post al giorno. Personalmente, credo di avere scritto almeno cinquecento pagine di contributi in buona parte inediti (che non è poi tanto, per chiunque tenga un sito o un blog, lo so bene), fra cui cose che poi sono diventate anche libri (“Discorso di una guida turistica di fronte al tramonto” e “La vita, non il mondo”), ma che originariamente avevo scritto specificamente per la rete, senza “secondi fini” editoriali, grazie a una sperimentazione di scrittura che da parte mia non ci sarebbe stata se non avessi avuto uno spazio come questo sito. Per noi il sito non è affatto secondario, né per impegno profuso, né per la cura di scrittura, né per la nostra percezione della qualità (ovviamente opinabile, chiaro) delle cose che ci pubblichiamo dentro. Per continuità e quantità di materiali prodotti e tempo impiegato il sito sta sicuramente al primo posto fra le attività del Primo Amore.

    5) Dice: «Non affermo che sia un errore [non avere i commenti], ma è indubitabile che tale operazione rappresenti un rifiuto di uno degli elementi strutturali non solo dello strumento che avete scelto di usare (il blog) ma anche del web letterario attuale (la possibilità di commentare, oggi presente anche nei social network).»

    Veramente il nostro strumento non è un blog ma un sito (non ha i commenti). E tra l’altro è stato strutturato con alcune caratteristiche per superare un difetto dei blog, che generalmente fanno “sparire giù” i vecchi pezzi. In home page abbiamo due colonne da dieci post, con un funzionamento “a serpentone”: quando un post arriva al “decultimo” posto della colonna a sinistra, poi “torna su” al primo posto della colonna di destra, e quindi ottiene una nuova evidenza. Questo per dire che c’è stata una riflessione anche sulla forma sito, e abbiamo escogitato questo sistema (dopo dieci anni credo che sia tuttora unico in rete, o comunque piuttosto raro) per dare una specie di seconda vita a post recenti. E non è stato immediato trovare un webmaster che fosse in grado di realizzarlo.

    Ad ogni modo, io vedo della tecnoideologia nella sua posizione sui commenti. Per esempio: a me piace molto il sito di Paolo Nori. Non avrebbe senso se avesse i commenti. Annacquerebbero la forza dei suoi affondi. Si può forse aprire una discussione su un aforisma? Che m’importa se così (forse) Nori ha meno lettori? Io quando lo leggo sono solo. Desidero che mi arrivi la forza delle sue parole, non la rassicurante tecnoideologia comunitarista. La forza del sito di Paolo Nori è proprio quella di una controtendenza, una specie di “vox solitudinis clamans in turba” che si staglia nella sua bella inermità umorale. Se Nori avesse accettato la forma blog con i commenti, avrebbe irrimediabilmente snaturato il senso di ciò che pubblica in rete. Io apprezzo moltissimo la sua scelta, che difende la sua scrittura da una specie di conformismo tecnoideologico. Voglio dire: chi l’ha detto che lo scopo del nostro scrivere, e pubblicare, sia per forza creare discussione e comunità e aumentare il “capitale reputazionale” ossia il numero dei lettori? Si scrive per incidere verticalmente, nel profondo, non necessariamente per creare reti orizzontali. Perciò parlo di tecnoideologia.

    6) Insomma, l’unica differenza davvero dirimente che mi sembra onestamente di poter rilevare, è che al Primo Amore, seguendo anche altre cose oltre al sito, e credendo fortemente che la nostra attività non possa in alcun modo accontentarsi della rete né farsi risucchiare da essa, non potevamo e non possiamo permetterci il lusso di avere dei commenti, che richiedono molta cura e molto tempo, come dimostra con ogni evidenza questa bella ma cronofagica discussione.

    @Andrea Inglese

    Grazie, Andrea, delle belle cose che hai detto sul coinvolgimento di poeti registi antropologi ecc., e di avermi ricordato dei vostri appuntamenti annuali. Poi mi sembrano decisive le cose che hai detto sulla “supplenza”.

  21. @AndreaInglese

    La ringrazio per essere entrato nel merito della questione. La sua critica al modello teorico bourdesiano è certamente legittima, ma credo che qui non sia il contesto adatto per intraprenderne una discussione, nonostante sarebbe – almeno per me – di notevole interesse. Chiarisco solo un punto: non ho detto che il carattere “declinante” delle istituzioni letterarie negli anni Zero sarebbe una proiezione dei nuovi arrivati, ma che esso rappresenta un elemento tipico della lotta tra nuovi entranti e dominanti. E’ indubbio poi che ci sia una specificità storica da considerare, ma è pur vero che quella crisi è tutta interna alla storia del campo letterario, frutto e al contempo motore di dinamiche proprie dello stesso: ad esempio la progressiva erosione della sua autonomia (come metteva in luce, in altri termini, anche Schiffrin) a fronte dell’incidenza sempre maggiore, al suo interno, del circuito della grande produzione (orientata all’accumulazione di capitale economico) a discapito di quello della produzione d’avanguardia.

    @TizianoScarpa

    1) Non ho mai affermato che Nazione Indiana 1.0 non fosse attiva offline e ho anche fatto menzione del convegno “Giornalismo e verità”.

    2) Non c’è una sorta di linea editoriale dettata dalla prospettiva dello “sconfinamento”? D’accordo, avrò dato un’interpretazione erronea. Mi pare che nei vari interventi abbia sottolineato molte volte le somiglianze tra Il primo amore la versione originaria di Nazione Indiana, allora possiamo dire che Il primo amore altro non è che Nazione Indiana versione 1.1.

    4) La natura de Il primo amore è PREVALENTEMENTE offline e su questo non mi pare ci siano dei dubbi. Nel suo intervento precedente lo dice lei stesso: “Il nostro sito è solo un pezzo di un’impresa più ampia (lo dico in termini puramente oggettivi, non valutativi)”; “la rete è solo un aspetto”. Non mi sembra di inventarmi qualcosa se affermo che, rispetto a Nazione Indiana 2.0, la parte più copiosa delle attività del Primo amore si svolge all’esterno del web, nell’offline con “una collana di libri (e tutti gli incontri di presentazione […] e prima […] una rivista cartacea (stesso discorso: incontri, eccetera); poi ci sono i cammini (anche in questo caso, incontri pubblici di presentazione dell’iniziativa, coinvolgimento di persone; oltre che incontri con associazioni e attivisti lungo il cammino, eccetera), cammini che tra l’altro hanno dato vita a un’associazione autonoma”.

    5) Al mio «Non affermo che sia un errore [non avere i commenti], ma è indubitabile che tale operazione rappresenti un rifiuto di uno degli elementi strutturali non solo dello strumento che avete scelto di usare (il blog) ma anche del web letterario attuale (la possibilità di commentare, oggi presente anche nei social network)», lei risponde: “Veramente il nostro strumento non è un blog ma un sito (non ha i commenti)”. Appunto. E poi continua: “chi l’ha detto che lo scopo del nostro scrivere, e pubblicare, sia per forza creare discussione e comunità e aumentare il “capitale reputazionale” ossia il numero dei lettori?”. Io non l’ho detto. Valutando l’intero panorama del web letterario italiano faccio una constatazione: voi (come anche Paolo Nori, ma il suo non è un blog/sito collettivo, attenzione) avete rinunciato a uno di quelli che sono gli strutturali del circuito letterario di Internet e dei SNS in generale. E’ una constatazione, non tecnoideologia.

    6) “al Primo Amore, seguendo anche altre cose oltre al sito, e credendo fortemente che la nostra attività non possa in alcun modo accontentarsi della rete né farsi risucchiare da essa, non potevamo e non possiamo permetterci il lusso di avere dei commenti, che richiedono molta cura e molto tempo”. Qui prima di tutto mi pare di vedere una contraddizione rispetto a quanto diceva precedentemente sull’importanza della rete. In secondo luogo mi sembra che voglia nascondere dietro alla necessità di cura e tempo una scelta che – ribadisco – non giudico e che è del tutto legittima. Sono anche convinto, però, che questa sia dovuta alla precedente esperienza di Nazione Indiana e ai conflitti che scaturivano nello spazio dei commenti. E’ testimoniato dalle vostre stesse parole spese in più occasioni, a cominciare da quelle scritte da Moresco nel post di addio a NI in cui la questione mi sembra trapelare: “E c’è poi da ripensare e da reinventare tutto il problema degli strumenti e del modo migliore e più dinamico di stare anche dentro la rete”.

    Voglio concludere l’intervento ribadendo che il mio è il punto di vista dello studioso, ossia dell’osservatore esterno: se a lei dà fastidio, se per lei dico delle inesattezze o comunque non accetta un’impostazione che valuta “Nazione Indiana, Nazione Indiana 2.0 e Il primo amore esclusivamente in quanto esperienze culturali in rete”, mi spiace. Mi spiace non a livello personale (ci mancherebbe), ma perché significa che il saggio non è stato accolto in maniera corretta. Al di là del fatto che rivendicare, come fa lei, la necessità del punto di vista interno per parlare di un’esperienza culturale dal mio punto di vista equivarrebbe a sancire l’invalidazione dei mestieri dello storico e del critico, il mio lavoro non si intitola “Memorie di Nazione Indiana”: questa è un’opera che dovreste scrivere voi, lei, Moresco o chiunque altro. Se non accetta che io possa aver prodotto uno studio di questo tipo, le consiglio di ottemperare a questa lacuna. Sarebbe importante per la comunità dei lettori, ma mi pare di capire anche per voi. Questo perché, mi lasci dire in tutta franchezza e col massimo rispetto Scarpa, da come si è posto in tuta questa discussione sembra che di Nazione Indiana possiate e dobbiate parlare solo voi (il che confermerebbe quanto descritto nel mio lavoro in merito alla scissione).

  22. @ Andrea Lombardi

    Mi dice: «mi lasci dire in tutta franchezza e col massimo rispetto Scarpa, da come si è posto in tuta questa discussione sembra che di Nazione Indiana possiate e dobbiate parlare solo voi».

    Con altrettanto rispetto, non sono d’accordo. Io non ho mai detto che non accetto il suo studio. Mi sono solo permesso di far notare che manca di troppe informazioni, e di conseguenza trae conclusioni discutibili (secondo me non condivisibili, ma è la mia opinione, che ho cercato di argomentare). Non è che il mestiere di storico o critico sottragga alla discussione con chi viene storicizzato o criticato.
    Caro Lombardi, bastava solo informarsi un po’ alla fonte.
    Mi pare, al contrario, che sia il suo modo di procedere che rischi di «sancire l’invalidazione dei mestieri dello storico e del critico»: avrebbe ragione se si trattasse di un lavoro su una rivista di inizio Novecento. Ma avendo a disposizione persone presenti e attive, perché non chiedere informazioni direttamente a loro? Parlo di informazioni, dati, non di punti di vista. Questo per questo riguarda lo storico.
    E siccome su queste informazioni lacunose lei basa congetture e ricava conclusioni, ecco che forse lei rischia di invalidare anche il suo lavoro critico.
    Sul resto non ribatto, perché mi sembra di essermi già spiegato a sufficienza e di avere fornito dati, informazioni e opinioni. Temo che mi ripeterei avvitandomi in argomenti già trattati. Non sono d’accordo con gran parte delle sue ultime obiezioni, ma in tutta questa discussione ho già spiegato perché.
    Grazie della pazienza.

  23. Ringrazio Andrea Lombardi per il saggio accurato e per aver offerto una prospettiva esterna, terza, alle vicende di questi tredici anni visti con la lente colorata di Nazione Indiana.

    Del periodo iniziale ricordo in particolare (e ritrovo qui nel saggio) di aver lavorato per capire e far capire la dimensione numerica, quantitativa di NI e quello che rappresentava. Era un periodo in cui si pensava che la rete fosse un rifugio marginale, ma i numeri sui lettori e le relazioni tra i siti indipendenti dicevano che c’era una forte e connotata comunità di lettori. Si cercava di misurare la “blogosfera” e in molti erano interessati alla sua potenziale dimensione economica, nasceva il tentativo di misurazione di Blogbabel (già allora il blog di Grillo era al primo posto della classifica).

    E questo mi porta all’aspetto della libertà e gratuità del progetto NI, che non ha mai avuto una dimensione imprenditoriale proprio quando vedevamo nascere le opportunità di cassa del web, dallo scambio di favori ai progetti editoriali d’impresa. Ci siamo sempre autotassati e questa indipendenza penso abbia reso NI originale, a volte pallosa e lontana dal “pezzo”, ma spigolosa e sorprendente, e apprezzata per questo (di nuovo, in base ai numeri sui lettori).

    La svolta importante nella rete letteraria itaiana per me non è stata tanto l’affermazione mainstream del web letterario, con i numerosi nuovi siti affini e amici, spesso aventi una dimensione imprenditoriale e una diversa incisività sulla realtà (che giudico positiva, anche se non esclusiva); la svolta è stata lo spostamento delle relazioni sociali, della discussione tra pari, della comunicazione tout court da una rete di siti indipendenti a un ente commerciale unico, Facebook, che ha imposto proprie regole di visibilità, di galateo e di comunicazione, oltre che una codifica commerciale di ogni aspetto dell’interlocuzione. Altro che lo spazio dei commenti, altro che flame, accuse di censura, sospett di marchette, invidie: su Facebook tutto rientra, docilmente.

  24. vedo solo ora. interessante. ai dati surriportati ne aggiungerei uno culturalmente significativo, penso: il post di NI con più commenti in assoluto in tutta la sua storia (oltre 800 commenti) è su celan; a parechia distanza il secondo, sui pompini (provare per credere).

  25. leggo solo ora i commenti di tiziano scarpa, secondo me piu’ interessanti del post stesso, che ritengo buono pur nei limiti sottolineati, mentre bourdieu mi sembra acqua tiepida.

    curioso scoprire qui che in NI attuale ogni membro posti cio’ che vuole, quando un paio di mesi fa mi trovai approvatissimo un pezzo da mascitelli, salvo sua successiva retromarcia causa perplessita’ di altri membri. insomma, mi hanno fatto diventar scemo, sicche’ poi li ho fatti diventar scemi io fino a postare il pezzullo “argonautiche apocrife” su minima & moralia.

    piu’ importante: sto concludendo un lavoretto analogo all’ormai mitico “il giovane cacciari” (millelire 1994). titolo: “il giovane saviano”. facendo di necessita’ virtu’, mi son ristretto al feticismo documentario, ma sarei disposto a farmi feticista tout court, leccando piedi vivi e ferrati, quali quelli ad es. di tiziano.

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