di Rino Genovese
[Le prime due parti dell’intervento di Genovese possono essere lette qui e qui].
Se Marx avesse avuto ragione, se negli ultimi centocinquant’anni ci fosse stata una crescente polarizzazione della società in due campi – da un lato un pugno di capitalisti e, dall’altro, la stragrande maggioranza dei proletari al lavoro nell’industria, o fuori di essa come esercito di riserva –, e se questo processo fosse stato in grado di unificare culture antropologiche e lingue politiche così da precipitare in una rivoluzione mondiale, probabilmente non ci sarebbe mai stata una questione degli intellettuali come l’abbiamo conosciuta nel corso del Novecento. La distinzione tra l’intellettuale disorganico e il funzionario, che ho cercato di mettere a fuoco nelle pagine precedenti (o dovrei dire nelle “puntate”?), non sarebbe mai esistita, perché ci sarebbero stati soltanto intellettuali proletarizzati pronti a unirsi alla rivoluzione socialista. L’intellettuale disorganico, da Baudelaire a Walter Siti, non l’avremmo conosciuto. La sua possibilità, da un punto di vista sociologico generale, è data dall’enorme dilatazione dei ceti medi, dalla terziarizzazione dell’economia, dalla deindustrializzazione favorita dalle sofisticate tecnologie odierne. Quanto più i funzionari di basso, medio e alto livello hanno il sopravvento in organizzazioni di ogni tipo, tanto più un certo numero di privilegiati, o di spostati, può essere o sentirsi disorganico, sradicato, senza patria. Oggi, in clima neoliberale, ci si può indignare dell’inclinazione novecentesca di molti intellettuali per i totalitarismi di segno opposto (in certi casi, anche per ambedue): ma un piccolo borghese timoroso del crollo – sia esso quello del capitalismo o della civiltà occidentale – poteva facilmente credere, fuggendo dalla casa in fiamme, che sotto l’ala di avvolgenti ideologie potesse trovare un riparo.
Mussolini, socialista massimalista e poi inventore del fascismo, è il tipico rappresentante di una piccola borghesia intellettuale radicalizzata prima a sinistra, poi a destra. E proprio Lenin, uno dei modelli cui egli in parte ritenne d’ispirarsi, aveva teorizzato, in sintonia con il socialdemocratico Kautsky, la funzione del partito di avanguardia della classe operaia come gruppo di intellettuali che porta la coscienza ai proletari dall’esterno, dato che questi, piegati dal duro lavoro, al più avrebbero potuto raggiungere una coscienza di tipo sindacale, non quella politica implicata dalla complessa “scienza” marxista. Una teoria (del resto affine a quella coeva delle élites, che parimenti influenzò Mussolini) di cui Marx sicuramente avrebbe sorriso, considerandola uno strano rovesciamento del suo materialismo storico, che permetteva alle idee, e perciò agli intellettuali, di ritornare a presumere di giocare un ruolo decisivo sopra i processi economici: aspetto di cui la forzatura russa, con le sue conseguenze totalitarie, è stata un’illustrazione istruttiva se si pensa che il regime sovietico fu in sostanza la dittatura di gruppi di funzionari sopra l’intera società.
Il fatto è che, gratta gratta, nell’intellettuale più o meno sradicato si trova spesso il politico incanaglito, bramoso di potere o denaro, o di tutti e due insieme (come mostra la corruzione socialista italiana da Mussolini a Craxi). Anche per questo, a causa del risentimento psicologico e sociale che in molti casi domina la vita dell’intellettuale piccolo borghese, appare temerario affidargli come compito storico l’organizzazione del partito d’avanguardia di una classe che si presume rivoluzionaria (e anche quello di contribuire a costruire una nuova “egemonia” in vista di una lunga “guerra di posizione”). Sembrerebbe più sensato, invece, pensare l’alleanza tra intellettuali e classe operaia come qualcosa che nasce dallo stesso sviluppo capitalistico, dal comune sfruttamento, sia pure in forme ben diverse tra loro, cui sono sottoposti il lavoro manuale e quello intellettuale.
L’Italia ha fornito un laboratorio interessante per la messa a punto di questa posizione negli anni sessanta del Novecento, quando tra il movimento studentesco (gli studenti erano visti come forza lavoro intellettuale in via di formazione) e le lotte operaie in fabbrica un nesso sembrò esserci, e parve ruotare intorno alla questione della sempre più intensa ed estesa applicazione della scienza e della tecnica ai processi produttivi. D’altronde non si trattava – per i teorici dell’operaismo italiano, che in quegli anni formavano una scuola – di una “negazione del ruolo” che avrebbe condotto funzionari e tecnici del capitale a schierarsi al fianco del movimento operaio per una sorta di rivolta morale (stando a teorizzazioni di diversa provenienza), ma di una presunta pervasività del lavoro operaio in fabbrica, il cui modello avrebbe finito con l’attirare a sé tutti i settori lavorativi della società. Era qualcosa come un “ritorno a Marx”, che nei Grundrisse aveva cominciato a esplorare gli effetti dell’introduzione nell’industria delle macchine e dell’automazione sui rapporti di produzione e nella composizione della forza lavoro. Un “ritorno” che, rispetto alla tradizione umanistico-storicistica del marxismo italiano (e non solo), costituiva una secca rottura.
Siamo negli stessi anni che vedono il dibattito intorno alla separazione tra le “due culture”[1], quella umanistico-letteraria e quella tecnico-scientifica: conseguenza della crescente specializzazione dei saperi cui nessuna educazione di tipo liceale riesce più a rimediare. In Italia c’è l’introduzione della scuola media unica (una delle poche riforme che il centrosinistra sia stato in grado di realizzare), con le polemiche intorno alla marginalizzazione del latino: una materia non più fondamentale nella nuova scolarità di massa, incline a preparare dei tecnici più che degli umanisti. Nell’ambito delle scienze sociali e degli studi letterari, la vague strutturalista proveniente soprattutto dalla Francia conferisce all’antiumanismo teorico uno statuto specifico e il suo pathos. Perfino Adorno, in una lettera, rifiuta di far parte di un circolo “umanistico” considerando la parola un inganno in confronto alla disumanità del mondo. Si comprenderà allora perché per il vecchio umanesimo sembra che suoni la campana a morto.
Quando il critico letterario e giovane teorico dell’operaismo Alberto Asor Rosa pubblica i saggi di Scrittori e popolo e Intellettuali e classe operaia[2], il terreno è già pronto, se si considerano il discorso intellettuale intorno alla fine dell’intellettuale e le trasformazioni nel mondo del lavoro, per ricevere il seme della polemica propagata dai suoi scritti contro l’ideologia progressista, “populista” (nel senso dei populisti russi) e umanistico-storicistica del movimento operaio ufficiale. L’idea di fondo è che lo sviluppo capitalistico e l’enorme crescita della classe operaia abbiano mutato i termini del rapporto tra cultura e politica, non più declinabile nel senso di una semplice rivendicazione di autonomia della cultura rispetto alla politica (come nella celebre opposizione di Vittorini a Togliatti), e che perciò si debba puntare a una figura d’intellettuale-politico, o di politico-intellettuale, capace di mettere in questione anche praticamente la strategia tradizionale della sinistra. Inutile dire che lo stesso Asor Rosa – dall’uscita dal Pci nel fatidico 1956, alla militanza intorno a riviste come Quaderni rossi e Classe operaia, dal passaggio attraverso il partito della sinistra socialista, il Psiup, fino al rientro nel Pci nel 1972 – ritiene d’incarnare una simile figura. Di qui la critica a Fortini (anche se alcune pagine del suo Dieci inverni[3] sono alla base dell’antipopulismo di Scrittori e popolo, per ammissione dello stesso Asor Rosa[4]) accusato di dare ancora eccessivo peso al ruolo dell’intellettuale e del poeta, difendendone l’onore (parola, questa, molto bendiana, l’ “onore del chierico”) e troppo orgogliosamente l’autonomia: «Ma di che diamine dovrebbe essere orgoglioso un intellettuale? Stupisco che coloro i quali sono e intendono restar tali non sentano quanto avvilimento e vergogna ci sia in questa condizione». E poco sopra: «L’intellettuale borghese non fu certamente responsabile della nascita della società capitalistica; ma ne è divenuto complice. L’unico ‘piano’ operaio, al quale lo inviteremmo a partecipare, è quello che progettasse sistematicamente la sua estinzione [corsivo mio] come rappresentante di uno specifico corpo sociale»[5]. Siamo quindi ricondotti, come si vede, a quella tematizzazione della fine tipica del discorso intorno agli intellettuali.
Alcuni decenni dopo, un Asor Rosa in pensione parla con accoramento di una «liquidazione delle forme tradizionali della cultura intellettuale» nata nel secolo dei Lumi[6]. L’intellettuale si è estinto, ma non nel senso auspicato negli anni sessanta. Il libro intervista di Asor Rosa è in gran parte un lamento intorno alla scomparsa di quel tipo d’intellettuale di cui, in passato, avrebbe voluto l’estinzione. Anche se, in verità, a estinguersi non è tanto il philosophe di origine settecentesca, quanto piuttosto l’intellettuale militante (“chierico rosso o nero”, avrebbe detto Montale), specialista a vocazione antispecialistica, in bilico tra parzialità e universalismo, a tasso più o meno elevato di sindrome nichilistica: insomma proprio la figura di cui Asor Rosa è un’espressione, e che la storia vede apparire alla fine dell’Ottocento. Così egli potrebbe aver vagato quasi come in sogno nel ventesimo secolo per arrivare ad affermare, nel ventunesimo, la fine di se stesso.
Nel frattempo, però, un elemento di discontinuità, nella storia italiana, è dato dal drastico ridimensionamento, anche numerico, di quella classe operaia che, con le sue lotte, fece tra l’altro da volano dello sviluppo spingendo il capitalismo alla modernizzazione e all’innovazione tecnologica. Un momento irripetibile, durato non più di due decenni, in cui l’Italia parve destinata, grazie all’industrializzazione e ai suoi conflitti, a mutare il volto antico di paese mediterraneo e quasi levantino per avvicinarsi ai paesi del Nord Europa. Ma non accadde. La fabbrica, con la massiccia concentrazione operaia al suo interno, venne a perdere la sua centralità già a partire dagli anni ottanta, cedendo il passo all’impresa diffusa, a un capitalismo flessibile e piccolo piccolo, dentro cui è difficile la solidarietà di classe, e nel quale l’imprenditore e il lavoratore talora addirittura si confondono in una specie di autosfruttamento. Ciò non assolve dall’errore gli operaisti, che sulla radicalizzazione operaia avevano scommesso, perché già a quei tempi era in atto, e si poteva osservarlo, un processo di enorme sviluppo dei ceti medi: però lascia cadere una patina di nostalgia sulle loro illusioni. Anche perché le nuove vecchie forme di lavoro servile, che si moltiplicano ai nostri giorni creando una “plebe sparsa e divisa” incapace di organizzazione e di lotta, con lo sfruttamento degli immigrati nei servizi più umili e il diffondersi di un’intellettualità precaria e disoccupata, dotata per lo più di scarsa consapevolezza “umanistica” ma di qualche competenza tecnica, fanno apparire quel passato non lontano, in realtà duro, una specie di età dell’oro.
[1] Cfr. C. P. Snow, Le due culture (1959), trad. it., Venezia, Marsilio, 2005.
[2] A. Asor Rosa, Scrittori e popolo, Roma, Samonà e Savelli, 1966; Intellettuali e classe operaia, Firenze, La Nuova Italia, 1973.
[3] F. Fortini, Dieci inverni (1947-1957), Milano, Feltrinelli, 1957.
[4] Cfr. A. Asor Rosa, Intellettuali e classe operaia, cit., p. 245, nota.
[5] Le citazioni da Intellettuali e classe operaia, cit., rispettivamente p. 250 e p. 249.
[6] A. Asor Rosa, Il grande silenzio. Intervista sugli intellettuali (con S. Fiori), Roma, Laterza, 2009, p. 4.
Quanto ai sorrisi di Marx, Marx avrebbe anche sorriso (o si sarebbe adirato come una besta) della “lettura” kautskiana della sua teoria critica del capitale. Nelle sue previsioni sul superamento del capitalismo Marx vedeva nel “general intellect” (la filiera sociale che andava dal primo ingegnere della fabbrica all’ultimo operaio) la forza produttiva capace di innescare un processo rivoluzionario, mentre Kautsky (e in parte Engels) hanno conferito un ruolo rivoluzionario alla classe operaia. Tutto il marxismo ufficiale novecentesco è stato viziato da questa costruzione di Kautsky. Ma andrei cauto con la sintonia Kautsky-Lenin, che è molto relativa e limitata a fatti specifici, tra cui, appunto, la concezione dell’avanguardia politica rivoluzionaria. E il suo fallimento ci ha fatto capire che la classe operaia non è mai stata rivoluzionaria, perché le rivoluzioni novecentesche sono avvenute in paesi in cui la classe operaia era debole o molto minoritaria. Mi pare che oggi sia necessario ri-definire l’identità del soggetto, o dei soggetti sociali che possono essere portatori di istanze di trasformazione rivoluzionaria, in relazione con la nuova fase capitalistica apertasi con il neoliberismo. Questo mi pare essere il nodo preliminare, affrontato il quale si può anche affrontare la questione dell’intellettuale oggi e della sua attuale identità.
OBIEZIONI A RINO GENOVESE
1. «L’intellettuale disorganico, da Baudelaire a Walter Siti, non l’avremmo conosciuto».
Organico/disorganico a chi o a quale gruppo o classe sociale oggi? Se non si chiarisce questo punto in discorso gramsciano mi pare navighi nell’astrattezza.
2. «Una teoria (del resto affine a quella coeva delle élites, che parimenti influenzò Mussolini) di cui
Marx sicuramente avrebbe sorriso, considerandola uno strano rovesciamento del suo materialismo storico, che permetteva alle idee, e perciò agli intellettuali, di ritornare a presumere di giocare un ruolo decisivo sopra i processi economici: aspetto di cui la forzatura russa, con le sue conseguenze totalitarie, è stata un’illustrazione istruttiva se si pensa che il regime sovietico fu in sostanza la dittatura di gruppi di funzionari sopra l’intera società».
Non so se Marx davvero avrebbe sorriso se, per assurdo, vivendo fino al 1917, avesse potuto vedere «la forzatura russa». (Ahimè, come si parla oggi di una delle poche rivoluzioni vere avvenute su questo misero pianeta, saltando il senso di quell’evento-scommessa e correndo subito, svalutandone la portata e gli inediti problemi lì emersi, all’involuzione successiva. Questo in ossequio pieno alla vulgata antitotalitarismo che domina le università occidentali!).
3. «Il fatto è che, gratta gratta, nell’intellettuale più o meno sradicato si trova spesso il politico incanaglito, bramoso di potere o denaro, o di tutti e due insieme (come mostra la corruzione socialista italiana da Mussolini a Craxi)».
Non ho mai capito perché l’incanaglimento, la bramosia di potere o denaro vada attribuita di solito solo ai rappresentati delle classi “dominate” e in particolare all’« intellettuale piccolo borghese». Perché i rappresentanti delle classi dominanti, sono invece, esemplari di dedizione al bene collettivo e di weberiano dominio della bramosia di potere o denaro? Vedo qui, invece che valutazioni politiche, tracce del moralismo che ha inquinato il dibattito politico italiano degli ultimi decenni
4. «Ciò non assolve dall’errore gli operaisti, che sulla radicalizzazione operaia avevano scommesso, perché già a quei tempi era in atto, e si poteva osservarlo, un processo di enorme sviluppo dei ceti medi: però lascia cadere una patina di nostalgia sulle loro illusioni. Anche perché le nuove vecchie forme di lavoro servile, che si moltiplicano ai nostri giorni creando una “plebe sparsa e divisa” incapace di organizzazione e di lotta, con lo sfruttamento degli immigrati nei servizi più umili e il diffondersi di un’intellettualità precaria e disoccupata, dotata per lo più di scarsa consapevolezza “umanistica” ma di qualche competenza tecnica, fanno apparire quel passato non lontano, in realtà duro, una specie di età dell’oro».
Tutto qua? Spero che la sua analisi non si concluda con questa terza puntata. Al momento direi che la sua interpretazione della questione intellettuale è tutta volta all’indietro e oscilla indecisa e nostalgica fra il “giovane” e il “vecchio” Asor Rosa. In più mi pare che proprio Asor Rosa rientra bene nel “sovversivismo piccolo borghese”, essendo passato dall’esaltazione assieme a Tronti e ad altri della “rude classe pagana” all’appello al colpo di stato (ovviamente democratico) dall’alto. Mi pare che egli sia un esempio della inapplicabilità agli intellettuali italiani contemporanei dell teoria gramsciana dell’intellettuale organico alle classi dominate. Trovo anche che lei liquida troppo sbrigativamente, come fosse una banalità, la teoria delle élite o il ruolo delle élite nella storia (anche contemporanea).
5. Insistendo nel mio lavoro di “contrabbandiere” che mette a contatto posizioni anche distanti e spesso scomode (per i rispettivi fautori), stralcio due brani da un’intervista a Costanzo Preve sulla questione degli intellettuali oggi. A me quella di Preve pare una posizione che ha il merito di essere più chiara e attualizzante, anche quanto fa affermazioni drastiche. Mi piacerebbe avere in merito l’opinione sua e di altri commentatori di LPLC, sperando che non si liquidi quel che afferma come esempio di “risentimento piccolo borghese” :
« gli intellettuali sono strutturalmente al servizio del potere. La grande obiezione che si può muovere a questa tesi è quella di Gramsci e di Lenin, per i quali gli intellettuali sono gli unici in grado di organizzare il punto di vista delle classi dominate, le quali hanno bisogno di questa mediazione per diventare classi dominanti. A lungo ho creduto a questo, ma adesso non ci credo più, proprio a causa dell’integrazione dei gruppi intellettuali tramite la “attrazione magnetica” delle classi dominanti. Secondo me questo è il punto fondamentale. Personalmente per capire i gruppi intellettuali odierni mi ispiro a due fonti. La prima è quella del sociologo francese Bourdieu, che ha definito, secondo me correttamente, gli intellettuali come un gruppo dominato della classe dominante. Secondo me questa formulazione è molto felice. Gli intellettuali fanno parte della classe dominante, perché posseggono un capitale intellettuale che possono spendere e valorizzare, ma per poterlo valorizzare devono venderlo sul mercato, e non possono che venderlo alle classi dominanti stesse, le quali funzionano da filtro per lo spazio pubblico, selezionando chi può accedervi e chi non può accedervi. In questo senso gli intellettuali sono un gruppo dominato della classi dominante, quella dei capitalisti industriali e finanziari».
« La seconda posizione è quella dei sociologi francesi Boltanski e Chiapello, i quali, in modo secondo me molto intelligente, hanno sostenuto che la sinistra che conosciamo sia nata a fine Ottocento a partire dall’alleanza instabile tra la critica economico-sociale all’ingiustizia del capitalismo e una critica culturale-estetica all’ipocrisia della borghesia (anche se Boltanski e Chiapello non distinguono tra borghesia e capitalismo, e in questo modo si interdicono la comprensione di ciò che loro stessi hanno scoperto). Dopo il Sessantotto quest’alleanza si è rotta, e le classi dominate in Occidente sono rimaste senza intellettuali, perché le richieste di liberalizzazione dei costumi che gli intellettuali avevano rivolto alla borghesia per circa 100 anni sono state soddisfatte ampiamente all’interno del capitalismo. Ora, se questo è vero, e in parte è vero, Baumann ha colto il punto fondamentale, per il fatto che oggi il capitalismo ha bisogno di una sorta di “fondamentalismo illuministico”, che non ha più la funzione emancipatrice del vecchio illuminismo, ma semplicemente una funzione di rigorosa laicizzazione e secolarizzazione del sapere sociale. Esso trova nelle caste universitarie il suo clero regolare e nelle caste giornalistiche il suo clero secolare. Il fatto che il governo Monti si sia rivolto direttamente a degli intellettuali specialisti nel campo dell’economia, del diritto e delle scienze sociali è assolutamente ovvio e chiaro. Oramai l’intellettuale filosofo non ha più il ruolo che hanno avuto a suo tempo Croce, Gentile e Gramsci. La filosofia è ridotta a dei riti di appartenenza limitati all’interno del sapere universitario, in cui deve dire che il mondo non ha senso, che l’Essere non esiste, riducendosi fondamentalmente o a gnoseologia (cioè epistemologia del sapere scientifico), oppure a delle forme di disincanto (pensiamo al francese Lyotard e al tedesco Sloterdijk). Quindi io penso che il clero universitario oggi sia un clero di servizio. Perché un clero di servizio? Perché ha introiettato completamente la riproduzione capitalistica come necessità storica intrascendibile, e ciò si può chiamare in vari modi, “gabbia d’acciaio” in senso weberiano o “dispositivo della tecnica” (Gestell) in senso heideggeriano. In ogni caso, gli intellettuali sono al servizio di una divinità infinitamente più dispotica e sanguinaria di quello che poteva essere il Dio medioevale, una divinità che certamente non chiede più roghi e sacrifici umani, ma che ha aumentato ancora di più (sebbene in forma laicizzata ed apparentemente umanistica) l’idea dell’intrascendibilità del mondo. Oggi gli intellettuali sono portatori di questa intrascendibilità e immodificabilità del mondo, e lo fanno proprio perché hanno metabolizzato la critica alle “grandi narrazioni” di origine weberiana, liotardiana e post-sessantottina».
Caro Abate, cerco di risponderle con un certo ordine ma anche in maniera rapida e, per forza di cose, schematica.
1) No, questa non è l’ultima “puntata” della “soap opera” sugli intellettuali. Ne sono previste circa venti. Non so, però, se si vedranno tutte su questo sito, perché la redazione potrebbe stancarsi di ospitarle. L’esperimento che sto facendo è quello di scrivere di volta in volta, anche in base alle sollecitazioni del momento, le parti del mio lavoro. C’è un canovaccio mentale, ma niente di più: così bisognerebbe pubblicare “in rete”, a mio parere. Le tesi propositive ci sono (almeno lo spero…), ma per il momento sto dando uno sguardo a ritroso sulla questione. Il centro della faccenda, finora, mi sembra consistere nella connessione che le prime tre “puntate” stabiliscono tra la tematica della fine (fine di un mondo, dell’Occidente, del capitalismo, dell’intellettuale stesso) e quella degli intellettuali.
2) L’intellettuale “disorganico” non è disorganico a una classe o a un gruppo sociale, perché è in se stesso disorganico. Non c’è più, e da molto, un ceto degli intellettuali definito e chiaramente riconoscibile. Si va dall’intellettualità diffusa e precaria al ricercatore solitario e privilegiato; l’intellettuale “organico” non esiste, perché, dall’altro lato, c’è solo il funzionario, sia esso manager o professore. Gli attuali “tecnici” del governo Monti sono dei funzionari piuttosto che degli intellettuali. È chiaro che qui c’è una ripresa e una radicalizzazione della posizione di Karl Mannheim intorno alla intellettualità “liberamente fluttuante” (si veda la prima “puntata”): essere disorganici o funzionari, almeno in parte, è una scelta: ma è il “destino” a decidere che l’alternativa sia proprio questa e non un’altra.
3) Sulla questione delle élite. Marx ne sarebbe stato distante anche semplicemente perché si tratta di una teorizzazione primonovecentesca nata in chiave antimarxista. Purtroppo il movimento operaio dell’epoca ne fu influenzato oltremisura. In questa teoria si annida il risentimento dei “forti” contro i “deboli”, l’opposto di quello che il risentimento era per Nietzsche. Lo spirito della dittatura nasce, in gran parte, da una forma di rivalsa di intellettuali già sradicati che si fanno funzionari. È la “corruzione del socialismo” a spiegare sia il fascismo italiano sia l’immediata involuzione della rivoluzione russa: le spiegazioni in base alle reazioni borghesi e capitalistiche (il fascismo italiano fu anche una controrivoluzione preventiva) non chiariscono tutto.
4) Riguardo al lungo passo di Preve, posso dire soltanto che mi sento più vicino a Boltansky-Chiapello, in particolare al loro discorso sulla “critique artiste” (Baudelaire), che a Bourdieu le cui posizioni, del resto, conosco solo molto sommariamente. Può darsi, però, che strada facendo approfondisca questo aspetto del discorso, e così anche l’eventuale connessione o non connessione con Bauman.
Ringrazio, intanto, dell’attenzione e delle sollecitazioni.
La citazione di Preve è non solo illuminante, ma definitiva.
Tra l’altro rispecchia perfettamente l’interpretazione del “sessantottismo” già data da Perniola nel recente “Miracoli e traumi della comunicazione” e ancora prima formulata da Clouscard in “I tartufi della rivoluzione” un libro a suo tempo tradotto da Editori Riuniti e scomparso da trent’anni dalle librerie italiane.
Il rifiuto dell’establishment dell’intelligentja nostrana a misurarsi con autori e tesi come queste è peraltro comprensibilissimo: dovrebbero accettare di lasciare cattedre universitarie e posizioni di comando nelle major editoriali e nelle pagine culturali dei quotidiani ad altissima tiratura, oppure smettere di spacciarsi per rappresentanti di una “cultura d’opposizione”, quando in realtà essi non fanno che fornire la merce più pregiata dell’industria culturale, cioè la protesta puramente utopica che la perpetua e nel contempo ne sopisce la cattiva coscienza.