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di Giulia Sarno

 

[Questo saggio fa parte del libro collettivo Appunti di Rock 3 (Il foglio letterario), curato da Andrea Gozzi e appena uscito per Il foglio letterario in collaborazione con Tempo Reale].

 

POST

 

«Whereas Debut was like the greatest hits of ten years, Post was like the last two years. For me, all the songs on the album are like saying, “listen, this is how I’m doing”, and that’s why I called the record Post, because I always address my songs back in my head to Iceland in a letter. Because it was such a big jump for me to move away from all my relatives, all my friends, everything I know».[1]

 

POST, secondo disco uscito a nome di Björk sul mercato internazionale, si presenta nelle parole dell’autrice come consuntivo di esperienze forti che cercano una via di comunicazione, sismografo emotivo di una forma di vita spiazzata che ha bisogno di ancorarsi alla scrittura per comprendersi e farsi comprendere. Che Björk abbia affidato le sue riflessioni alla forma canzone invece che a quella epistolare, evocata tanto nel titolo quanto nella giacca-busta che l’autrice indossa in copertina,[2] è tutto a nostro vantaggio. Undici tracce spedite nel mondo dunque, registrate tra il 1994 e il 1995 (l’album esce a giugno per One Little Indian ed Elektra) sotto l’egida del produttore Nellee Hooper, già parte del collettivo Wild Bunch che nella Bristol degli anni Ottanta fece da calderone di incubazione per il trip hop (compagni di Hooper in quel contesto erano i futuri componenti dei Massive Attack e Tricky). Proprio per il lavoro su POST assieme a quello su PROTECTION dei Massive Attack e BEDTIME STORIES di Madonna, Hooper si aggiudica il titolo di best producer ai Brit Awards del 1995. Accanto a Hooper, figurano come produttori dell’album la stessa Björk, Tricky (che nello stesso anno debutta da solista con MAXINQUAYE), e Graham Massey degli 808 State. Un peso notevole nell’economia sonora dell’album rivestono inoltre il programming e le tastiere di Marius de Vries, già collaboratore di artisti del calibro di Annie Lennox, David Bowie, U2, Brian Eno.

Il caleidoscopio sonoro in cui l’ascoltatore di POST è immerso include, a fare da contraltare alle predominanti tinte electro e dance, l’impiego degli elementi dell’orchestra classica in molti dei brani (arrangiamenti di Björk con il compositore brasiliano Eumir Deodato), come pure non mancano una straniante puntata nei territori della strumentazione antica (clavicembalo e dulcimer in Cover Me), un calco bigbandistico (la cover di It’s Oh So Quiet dell’americana Betty Hutton, 1951),[3] e una tendenza a sconfinare verso campi formali altri dal pop (in particolare la liquida Headphones che chiude il disco). La voce di Björk, cangiante e monolitica insieme, agisce da forza centripeta capace di compattare il tutto attorno a sé, col risultato di rendere internamente coerente una tessitura che da un brano all’altro si stravolge pressoché del tutto. La radice di questa configurazione risiede in un approccio compositivo che assegna al canto una priorità logica e una qualità strutturante. Nelle parole di Alex Ross, «the voice itself becomes the centre of gravity of the composition, the fount of the creative idea. To sing is to compose».[4] Alieno da ogni preconcetto di genere, POST si presenta come un assembramento vibrante di suggestioni acustiche, tagliate chirurgicamente sulle singole composizioni: ogni brano sembra chiamare a sé, con attrattiva magnetica, il sound che meglio ne esalta le risonanze, confondendo i confini tra suono e forma.

 

Le tematiche dell’album sono per lo più legate, come accennato, alle esperienze di vita dell’autrice. La scrittura dei testi registra le reazioni del soggetto ai sommovimenti dell’esistenza, raccogliendo l’espressione del desiderio, i riflessi di un’etica individuale, le paure e le affermazioni del sé, uno sguardo altamente individualizzato sul mondo. Emergono orizzonti che saranno ricorrenti nella produzione di Björk, come il rapporto tra natura e tecnologia (declinato in tono visionario in The Modern Things), e l’attrattiva irresistibile del mondo, il sentimento e la lussuria, inquadrati nel conflitto tra un’etica tradizionale di durata, sacrificio e costruzione e un’etica puramente soggettivistico-consumistica di godimento puntuale (Enjoy, Possibly Maybe, ma anche Isobel). Entrambi questi aspetti hanno una rilevanza nel brano al centro di questa analisi, seconda traccia dell’album, dal titolo eloquente di Hyperballad.

 

Hyperballad  

 

Scritta da Björk con Nellee Hooper, anche co-produttore, e Marius De Vries, responsabile di programming e tastiere, arricchita dagli archi arrangiati da Eumir Deodato, Hyperballad è il quarto singolo ricavato da POST, dopo Army Of Me, Isobel e It’s Oh So Quiet. Il singolo, uscito nel febbraio del 1996 su CD, 12 pollici e cassetta, contiene diversi remix del brano, tra cui certamente notevole è quello a cura di Howie B, in cui le registrazioni vocali differiscono da quelle del brano originale, che ne esce autenticamente trasfigurato: tenuta a bada l’enfasi drammatica, le linee melodiche che danzano sul groove stabile e cool creato dal produttore sono quasi straniate dal contenuto lirico. Il risultato è più una rilettura radicale che un semplice remix. Sulla copertina del singolo, uno scatto di Toby McFarlan Pond rielaborato dai grafici della Me Company, in cui il volto di Björk, gli occhi serrati e un colorito livido, è circondato da forme digitali che rimandano a ciottoli madreperlacei che lo riflettono, deformandolo. L’artwork costituisce il primo di quegli esperimenti visivi di fusione tra dimensione naturale e tecnologica che caratterizzeranno la carriera di Björk e faranno da perfetto contraltare ai suoi esperimenti sonori. Ma allo stesso tempo è anche un rimando al testo della canzone e alle «vivide giustapposizioni tematiche fra amore e morte»[5] che, come vedremo, lo caratterizzano.[6] Il brano cambierà di nuovo pelle alla fine dell’anno, quando viene pubblicato TELEGRAM, album che contiene remix di nove brani di POST, e in cui Hyperballad è magistralmente reinterpretata in chiave cameristica dal Brodsky Quartet.

 

Hyperballad è, nelle parole di Elena Raugei, «semplicemente perfetta»[7]. Critica e pubblico sono concordi nell’includerla nelle classifiche delle migliori canzoni dell’autrice islandese (per citarne qualcuna, primo posto per Time Out,[8] terzo per The Guardian,[9] secondo nel sondaggio dei fan che ha portato alla scelta della tracklist del GREATEST HITS del 2002).[10] In cosa consista questa “perfezione” è ciò che queste pagine si propongono di esplorare.

 

La struttura di Hyperballad è piuttosto semplice: si tratta di un brano che segue la comunissima forma fissa strofa-ritornello, arricchendola di una brevissima introduzione (intro), in cui è presentato il riff principale della strofa, e di una coda basata sul materiale musicale del ritornello. Per visualizzare questa struttura, prendiamo a prestito il modello grafico elaborato da Franco Fabbri,[11] adattato alle nostre esigenze.

 

SARNO:BJORK Immagine 1

 

L’immagine riporta lo svolgimento del brano come una serie di blocchi, differenziati graficamente da un diverso riempimento, che si succedono sulla linea del tempo. Per ogni blocco è segnato, in alto, il numero della battuta di inizio. I blocchi colorati in modo uniforme rappresentano parti strumentali, mentre i pattern (righe oblique e quadratini) indicano le parti cantate. Sulla base del materiale musicale utilizzato, possiamo raggruppare i singoli blocchi in due macro-sezioni, che chiamiamo per comodità S e R. In quest’ottica, S non rappresenta esclusivamente la strofa cantata, ma tutte quelle parti basate sul materiale musicale della strofa (dunque anche l’intro e la strofa strumentale). Allo stesso modo, R non identifica solo il ritornello, ma anche la coda del ritornello e la coda del brano. Graficamente, questa distinzione è resa attraverso l’utilizzo di due diverse nuances di grigio, chiaro (uniforme e con pattern a righe oblique) e scuro (con o senza quadratini).

 

Oltre a ovvie differenze in termini melodici, ciò che distingue in modo cruciale le due sezioni S e R è una diversa organizzazione sintattica del materiale musicale, che in S si distribuisce a gruppi di 3 battute di 4/4, mentre in R si regolarizza sulle canoniche 4 battute. La cellula base di S è infatti un riff di basso formato da tre note tenute in scala discendente (Mib-Re-Do), che coprono ognuna una misura. Sostenuto da un pedale di archi sull’accordo di Fa quarta (quinto grado di Si bemolle, tonalità chiave di tutto il brano), il riff viene esposto per la prima volta nell’intro, e si ripete invariato per quasi tutta la durata di S (vedremo a breve l’importanza di questo “quasi”). L’articolazione in gruppi di 3 battute è confermata dall’ingresso del drumming, che avviene dopo 6 battute. Eppure la configurazione del pattern della batteria, che reitera lo stesso modulo metro-ritmico di misura in misura, ignora il raggruppamento in tre (nessun accento particolare a segnare la scansione di tre in tre), producendo un effetto di spiazzamento. Basta poco per perdere la cognizione esatta della struttura, e il risultato è che l’ingresso della voce risulta imprevedibile. A rafforzare il senso di spiazzamento, la linea melodica si imprime sulla struttura con grande fluidità, con continui spostamenti di accento dal beat all’off-beat che rendono estremamente vitale la strofa cantata. Allo stesso modo, la tastiera introdotta a b. 21, che fa da controcanto alla voce, e la sequenza che, a partire da b. 27, oscilla tra il canale destro e quello sinistro (panning), producono movimenti ondivaghi. Se però guardiamo da un lato agli ingressi dei vari strumenti, e dall’altro alla disposizione dei versi nella struttura musicale, notiamo un principio di regolarità che conferma nuovamente il modulo base già messo in evidenza. Tutto è calibrato secondo questa logica ternaria. In particolare, ogni frase di senso compiuto copre due giri di tre battute:

 

  1. 15-20 | We live on a mountain right at the top
  2. 21-26 | There’s a beautiful view from the top of the mountain [ingresso tastiera]
  3. 27-32 | Every morning I walk towards the edge and throw little things off [ingresso sequenza]
  4. 33-38 | Like: car-parts, bottles and cutlery or whatever I find lying around

 

A questo punto del brano, troviamo un verso che rappresenta la chiave del passaggio da S a R. Alla fine della b. 38, il riff di basso significativamente si ferma, lasciando spazio a un gruppo di quattro battute che preannuncia già la struttura sintattica del ritornello. Tre di queste battute (39-41) sono occupate da un verso che conclude il ragionamento della strofa, e la cui melodia non si distanzia sostanzialmente da quella dei versi precedenti. La quarta battuta “aggiunta” fa invece da lancio per la nuova sezione (R).

 

  1. 39-42 | It’s become a habit a way to start the day —— [I go…]

L’introduzione anticipata del modulo sintattico a 4 battute fa sì che questo verso, pur appartenendo logicamente e melodicamente alla strofa, sia già strutturalmente altro, costituendo un vero e proprio ponte tra i due mondi di S e R.[12] Un passaggio di grande efficacia, sottolineato timbricamente dal ritorno dell’accordo di archi che avevamo ascoltato nell’intro (o meglio, da una sua breve eco) e da una leggera rullata di batteria sulla quarta battuta (b. 42). A rendere ancora più fluido il passaggio, le prime note della linea vocale del ritornello si collocano proprio sulla seconda metà della b. 42, in anacrusi rispetto all’inizio strutturale del ritornello stesso, dando un senso di continuità alle due sezioni.

 

Arrivati al ritornello, la distribuzione sintattica su 4 battute contribuisce a produrre una sensazione di approdo nell’ascoltatore, dopo gli spiazzamenti propri della strofa.[13] Il nuovo riff di basso è ora costruito su quattro note di una misura ciascuna (Mib-Fa-Sol-Fa si alterna a Mib-Fa-Sol-Sib), mentre la linea melodica della voce, che sulla strofa sembrava vagare muovendosi tra il quarto e il quinto grado della scala di Sib, trova ripetizioni più frequenti, salti più ampi e un andamento affermativo di grande coinvolgimento, pur senza risolvere mai del tutto. Nonostante la ritmica degli elementi percussivi rimanga sostanzialmente invariata, si produce un effetto di conquistata stabilità, raggiunto anche attraverso la sovrapposizione di un sequencer in ottavi. Lo stesso sequencer è responsabile della fluidità del passaggio dal R a S a b. 59: continuando a suonare sulla strofa strumentale, stabilisce un forte legame tra le due sezioni.

 

In modo analogo alla prima è costruita la seconda strofa,[14] introdotta come in precedenza da 6 battute strumentali. La dinamica del lancio al ritornello è leggermente diversa: non c’è più la rullata sulla quarta battuta, ma si passa senza soluzione di continuità ad un nuovo modulo ritmico, caratterizzato dall’uniforme accentazione dei 4 tempi della battuta, quella che nella terminologia della musica dance è conosciuta come “cassa dritta”. L’effetto è decisamente propulsivo. Il brano vira improvvisamente verso atmosfere inattese, tipicamente house, acquisendo una prospettiva ballabile che non abbandonerà fin quasi alla conclusione. È qui, a mio avviso, che la ballad si fa hyper, in questo sconfinamento stilistico che trasfigura il brano, nel potenziamento emotivo generato dal serrarsi del beat. È a questo punto che la confessione privata si fa esperienza condivisa, inno da ballare insieme e cantare in coro. Ad occupare questa seconda metà della durata complessiva, troviamo tre ripetizioni del ritornello, cui segue un blocco di sedici battute (qui indicata come coda del ritornello) giocato sulla ripetizione a canone dell’ultimo verso cantato (“Safe up here with you”), e infine una lunga coda, che può anche essere descritta come una serie di ritornelli strumentali. Notevole nell’economia sonora complessiva di questa parte, a fronte di una stabilità armonico-melodica di base, è la grande varietà del livello timbrico e dinamico prodotta da un sapiente alternarsi di ispessimenti e svuotamenti, che portano fino ad una conclusione lirica sui soli archi in rallentando.

 

La dialettica di spiazzamento/approdo che forma Hyperballad a livello strettamente musicale trova una specularità nel contenuto lirico del brano, e nella distribuzione di questo all’interno della struttura.

 

Nella prima strofa, la voce di Björk descrive, con uno stile piano e disteso, una pratica quotidiana piuttosto enigmatica: vivendo sul picco di una montagna, dice, ha sviluppato l’abitudine di cominciare la giornata lanciando giù oltre il precipizio piccoli oggetti che si trova casualmente a portata di mano: componenti di automobili, bottiglie, posate. Di questo comportamento bizzarro il primo ritornello dà una spiegazione, o almeno quello che logicamente sembra una spiegazione: fare queste cose di primo mattino, prima che il compagno si svegli, la fa sentire più felice di trovarsi lì al sicuro con lui.

 

I go through all this before you wake up
So I can feel happier to be safe up here with you

 

Apparentemente niente di più lineare: la descrizione di un’azione enigmatica, e relativo senso di spiazzamento, è seguita dalla rivelazione del motivo per cui si compie questa azione, con effetto di approdo. Però riflettiamo bene: in che modo esattamente lanciare oggetti dal picco di una montagna può far sentire il soggetto più felice di trovarsi al sicuro con il proprio partner? Non siamo certo davanti a una logica ferrea di causa ed effetto, e le perplessità sono legittime. Sarà il resto del brano a scioglierle.

 

Nella seconda strofa torniamo alla descrizione della situazione già delineata nella prima: Björk è di nuovo sull’orlo del precipizio, a lanciare oggetti. Ora però la descrizione va oltre, perché il soggetto si trova ad ascoltare il suono che gli oggetti fanno nel cadere, li segue con gli occhi fino a quando non si schiantano al suolo, immaginando che lo stesso accada al suo corpo, lanciato nel vuoto: che suono produrrebbe sbattendo contro le rocce? E all’atterraggio, gli occhi saranno chiusi o aperti? Sottolineato dall’ingresso della “cassa dritta”, si produce a questo punto lo snodo cruciale del senso del brano. Le parole del secondo ritornello, identiche a quelle del primo, acquisiscono un significato molto più pregnante: assaporare in una fantasia di suicidio la precarietà di ciò che si possiede permette al soggetto di ritornare alla sicurezza del quotidiano con sollievo e gioia. Trasferendo sugli oggetti scagliati un desiderio di evasione, che è poi una vera e propria pulsione di morte, il soggetto se ne libera e può tornare confortato alla sua vita, che ne risulta valorizzata. Se si trattasse di una favola di Esopo, o di una canzone di Joni Mitchell,[15] la morale conclusiva suonerebbe: si riconosce il valore di ciò che si ha solo quando lo si perde. Ribaltando il fatalismo di questa prospettiva, Björk ci dice che per riconoscere il valore di ciò che abbiamo possiamo semplicemente immaginare di perderlo, creando uno scenario fantastico in cui il peggio è già avvenuto. Si delinea così una sorta di strategia di sopravvivenza, un trucco per rivitalizzare un rapporto sentimentale ormai consolidato, la cui stabilità è messa a repentaglio dagli impulsi autodistruttivi che albergano dentro di noi, simboleggiati dal precipizio. Questa interpretazione è suffragata dalle dichiarazioni della stessa autrice,[16] che cita un articolo scientifico in cui la durata dell’attrazione chimica tra due esseri umani è quantificata in tre anni, trascorsi i quali mantenere in vita un amore significa fare scelte consapevoli e mettere in atto sforzi coscienti, cercando di isolare e controllare le parti di sé che tenderebbero alla distruzione. Il lancio degli oggetti è dunque una forma di esorcismo, di autoterapia che permette agli impulsi negativi di manifestarsi in una zona franca, individuale – non a caso il rituale avviene “before you wake up” – senza compromettere il rapporto. Come dire, siamo sempre a rischio di spiazzamenti, l’importante è trovare il modo di non perdere di vista l’approdo.

 

Tutto sommato, l’argomento centrale di Hyperballad è il tentativo di conciliazione tra le tendenze centrifughe che ci abitano, generate dall’etica soggettivistico-narcisistica propria della contemporaneità, e la volontà di ancorarsi alla solidità di un rapporto sentimentale duraturo, rispondente ai canoni di un diverso modello etico, più antico, che prevede sacrificio, sforzo, limitazione. La convivenza, a livello musicale, di spinte di segno opposto, in una danza di spiazzamenti e approdi, è il segno acustico di questa ricerca.

 

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NOTE:

[1] Cfr. http://bjork.com/#/past/discography/post/. Björk Guðmundsdóttir, questo il suo nome completo, dopo una multiforme attività musicale coltivata sin dall’infanzia, lascia l’Islanda nel 1992 per trasferirsi a Londra e perseguire così una carriera solistica che, iniziata con DEBUT nel 1993, ad oggi conta otto album ufficiali (l’ultimo, VULNICURA, è del 2015).

[2] La giacca è una creazione dello stilista Hussein Chalayan, «One of [Björk]’s first close fashion friends, who, like her, had come to London as an immigrant. Together the pair would brainstorm. Post’s “Airmail” jacket, made of washable, malleable synthetic paper, reflected her character’s embrace of a cosmopolitan urbanity» (K. BIESENBACH, “Introduction”, in K. BIESENBACH, A. ROSS, Björk: Archives, Thames and Hudson Ltd, Londra, 2015). La foto di copertina è invece opera del regista e fotografo parigino Stéphane Sednaoui, già a lavoro con Björk per il video del brano Big Time Sensuality contenuta in DEBUT. Si vedano a questo proposito le immagini alla fine del capitolo.

[3] A sua volta la canzone della Hutton è una rilettura di un brano tedesco del 1948 dal titolo Und jetzt ist es still, composto dall’austriaco Hans Lang con testo di Erich Meder, e interpretato dal cantante Horst Winter. La traduzione inglese è di Berthold Reisfeld.

[4] A. ROSS, “Beyond Delta: The Many Streams of Björk”, in K. Biesenbach, A. Ross, Björk: Archives, cit., p. 26.

[5] E. RAUGEI, “Björk, la precog dei ghiacci”, in «Mucchio/Extra», supplemento al n. 636/637 (luglio/agosto 2007) de Il Mucchio Selvaggio, p. 30.

[6] Analoghi sono i riferimenti figurativi utilizzati dal regista Michel Gondry nel video che accompagna il singolo: da un lato la sovrapposizione di elementi naturali e tecnologici (un paesaggio montuoso su cui si stagliano in sovrimpressione rielaborazioni digitali di scenari metropolitani), dall’altro la visione del volto immobile di Björk, incastonato nel suolo.

[7] E. RAUGEI, “Björk, la precog dei ghiacci” cit., p. 30.

[8] http://www.timeout.com/chicago/music/the-11-best-bjork-songs-ever.

[9] http://www.theguardian.com/music/musicblog/2014/mar/26/10-of-the-best-bjork.

[10] Frutto di due sondaggi congiunti che hanno mostrato qualche incongruenza, la tracklist del GREATEST HITS riporta Hyperballad al numero 2, superata da All Is Full Of Love. La vicenda è riassunta su Wikipedia [https://en.wikipedia.org/wiki/Greatest_Hits_(Björk_album)], mentre la comunicazione ufficiale relativa ai sondaggi si trova qui: https://web.archive.org/web/20071119003634/http://unit.bjork.com/specials/gh/index.htm.

[11] F. FABBRI, “Forme e modelli delle canzoni dei Beatles” in Il suono in cui viviamo, Feltrinelli, Milano, 1996, p. 53-79.

[12] Questo statuto per così dire “anfibio” dell’ultimo verso è confermato dalla disposizione del testo nel sito ufficiale di Björk, in cui si trova isolato da due righi vuoti tra la strofa e il ritornello. Cfr. http://bjork.com/#/past/discography/post/track2/lyrics2.

[13] Al senso di spiazzamento contribuisce anche una configurazione armonico-melodica che rifugge costantemente dall’affermazione della tonalità e si gioca piuttosto su procedimenti di stampo modale, che non analizzeremo per brevità.

[14] Questa la divisione in moduli da 6 battute:

  1. 65-70 |It’s early morning, no-one is awake
  2. 71-76 | I’m back at my cliff, still throwing things off
  3. 77-82 | I listen to the sounds the make on their way down, I follow with my eyes ’til they crash
  4. 83-88 | I imagine what my body would sound like slamming against those rocks
  5. 89-92 | And when it lands will my eyes be closed or open? —— [I go…]

[15] “Don’t it always seem to go that you don’t know what you’ve got ‘till it’s gone” canta la Mitchell in Big Yellow Taxi (LADIES OF THE CANYON, 1970).

[16] Cfr. l’intervista rilasciata a Natalie Curtis nel gennaio del 1996, trascritta e riportata su http://www.bjork.fr/Feedback-1996.

[Immagine: Björk]

9 thoughts on “Dinamiche di spiazzamento e approdo: Björk, Hyperballad

  1. C’è un’ignoranza e pressappochismo enorme in materia: il rock è finito da decenni; Björk non è rock (oltre ad essere molto mediocre); la musica popolare è il fenomeno culturalmente più importante e più equivocato del ‘900; ha avuto tanto potere socio-economico quanta trascuratezza ha subito dagli intellettuali; è stata considerata arte (dai giornalisti) e non è stata considerata affatto dagli intellettuali; andrebbe considerata per quello che è: forma espressiva tecnologica di chi non ha mai avuto voce (i giovani) ecc. Andrebbe, a seguito di questa considerazione, riformulato tutto il canone: sia dei generi che all’interno di essi. I volumi qui purtroppo promossi paiono (a giudicare dall’indice) confermare nel peggiore dei modi tutti questi cliché d’ingiustizia. Leggete, per avviare un percorso redentivo, Piero Scaruffi: gratis online, snobbato: a conferma del fatto che è nel giusto.

  2. @TommasoFranci

    Trovo che ignoranza e pressappochismo emergano praticamente da ogni frase che hai (sì, “hai”, non il paludato “ha”) scritto. Il fatto che la musica di consumo (perché di ciò si tratta) abbia avuto “tanto potere socio-economico” ovviamente non ha niente a che fare col suo eventuale valore in ambito artistico. Non è possibile legare il successo economico pilotato dalla cosiddetta industria culturale ad un maggiore o minore valore intrinseco del prodotto smerciato, altrimenti ogni merce di un qualche successo commerciale avrebbe eo ipso un valore di per sé. Ma nessuno potrebbe sostenere una posizione tanto folle. Per il resto, l’inutile (e infantile) discussione su cosa faccia parte o meno del rock denota, se non altro, l’infantilismo di chi sostiene una tale posizione. In realtà, la musica di consumo non è altro che una miniera d’oro per l’industria culturale, la quale, in nome della diffusione dell’arte, può trarre guadagni enormi da prodotti, tutto sommato, mediocri.

  3. @marKo
    Trovo che ignoranza e pressappochismo emergano praticamente da ogni frase che hai (sì, “hai”, non il paludato “ha”) scritto: ignoranza e pressappochismo, anzitutto nel leggere quello che ho scritto.
    Non ho “legato il successo economico pilotato dalla cosiddetta industria culturale ad un maggiore o minore valore intrinseco del prodotto smerciato”; in ogni caso “potrebbe sostenere una posizione tanto folle” Heidegger, ad esempio.
    Per il resto, l’inutile (e infantile) negazione dell’importanza della discussione su cosa faccia parte o meno del rock denota, se non altro, l’infantilismo di chi sostiene una tale posizione. Infatti costui, per coerenza, dovrebbe negare simili problematiche in ambito artistico o letterario. E buttare a mare, ad es., tutta l’opera di un Harold Bloom.
    PS.
    In realtà, la musica popolare non è (considerabile) “eo ipso” musica di consumo (pop): interi settori di essa sono infatti di nicchia, non solo perché non diffusi ma perché difficili o impossibili da diffondere. Tutti o quasi quelli che Scaruffi considera “i migliori album di sempre” rientrano in questa categoria del non-consumo: non hanno pubblico.

  4. @TommasoFranci

    Va bene, forse sono stato troppo tranchant in ciò che ho scritto. Un po’ è colpa della velocità con cui si è soliti commentare in internet ecc.. Mi interesserebbe sapere (lo dico sinceramente), in che senso Heidegger potrebbe sostenere una tale posizione?
    Per quel che riguarda la differenziazione dei generi, in ambito musicale e generalmente artistico, sono pronto a buttare a mare l’opera (non tutta, ma certamente la sua pseudo-canonizzazione degli autori importanti ecc.) di Harold Bloom e di altri che, al pari di lui, si soffermano su queste cose.
    Il collegamento tra musica popolare e musica di consumo l’ho preso di peso dal mio caro Adorno, il quale attraverso i suoi scritti mi ha fatto capire molte cose sulla realtà e, soprattutto, sulla società nella quale viviamo. Non tutto ciò che dice sarà vero (non bisogna seguire dei totem, in nessun caso), ma secondo me ha o, almeno, può avere un senso.

  5. Rispondo su Heidegger (mi aspettavo la domanda, ho gettato l’amo apposta, so che chi interviene in un blog come questo non è per davvero “infantile”): “legare il successo economico pilotato dalla cosiddetta industria culturale ad un maggiore o minore valore intrinseco del prodotto smerciato” è possibile farlo, a partire da una ontologia di stampo heideggeriano, nella misura in qui questa ha insegnato a diffidare della “neutralità” dello strumento (tecnico). Insomma: lo strumento-tecnica (ma più in generale le cose) non sono, heideggerianamente, manipolabili a piacimento ma hanno una natura/essenza che le destina ad un uso/valore anziché un altro. Ora – e questo passaggio l’ho fatto io, ma non mi stupirei di trovarne traccia esplicita in testi heideggeriani e ad ogni caso potremmo fornire citazioni in sostengo di tale mia interpretazione – il “prodotto smerciato”, e quindi anche la canzone pop (Björk), sarà “smerciabile” non a prescindere ma soltanto a partire dal suo “essere” tale (dal suo essere cioè privo di valore extra-smercio). Questa posizione – radicale e che attribuisco ad Heidegger – non la faccio mia, rinvenendovi un non sequitur od un passaggio indebito tra condizione necessaria e sufficiente (con un coltello si può uccidere ma non si deve per forza e quindi la sua essenza non è la morte; solo le canzonette possono commercializzarsi a certi livelli ma non tutte le canzonette sono commerciali e quindi l’essenza della canzonetta non è la commercializzazione, come invece avrebbe potuto ritenere l’ontologia sociale dell’alienazione di stampo marxista).

    PS. su Adorno. Morto nel 1969 faceva il sociologo come ontologo del presente; e – pur ontologizzando variamente la musica – non una riga sul rock (che nel 1969 aveva detto quasi tutto ciò che di sostanziale sarebbe stato in grado di). Analizzava il jazz di 30 anni prima. Ed anche questo è comunque è un progresso. Rispetto alla solita retrovia degli intellettuali. Perciò, altrove ho scritto su di lui: “Dei non storici e non antropologi, e comunque non contemporaneisti, Theodor W. Adorno è stato fra i pochi – probabilmente l’unico dei cosiddetti “grandi”: togliendo i dipartimenti universitari, che all’ombra dei per ciò “grandi” stanno, si potrebbero aggiungere, oltre ai Francofortesi, Georg Simmel, Walter Benjamin, Ernst Bloch, Günther Anders, Roland Barthes, Andy Warhol, Debord-Baudrillard-Bordieu e qualche altro post-McLuhan – è stato fra i pochi Adorno a:
    1)considerare l’importanza delle forme espressive popolari (secondo impensato dell’intelletto occidentale, dopo l’ecologia e forse per lo stesso goethiano motivo per cui non si è pensata l’ecologia) ed a:
    2)considerare deleteria questa importanza. Deleteria perché causa ed effetto di totalitarismo hitlerismo stalinismo consumismo – Auschwitz ecologico e logico. Nel senso che inibendo critica e autocritica e complessità – l’espressione popolare irrigidisce omologa appiattisce sia chi la emette sia chi la riceve. Nel senso – anche – che il nazismo e l’olocausto sono l’opera di un artista fallito. L’arte è l’estremo – un estremo vitale però. Il fallimento dell’opera d’arte più è estremo più è mortale. Altro es. Stalin. Ma si pensi anche a Nerone o a Napoleone. Si sono rifatti sul mondo di quell’arte di cui non sono stati capaci in quanto artisti. Pure Lady Gaga fa così: inquinando, perpetrando sperequazione sociale ecc. “Quale che possa essere il giudizio sulle opere di Hannah Arendt, e il mio è molto critico – ad ogni modo però ella ha ragione nell’identificare il male con il banale. Solo che lo volgerei altrimenti; non direi che il male è banale [anche … ma questo è un altro, ecologico – e perciò alieno tanto alla Arendt quanto ad Adorno – discorso], bensì che il banale è male – cioè la forma della conoscenza e dello spirito, che si adegua al mondo come è, che ubbidisce al principio di inerzia”.
    Ma perché solo Adorno o quasi – ad occuparsi di queste cose? Perché – stesso dicasi dell’ecologia, che per ora (nonostante Bateson …) nemmeno un Adorno ha avuto – risulta funzionale a quell’irrigidimento omologazione e appiattimento della cultura popolare dominante (la consumistica) che un’espressione popolare irrigidita omologata e appiattita non venga criticata. Così se Adorno & Co. occupandosi di ciò di cui gli altri intellettuali – elitaristi/platonici – non si sono occupati, ha fatto un passo verso l’ecologia, non si è tuttavia occupato di ciò ecologicamente. Materialisticamente. È rimasto ad una critica simbolica. Dove non a caso restò Marx col suo non-materialistico materialismo storico. Adorno e gli altri “grandi” (potremmo aggiungervi, quale loro antesignano, Baudelaire) che occupandosi di ciò di cui prima di loro non ci si occupava hanno – senza saperlo – promosso l’ecologia, sono rimasti a metà del lavoro; perché tale promozione è rimasta all’interno della tradizionale, antropocentrica, illogica logica aecologica. Che io chiamo simbolica siccome si concentra su simboli, linguaggio, dati e non materia fisica, chimica, percettiva. Per parlare di “chimica dei sentimenti” ci vuole Nietzsche. Baudelaire resta al simbolo o al fantasma delle cose. Tolti Adorno & Co. i giornalisti sono gli unici che se ne occupano – della musica pop (o anche, in larga parte, del cinema). E questo perché i giornalisti la considerano arte. Il borghese non aspettava altro che d’avere un’arte a sua portata di mano: 1) culturalmente ed intellettualmente a lui accessibile; 2) mercificabile – così da riconfermare il borghese nella sua prassi e ideologia: la consumistica. Prassi e ideologia la quale risulta infine (e per ora) l’unica vincente e alla quale anche il borghese stesso non serve che da mezzo. A tal proposito sempre Adorno scriveva nel 1962 (doveva ancora scoppiare la Beatlemania, anche se c’erano già stati Marilyn ed Elvis): “Tutta la musica leggera potrebbe ben difficilmente avere la diffusione e l’efficacia che ha, senza quello che in America si chiama plugging. Le canzoni prescelte a diventare best sellers vengono martellate nella testa degli ascoltatori finché questi devono riconoscerle e quindi, secondo il calcolo esatto degli psicologi della pubblicità musicale, amarle. Le istituzioni delle hit parades, le borse della canzone o come altro si intitolano, ne sono il prototipo: non è quasi possibile distinguere quello che è merito veramente delle canzoni, e che pertanto viene presentato al pubblico come prodotto favorito, da quello che deriva solo da una presentazione che fa come se il risultato fosse già raggiunto […] Certo l’esecuzione radiofonica e l’incisione in disco sono condizione necessaria perché una canzone di successo diventi tale: se non c’è modo di raggiungere una vasta cerchia di ascoltatori sarà difficile averne il favore. Ma tale condizione necessaria non è anche condizione sufficiente. In primo luogo le canzoni devono, per potere aver successo, soddisfare in linea generale le regole correnti del gioco. Qui contano poco gli errori tecnici di composizione, mentre viene però eliminato il materiale che trasgredisca a priori, per carattere e natura, la normalità corrente, e dunque soprattutto ciò che appartenga a una moda dichiarata sorpassata ovvero impieghi mezzi notevolmente più moderni di quelli del tutto abituali”*. Il problema – concausa della situazione appena descritta – è che ciò non riguarda solo le forme espressive popolari come il cinema e certa musica. Ma anche le artistiche. Editori e galleristi e mecenati hanno o hanno avuto (qualora, con Internet e annessi, ne avessero sempre di meno) non poca parte in proposito”.

  6. Bella analisi, il brano e’ vero lo trovo perfetto nella forma e nella sostanza. Nei suoni, nel testo, nella voce, nella registrazione. E’ certamente una delle cose piu’ belle di Bjork.
    Concordo anche sull’analisi del significato, il rigetto della logica soggettivo narcisistica, nelle relazioni, nel non cedere agli impulsi distruttivi.

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