di Corrado Benigni
[Oggi a Bergamo, nel Complesso Monumentale di Astino, si inaugura la mostra Luigi Ghirri. Pensiero Paesaggio, a cura di Corrado Benigni e Mauro Zanchi. Il testo che segue fa parte del catalogo della mostra, pubblicato da Silvana Editoriale]
Qui non resta che cingersi intorno il paesaggio/
qui volgere le spalle.
Andrea Zanzotto
Cosa vediamo quando guardiamo? Cosa vediamo quando guardiamo una fotografia? Questo è il tarlo magnifico dell’opera e della riflessione di Luigi Ghirri: il reale e le sue numerose rappresentazioni.
Ogni volta che osservo le sue fotografie mi torna alla mente il racconto di Daniele Del Giudice, Nel museo di Reims, dove il protagonista Barnaba, a causa di una malattia sta perdendo progressivamente la vista; così decide di sfruttare il tempo che gli rimane per fissare nella memoria alcuni capolavori dell’arte. È per questo che lo troviamo nel museo di Reims, tra le tele di Corot, Géricault, Delacroix e David.
Mentre Barnaba si aggira per le sale del museo, aggrappandosi ai dettagli per dare una forma ai dipinti, la voce di una donna gli si affianca.
Anne ha indovinato il suo segreto e inizia a descrivergli i quadri che lui quasi non vede. Tra i due nasce come un gioco fatto di intima tenerezza. Perché Anne in alcuni casi mente, racconta quello che non c’è, inventa particolari. E Barnaba lo sa. La voce di Anne, allora, diventa il filo da seguire nel labirinto che è il museo, alla scoperta di passaggi segreti, di percorsi di senso. E Barnaba si lascia condurre, prendendo a sua volta la parola, in un continuo scambio di ruoli.
La corrispondenza tra i due protagonisti è per molti aspetti la stessa che Ghirri stabilisce con i suoi lettori/spettatori, attraverso il medium della fotografia: «mostrare come ci sia sempre nella realtà una zona di mistero».
Guardando le sue immagini, viene da chiedersi se quello che vediamo effettivamente è. O forse è la possibilità di vedere oltre il dato sensibile, attraverso la capacità immaginativa? Il fotografare in sé, come il raccontare, non è in fondo un po’ mentire? Ghirri, come Anne nel racconto di Del Giudice, tanto svela quanto ri-vela la realtà, prende il mondo interiore e lo porta fuori, facendo vedere le cose attraverso l’occhio della sua mente e stabilendo un legame particolare, quasi un dialogo, con chi osserva i suoi scatti. Così lo sguardo del fotografo e quello dello spettatore finiscono per convergere in una messa a fuoco comune.
Cartesio diceva che l’immagine che noi abbiamo di un oggetto non necessariamente coincide con l’oggetto stesso. Nelle fotografie di Ghirri c’è sempre identificazione fra sguardo che percepisce e forma delle cose percepite. In molte sue fotografie la rappresentazione del mondo si sostituisce al mondo stesso: pensiamo soprattutto alle sue immagini di immagini, cartoline turistiche che si sostituiscono alla realtà. In questo modo Ghirri è come se portasse alla luce la nostra miopia di fronte al reale, facendo sì che l’attenzione venga spontaneamente rivolta non alle cose, bensì alle loro condizioni di visibilità. I suoi scatti danno la caccia al transito percettivo, all’irruzione dell’indistinto entro il cono di luce del senso, al suo farsi figura.
L’atto del vedere è al tempo stesso inizio, origine, archetipo (l’ante oculos ponere degli antichi) della conoscenza, ma anche tradimento, deformazione, sviamento dalla realtà empirica dell’oggetto da conoscere. Nell’opera del maestro emiliano vedere diventa un solo gesto con il fotografare. La fotografia dunque come area di accesso alla percezione del reale: la realtà è il suo segno, la realtà è il pensiero, la fotografia è fotografia di una fotografia.
Il lavoro di Ghirri è contrassegnato dalla tensione tra la cosa e la sua rappresentazione e non c’è nulla che egli ami più di quelle situazioni in cui i confini diventano permeabili. Queste vertigini della percezione, queste esplorazioni delle potenzialità infinite dello sguardo, sono da sempre la materia prima del suo lavoro creativo, come un filo di continuità che sottende e dà senso peculiare a tutte le singole fotografie.
La sua opera ci ha insegnato un nuovo modo di vedere, dando un significato a quello che è apparentemente ovvio. Per questo gli scatti di questo fotografo riescono a fissarsi così plasticamente nella mente di chi li osserva. «Il solo viaggio possibile – come ha scritto – sembra essere oramai all’interno dei segni, delle immagini».
Per Ghirri il tema della percezione, dello sguardo, è profondamente legato alla riflessione sul paesaggio, come “opera d’arte diffusa”, “come eros della terra”, per dirla con il poeta Andrea Zanzotto. Non il paesaggio che viene normalmente percepito, bensì quello che vi si suppone latente, inscritto sul rovescio: paesaggio della memoria e della favola, paesaggio di figure nascoste e di prodigi.
Per tutta la vita Ghirri non ha mai cessato di sondare e dissodare il paesaggio, quello della propria terra prima di tutto, l’Emilia, facendone emergere gli strati più sepolti e ricavandone immagini profetiche e dal carattere universale.
L’esplorazione di Ghirri si è addentrata da un lato nel paesaggio fisico, in una campagna vaporosa e arcaica che il cemento ha vampirizzato o, negli angoli apparentemente meno corrotti, falsificata e ridotta all’ingannevole replica del presepe che era; dall’altro nel paesaggio umano, nell’habitat contemporaneo, con gli infiniti depositi storici, sociali, etici di uno spazio tutt’altro che “micro”, in quanto rispecchia un destino universale e che si ritrova oggi popolato da gente intorpidita e senza passioni o nevrotizzata.
Viaggio in Italia (1984) è uno dei lavori più conosciuti di Ghirri proprio su questo tema. Con il coinvolgimento di alcuni dei più importanti giovani fotografi di allora – tra cui Basilico, Barbieri, Jodice e Cresci –, questo progetto ha offerto una specie di melanconico saluto al paesaggio italiano del dopoguerra, emancipandolo dall’influenza pittorica radicata nella nostra tradizione. Un’operazione, come dimostrano alcune delle foto esposte in questa mostra, che ha rivoluzionato l’idea stessa di fotografia, spingendola verso una condizione di autonomia espressiva, mai vista prima nel nostro Paese, e celebrando un connubio sin qui riuscito solo a pochi: quello tra antropologia e metafisica.
In questa direzione, Ghirri ha sempre prediletto luoghi comuni e familiari, già visti, ma per la prima volta “guardati” con occhi diversi, dove tutto è sospeso tra passato e futuro e dove, come in un paesaggio di campagna, il mondo può essere immaginato come una visione che dà ancora stupore. Un’idea leopardiana. D’altro canto per Ghirri la fotografia era un grande avvenimento del pensiero e dello sguardo. Un pensiero-paesaggio, verrebbe da dire. «La fotografia – come ha scritto nel saggio L’opera aperta – al di là di tutte le spiegazioni critiche e intellettuali, al di là di tutti gli aspetti negativi che pure possiede, penso che sia un formidabile linguaggio visivo per poter incrementare questo desiderio di infinito che è in ognuno di noi». Me lo immagino questo fotografo-flâneur al lavoro, mentre cammina in uno stato di concentrazione involontaria, che punta la macchina fotografica su accadimenti nascosti, poco spettacolari, sui propri riflessi della percezione e del pensiero: un atteggiamento che è stato l’essenza del suo essere fotografo.
Le immagini proposte in questo volume – vintage e projects prints – che risalgono soprattutto agli anni Settanta e Ottanta, formano una sorta di mosaico organico dei tratti principali del lavoro di Ghirri: interni ed esterni, campagna e città, presenza umana e minerale, architetture urbane e luoghi della vita quotidiana, fotografie di fotografie. Il tema principale di questi scatti è proprio il paesaggio, perché da esso – sembra suggerirci Ghirri – bisogna partire per ogni racconto dell’esistenza e a esso ritornare, per non perdersi nel disfacimento dell’esistenza.
Come ha scritto ancora una volta Andrea Zanzotto, la cui meditazione sul paesaggio è molto affine a quella dell’autore emiliano, e viceversa: «Per capire i luoghi non abbiamo bisogno di radicarci, ma di eradicarci, addentrandoci così profondamente in loro da riuscire a “bucarli” per arrivare altrove, rivedendoli nuovi, forse soltanto allora “nostri”». Questo intendeva Ghirri dicendo: «Dislocare lo sguardo, aprire il paesaggio». Ecco allora certe sue fotografie al limite del possibile, la cui prodigiosa visività riesce a scolpire un’immagine mentale in chi le osserva, per la capacità di indicare con precisione punti invisibili, impalpabili, indefinibili, che però sono i più concreti, i più incisi, i più intensamente vissuti da tutti. «In fondo – ha detto – in ogni visitazione dei luoghi, portiamo con noi questo carico di già vissuto e già visto, ma lo sforzo che quotidianamente siamo portati a compiere, è quello di ritrovare uno sguardo che cancella e dimentica l’abitudine; non tanto per rivedere con occhi diversi, quanto per la necessità di orientarsi di nuovo nello spazio e nel tempo».
Esistenza ed essenza, inquietudine e forma, dunque, sembrano stringersi in queste fotografie, nella cui misura riposa una grande forza evocativa. L’uomo è sempre dall’altra parte, che guarda, un attimo prima della soglia di un ambiente, al di qua di una finestra, davanti a un paesaggio, appunto. Ciò che vede è spesso la sua stessa solitudine. Protagonista di questi spazi dove l’uomo non appare quasi mai, e se appare è soltanto un elemento della composizione per suo interno ritmo, è il silenzio. Ed esso accomuna luoghi e oggetti in una statica, simmetrica fissità. Ne deriva una visione geometrica e stilizzata dell’arte fotografica, per la quale, come ha scritto Italo Calvino: «L’unico metodo a disposizione dell’uomo, sia che stia ragionando sia che stia creando, è quello di socchiudere gli occhi contro il bagliore e la confusione del mondo reale». Socchiudere gli occhi contro il bagliore e la confusione del mondo, guardando attraverso specole e cornici: una cosa che Ghirri ha imparato a fare molto presto e che ha perfezionato per tutta la vita. Così i luoghi e gli ambienti che ha fotografato sono diventati il correlativo esterno delle predilette stilizzazioni visive. La sua ossessione di fotografo è stata quella di dare un ordine al proprio sguardo, attraverso elementi che sono già presenti nel paesaggio e verso i quali dirigere l’occhio, perché «la fotografia è essenzialmente un dispositivo di selezione e attivazione del nostro campo di attenzione», come ha scritto. Nello scomporre porzioni di realtà, nell’inquadrare quest’ultima entro una griglia, nel serializzarla, nell’individuazione di simmetrie, Ghirri ha messo ordine al caos informe delle cose umane, ha aperto spazi volumetrici attorno all’osservatore, in un miracoloso equilibrio di naturalezza e artificio. In questo senso bellissimi i suoi scatti d’interni, in particolare quelli nell’atelier del pittore Giorgio Morandi, o ancora nello studio milanese di Aldo Rossi: immagini che seguono con precisa coerenza il carattere dei disegni, dei collage e delle tante composizioni fantastiche del grande architetto. In questa circostanza Ghirri, pur in assenza di persone, ha messo in luce l’immagine di un interno come luogo di interiorità.
La fotografia di Ghirri è stata un continuo dialogo con altre discipline e linguaggi creativi: oltre all’architettura, grazie all’incontro con Aldo Rossi, anche la filosofia, la musica, la pittura e soprattutto la letteratura. Spesso il suo lavoro si è intrecciato con il mondo della parola, che per lui è stato come il prolungamento della fotografia. In particolare decisivo è stato il rapporto con Gianni Celati, un legame intenso di amicizia e di collaborazione, che lo ha portato a realizzare assieme allo scrittore diversi libri, tra cui Il profilo delle nuvole (1989). A proposito dell’opera di questo fotografo, lo stesso Celati ha scritto con lucida precisione: «L’idea fondamentale di Ghirri applicata alla foto è quella della proiezione affettiva: lo sguardo come incontro con le cose, verso cui ci dirige una nostra tendenza intima. Non esiste foto di Ghirri che si offra come pura documentazione: tutte mostrano questo orientamento verso un campo di prossimità, di simpatie, di attrazioni e riconoscimenti di un’intimità esterna».
[Immagine: Luigi Ghirri, Paesaggio italiano (1980-1992) (gm)]
DddmA: “ Venerdì 19 settembre 1997 – E, proposito di traduzioni, nonché a proposito di mutilazioni, proprio mentre sto per andarmene, apprendo, sbirciando una rivista, che Luigi Ghirri è morto cinque anni fa. Quello che so di Ghirri è che era un fotografo, che fotografava nuvole, che era amico di Celati, che – lo so ora – aveva più o meno la mia stessa età. Sulla rivista c’è una foto: « Firenze 1955, la prima foto di Luigi Ghirri ». Vi si vede il Ponte Vecchio, ma in primo piano c’è la murata dell’Arno e la base di un lampione. È la foto di un ragazzino, presa « dal basso » di un ragazzino. È stata fatta nello stesso anno, credo, in cui io ho fatto la mia prima foto. Anche per questo mi sento di aver perso un amico, anche se non l’ho mai conosciuto. “.
Potrei sapere, gentilmente, chi è l’autore del testo qui riportato? Perché non credo di averlo capito.
Grazie