di Andrea Cortellessa
[Una versione molto più breve di questo articolo è stata pubblicata su «Tuttolibri»]
«Non credo in dio, ma credo nel peccato,
imperdonabile, di essere venuto al mondo.»
In quello che è il suo libro più metalinguistico, in quanto il più autobiografico («la distanza tra la letteratura e la vita è minima, o nulla», avvertiva il mentore Giulio Mozzi in un vecchio risvolto di copertina), e dove dunque il nume tutelare per una volta non è tanto Thomas Bernhard quanto – per restare murati nel perimetro soffocante dell’infelix Austria – Ludwig Wittgenstein, ci sono almeno due fra i tanti “mestieri strani”, fra quelli qui allineati con nevrotico puntiglio da Vitaliano Trevisan, che si prestano a meraviglia quali metafore del suo scrivere. Cioè del lavoro “vero” – se questa parola ha un senso – che per una vita ha atteso e, per la vita successiva, più o meno consapevolmente ha fuggito. Coordinatore di un gruppo di «recuperati», personaggi «tipicamente atipici» suoi pari (etilisti, ex tossici, spostati vari) impiegati quali socialmente utili nella waste land della «periferia diffusa» vicentina, si fissa a contemplare un ciccione alcolizzato che manovra il decespugliatore, nei «tristissimi giardini» del territorio in oggetto, «senza fermarsi davanti a niente» – ad alzo zero, diciamo – «facendo così volare per aria di tutto: sassi, immondizia varia, o la classica merda di cane […], temutissima da tutti noi Operatori del Verde». Assistente ausiliare e servo di scena d’una moglie-squalo, “imprenditrice” nell’industria locale dell’oreficeria, del pari s’incanta a considerare la «metafora potente» dei cosiddetti «pulimenti», come vengono definiti i periodici filtraggi – sistematici sino alla «decorticazione» – degli scarichi, degli arredi, delle mura stesse dell’officina: dai quali si tesaurizza, con micidiale oculatezza, polvere aurea in sorprendente quantità. Da una parte entra la «merda – sette sacchi, di quelli grandi, pieni di spazzatura», dall’altra escono «un paio di lingotti d’oro».
L’oro sta alla scrittura, insomma, come la vita sta a quello che resta il termine fisso di paragone. In quello che è anche (se non soprattutto) uno smisurato autocommento alla propria opera (insieme la sua razo e la sua vida – per dirla alla provenzale), Trevisan invariabilmente si riferisce ai Quindicimila passi, a Un mondo meraviglioso e al Ponte come ai suoi tre «non-romanzi»: non-tali perché non-fictionali, s’intende: basati come sono sulla «nostra vita e nient’altro che quella». Di quelle storie, o meglio di quelle jam session a tema, Works riferisce i contesti e i presupposti: «mai come in queste pagine la refurtiva è esposta così spudoratamente al mercato», ovvero «ciò che altrove è non detto, qui è invece detto senza tanti complimenti». Un’autobiografia dunque? Non proprio, perché – a dispetto dell’estensione – è esibitamente selettivo il metodo col quale l’esistenza dell’estensore viene da lui ricostruita (o meglio, come spiega, «de-ricostruita»: ossia sfrondata di tutto quanto ecceda, appunto, la selezione programmata). Selettivo tematicamente: «basta chiacchiere», taglia corto in clausola il capitolo più “metodologico”, «è ora di andare a lavorare». Il tema, lo standard (secondo la metafora jazzistica cara a Trevisan: uno standard era – “rematicamente”, alla maniera di quelli di Bernhard – il sottotitolo di Un mondo meraviglioso; Standards vol. 1 – alla maniera di Keith Jarrett – il titolo della prima raccolta di racconti, pubblicata da Mozzi nell’indimenticata collana «Indicativo presente» nel 2002) è appunto quello del lavoro: dei lavori. Lavori per lo più «usuranti», manuali (secondo una lezione wittgensteiniana), comunque mai quelli detestabilmente “intellettuali”.
Tutto quanto eccede l’insania per gli intervalla della quale la scrittura si è aperta il suo spazio, nell’esistenza dell’estensore, via (All Strange Away è il titolo di una short prose beckettiana). Per esempio, nel bel mezzo del capitolo intitolato «Il segmento più lungo» (quello in cui per l’unica volta, forse, al “lavoro” di turno l’estensore ha preso gusto – giungendo a un passo dal burrone della «stabilizzazione»: cioè dall’“integrarsi” una volta per tutte, socialmente ed esistenzialmente), si legge: «Strana estate quella in cui sto scrivendo. Molta pioggia e un soggiorno di due settimane nell’ospedale di Vicenza, reparto di Psichiatria 2». Soggiorno del quale però, nelle restanti cinquecento pagine, non sapremo nient’altro.
Non un’autobiografia dunque, bensì una «memoria» (un «memoir», si precisa anzi): deliberatamente ritagliata nell’Erfahrung, anziché nell’Erlebnis. Un insegnante d’inglese che riscuote la simpatia dell’estensore gli dà come compito, a un certo punto, quello di rispondere al quesito seguente: «Come pensate i vostri ricordi?». Con la consueta coscienziosità l’estensore interroga allora, per la prima volta forse, la de-costruzione che governa la sua memoria. «La prima cosa che mi era venuta in mente», canonicamente, «era stato un profumo e non un’immagine». Poi però nelle immagini che seguono si accorge di una costante: e cioè che in quelle immagini non c’è lui. C’è, invece, tutto quello che lo ha circondato: i luoghi, le persone che ha frequentato (e che a lungo ha ascoltato), appunto i lavori. La vita che si può raccontare è solo quella pratica, materiale (a partire dagli spostamenti, dalla mobilità che ossessiona questo vero e proprio dromomane: la radice tedesca di Erfahrung, del resto, rinvia proprio ad “andare, viaggiare” e, ricorda Trevisan, il termine col quale gli africani designano l’uomo bianco è mzungu, ossia alla lettera «colui che continua a girare intorno senza una meta»); non quella interiore, psicologica. Anche se poi l’estensore avverte, anzitutto se stesso: «quando il lavoro non si distingue più dalla vita, chi può dire che cosa sia privato e che cosa non lo sia?». L’usura dei lavori svolti, infatti, consiste precisamente nella deformazione, non solo fisica, di chi li svolge: «il lavoro, se anche non è la vita, la influenza comunque in modo determinante»: «fa l’uomo, e la donna, anche fisicamente, molto più di quanto comunemente si pensi».
Ed è proprio questo uno degli aspetti che più colpisce, in Works. C’è una componente paradossalmente positivistica (paradossale in quanto calata in un punto di vista che resta idiosincraticamente soggettivo) che negli ultimi testi di Trevisan è venuta sempre più in luce: «ambiente, dintorni, territorio: in poche righe ecco tre concetti sui quali sarebbe bene cercare di fare chiarezza». Quasi i race, milieu et moment di Taine, e Zola («come se i singoli obbedissero a leggi generali di cui sono del tutto inconsapevoli»). Ed è quanto scrupolosamente precisano, ogni volta, le pagine di Works, che perimetrano sempre con la massima esattezza l’ubicazione geografica e socio-economica dei posti di lavoro, la loro conformazione materiale. Difficilmente si riesce pensare a una scrittura più ferocemente materialistica: che non perde occasione per raccogliere le «lezioni di realtà», ossia di fattuale brutalità, da parte di chi confessa di avere «una natura violenta». Una scrittura che, ben al di là delle intenzioni dell’estensore, segue insomma – ogni volta – il precetto nelle prime pagine enunciato da un padre non amato (ma toltosi di mezzo troppo presto perché potesse essere odiato): «che se volevo qualcosa dovevo guadagnarmelo, che così andava il mondo ed era ora che capissi da dove veniva». Non è un caso che da adulto – ancorché esibitamente impolitico, per lo schifo inveterato che da subito gli hanno fatto gli «intrighi» della politica politicante – Trevisan si trovi sempre all’opposizione (e a un certo punto si sorprenda a impartire, ai propri «compagni», addirittura una lezione di «coscienza di classe»).
Solo che il suo è un naturalismo parossistico. Come si diceva ipersoggettivistico, nevroticamente survoltato: nel quale l’usura scava non solo i corpi dei lavoratori – a partire, s’intende, da colui che svolge il lavoro della memoria – ma le loro coscienze e, appunto a dispetto dei propositi, la loro stessa vita interiore. I crolli nervosi che hanno raccontato i «non-romanzi», e dei quali Works fornisce tutti i dettagli concausanti, sono storie d’angoscia e persecuzione in primo luogo sociali, delle quali l’occhio impietoso dell’estensore annota crudelmente le minime sfumature, i micro-smottamenti che da quel lento bradisismo conducono al precipizio inevitabile. Il materialismo di Trevisan è un materialismo psichico, oltre che fisiologico: e le sue pagine più crude, su quelli che sono i più crudi lavori fra quelli da lui collezionati (come quello, all’inizio, in cui deve costruire in serie gabbie per uccelli, ogni volta mettendo a rischio le dita sotto la pressa), più che a Volponi, fanno pensare alle allucinate descrizioni che per quasi quattordici anni stese l’impiegato Franz Kafka all’Istituto di assicurazione contro gli infortuni sul lavoro di Praga (ne esiste anche una versione italiana, di Andreina Lavagetto, pubblicata da Einaudi nel 1988): coscienziosamente, con pietà oggettiva, descrivendo in tutti i dettagli la dinamica di ogni incidente sul lavoro – a parole e con non meno minuziosi disegni (talché sarebbe stato il caso, magari, che il diplomato geometra Trevisan a sua volta le avesse accompagnate, certe sue descrizioni, con schizzi di suo pugno).
L’unica cosa che lo tenga aggrappato alla vita di merda che conduce – il giovane, e poi sempre meno giovane, affetto da sindromi ossessivo-compulsive e depressione bipolare, «nato melanconico come uno nasce epilettico» – mentre passa da un muro pericolosamente sospeso, dove esercita la nobile arte del lattoniere, a un albergo di provincia dove fa il portiere di notte, da uno studio di arredi fatuamente postmoderni con-funzioni-di-architetto a una gelateria in bassa Baviera, dove non gli riesce neppure di andare a puttane, sino allo spaccio a bassa intensità che confessa con un certo compiacimento (per poi cautelarsi, in clausola, col più ironico dei disclaimer: «tutto ciò che potrebbe incriminarmi è frutto d’invenzione») – è l’idea che per magia, un bel giorno, tutta quella merda finirà per trasmutarsi in oro: quando verrà in possesso, finalmente, della pietra filosofale della scrittura. Così che qualsiasi sciagura gli capitasse, prima o poi, gli sarebbe venuta buona: «in fondo, pensavo, anche se non scrivevo una riga, né tenevo un diario o altro, ero pur sempre uno scrittore, e, in questo senso, niente di ciò che avevo fin lì vissuto era stato buttato via, semmai il contrario».
Ma quando d’improvviso entrano in scena la grande casa editrice, poi il noto regista di cinema, che in un colpo solo fa di lui un attore e uno sceneggiatore, e infine l’ineffabile istrione partenopeo, che lo vuole drammaturgo – e giunge il momento sospirato, insomma, di farla finita colle «tenebre» di quella vita anteriore – neppure allora, com’era facile attendersi, la liberazione sospirata farà venire meno quello che dell’esistenza è l’unico dato certo: la sua «insensatezza» (c’è solo il rischio sottile, semmai, che persino la «rabbia» – quella determinazione maniaca da decespugliatore – si possa «stancare»). Come ha detto una volta Giorgio Falco, da lui così diverso e a lui così vicino, «la non appartenenza, inconciliata pur nella vicinanza, diventa l’unica condivisione possibile, il destino della scrittura» (lo sapeva bene Beckett, gran saggio: tanti fogli, tanti soldi).
Chi abbia letto tutti i libri, di questo autentico maestro della nostra prosa, già da questi brevi lacerti avrà riconosciuto episodi memorabili di già-classici quali I quindicimila passi e Tristissimi giardini, o della sceneggiatura di Primo amore di Matteo Garrone. Works dispiega sul piano dell’esistenza – come una carta catastale millimetrata, o una mappa militare a massima scala – quei picchi di purissimo malessere ritmico che sono i «non-romanzi» (e non-racconti) sinora pubblicati da Vitaliano Trevisan. Chi invece solo ora abbia la ventura di fare la sua conoscenza, si troverà a dover sostenere, con legittimo perturbamento, lo sguardo più disincantato, cinico e politicamente scorretto, il più visceralmente violento e il più gelidamente accorato, che nella nostra letteratura si posi, oggi, sull’inconveniente di essere nati.
Vitaliano Trevisan, Works, Einaudi Stile Libero, 2016, pp. 656, € 21.00
[Immagine:Gordon Matta-Clark, Square Intersections (gm)].
Works works, spacca, però mi è rimasta la curiosità di sapere chi fosse il cantante del gruppo cool di nicchia…
“ Martedì 4 ottobre 2006 – La donzelletta vien dalla campagna. Col suo portatile Acer Aspire 5612WLMi Intel Core Duo T2300 512 DDR2 533, HDD 80GB 5400RPM, DVD dual layer, 802.11G Napa, 6 Cell battery, Windows XPH + Works. “.
Vitaliano Trevisan, geometra, è una persona che desta molta pietà per la sua scarsa fede nell’uomo e nella vita. Ha tutta la mia compassione.
scarsa fede nell’uomo e nella vita…
proprio non capisco, caro Manrico.
…forse non abbiamo letto lo stesso libro (io in realtà, di “works” sono solo a metà)