cropped-Jean-Paul-Belmondo-and-Jean-Seberg-off-set-on-the-Champs-Elysees-A-Bout-De-Souffle-1959.jpgdi Andrea Inglese

[Domani esce per Ponte alle Grazie Parigi è un desiderio, il primo romanzo di Andrea Inglese. Ne presentiamo un brano in anteprima]

“Eccomi a Parigi – mi dicevo – eccomi veramente entrato a Parigi”, e che fosse attraverso un cesso da cortile poco importa, anzi quell’entrata di servizio costituiva una prova certa, solida, nessuno me lo avrebbe revocato quel passaggio, nessun maggiordomo, buttafuori con camicia e cravatta nera, padrone di casa accigliato, sbarrandomi il passo con una leggera sospensione del braccio, ero dentro, era questa la disinvoltura, almeno un assaggio, ora potevo arrivarci all’ultimo respiro, al fiato tagliato dagli errori e dai disastri, con un giornale del mattino avvoltolato in mano, come se dovessi leggerlo, come se il grande mondo là fuori delle guerre balcaniche o africane avesse ancora notizie indispensabili da fornire a me, quando a fianco, ormai, avrei trovato anche una parigina, e questo bastava quanto a informazioni geo-politiche, poter osservare a qualche metro spalle e piedi nudi femminili, era questione di giorni, lo sentivo, non proprio la ragazza dark, intorno a cui armeggiava Diego, che per combinare qualcosa fu persino disposto a sniffarsi la trielina con lei. (Una puzza stomachevole per l’appartamentino del turco, quando tornammo dalla spesa; loro due se ne stavano stravaccati sul letto, erotismo zero, con gli occhi semichiusi nella nube tossica). L’entrata comunque l’avevo presa, ora si trattava di avanzare nella scia buona, Miller, Céline, e persino Septentrion di Louis Calaferte, scoperto lì sul posto, e mica dal bouquiniste della Senna, ma in una carto-libreria in abbandono, erano forza ulteriore, perché tutti costoro camminavano con sicurezza e sangue freddo nel sordido, e il loro metronomo erano i pasti, le uniche trascendenze onorate il sonno e la scopata, che può sembrare un po’ poco, considerando la quantità di centri commerciali aperti, per non parlare dei locali dove la gente discute con grande competenza e allegria di questioni all’ultimo grido, televisive o tecnologiche, bevendo e mangiando con totale facilità, mentre si sentiva che per quegli scrittori lì ogni forchettata era sacra, bastava raccogliesse qualcosa, raschiando minuziosa il piatto. Si calcolava così la festa, a cucchiaiate e forchettate singole, e mi sembrava non dico un metodo, che non ce n’è, ma una pista certa almeno, e che a mio modo avevo cominciato a battere.

Innanzitutto bisogna sfuggire al turismo, al disperato mestiere del turista, che a Parigi è costantemente impegnato in fallimentari piani di godimento, dovendo trovare il modo di vedere tutto quanto si deve vedere, ma anche tutto quanto, da turista, non si dovrebbe vedere, insomma l’essenziale e l’inutile, il programmato e il casuale, lo storico-culturale e il contemporaneo spaventoso, lo splendore del lungo-Senna, ad esempio, con di sguincio il dorso gugliato di Nôtre Dame, e l’angolo con due africani scalmanati, sotto il ponte della metropolitana di Barbès, che minacciano di farsi fuori a coltellate proprio a due passi da una carogna di topo.

Mi convincevo di essere ormai fuori dal turismo giovanile di massa, anche se, per carità, non ci sputavo mica sull’Interrail e sui traveller’s cheque, ma sentivo che Parigi meritava qualcosa di diverso, che c’era come uno strano appuntamento, tra me e la città, una predestinazione, era colpa del sogno, ovviamente, della Parigi celeste che prendeva forme sempre più terrene, ma mi sembrava funzionasse, c’era la strada e si facevano incontri, e c’era questa facilità bellissima, che è il maggiore tesoro perduto della giovinezza, la facilità di parlare subito e con tutti, e di entrare attraverso le parole nelle vite altrui, così come capitano davanti a noi, in un tabaccaio, all’uscita di un caffè, o sedute sulla collinetta di un giardino pubblico, vite che circolano per strada con nessuna altra superiore finalità che quella di intrecciarsi senza sforzo, senza modi precisi e senza durata determinata, con altre vite. Che era ovviamente tutto sbagliato, perché non c’era nessuna via, nessun passaggio, non ci sono vie maestre per entrare da nessuna parte, né sordide e chiazzate di piscio né tirate a lucido con pavimentazioni di marmo, salvo in sogno, privato o di massa: una città è semplicemente una credenza, e più si crede di stringerla in qualche modo, di tenerla per qualche bandolo, soprattutto una città come Parigi, più si sprofonda nel dogmatismo, nell’allucinazione, nella bolla di sapone.

Non lo ripeterò mai abbastanza. Una città non esiste, o meglio, della città esistono miti più o meno corposi, narrazioni che tutti quanti riprendono, magari con grande fedeltà, ma che inevitabilmente variano, e ingrossano, e mutano colorazione, perché quello che davvero esiste, al di là del mito, sono le ingenti forze che la città possiede, e che sono forze innanzitutto destinate a bloccarti dentro una quarantina di abitudini, e a tenerti lì, calmo, fedele, assiduo, lavorando e consumando, come fossi un soldato semplice inviato nell’avamposto per tenere la posizione, quella posizione che, in realtà, come nel racconto di Kafka, è stata pensata, preparata, non proprio per te, ma per uno come te, è lì che tu devi andare, lì devi rimanere, in quel buco più o meno largo devi spendere le tue migliori energie.

Nelle buche, poi, hanno imparato a sparare immagini e suoni, in modo che la bolla sia sempre bella gonfia, iridescente, e meglio delle televisioni ingombranti e con il cavo ci sono oggi i telefoni leggeri che sparano di tutto, e uno se li tiene sempre addosso, e quando rischia di sbattere la testa, di rimanere soffocato dal circuito chiuso dei gesti quotidiani, si tuffa nel flusso sonoro, nel grande brodo psichico primordiale, dove si mescolano paesi e specie animali, classi sociali e generi narrativi, gravità mortale e letizia infantile. Ciò indubbiamente aiuta, per questo anche i poveri cristi, con gran scandalo dei borghesi aggiornati e tecnologizzati, ce l’hanno pure loro lo smartphone sudcoreano: la pompa ad immagini, la connessione permanente con il brodo psichico.

[Immagine: Jean-Paul Belmondo e Jean Seberg in À bout de souffle di Jean-Luc Godard].

 

4 thoughts on “Parigi è un desiderio

  1. “ Senza data 1981 – Dalla notte una diane targata tittia / dunque parigi mi viene addosso / a mezze luci guida una donna e ride / lui si è voltato centrato o no? “.

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