di Angelo Ferracuti
[Esce oggi per Chiarelettere Addio. Il romanzo della fine del lavoro, di Angelo Ferracuti. Ne riportiamo l’introduzione e il primo capitolo].
Era da un po’ di tempo che avevo intenzione di scrivere un lungo reportage narrativo sulla crisi che tutti stavamo vivendo, e all’inizio avevo pensato di fare un «Viaggio in Italia» nei luoghi del disagio e della desertificazione industriale. Il racconto dominante allora era quello retorico dei produttori, cioè raccontare chi ce l’aveva fatta o ce la stava facendo, e andava molto di moda questa parola, resilienza, cioè capacità di resistere e reinventarsi all’ineluttabilità delle dinamiche del neoliberismo, la formazione assistenziale, mentre io volevo raccontare, come nella migliore tradizione letteraria di impegno civile, proprio chi non ce l’aveva fatta e stava affondando, chi non arrivava alla fine del mese, lo stato di apnea sociale invisibile. Capii presto che la mia impresa sarebbe stata troppo dispendiosa e dispersiva, poco praticabile, e per un certo periodo abbandonai l’idea quasi del tutto.
Ma i libri sono dentro agli autori ancora prima di essere scritti, e continuavo a pensarci ossessivamente, cercando una strategia per realizzare il mio progetto e tornare presto alla carica. Ripensavo a quella frase illuminante di Pier Paolo Pasolini detta nel corso della sua ultima intervista a Furio Colombo prima di essere barbaramente ucciso: «Smettete di parlarmi del mare mentre siamo in montagna». Mi sembrava l’unica cosa da raccontare, anche una forma di ribellione nei confronti del pensiero dominante, quello del marketing che chiamano storytelling, che artatamente racconta sempre un’altra storia, eludendo qualsiasi conflitto, che è sempre tra capitale e lavoro. «Hai mai visto quelle marionette che fanno tanto ridere i bambini perché hanno il corpo voltato da una parte e la testa dalla parte opposta? Mi pare che Totò riuscisse in un trucco del genere. Ecco, io vedo così la bella truppa di intellettuali, sociologi, esperti e giornalisti delle intenzioni più nobili, le cose succedono qui e la testa guarda di là» diceva ancora il Corsaro. Mi sembra di vivere in un tempo dove moltissimi spostano lo sguardo per convenienza e per comodità proprio come quella marionetta.
In fondo le cose si possono mettere a fuoco anche in un luogo solo, in un bit antropologico, piccolo o grande non importa, al sud, al centro, al nord di un paese, c’è tutto ovunque, basta saperlo cercare, quindi dovevo scegliere un luogo solo e farlo diventare simbolico. Fu in quel momento, credo, che mi tornarono in mente Carbonia e il Sulcis-Iglesiente e cominciai a fare delle ricerche, e poi a partire. Questo è il mio modo, cioè tornare nei luoghi moltissime volte, una lenta e progressiva messa a fuoco. Cominciai come sempre a guardare i film e documentari girati in quelle terre, dai libri, m’imbattei nella storia di questa città nata in un anno e del suo carbone povero, m’appassionarono subito le sue cicliche crisi, così come gli abitanti di una cittadina molto popolare, fatta di ceti bassi e priva di borghesia dove c’è ancora quello che una volta si chiamava «il popolo». Per me tornare nei luoghi significa sempre colmare qualcosa che è a metà tra la curiosità antropologica e lo studio, cercare di capire perché un luogo si è sviluppato in un certo modo e quale significato assume nel presente, ma cerco anche un rapporto profondamente corporale, raccontando ai modi del flâneur, non da esperto.
A Carbonia e dintorni capii che c’era tutta la storia di un secolo, che valeva la pena ricomporre e rinominare, c’erano ancora i resti di un’epica memorabile, quella del Germinale di Zola, della cittadina mineraria che visitò Orwell nel Nord dell’Inghilterra, Wigan Pier, il villaggio belga del Borinage dove il giovane Van Gogh abitò, come c’era ancora una classe operaia irriducibile che saliva per protesta sui silos, metteva in moto una mobilitazione permanente, bloccava i traghetti e gli aeroporti. Coesa, solidale, proprio come quella raccontata da Cronin in alcuni suoi libri memorabili.
Libri come questo non hanno un inizio e una fine, prendono forma strada facendo, e quella forma cambia inevitabilmente molte volte. Quindi l’inizio fu il racconto del passato, ricollegare il presente a quell’epica, il sacrificio e il dolore di questa gente, l’emancipazione e la lotta, i primi scioperi repressi nel sangue; poi ciò che restava di quella classe operaia, frantumata e massacrata dalla chiusura delle miniere e dal declino del polo industriale dell’alluminio, anche se mi interessava soprattutto raccontare cosa succede quando finisce il lavoro, cosa può produrre tutto questo dentro la vita delle persone, il senso di disagio e di angoscia esistenziale, la perdita e il gorgo. Cioè quello che in genere non si racconta o si racconta in modo spettacolare o ineluttabile, mentre a livello esistenziale cambia tutto, nonostante la diversità tra impoverimento e povertà reale, che è uno spartiacque importante tra chi vive qui e chi viene dai paesi del Sud del mondo.
Per un certo momento, come capita quasi sempre, pensai che dovevo scrivere un libro sulla sofferenza e le lotte dei figli e dei nipoti di quelli che qui avevano sviluppato lungo un secolo quella che una volta veniva chiamata lotta di classe.
Il paradosso è che in questo racconto collettivo viene fuori quasi la nostalgia per quel passato che è stato darwiniana lotta per la sopravvivenza ma anche emancipazione politica, rispetto a un domani sempre più incerto, segnato dalla fine del lavoro e del futuro, soprattutto per le nuove generazioni. Per questo in un titolo forte come Addio convergono molti echi, letterari e sociali, un po’ cristallizza e compendia questa condizione di una umanità contemporanea che nel Sulcis-Iglesiente come altrove vive dentro una crisi che sembra invincibile. Addio, addio è anche il titolo di una struggente canzone di Domenico Modugno, che parla di emigrazione, «amara terra» e Meridione, «amara e bella» dice ancora. Un distacco e una rottura verso qualcosa di perturbante e sconosciuto che mina le fondamenta delle nostre esistenze, come è avvenuto in altre epoche, nei racconti appassionati degli scrittori dell’Ottocento come Dickens e London, oppure nei cantori della Grande depressione dei primi del Novecento come John Steinbeck, e libri come Sia lode ora a uomini di fama, scritto da James Agee e con le fotografie di Walker Evans.
Prima parte – Terra del carbone
Due castelli
Era scesa la sera davanti alla grande miniera, e stavo risalendo lentamente a piedi verso il paese quando vidi in lontananza gli scheletri arrugginiti dei due castelli degli ascensori. Fu come un’apparizione. Sembravano i totem di una civiltà sconosciuta e a guardarli, così imponenti, illuminati dalla luce misteriosa nel crepuscolo, netti e scurissimi con sopra le nuvole, m’inquietarono parecchio. Potevi vederli spettrali da più parti e da molto lontano, a Carbonia, come un obelisco, un’acropoli, un monumento, un palazzo settecentesco, oppure una torre di guardia metallica che si alza verso il cielo e sopra tutto, controlla come un occhio sinistro l’abitato e la vita delle persone, le campagne e, sullo sfondo, il monte Sirai che la protegge coi suoi spalti verdi.
Avvicinandomi, questa sensazione aumentò, fin quando dal grande piazzale antistante alla miniera vidi anche le ruote dentate, ossidate, depositate a terra come dopo un’esplosione, marchingegni di macchine che adesso potevo immaginare fossero state una volta mostruose e rumorosissime, fatte di meccanismi e ingranaggi capaci di produrre vibrazioni, stridii metallici, turbinose accelerazioni acustiche come latrati di lamiere. Dove una volta c’era vita, c’era rumore, gente che camminava e parlamenti, un continuo movimento di corpi e di mezzi meccanici, e grida, tumulti, tonfi, adesso solo queste specie di rampe di lancio d’astronavi, che il buio e l’immaginazione stavano trasformando già in qualcosa di diverso. Quel senso di emozione che provai, la forte presenza di passato che non vuole passare, qui fortissima, era qualcosa di oscuro che non capivo, come gli istinti primari che provano i bambini, attratti dalle sensazioni più vergini e forti, come la potente, straordinaria voglia di vivere, o il terrore della morte e della perdita, la forza assurda del destino. Le cose misteriose da cui non riesci a staccarti, anche se in quel momento ne ignori la ragione. Sono in genere quelle che ti spingono a tornare in un luogo molte volte, cercando di capire cosa vuole dirti, ascoltare e vedere nei tanti ritorni per placare quella sete di conoscenza che sai ti porterà a incontrare tante persone lungo il tuo cammino.
Continuavo a guardare le due costruzioni metalliche, intanto che mi allontanavo, risalivo verso la stazione ferroviaria coi suoi marmi bianchi, molto illuminata, e seguitavo a immaginare le epoche che qui passavano una dietro l’altra, confondevo sequenze di film visti in stagioni remote della vita in un bianco e nero gravido, libri letti e racconti orali di vita vissuta, mentre il vento scompigliava i capelli e affrettavo il passo in via Roma, quello stradone lunghissimo che porta in alto al paese, s’innerva come una spina dorsale.
Quando mesi più tardi avrei ripensato a quel luogo, mi sarebbero tornati sempre in mente loro, i due castelli spettrali che avevo visto per la prima volta quella sera, come reperti archeologici di un mondo lontano, nel quale gli uomini per sopravvivere erano costretti a scendere e strisciare come topi negli inferni terrestri, nelle viscere più ignote. Mentre continuavo a camminare, pensai a come dovevano essere le sere un po’ nebbiose come quella, la fila di minatori tutti con in testa ben calcati gli elmetti, le tute grigie slabbrate e le ultime sigarette incollate alla bocca, oppure che fischiettavano, o parlottavano tra di loro, raccontavano qualcosa che era successo in quei giorni, in mano le lampade, mentre raggiungevano l’entrata degli ascensori, e calavano dentro le gabbie metalliche a fortissima velocità, quasi in caduta libera. Scendevano negli abissi, schiacciati uno sull’altro, inghiottiti dalla terra e dal buio, come se ogni giorno dovessero entrare e uscire dalle tenebre, qualcosa di ancestrale e di antico che ripetevano da generazioni come una maledizione, e pensai che molti di loro non riuscirono neanche più a rivedere la luce. Saltarono in aria con le mine, restarono schiacciati sotto le macerie di un crollo improvviso arrivato a portar via la vita, le carni martoriate e gli occhi spenti, la bocca serrata nel gelo della morte. Questo è quello che ho provato quella sera nel Sulcis, guardando quei castelli, mentre il buio stava cancellando ogni cosa.
[Immagine: Rockbus. Foto di Angelo Ferracuti].
Un messaggio conciso dalla Sardegna.
Leggerò questo libro, perché non voglio giudicare dall’introduzione.
Ma la retorica spesa a piene mani in questo frammento, questa retorica è qualcosa che mi sta facendo bruciare lo stomaco. Mi fa girare il cazzo, diciamolo chiaramente.
L’epopea operaia NON è la lente attraverso cui leggere l’odierno Sulcis. E’ una lente distorcente che ci impedisce di vedere cosa sia stato di quella classe operaia della quale vogliamo romanticamente vedere i resti. E non cosa ne è rimasto come singoli colpiti dal dramma della crisi e della disoccupazione, come uomini coi quali provare empatia e riconoscerci.
Di uomini così, di sconfitti, il Sulcis era pieno anche durante l’industrializzazione, sono rimasti fuori dalle fabbriche e dagli uffici pubblici, in storie di merda, spesso, l’eroina ha avuto anche qui le sue epoche di splendore, tanto per dire, l’emigrazione non è mai cessata veramente.
Non le storie singole, ma quello che rimane di questi operai come blocco sociale, un blocco volto alla perpetuazione di un modello di sfruttamento coloniale del territorio già fallimentare e tre, trenta volte fallimentare. Come zoccolo duro di una classe politica di cialtroni e di inetti che non è mai stato in grado di proporre per sè altro ruolo che quello di intermediario di affari e per il proprio territorio quello di recipiente per il reiterarsi farsesco di piani “di rinascita” nei quali il capitale, come una partita di giro, passava da Roma al Nord Italia, ai bei tempi, ora direttamente da Roma negli USA o in Russia, lasciando dietro sé le briciole di un benessere pagato con un inquinamento enorme, con i tumori, con il perpetuarsi della rota, della dipendenza, e ora non a caso c’è un nuovo Piano Sulcis che si appresta a reiterare il fallimento dei precedenti. Il blocco operaio, come massa di manovra per operazioni affaristiche di nuovi e vecchi avventurieri, nuovi e vecchi parassiti. Quanto di questa gloriosa e romantica tradizione operaia è diventata una forma di crumiraggio su vasta scala, al servizio delle solite cricche di (im)prenditori, professionisti, notabili, che infestano fondazioni, partiti politici, università, centri del potericchio regionale e locale, potericchio destinato a leccare la mano statale che lo strangola con tagli sempre più forti ai finanziamenti e standard sempre più elevati per l’apertura dei servizi territoriali, in una spirale accentratrice sempre più forte che insieme al settore industriale uccide anche il settore dei servizi, conducendo al disastro economico e demografico tutte le aree non urbane della Sardegna.
Le troverò queste cose in questo libro? Voglio che si dica cosa rappresentano le élites sindacali in questi luoghi, quale forza di conservazione politica di un sistema che sta uccidendo il territorio, costringendo la maggior parte delle forze giovani a levarsi dalle palle, se vogliono sperare in una vita propria. E quanto di questa coesione e solidarietà vista a Carbonia è conformismo e mera intimidazione sancita dalla legge parentale ed conviviale del quieto vivere, ce lo si è chiesto?
Francamente sono stanco della rappresentazione romantica di una classe operaia che non c’è più, contraltare sulcitano dell’altrettanto falsa e romantica rappresentazione di una cultura pastorale inamovibile e “resistente” per il centro Sardegna. Non c’è un cazzo di romantico in quello che sta succedendo, e ben poco che possa ricordare i fasti dell’epopea operaia del primo novecento. C’è anzi tanto servilismo, tanto opportunismo, tanta rassegnazione, tanto conformismo, tanto bisogno di quel conflitto reale che i fautori delle vertenze più famose del Sulcis-Iglesiente hanno invece messo in piedi come mera rappresentazione, affidandosi poi sempre ai soliti intermediari di potere, ai soliti schemi di intermediazione, per ottenere i soliti palliativi, marginalizzando talora in maniera anche intimidatoria le voci fuori dal coro.